Lo sguardo su Venezia e la sua società: viaggiatori, osservatori politici
In una raccolta di stereotipi de moribus Italorum pubblicata sul finire del '500 in appendice alle Variorum in Europa itinerum deliciae di Nathan Chytraeus i Veneziani erano giudicati, tra l'altro, "in vestitu" "magnifici", "in orationibus" "putidi", "in mercatura" "splendidi", "in consiliis" "prudentes", con donne "petulantes" e "erga hospites" "blandi" ("duri", al contrario, gli abitanti della vicina Padova) (1). Il luogo comune della blanditia dei Veneziani nei riguardi dei forestieri, se può essere considerato, per un certo verso, un legittimo residuo della "grande liberté" che - non solo secondo Jacques de Villamont - gli stranieri godevano nella città lagunare, appare anche, alla luce dell'evoluzione della politica marciana nel corso del XVI secolo, poco aderente ad una realtà sempre più facilmente agitata da sospetti e da paure (2) e quindi incline a moltiplicare i controlli sui viaggiatori. Lo stesso Villamont ricordava che "nul hoste n'a la permission de loger un homme plus d'une nuict sans la licence des Seigneurs du Bastiame, ausquels on est mené le lendemain pour leur demander la permission, laquelle ils octroyent pour tant de temps qu'on veut, après avoir demandé à ceux qui veulent avoir ceste licence, à qu'elle fin ils viennent en la ville" (3).
Nel marzo del 1589, quando il nobile bretone aveva visitato Venezia, questo dispositivo di controllo era in vigore da poco più di cinque anni, da quando cioè gli esecutori contro la bestemmia, un magistrato satellite del consiglio dei dieci, erano stati incaricati dallo stesso consiglio di "tener un libro alfabettato", dove fosse obbligato a farsi registrare "cadaun forestiero di aliena dition" (4). Il decreto del 1583 aveva suggellato un lungo e complicato processo, che aveva visto sia una profonda dislocazione degli equilibri istituzionali anche in risposta ai mutamenti del mercato veneziano delle "albergarie", sia, parallelamente, l'affiorare di una nuova sensibilità, a sua volta in parte un riflesso della metamorfosi dei patrizi più influenti da zentilhomeni in signori, da mercanti in possidenti, nei confronti dei forestieri. Dal '300 il sistema "turistico" di Venezia era imperniato sulle cosiddette osterie, in effetti alberghi i quali, oltre a garantire un reddito assai elevato ai proprietari, quasi tutti nobili o enti religiosi, assicuravano notevoli entrate fiscali grazie ai torrenti di vino alla spina che esitavano. Due magistrati vegliavano sulle osterie, gli ufficiali alla giustizia nuova e i capi dei sestieri ("li hosti di questa Terra tutti sono obbligati ogni sera di dar in nota a ditto officio quelli che ivi allozzano, sì a Rialto, come a San Marco, et la nome che sono, acciò terrieri non possino allozar; et trovando per ditti Signori alcun dormir in le hostarie, che non sia dato in nota, condannano li hosti") (5): entrambi i magistrati rientravano nella "distributiva" del maggior consiglio e facevano riferimento alle quarantie, i consigli giudiziari, e agli avogadori di comun.
Nel 1501 il senato, colpito dalla "ruina" del dazio sul vino alla spina, decise di istituire un collegio dei sette savi "del corpo del consiglio de pregadi et zonta", il quale sovrintendesse agli ufficiali alla giustizia nuova e suggerisse le misure più opportune per risolvere la crisi. Il collegio - nel 1574 ribattezzato "con il titolo di sopra proveditori alla giustizia nova" - avendo individuato nelle camere, locande ecc. le responsabili della "total ruina del datio del vin a spina et de le hostarie oltre a li mali costumi", cercò di varare una legislazione a tutela delle ventitré "hostarie publice" allora esistenti (erano quelle che facevano parte della Scuola di S. Giovanni Battista: ad esse vanno aggiunte le tre-quattro osterie tedesche). Gli "allozadori" non potevano affittare per meno di quattro mesi e dovevano chiedere al collegio un'apposita autorizzazione, un bollettino che indicava anche il nome del locatario; dovevano pagare una specie di tassa di soggiorno; a partire dal 1510 i forestieri potevano "haver licentia [...> de allozar dove vorano fuora de le isole de San Marco e de Rialto" (erano queste le aree, dove erano concentrate le osterie) soltanto "se prima seranno stati al hostaria" "li forestieri de terra zorni 6 et quelli de mar zorni 3" (6).
Questi provvedimenti non furono in grado di contrastare efficacemente la crisi delle osterie (e del dazio sul vino alla spina). Gli alberghi, che erano nel 1501 - come abbiamo visto - ventitré, scenderanno a ventuno nel 1519 e a dodici nel 1544 per poi riprendere un po' quota dopo la metà del secolo: diciassette nel 1552, sedici nel 1574, nel 1595 e nel 1623, ma undici nel 1630, un anno di peste (7). Nel 1574 il senato, dopo aver constatato che, nonostante la legislazione a favore delle osterie, si era "accresciuto in questa nostra città da alcuni anni in qua il numero delle albergarie con nottabelissimo danno del dacio del vin a spina", volle dare un ennesimo giro di vite agli "allozadori", imponendo, tra l'altro, una salatissima imposta di soggiorno ("grossi dodici per ogni ducatto che pagaranno d'affitto all'anno"), prescrivendo che potessero "levar albergarie" unicamente i "sudditi della Signoria nostra" e decidendo di limitare la concessione delle licenze alle vere e proprie locande. Si sperava in questo modo di riportare a venti il numero delle osterie (8), ma la terribile peste del 1576-77 sconvolse ogni previsione. La necessità di riempire rapidamente i vuoti provocati dall'epidemia nel tessuto demografico indusse le autorità ad essere corrive nei riguardi degli stranieri. Ma a sua volta l'afflusso indiscriminato di forestieri fu inevitabilmente accompagnato da "li molti disordini et inconvenienti", che dovevano indurre il consiglio dei dieci ad emanare il decreto del 1583 "per quiete et sicurtà perfetta de buoni" (9).
Il controllo delle strutture destinate ad ospitare i viaggiatori diventava così uno dei problemi dell'ordine pubblico riservati alla costellazione dei magistrati imperniata sul consiglio dei dieci, mentre erano relegate in secondo piano le finalità fiscali, che a suo tempo avevano giustificato l'intervento del senato a danno delle competenze degli ufficiali alla giustizia nuova. Senza dubbio "li mali costumi" non avevano mai cessato di essere una delle preoccupazioni connesse alle osterie e alle "albergarie", ma, mentre i capi dei sestieri avevano cercato di evitare che i "terrieri", vale a dire i Veneziani, fossero calamitati da letti spesso "guarniti" da prostitute e dalle altre attrattive delle osterie (10), gli esecutori contro la bestemmia dovevano vigilare sui nuovi arrivati dediti alla "mala vita", impedire che le mele marce di fuori corrompessero una città sana. In realtà la repressione degli esecutori colpì non tanto i viaggiatori quanto gli osti e, soprattutto, gli "allozadori", specie se di sesso femminile ("le donne che fittano" erano nel 1591 l'oggetto, a quanto pare esclusivo, delle "fattiche" di due fanti del magistrato) (11). Tra il 1584 e il 1591 furono condannati a pene relativamente miti, se valutate alla luce delle minacce del consiglio dei dieci, diciassette osti (tutti, salvo uno, al quale furono inflitti quindici giorni di prigione, tenuti a pagare delle multe), settanta "allozadori" (la metà dei quali donne: a due terzi di esse fu revocata, di regola per sempre, la licenza di "levare albergarie") e ventidue forestieri (in maggioranza puniti con il carcere) (12). In ogni caso i viaggiatori di rango furono soltanto sfiorati dai processi degli esecutori. Nonostante tutto la "chiusura" di Venezia, una "chiusura" che pure diventava sempre più rigorosa con il trascorrere dei decenni (tra l'altro nel 1612 l'"obbligo di darsi in nota" fu esteso ai "sudditi della Repubblica nostra" e a "tutti gl'Hebrei d'ogni natione") (13), non lasciò tracce significative, fatta eccezione per qualche accenno al rito amministrativo di recarsi a palazzo per dare "nomina scribae" (14), nei racconti e nelle memorie dei "turisti", i quali anzi spesso ricordarono "l'ospitalità più affettuosa e gentile" tributata loro dalla città lagunare (15).
Di un'ospitalità ancora più generosa ed appariscente beneficiarono in modo particolare, come è ovvio, i principi e i nobili di spicco in visita a Venezia: lo zenit delle celebrazioni fu raggiunto nel 1574 con "le feste et trionfi fatti dalla Serenissima Signoria di Venetia nella felice venuta di Henrico III Christianissimo di Francia et IV di Polonia" (16). Assai meno gratificanti erano invece i soggiorni dei rappresentanti diplomatici e consolari della dozzina di potenze, con le quali la Repubblica intratteneva delle relazioni. Certo al loro arrivo nelle lagune anche gli ambasciatori avevano diritto ad accoglienze più o meno fastose (tuttavia l'ambasciatore francese Philippe Canaye de Fresnes si dovette accontentare, nell'ottobre del 1601, di un comitato d'onore composto da trentacinque patrizi, venticinque in meno di quelli incaricati dal governo, in quanto gli altri, da avveduti possidenti, "en cette saison la pluspart sont à leurs vendanges") (17), ma, una volta insediati a loro spese (invece fino al 1530 gli ambasciatori erano generosamente "mantenuti di abitazione dal Pubblico") (18), la loro posizione diventava alquanto scomoda. Una legge del maggior consiglio proibiva infatti "ai nobili e ai segretari il poter conversare e parlare con li ministri esteri" (19), infliggendo così a questi ultimi - secondo un nunzio pontificio - una "pena troppo dura che si prova sulla privazione della società, dovendo essere fuggiti da tutto il ceto de' patrizi e secretari e, per conseguenza, dalla gente più colta e dalla miglior parte della città, cosa altrettanto malagevole a tollerarsi quanto singolare, non avendo esempio in verun'altra Corte del mondo" (20).
"The jealousy of this Government" - come la definiva l'ambasciatore inglese Henry Wotton - non riusciva, in realtà, ad isolare del tutto i diplomatici. Di qui la necessità di prendere provvedimenti brutali, come quello a carico dell'infelice Antonio Foscarini, che ricordassero a tutti il divieto della "conversation with strangers" (21). Di qui, ancora, il tentativo, perseguito "scientificamente" a partire negli ultimi anni del '500 da un altro magistrato satellite del consiglio dei dieci, gli inquisitori di Stato, di avvolgere con una rete di spie "le case degli ambasciatori et altri agenti di principi" in modo da "venir in cognitione de quelli che con tanti malefici della Repubblica" divulgavano "le deliberazioni delli consigli" (22). I confidenti erano incaricati di sorvegliare in primo luogo l'ambasciatore spagnolo (presso il quale, ad esempio, si diceva nel 1617 che si recassero, "dopo che si licentia 'l Pregadi", "due a maneghe a comedo" con "la stola in volta al mustazzo" e che uscissero dal palazzo "con le mani piene di doppie") (23) e il nunzio pontificio, un osservatore politico quanto mai attivo e informato grazie ai suoi rapporti con il clero della Repubblica, che era però a sua volta osservato assai da vicino da una spia degli inquisitori, che ne registrava incontri e discorsi. Ma anche i diplomatici di terz'ordine come il residente del duca di Urbino potevano essere sottoposti ad una stretta vigilanza in grado di fotografare il "gentilhuomo basso et con un pocho de barbetta castagnata vestito de pavonazzo" e il "gentilhuomo [...> dalla barba bionda e canuto" incrociati più o meno casualmente sulle scale del palazzo Ducale (24).
Il relativo isolamento sociale degli ambasciatori rafforzava quel sentimento di frustrazione, che essi spesso provavano nei rapporti con una Repubblica dalle involute ed esoteriche articolazioni istituzionali, una Repubblica per di più inerte a causa o dietro lo schermo della fedeltà alle "anciennes coustumes" ("il ne faut pas penser que raison ny discours les fasse changer", scriveva Canaye quasi a giustificare le difficoltà incontrate da chi affidava alla "raison" e ai "discours" il compito di sollecitare dei cambiamenti nella politica dei Veneziani). Si riteneva che la Serenissima fosse consapevole "d'estre au meilleur estat qu'elle puisse iamais estre" e che di conseguenza il suo programma non andasse al di là dello "iouyr plainement de tout ce qu'il luy faut ad bene beateque vivendum", mirando nello stesso tempo a "combattre les causes de toutes le mutations et conversions qui la peuvent menasser". Una scelta immobilista che appariva tanto più deludente in quanto era in estremo contrasto con i vertiginosi traffici e l'intensa circolazione e concentrazione di merci, di denari, di uomini e di notizie, che avevano per teatro la città di San Marco: come doveva sottolineare l'ambasciatore francese, "autant que i'ay de commodité icy d'estre adverti de ce qui se passe par tout le monde, autant ie suis en climat sterile de soy-mesme" (25).
Lo sguardo dei viaggiatori e degli osservatori politici su Venezia era in diversa misura condizionato non solo dai quadri istituzionali, psicologici e sociali qui sinteticamente richiamati, ma anche dal filtro di temi e di miti, di immagini e di percorsi, che gli stessi Veneziani avevano creato e divulgato mediante scritti storici e politici, organizzando rituali civici e redigendo guide della città (26). Il più noto cantore di Venezia "città nobilissima et singolare" fu Francesco Sansovino, al quale si deve, tra l'altro, il primo tentativo, da lui stesso e da altri più volte ripreso ed aggiornato nell'ultimo terzo del '500 e lungo gran parte del '600, di una descrizione delle "cose notabili" ("et meravigliose", aggiungerà Giovanni Nicolò Doglioni con una sensibilità già barocca) della città lagunare ad edificazione e istruzione dei forestieri ed anche dei "terrieri". Nelle pagine del prolificissimo Sansovino le tessere del mito di Venezia restano sempre più o meno le stesse: ciò che cambia è, in una certa misura, il disegno, il paradigma che emerge dall'intreccio dei loro rapporti. Prima di Venetia città nobilissima (1581) prevale la rivendicazione della superiorità, del primato della città marciana, la pretesa di farla riconoscere quale "città principale non pur in Italia, ma nel mondo ancora", "la città la più copiosa e la più ricca che sia sotto il cielo", la città che "di gran lunga ha sopravanzato tutte l'altre nel suo governo" (27). La guida del 1581 insiste su una chiave di lettura più sofisticata e meno impegnativa, la nobiltà (che significa anche diversità) (28), la singolarità, l'eccezionalità di una Venezia, che in tal modo può essere sottratta ai confronti ("questa sola posta in mezzo dell'acque non ha cosa in terra alla quale si possa paragonare") e ad una storia recente assai poco clemente (la perdita di Cipro, la peste...). Venezia è invece assunta ad una sfera iperuranica ("fattura divina", "l'impossibile nell'impossibile"...), il che le assicura una dimensione paradossale, se non utopica, la elegge a protagonista di un mondo alla rovescia: "se l'altre città guardano e conservano i loro cittadini con le mura, con le torri e con le porte, questa aperta e senza ripari non solamente sicura [...>, ma con mirabile provvedimento rende ancora sicure quelle città che dormono sotto la custodia de gli occhi suoi"; "questa sola senza altro terreno o pianura non pur nutrisce abbondevolmente il suo numeroso e quasi infinito popolo, ma spesse volte quelli delle circonvicine città" (29).
La Venezia dell'ultimo Sansovino è "singolare" o "singolarissima" per molte sue caratteristiche, per il "sito" e per l'origine, perché meta di "tutte le nationi" che vi si recano "per trafficare e mercantare" e perché "refugio della nobiltà", perché sempre libera e sempre cristiana, "per la forma del suo eccelso governo", perché "domicilio illustre di gloria" e, ad un tempo, "sicuro albergo del vivere umano". Ma l'eccezionalità della città non è soltanto il risultato della sommatoria di elementi geografici e storici, politici e religiosi, economici e sociali: è anche il prodotto di una strategia retorica, che fa perno sulla condensazione. Venezia è il concentrato, l'epitome potenziata della forma urbana non tanto perché ingloba "una picciola città" come il fondaco dei Tedeschi o addirittura "un piccolo mondo" come l'Arsenale, quanto perché ripropone in un territorio ristretto ciò che altrove è distribuito su spazi ampi o amplissimi. In primo luogo Venezia "a i sottili consideratori delle cose si mostra non una sola, ma più città separate e tutte congiunte insieme". Infatti ogni contrada possiede, "con infinito commodo e sodisfatione de gli habitanti e con stupore de forestieri", "ogni altra cosa bisognevole all'uso humano in molta abbondanza", è da sola una città, che le acque dividono ed uniscono ad un tempo alle altre.
Inoltre nella città lagunare la distribuzione tra ambienti chiusi e aperti è tale che, "se tutti i palazzi e casamenti havessero i cortili e gli horti [e> le strade fossero larghe e spatiose come in terra ferma", se, cioè, Venezia potesse abbandonare la sua forma compressa, "la città sarebbe di gran lunga maggiore di qual si voglia altra nel mondo". Quanto alle chiese, "la qualità delle ricchezze e del governo loro è di così fatta maniera" che ognuna di esse "può dirsi con ogni ragione un picciolo Vescovado". Parallelamente le case veneziane sono non di rado dei veri e propri palazzi: "non è città in Europa che habbia più palazzi di gran circuito [...> di Venetia, i quali noi chiamiamo case per modestia, non havendo nome di palazzo altro che quello del Doge". Infine, vi "son più huomini illustri in Venetia che in diece altre città" e, quanto ai commerci, la piazza lagunare "fa più faccende di tutte l'altre che siano in Italia" (30).
Una singolarità della città marciana, che Sansovino non esplicita, ma che sottende in filigrana i suoi interventi come quelli dei suoi epigoni, è la modernità, il fatto che continui a mutare, sia pure all'interno di un quadro urbanistico conservatore, il suo aspetto. Da un lato si ricorda soltanto qualche rara opera "che habbia Venetia per antica" (ad esempio il campanile di San Marco e Ca' Foscari), dall'altro si attribuisce alla città un'evidente inclinazione a continuare ad arricchirsi "in publico e privato di nobilissime fabriche" (31). Secondo Giovanni Stringa, il canonico di San Marco che nel 1604 ripropone, dopo averla aggiornata e, per un certo verso, riorientata (32), Venetia città nobilissima, nel breve arco del dogato di Pasquale Cicogna (1585-95) l'attività edilizia era stata talmente intensa che "non solo abbellita sopra modo, ma grandemente ancora ingrandita e più di un terzo rinnovata trovasi questa nobilissima città" (33).
Non erano interventi apprezzabili unicamente per il loro impatto quantitativo: se Sansovino non perdeva occasione per celebrare l'"eccessiva bellezza" della nuova (e già promossa ad eterna) Scuola della Misericordia e delle numerose altre opere "alla Romana" dell'illustre padre, l'architetto Iacopo (34), Doglioni e Stringa erano d'accordo nell'indicare nel ponte in pietra di Rialto l'ottava meraviglia del mondo (35). Se Venezia in quanto Dominante dà di regola l'impressione di non ambire ad altro che a conservare quel "pacifico e potente stato", che gode tra una guerra e l'altra (36), in quanto città non ha affatto esaurito, in questi decenni, la sua forte spinta propulsiva, una tensione che si manifesta, tra l'altro, nei tentativi di aggiornare il catalogo dei riti civici, esorcizzando i grandi tornanti della vita cittadina dalla vittoria di Lepanto alle terribili pesti del 1575-76 e del 1630-31.
Montaigne "disoit l'avoir trouvée autre qu'il ne l'avoit imaginée et un peu moins admirable": "la police, la situation, l'arsenal, la place de S. Marc et la presse des estrangiers lui semblerent les choses plus remarquables" (37). Il questionario circa le "cose notabili" di Venezia, al quale Montaigne rispondeva frettolosamente come se gli fosse stato chiesto di tracciare una croce sulle caselle relative ai topoi più apprezzati, attestava non tanto l'influenza di una generica griglia per viaggiatori, di una qualche in itineribus observandorum synopsis, quanto l'ormai diffusa stereotipia del discorso sulla città marciana, la consolidata presenza di uno schermo tra lo sguardo dei viaggiatori e la realtà veneziana. Il catalogo di ciò che "il fait bon voir" nella regina del mare era talmente scontato da essere preso di mira già a metà Cinquecento da Joachim Du Bellay in un sonetto satirico contro "ces Coïons magnifiques, / leur superbe Arcenal, leurs vaisseaux, leur abbord, / leur Sainct Marc, leur Palais, leur Realte, leur port, / leurs changes, leurs profits, leur banque et leurs trafiques". "Il fait bon voir", continuava il poeta della Pléiade, "le bec de leurs chapprons antiques, / leurs robbes à grand'manche, et leurs bonnets sans bord, / leur parler tout grossier, leur gravité, leur port, / et leurs sages advis aux affaires publiques", "leur Senat balloter", "par tout leurs gondolles flotter, / leurs femmes, leurs festins, leur vivre solitaire". "Mais ce que l'on en doit le meilleur estimer, / c'est quand ces vieux coquz vont espouser la mer, / dont ilz sont les maris, et le Turc l'adultere" (38).
Rivisitando criticamente, con tutta probabilità, le pagine dedicate da Leandro Alberti alla celebrazione delle "ornatissime doti" della "molto magnifica città di Vinegia" (39), Du Bellay precedeva Montaigne (e anche, su un piano diverso, Jean Bodin) nella denuncia dello scarto tra l'immagine mitica della città divulgata dagli stessi Veneziani e quella che si offriva allo sguardo poco simpatetico di chi era propenso a degradare la nobiltà e la singolarità a stravaganza ed eccentricità. Quest'ultima lettura era favorita anche dalla collocazione della città in una "peregrinatione italica" che era in primo luogo giustificata - come indicava Giusto Lipsio quando ne individuava la meta principale in Roma - "antiquitatis causa, imo cultus" (40), dalle "reliquie classiche e cristiane". In crisi la figura medievale del pellegrino, sempre più marginale quella del mercante, a partire dal secondo '500 venivano ad occupare una posizione centrale, quanto meno nelle file di coloro che lasciavano resoconti scritti dei loro viaggi, gli umanisti, gli eruditi "alla ricerca delle fonti" del moderno sapere (41). Senza dubbio Venezia aveva ben poco da offrire agli amatori delle "cose antiche". Come sottolineava Gabriel Symeoni, se si escludevano "i quattro cavalli di bronzo dorato", che decoravano la basilica di San Marco, e "qualchuna [antichità> portata di fuora per le case private de gentil'huomini", la città lagunare era affatto spoglia di testimonianze classiche (42).
Questo limite era in vario modo aggirato dalla falange degli estimatori di Venezia. Si poteva insistere, come facevano gli Schott, sul palazzo Grimani, sede di un museo assai caro "à i studiosi dell'antichità" (43); si poteva, nella scia di Stephanus Vinandus Pighius, riconoscere nel contesto marciano l'inserzione di reperti classici, dai citati "quatuor equi ex are Corinthio" alle colonne di piazza San Marco "ex solido marmore Phrygio" e ai mosaici composti da tessere "Laconicis, Thasiis" (44); si poteva, infine, celebrare Venezia in quanto per un certo verso custodiva, offrendo ospitalità ad una qualificata colonia, l'"optima et pura Graeca lingua" (45). Ma, nonostante tutto ciò, al viaggiatore umanista riusciva difficile evitare di allinearsi sulle posizioni di Lipsio, quando questi, dopo aver esaltato la "maris domina", la "pulchra, opulens, felix urbs", confessava che però gli era poco congeniale "quia Mercurio amicior, quam Minervae" (46).
Ma Venezia era in grado di cercare altrove le ragioni della sua fama e "felicità" e le trovava in un "miracoloso" rapporto con la natura e con la storia e nella sua capacità di proporsi ad un tempo come un compendio dell'universo ("orbis in urbe", come la cantava Germain Audebert) (47) e come una città "uníca al mundo" (48), come un fenomeno sottratto alle leggi dell'universo.
Venezia era paragonata da Hieronymus Megiser ad una stanza, di cui erano il "Paviment das Meer, das Tach der Himmel und die Wande des ablauffen des Wassers" (49), mentre Luis Zapata scorgeva nella "hermosa y extraordinaria ciudad" una specie di gigante "que tiene los pies en el agua, la cabea en las nubes, segun sus edificios sublimos y altos, y cuyos braços se extienden a todo el orbe de la cristiandad" (50). In quella "convention" di isole e isolette della laguna, che formavano Venezia (51), lo spazio naturale e lo spazio artificiale non apparivano contrapposti, come era la regola nel caso delle altre città, ma, al contrario, armoniosamente fusi in una dimensione magica, secondo i ritmi di quel "monde rond" evocato da Clément Marot (52), del mondo sinuoso in felice equilibrio tra la natura, l'acqua in primo luogo, e gli uomini. Certo, a Venezia natura e storia congiuravano nell'impedire il dispiegarsi di una piena progettualità urbanistica, frenavano le spinte razionalistiche, ma ciò non vietava di riconoscere nella città marciana l'incarnazione di altri significativi valori dell'umanesimo, dalla libertà alla pace. I milleduecento anni di storia interna di Venezia potevano essere riassunti, secondo Megiser, da tre parole: "Ruh, Fried und Sicherheit" (53), mentre Fynes Moryson era convinto che "this most noble City" fosse particolarmente commendabile "as well for the situation, freeing them from enemies, as for the freedome of the Common-wealth, preserved from the first founding, and for the freedome which the Citizens and very strangers have to injoy their goods, and dispose of them" (54).
Mentre la maggioranza dei viaggiatori si tratteneva a Venezia una quindicina di giorni, le visite degli ospiti ritenuti degni di pubblici festeggiamenti erano invece contenute entro i limiti di una settimana ed inoltre regolate da un cerimoniale stereotipato. Ad esempio, nel riassunto di Wotton il programma del soggiorno di Ferdinando duca di Mantova prevedeva, nel 1623, "a sight of public rarities, a solemn dinner in the Arsenal, a banquet on a gilded galley of command, a regata or race of all kinds of boats, with forty gentlemen of the freest spirits and ablest purses, appoint to adorn that show with sundry liveries and inventions, and lastly a festa of 100 ladies, all in new gowns as rich as the season would suffer" (55). "Il gloriosissimo apparato fatto [...> per la venuta, per la dimora e per la partenza" (56) dei principi e degli altri viaggiatori eccellenti, la sequenza delle visite, delle liturgie e degli spettacoli che scandivano le tappe della loro permanenza a Venezia, possono essere esaminati, nella loro ripetitività, sia come un modello di turismo altolocato (si sa che soltanto la crème poteva beneficiare del giro esclusivo, che comprendeva l'Arsenale, l'armeria di palazzo Ducale e il tesoro di San Marco), sia come i lineamenti caratterizzanti l'immagine urbana, in cui la Serenissima si riconosceva e che voleva accreditare presso i forestieri.
La topografia "visibile" di Venezia, quella legittimata in occasione dei soggiorni dei turisti eminenti, abbracciava una selezione molto rigorosa di aree. I poli inevitabili delle visite erano costituiti da piazza San Marco (il palazzo Ducale, la basilica, il campanile...), dall'Arsenale, dal Canal Grande e da un paio di isole della laguna (le preferenze andavano a Murano e, in subordine, a San Giorgio Maggiore). La città esibita all'élite era - per riprendere gli aggettivi adoperati dall'olandese Arnold von Buchell - "ampia, potens, populosa, dives" (57). La grandezza della Venezia delle feste era esaltata da un'accorta regia, che puntava ad annettere allo spazio urbano le acque e le isole della laguna. Nel 1574 Enrico III di Francia fu accolto da una "lieta e virile armata" composta "da dugento bergantini di belle fantasie, con bandiere di diversi colori guarniti, da galee et infinite barche" di modo che "quello spatio di mare" sembrava "non mare, ma più tosto prato di vaghi fiori di varii colori ornato"; inoltre l'arrivo del re fu celebrato da archi trionfali eretti al Lido, l'isola barriera tra la laguna e il mare. "Rumor di tamburi, strepito di trombe, suono di campane e melodie di pifferi" (58) e soprattutto il "molto strepito d'artiglierie" garantivano contemporaneamente, per così dire, il dominio dell'aria entro un raggio di miglia e miglia.
La potenza di Venezia trovava rassicuranti e dirette conferme a più livelli. Innanzitutto sul piano militare: l'armeria di palazzo Ducale e in modo particolare l'Arsenale dovevano ridimensionare l'immagine mercantile, "pantalona", della città e sottolinearne invece i tratti marziali. La sala del maggior consiglio e più in generale il palazzo Ducale attestavano che a Venezia il potere si traduceva in una calibrata gestione collettiva, che aveva per solide basi la saggezza e le buoni leggi. Le regate e i combattimenti dei pugni tra Nicolotti e Castellani indicavano che il patriziato era in grado di controllare e quasi sublimare l'aggressività e la violenza del popolo e di trasformarne le manifestazioni in espressioni di consenso e in occasioni di festa e di divertimento per tutti, forestieri compresi. Il fatto poi che di regola l'unica chiesa visitata dagli ospiti illustri fosse la basilica di San Marco, che era la cappella del doge, faceva capire che a Venezia il potere politico teneva le briglie strette sul collo del potere ecclesiastico.
Mentre la presenza di una numerosa popolazione emergeva "naturalmente" dal dispiegarsi delle coreografie di massa (non a caso le regate avevano luogo il giorno dell'arrivo dei viaggiatori d'eccezione), le ricchezze della città, il suo carattere di "cabinet des merveilles" - come la definiva Henri de Rohan (59) - erano posti in evidenza non tanto o non soltanto dalla visita al favoloso tesoro di San Marco quanto dalla volontà di trasformare la stessa Venezia in un "magnifico e veramente maraviglioso theatro", un "mondo nuovo" di spettacoli fastosi. Tra l'altro, questa strategia puntava alla "conquista" della notte. Nel periodo in cui il re di Francia si trattenne a Venezia, "tutte le case, che guardano sopra il Canal Grande", furono rischiarate di notte in maniera tale da permettere di affermare che "tutte le stelle del cielo [erano> discese sopra le finestre a illuminar quel canale". Secondo Tommaso Porcacchi questa impresa aveva "ecceduto tutte l'altre grandezze per lo reflesso de' tanti lumi nell'acqua, che gli faceva moltiplicare in infinito e ali occhi de' riguardanti doveva render maravigliosa grandezza" (60).
È evidente che tra la Venezia delle feste e la Venezia di tutti i giorni intercorrevano rapporti assai stretti se non altro perché la prima offriva una selezione mirata delle "cose notabili" della seconda e nello stesso tempo ne esaltava gli aspetti più spettacolari. Ma la Venezia quotidiana, la Venezia "normale", concedeva anche ai viaggiatori e agli osservatori politici la possibilità di riconoscersi, nei modi e nei ritmi consentiti dai tempi e dalle finalità dei loro soggiorni, in descrizioni più originali ed aperte. È una conclusione suggerita, tra l'altro, dalla circostanza che, mentre per alcuni il bandolo della rappresentazione della città si collocava, come inclinava ad indicare la Venezia delle feste, a San Marco, per altri si situava a Rialto e per altri ancora nel Canal Grande. A favore di San Marco si schieravano, ad esempio, Moryson e Villamont, ma in base a motivazioni assai diverse: il primo "as well because the Duke resides there, as especially because Saint Marke is the protecting Saint of that City" (61), il secondo perché "a l'entree de la Cité venant devers Chioggia, on void premierement le superbe Palais de S. Marc et la forte Zecca, entre lesquels est une belle place toute pavee de brique" (62). Buchell e Howell erano al contrario dell'opinione che Rialto fosse, rispettivamente, "maior pars [...> Venetiarum" e "the Center of the Cittie" (63), una tesi rilanciata, come appare chiaro nel caso di Johann Heinrich von Pflaumern, che visitò Venezia agli inizi del '600, dalla costruzione dell'ottava meraviglia del mondo, vale a dire dell'imponente ponte in pietra (64).
Dal momento che questa dispersione e varietà di prospettive non appare particolarmente influenzata né dal trascorrere dei decenni, né dal peso dei fattori nazionali o sociali, è forse opportuno utilizzare, nel caso di Venezia, una griglia descrittiva del tipo della già citata In itineribus observandorum synopsis, una griglia che del resto sottende non pochi ritratti della città e che meglio si presta ad un'analisi comparata. Una delle prime stazioni della sinossi riguardava la "ratio nominis", un tema affrontato, nel caso di Venezia, ripetendo la lezione di Sansovino. La città - scriveva Moryson - "is worthly called in Latine Venetiae, as it were Veni etiam, that is, come againe" (65), l'etimologia si risolveva in uno slogan turistico. Più discusso il problema dell'origine di Venezia. Mentre Pflaumern concedeva largo credito all'apologetica veneziana ("urbes, ut cetera, ex infimo nasci": invece Venezia era "ab ipsa origine magna"), Wotton era convinto che la città adriatica fosse "a great example what the smallest things well fomented may prove" (66).
Tutti d'accordo, invece, con Johann Neumayr von Ramssla nel magnificare "la singolare positura di questa bella e eccellente città" (67), la sua peculiare collocazione in un quadro geografico e ambientale di grande fascino e bellezza. La "singolare positura" di Venezia era, tra l'altro, il riflesso di una centralità geografica: come spiegava Wotton, la città era "seated in the very middle point between the equinoctial and the northern Pole". Ma la maggioranza dei viaggiatori privilegiava il fatto che Venezia fosse situata "in ipso adhuc principio et veluti portis Italiae" (68), si presentasse come la prima, fantastica tappa di un itinerario "through others of the dainty Townes of Italie" (69). Acqua, terra e aria erano gli elementi che garantivano, fondendosi e contrapponendosi secondo una formula magica, l'eccellenza del sito. Naturalmente era la qualità acquatica di Venezia - le "moenias et liquidas [...> vias" e le "liquidas [...> plateas" ricordate, rispettivamente, da Audebert e da Pighius (70) - che colpiva in maniera indelebile gli osservatori.
Ben pochi si dimenticavano di segnalare il numero delle gondole, ottomila secondo la stima più cauta di Villamont, ventimila nell'amplificazione di Howell (71). La gondola, che Coryat giudicava la più bella imbarcazione che avesse mai visto (72), era considerata l'alternativa lagunare al cavallo - una fauna quasi estinta nella Dominante - e alla carrozza, così come la rete dei canali e la trama labirintica delle calli assicuravano a Venezia una dimensione urbana affatto peculiare, la collocavano su un piano in una certa misura rovesciato rispetto al canone vigente nelle altre città. Per Montaigne Venezia era "la ville où on vit à meilleur comte, d'autant que la suite de valets nous y est du tout inutile, chacun y allant tout seul [...> et puis qu'il n'y faut nul cheval" (73). Fosse percorsa a piedi oppure in gondola la città marciana si rivelava un paradiso per il viaggiatore non solo sotto il profilo economico. Mentre altrove le strade erano a rischio sia per la melma e la sporcizia che per il traffico caotico, a Venezia, benché "fort estroites", erano "nettes comme la perle et toutes pavees de briques" e, "soit hiver, soit esté", senza "aucun fange dedans" (74): anzi, secondo l'entusiasta Howell, erano "so neat and eevenly pavd, that in the dead of Winter one may walk up and down in a pair of Satin Pantables and Crimson Silk Stockins and not be dirtied" (75). La pulizia delle calli era favorita dall'abbinamento con i canali, i quali, come spiegava Coryat, non erano solo vie di comunicazione, ma anche i collettori dei rifiuti urbani (76).
La "singolare positura" di Venezia, la sua proiezione verso gli spazi liquidi, legittimava, per un certo verso, il dominio dell'Adriatico rivendicato dalla Repubblica. Ma, mentre Pflaumern accreditava la tesi tradizionale che "omne Hadriaticum mare inaccessum iis est quibus esse Veneti volunt" (77), una tesi corroborata dalla cerimonia - assai spesso descritta o comunque ricordata nei resoconti dei soggiorni lagunari - dello sposalizio del mare, altri osservatori erano convinti che la pretesa dei Veneziani di essere "Lords of this Sea" fosse sempre meno confortata dai fatti. I Turchi e il papa, gli Spagnoli e, soprattutto, i pirati "doe now" - affermava George Sandys agli inizi del '600 - "more than share with them in that Soveraignity", mentre Wotton definiva il matrimonio tra la Serenissima e il mare "a long foolish custom" (78). La crisi del potere marittimo di Venezia faceva vacillare uno dei capi-saldi del mito della città marciana: l'inespugnabilità. I Veneziani erano, stando alla tesi tradizionale ripetuta da Moryson a fine '500, "most safe from their enemies on the land, being severed from it by waters, and on the sea being hedged in with a strong sea banke, but also give joyfull rest under their power to their subjects on land, though exposed to the assault of their enemies" (79). Anche Howell era convinto, pochi decenni più tardi, che fosse "impossible to surprise Venice or to take ber", ma aggiungeva: "unless it be by an Army of 150 miles compassed" (80).
Sia pure ricorrendo ad un caso limite, l'inglese denunciava un problema, quello della difesa della città, che l'apologetica aveva dato per risolto una volta per tutte, un problema che proiettava la sua ombra anche sul dibattito, in larga misura parallelo, sul carattere, chiuso o aperto, della forma urbana. Secondo Hentzner, la "loci opportunitas" era tale che "aditus omnes facillime prohibere potest" (81), Venezia era, in fondo, una città chiusa o, quanto meno, una città dalle vie d'accesso agevolmente controllabili. Di tutt'altro avviso non solo gli Spagnoli, che vedevano proprio nel carattere aperto di Venezia la migliore premessa per il successo dei loro progetti aggressivi, ma anche un ambasciatore di Francia schierato su posizioni favorevoli ai Veneziani. Canaye si preoccupava infatti della "seureté de leur thresor", che giudicava "le principal nerf de leur grandeur": il tesoro della Repubblica, "infiniement accrû depuis trente ans qu'ils iouïssent de la paix", "commence à se rendre importun et de dangeureuse Barde en une ville ouverte comme cette-cy" (82).
Dal sito di Venezia si facevano derivare, come è ovvio, la qualità dell'aria, del clima, così come sempre il sito poneva in termini particolari il problema dell'approvvigionamento dell'acqua potabile. L'opinione più diffusa assegnava alla città un clima salubre: ad esempio Moryson osservava che "the ayre is made very wholsome, whereof the Venetians bragge, that it agrees with all strangers complexions by a secret vertue" e, a conferma di ciò, testimoniava di non aver mai visto tanti vecchi in alcun altro posto, mentre Pflaumern definiva il clima "purus, limpidus ac saluta ris" e spiegava che i venti marini spazzavano via "lacunarum graveolentes halitus" (83). Una minoranza di viaggiatori e di osservatori sosteneva invece, con Pawel Palczowski, che "aër Venetiis non est admodum saluber nec mirum, cum sitae sint in locis paludosis, hominesque ex omnibus mundi partibus ad eas confluunt cogenturque interdum propter defectum victus cibos minus salubres capere". Eppure, nonostante ciò, "raro tamen pestis Venetiis dominetur". La causa? Secondo il polacco era l'"optima ratio gubernandi" (84), una diagnosi ottimista che faceva a pugni con una realtà effettuale di tutt'altro segno. Come ricordava Martin Zeiller, anche Venezia era stata colpita, e in modo clamoroso, dalla peste: la più recente, quella del 1630-31, aveva fatto perire un terzo della popolazione (85). Quale influenza avesse avuto su epidemie così catastrofiche quella mancanza d'acqua potabile che, a detta di William Thomas, sollevava a metà '500 "muche lamentation amonge the poor folke" (86), non era approfondito. In ogni caso la questione dell'acqua potabile faceva emergere la struttura bipolare della società veneziana: raccontava infatti Moryson che "the common sort use well water, and raine water kept in cesternes, but the Gentlemen fetch their water by boat from the land" (87).
Una volta esaurito il complesso tema dell'incardinamento della città nell'ambiente con le più diverse connessioni e implicazioni, il visitatore si dedicava, di regola, alla rassegna delle "opera", prima di quelle pubbliche, sacre e profane, poi delle private. Tra le "opera publica sacra" di Venezia attiravano l'attenzione maggiore due topoi del turismo d'élite, la chiesa di San Marco e il monastero di San Giorgio Maggiore: talvolta si registrava la presenza di altri edifici religiosi, ma di rado se ne parlava con entusiasmo (si può fare un'eccezione per Santa Maria dei Miracoli, che Coryat considerava "per la decorazione dei muri esterni [...> la più bella" chiesa che avesse mai visto nel corso del suo grand tour). Lo stesso viaggiatore inglese affermava a proposito della chiesa di San Marco che, "sebbene piccola, è superbamente ricca e così sontuosa per la maestosità della sua architettura, che credo che pochissime chiese delle stesse proporzioni nel mondo cristiano la sorpassino" (88), un giudizio solo in parte condiviso da Pflaumern, il quale riteneva che fosse, tra tutte le chiese della città lagunare, "splendidissima atque amplissima" (89). Anche Villamont definiva la basilica un "bastiment somptueux et superbe", "magnifique en son pavé" (a parere di Coryat era "così straordinariamente leggiadro, che credo nessuna chiesa della cristianità possa sfoggiarne l'uguale"), ma "encore plus superbe en structure" a causa dell'oro e dell'"enrichessement des peintures à la Mosaïque". Il gentiluomo bretone, che come molti considerava il legno un materiale povero e obsoleto, trovava "de grande admiration" il fatto che fosse "bastie et couverte entierement de fer et de pierre sans qu'il y ait aucun bois dedans, si non les chaires où se mettent les Chanoines" (90), mentre Pighius si entusiasmava alla vista della "varietate colorum" e degli splendidi marmi (91).
Una minoranza di viaggiatori era ammessa alla visita del "celebratissimus D. Marci thesaurus" (92), ma quasi tutti, anche chi, come Coryat, confessava di non averlo potuto vedere, ne esaltavano l'unione "mirae magnitudinis et precii incredibilis". Come specificava il pignolo Pighius, il tesoro, che in realtà apparteneva a pieno titolo, nonostante la sua collocazione, alla Venezia profana, accoglieva, tra l'altro, "monoceratum duo cornua procera et unum brevius" (93), era anche una Wunderkammer. Di qui l'immagine controversa del "treasury of Saint Mark" ospitata da Howell: se affermava che "is so much cryed up throughout the world, that it is com to be a proverb when one wold make a comparison of riches" (in termini cavallereschi: "is enough to pay 6 Kings ransoms"), "may be called the great Arterie of the Republic", tuttavia riportava anche lo sprezzante giudizio del duca di Ossuna, che lo aveva chiamato "tesoro de duendes", vale a dire "of fayries or hobgoblins" (94).
Se San Marco riportava la palma tra le chiese, tra i conventi occupava il primo posto quello di San Giorgio, "il più bello e il più ricco di Venezia" secondo Coryat, addirittura il più bello d'Italia a detta di Zeiller. Mentre Pighius era colpito dalla magnificenza degli edifici, l'inglese e il tedesco ne celebravano soprattutto il giardino. In particolare Coryat ne parlava come di "un gran giardino deliziosissimo, pieno d'una gran varietà di frutta delicata, il più bello non solo di tutta Venezia, ma di tutti i giardini che io abbia visto in Italia": l'entusiasmo s'impennava a tali altezze da fargli proclamare Venezia "il giardino della Lombardia" (95). Non era l'opinione di un eccentrico. Anche Megiser riteneva che i giardini della città lagunare fossero "die lüstige und die schöneste", mentre Moryson li giudicava una delle facce più stupefacenti del paradosso veneziano: "though the City be seated upon little and narrow Islands, in the middest of marshes and tides of the sea, yet hath it gardens in great number, and abounding with rare herbes, plants, and fruits, and water conduits" (96).
Se i giardini decoravano sia la Venezia sacra che quella profana, il campanile di San Marco partecipava, per un certo verso, ad entrambe, dal momento che, pur essendo senza dubbio un edificio religioso, era ricordato quasi esclusivamente perché offriva l'opportunità, affatto laica, di ammirare dall'alto la città e di spingere lo sguardo verso gli orizzonti più lontani. Se Villamont consigliava "d'y monter pour contempler la grandeur de Venise et sa belle situation", Coryat prorompeva in un vero e proprio panegirico della "più bella e grandiosa vista che ci sia, credo, in tutto il mondo": "da lassù potete vedere tutto il disegno e la forma della città sub uno intuito, una vista che, a mio giudizio, supera di gran lunga ogni spettacolo che vi sia sotto la cappa del cielo"; oltre ad "una veduta generale del piccolo mondo cristiano", "della Gerusalemme della cristianità" (alias la "gloriosa città di Venezia"), oltre alla vista di "molti bei frutteti" e delle "piccole isole che fanno corona alla città, straordinariamente frequentate e abitate", il campanile consentiva di scorgere "le Alpi oltre le quali si va in Germania [...>, gli Appennini, i deliziosi colli Euganei, con un piccolo mondo di altre dilettosissime cose" (97). Lo sguardo dalla "turris D. Marci" poteva essere filtrato, nel caso di Pflaumern, anche da un insolito schermo marziale: "classes ibi, ibi machinas, tela aliaque caedis instrumenta cernis; admiraberis copiam et ordinem, et vigilias venetorum Patrum pro Reipublicae suae salute" (98). Nello stesso tempo il campanile serviva quasi da faro, segnalava a miglia e miglia di distanza la presenza della città: "tegulis aeneis inauratis tectum est quod sole splendente quam longissime ab Istria Liburniaque navigantibus conspicitur" (99).
Il campanile di San Marco era collocato al centro del più importante polo urbanistico di Venezia, un polo che grazie, tra l'altro, al palazzo Ducale s'imponeva per il suo ruolo politico. Il "regale e superbo Palagio del Doge di Venetia" aveva alle spalle - come raccontavano gli Schott nella loro diffusissima guida - una storia travagliatissima: "benché sia stato cinque volte abbruciato o in tutto o in parte sempre però è stato rifatto più bello" (100). All'esterno la "Curia Venetorum" si presentava "cupreis laminis intecta et candidis ac rubicundis e marmore tabellis incrustata", mentre non si vedeva "au dedans que l'esclat de l'or, la lueur et splendeur du marbre, et l'excellence des belles peintures qui ravissent les esprits humains" (101). Tra i più entusiasti ammiratori del palazzo troviamo in prima fila il solito Coryat, che non solo lo giudicava "il più bell'edificio, che abbia mai visto", superiore allo stesso castello di Fontainebleau, ma ne esaltava alcune parti, dalla sala del maggior consiglio ("la più sontuosa di tutte, straordinariamente spaziosa e la più bella che io abbia mai visto in vita mia") alla porta della Carta ("di molti punti la più bella che io abbia mai visto"), dall'armeria ("molti che sono stati grandi e famosi viaggiatori nelle principali nazioni del mondo cristiano mi hanno detto di non aver mai visto in alcun paese visitato nei loro viaggi un'armeria così splendida per la quantità degli oggetti esposti") alle stesse prigioni ("assolutamente le più belle che abbia mai visto"). L'apologia di Coryat era tuttavia mitigata da un paio di riserve: la scala dei Giganti gli appariva inferiore a quelle del Louvre e, soprattutto, non poteva digerire una "difformità", che faceva a pugni con le sue idee estetiche, la presenza di un volgare materiale da costruzioni, i mattoni, in "Palatii loca" che - come scriveva Pighius - erano "regiis opibus et Asiatico luxu referta" (102).
Tra "the magnificall building of this City" Moryson collocava "in the first place" "the market place of Saint Marke". Gli Schott andavano più in là: "la famosa piazza di San Marco" era "tanto superba e maravigliosa, ch'io non so se in tutt'Europa se ne troverà un'altra simile" (103). Da parte sua Coryat non aveva alcun dubbio: non solo la piazza era "il più bel posto della città", ma era "di tale meravigliosa e incomparabile bellezza, che credo nessun altro posto sia del mondo cristiano che di quello pagano può starle a confronto" (però più avanti si accontentava di definirla "la più bella di tutta l'Europa"); "è tale il suo fulgore stupendo", confessava, "che appena vi entrai mi stordì addirittura". Era la "magnificenza architettonica" della piazza, che mandava in estasi l'inglese, mentre si limitava a connotare con un "abbastanza bello" il pavimento in quanto era costituito dagli aborriti mattoni e quindi suggeriva di sostituirlo con uno "a losanghe di pietra come quello dei saloni di alcuni grandi signori d'Inghilterra" (104). Anche Villamont, che al pari di Coryat e della maggioranza dei viaggiatori tra '500 e '600 si trovava di fronte ad una piazza-cantiere, offriva una ricetta per farla diventare "la plus belle place du monde": era necessario che fosse "eslargie d'avantage abatant les vieilles maisons qui sont aupres" (105). Pflaumern, che visitava Venezia quando il complesso di San Marco aveva trovato l'assetto definitivo o quasi, abbracciava con lo sguardo "omnia [...> illustria ac nova", vedeva nella piazza il trionfo della modernità (106).
Come spiegava Moryson, le "foure market places joined in one" del polo marciano servivano agli scopi più diversi: "solemne spectacles or showes", "processions", "the Faire" dell'Ascensione, "the markets on wednesday and saterday", "to muster soldiers" e, infine, "there the gentlemen and strangers daily meet and walk" (107). Ma per quasi tutti i visitatori la funzione commerciale della piazza soverchiava ogni altra: se per Buchell era un "forum rerum venalium amplissimum, omnigenis mercibus exoticis, ludicris, necessariis refertissimum", per Howell era "the faitest and the most spacious Markett piace of all the Townes of Italie" e per il pindarico Coryat era "il mercato del mondo, non della città" (108). Ciò che impressionava maggiormente era la "grosse Anzahl von allerley Leuten auss underschiedlichen Ländern der Welt", che s'assiepava nella piazza, la quale in tal modo diventava il "theatrum omnium gentium" (109). L'enumerazione, più o meno attendibile, dei popoli rappresentati al mercato di San Marco era un optional, al quale pochi viaggiatori se la sentivano di rinunciare. Ad esempio, Coryat citava "polacchi, slavoni, persiani, greci, turchi, ebrei, cristiani di tutte le più famose province del mondo cristiano", mentre il più fantasioso Howell faceva scendere in campo, oltre agli Europei, "Arabians, Moores, Turks, Egyptians, Indians, Tabrobanes, Tartars, Americans, Asians, Brasilians" (110).
Non a caso Hentzner collocava al primo posto tra le cose "notatu et visu digna" a Venezia il fatto che "innumera hic mortalium variis ex Orbis partibus, corporum varium cultu, multitudo negotiatur", mentre Moryson insegnava al turista, che si fosse smarrito tra le calli e i campielli, di imparare ad orientarsi in base ai flussi pedonali: "if hee will follow the presse of people, hee shall be sure to be brought to the market place of Saint Marke or that of Rialto". Anche quest'ultimo era composto, in realtà, da "foure square market" e ospitava "a peculiar place where the Gentlemen meet": a Rialto s'incontravano "before noone", a San Marco "towards evening". Quanto al ponte di Rialto, Moryson riferiva che "in the judgement of the Venetians deserves to be reputed the eighth miracle of the world", ma per quel che lo riguardava, era del parere che fosse inferiore sia a quello di Londra che a quello parigino di Nôtre-Dame (111): a fine '500 Venezia ormai faticava a tenere il passo delle megalopoli dell'Occidente. Molto più generoso Coryat, che proclamava quello di Rialto "di gran lunga il più bel ponte a una sola campata che io abbia mai visto o di cui abbia letto o sentito parlare", mentre, ad esempio, Hentzner si limitava ad assegnargli un'indiscussa preminenza - "praecipuus ac consideratione dignissimus" - rispetto agli altri quattrocento ponti veneziani (112).
Con San Marco e Rialto l'Arsenale completava la triade indeclinabile delle "opera publica profana". Anzi secondo Thomas e Villamont era all'Arsenale che spettava, nella Venezia del '500, il massimo rilievo: se per l'inglese "excedeth all the rest", per il francese "tous les edifices magnifiques et richesses [...> ne sont rien à paragonner la beauté de l'arcenal", che egli esaltava come "l'une des merveilles du monde et l'ornement de toute l'Italie" (113). Un altro francese, Denis Possot, lo definiva "ung lieu si riche qu'il est impossible à l'homme de l'estimer et de le croire qui ne l'a veu" (114), mentre Coryat pensava che fosse "il deposito più ricco e meglio fornito d'ogni genere di munizioni terrestri e marittime non solo di tutta la cristianità, ma addirittura di tutto il mondo" (un'opinione fatta propria da Zeiller ancora negli anni 1630) e riferiva che "i forestieri di qualsiasi parte rimangono in ammirazione quando ne osservano la posizione, l'estensione, la potenza e l'incredibile quantità di scorte" (115).
"Officina di Marte e bottega di guerra" l'arsenale "diletta d'un certo insatiabile spettacolo e piacere i riguardanti, ma gl'inanima ancora d'un certo ardore spiritoso e martiale" (116). La "beauté" dell'"officina", dell'immensa manifattura che vedeva impiegati, stando ai resoconti dei viaggiatori, tra i quattrocento e i millecinquecento uomini e che aveva in deposito centinaia di navi da guerra, decine di migliaia di palle di cannone e, secondo la stima generosa di Howell, "armes to furnish 200.000 men and upwards" (117) favoriva spesso una visione bellicosa di Venezia alquanto sopra le righe. "Hae Reipublicae vires sunt", era la conclusione posta da Pflaumern in coda ad una descrizione dell'Arsenale e delle forze militari veneziane stilata con molta partecipazione, "haec arma, quorum nescio an alia gens copiam tantam praestantiamque habeat" (118). "No doubt their strength hath every day growne greater to this time", aveva affermato quasi mezzo secolo prima Moryson, il quale aveva tuttavia precisato, riassumendo il messaggio affidato dalla città ad una statua di San Giorgio, "that Venice rather defends it selfe, than offends others" (119). Non mancavano per altro fin dalla metà del '500 le valutazioni assai meno lusinghiere dell'"ardore spiritoso et martiale" dei Veneziani: "at these daies", scriveva Thomas, "become better merchauntes than men of warre", mentre Zapata compendiava brutalmente la condizione politico-militare della Repubblica, assegnandole "mucho consejo y pocas fuerças" (120).
Anche se Buchell affermava che "oderunt Veneti, ut de Romanis olim Cicero scripsit, privatam luxuriam, publicam magnificentiam diligunt", in realtà "palatia et illustrium familiarum aedes infinitae" (121) erano pronti a testimoniare che anche nella Venezia del fiammingo la magnificenza pubblica andava di pari passo con il lusso dei privati. Thomas era convinto che nella città marciana ci fossero "about 200 palaces able to lodge any Kyng", una valutazione riproposta un secolo più tardi da Howell (122), mentre secondo Pflaumern gli "splendidissima Palatia" erano centoquaranta e il più selettivo Buchell li diminuiva a centodieci (123). In ogni caso i "superbi Palazzi, fatti di marmo, ornati di colonne, di statue, et di bellissime pitture, edificati da quei nobilissimi Senatori con inestimabile spesa et artificio", apparivano al visitatore più facile agli entusiasmi come tante stelle che illuminavano "caelestem suae urbis orbem" (124), costituivano la trama del tessuto urbanistico veneziano e ad un tempo, ad esempio nello specchio del Canal Grande, gli splendidi fondali.
Gli "edifici di grande magnificenza" erano, unitamente all'"incomparabile posizione" e alla "superiore ricchezza", i titoli, in base ai quali Coryat riconosceva in Venezia la regina del mondo cristiano. Ma l'inglese era anche molto attento agli aspetti, architettonici e tecnologici, tipici dell'edilizia veneziana, dai tetti ("sono molto diversi dai nostri tetti", "sono tutti piatti e costruiti in modo che ci si possa camminare sopra") alle fondamenta ("sono poste in un modo molto strano [...> sui pali"). Naturalmente non poteva incontrare la sua approvazione la circostanza che i palazzi fossero "fatti per lo più di mattoni, pochi di bella pietra". Tuttavia, in quanto "abbelliti da un gran numero di colonne e pilastri imponenti" e resi "molto attraenti" da "graziose gallerie" e "piacevolissimi terrazzini", gli edifici finivano per essere riconosciuti all'altezza dei suoi canoni estetici e quindi consacrati "sontuosi e magnifici". Con i suoi palazzi spesso "altissimi, di tre o quattro piani" (125), la Venezia del primo '600 assomigliava, nelle pagine di Coryat, alla New York dei grattacieli.
L'ultima sezione della Synopsis era dedicata alla "ratio gubernationis", un tema-contenitore che di fatto abbracciava la politica e la società, le scienze e le lettere, i costumi e le arti. Il peculiare ruolo della Serenissima nel quadro politico internazionale - non solo un avamposto della cristianità contro la minaccia ottomana, non solo uno Stato che rivendicava una posizione autonoma rispetto all'asse egemone asburgico-pontificio, ma anche una Repubblica aristocratica in un'Europa sempre più dominata dalle grandi monarchie - suscitava, a seconda degli osservatori e delle congiunture, un arco di reazioni contrastanti, che andava dall'entusiastica celebrazione ad un'interpretazione della politica veneziana in termini di ambiguità e di doppiezza (126). Ma anche chi non seguiva Howell nell'esaltazione di Venezia quale "Great Queen [...> of Policie", riconosceva in essa, in ogni caso, "le vray theatre de la science politique" (127), la scena dove si svolgeva da un millennio una delle più sofisticate e istruttive trame del potere.
Il segreto della lunga durata e della "longa quies" della Repubblica (128) non poteva non risiedere nella bontà delle istituzioni: come spiegava Villamont paragonando Venezia ad un edificio, "l'union qui y est et l'observation inviolable des loix [...> sont comme le ciment qui entretient ce beau bastiment et le fait durer si longuement" (129). Alcuni - ad esempio i più informati Coryat e Pflaumern - si richiamavano alla teoria "ufficiale" dello stato misto per giustificare la fama di Venezia "d'essere governata così bene come mai altra [città> lo fu" (130), ma la maggioranza dei viaggiatori si limitava a celebrare, con Hentzner, la "magna prudentia" dei Veneziani "in consiliis Reipublicae capiendis" e il loro profondo rispetto nei confronti delle "leges antiquas suae civitatis" (131). L'aura mitica, che circondava la Serenissima, si dissolveva talvolta, quando gli stessi estimatori si imbattevano in comportamenti e in politiche poco o nulla conformi agli ideali, che Venezia avrebbe dovuto incarnare: ad esempio Pflaumern criticava il fatto che i Veneziani, quando avevano bisogno di denaro, distribuissero "magistratus et honores non virtutis, sed pretii ratione", mentre Coryat, come aveva fatto a suo tempo Thomas, denunciava l'eccessiva pressione fiscale (132).
Come è ovvio, l'immagine politica di Venezia usciva ridimensionata soprattutto dalle relazioni e dai dispacci degli ambasciatori. Pur senza rinnegare, in qualche caso, alcuni frammenti del mito della Serenissima, i rappresentanti diplomatici erano spinti dalle stesse esigenze di una comunicazione che, anche quando riguardava un paese amico, non mancava mai di sottolineare limiti e difetti, ad una critica delle istituzioni e della condotta veneziane. "The State is quiet", osservava Wotton nel 1606, "rather through good laws than good dispositions"; e dieci anni più tardi: "no prince in the world can proceed with more caution than this State in the management of public issues, but I have noted withal that no prince of the world is more deceived" (133). Su una linea parallela avanzava Canaye, quando ricordava che, essendo la Repubblica "de plus prudentes", era necessariamente "aussi des plus pesantes en ses deliberations": come ribadiva Wotton, "that abundance of counsel, and curious deliberation, by which they subsist in time of peace, is as great a disadvantage in time of action" (134). La prudenza, la saggezza, le buone leggi non apparivano più sufficienti a garantire a Venezia una tranquilla navigazione in un mare sempre più agitato dai conflitti tra le grandi potenze. I viaggiatori coltivavano spesso un'idea datata e confusa della politica interna veneziana. Se ben pochi ignoravano che il doge "is but servant to the Seigniorie, for of himselfe hee can doe little" (135), l'effettiva balance-of-powers appariva invece, al di là delle teorizzazioni di comodo, misteriosa e controversa. Tra l'altro Zeiller continuava a chiamare in causa il consiglio dei dieci con la zonta più di mezzo secolo dopo la soppressione di quest'ultima, mentre Hentzner scriveva che "apud Ducem [...> sedent primores Magistratuum X viri, praecognitores, quos Sapientes magnos appellant et qui Duci a consiliis sunt" (136), dando vita in tal modo ad ibrido istituzionale, al quale partecipavano, quanto meno, i savi del consiglio e i consiglieri ducali. Meno superficiali e distratti, di solito, gli ambasciatori, che erano anche in grado di allineare, in margine alle cronache degli eventi, penetranti osservazioni sulle strutture politiche marciane. Molto acute, ad esempio, le chiose di Wotton. L'inglese, anche se definiva in un suo dispaccio il consiglio dei dieci "the supremest piece of this government", non solo non si riconosceva in un'interpretazione piramidale del sistema politico veneziano, ma era anzi convinto che "not only the Senate itself, or Council of Ten, or other such high and regardful members of the Commonwealth, but even their meanest are fed with such causes as belong to their several jurisdiction", era convinto, in altre parole, che un'analisi corretta di "this politic body" fosse possibile soltanto se si teneva conto della natura "diffusa" del potere veneziano, una caratteristica sottolineata dalla capacità del patriziato "to work the people" ai fini di una gestione basata sul consenso (137).
Lo stesso Wotton sottolineava l'importanza che il regime veneziano attribuiva, nell'ambito di questa strategia, alla religione, quando ricordava che la prima festa del Corpus Christi celebrata dopo che il papa aveva colpito la Repubblica con l'interdetto era stata solennizzata "by express commandement of the State (which goeth farther than devotion), with the most sumptuous procession that ever had been seen here". Due "the reasons of this extraordinary solemnity": "to contain the people still in good order with superstition" e "to let the Pope known [...> that notwithstanding this interdict, they had friars enough and other clergymen to furnish out the day" (138). La Venezia della Controriforma appariva attenta a non uscire dai binari delle radicate tradizioni religiose locali (Villamont calcolava che nelle chiese della città fossero conservati i corpi di sessantanove santi oltre a "plusieurs autres saintes reliques" e concludeva che "les Venitiens ont beaucoup d'Advocats qui intercedent pour eux"), ma nello stesso tempo la si riteneva desiderosa - come credeva il francese - di salvaguardare la "liberté de conscience" (139) oppure - come speravano i protestanti - di abbandonare il campo cattolico o quanto meno di conservare alla Repubblica ampi margini di autonomia nei confronti di Roma. Ad ogni modo, anche a causa della presenza di importanti comunità ebraiche e greche (140) e la tolleranza di una (relativa) libertà di costumi, l'ortodossia religiosa della città sembrava esaurirsi o quasi sul piano coreografico delle feste e delle processioni.
Se la magnificenza e lo splendore s'imponevano nelle cerimonie religiose - e civili - quali tratti caratteristici di Venezia, era perché più in generale ci si attendeva dagli "opulenti Veneti" una way-of-life "pro opibus sumptuosa [...> ac splendida". "Privatorum civium, quam in ulla alia urbe, immensae sunt opes", testimoniava Pflaumern, il quale individuava le due sorgenti principali delle ricchezze veneziane nelle prede e, soprattutto, nel commercio (141). Ancora nei primi decenni del '600 Venezia era considerata l'ombelico dell'universo mercantile: "là sont toutes sortes d'artz, artisans, marchandises et denrées de tous costez du monde, estant le plus celebre par port, abord, trafic, et commerce de tout l'univers", scriveva Pierre Bergeron, mentre Villamont specificava che la città attirava "toutes sortes de persons, hors des Espagnols qui y hantent fort peu" (142). Soltanto Howell, che aveva sì visitato Venezia negli anni 1610, ma che consegnava alle stampe le sue osservazioni dopo l'inizio della guerra di Candia, segnalava che "the trade of cittie [...> hath been somwhat declining since the Portugais found out the carreer to the East Indies".
"Yet", continuava l'inglese, "ther is no outward appearance of poverty, or any kind of decay in this soft effeminat City, but she is still fresh and florishing, abounding with all kind of commerce, and flowing with all bravery and delight, all which may be had at cheap rares" (143). "Toutes choses abondent à Venise pour l'entretenement de l'homme", riassumeva Villamont, mentre Pflaumern dichiarava "nihil esse humanae vitae necessarium, nihil jucundum ac voluptarium, quo haec sit destituta" (144). Venezia era la città degli agi, del benessere, di una "soffice" modernità borghese. Grazie al sito, spiegava Moryson, "the Citizens abound with all commodities of sea and land" e quindi il forestiero era indotto da mille occasioni a spendere (145). Ma nel 1617 "their long custom of ease" e il correlato "distaste of arms" potevano indurre Wotton a pronosticare al "gowned State" dei Veneziani un avvenire quanto mai difficile (146), così come alcuni decenni prima la contrapposizione tra le ricchezze e la virtù civica sembrava a Canaye che minasse dalle fondamenta una Repubblica che riteneva di non avere "rien à apprehendre que la pauvreté" (147): nonostante quel che affermava Howell, il fantasma di una morbida decadenza aleggiava su "this soft effeminat City".
Anche le "arti manuali" dei Veneziani erano declinate secondo i paradigmi dell'opulenza e della raffinatezza: a Venezia l'artigiano era a tutti gli effetti un artista e non a caso la manifattura più ammirata e citata era quella dei "delicati vetri veneziani, così famosi in tutto il mondo cristiano" (148). Murano era una delle tappe obbligate, o quasi, della visita della città e la descrizione del lavoro dei vetrai poteva occupare uno spazio considerevole (149). Ma anche sull'attività "industriale" più celebre di Venezia (accanto all'Arsenale) si addensava qualche nube: Zeiller, che visitò la città nel 1629, doveva constatare che le ventiquattro "glasshutten" di un tempo si erano ridotte a venti (150). Benché Howell affermasse che "the Eye is the best Judg of Venice" (151), almeno un altro senso, l'udito, recitava un ruolo di rilievo quale medium tra il viaggiatore e la città. Sulle rive della laguna si poteva infatti ascoltare "la meilleure musique du monde", una musica così raffinata da indurre perfino un "grand Calviniste ou Athee" - a detta del cattolico non troppo ortodosso Villamont - "à mediter les choses celestes, considerant les terrestres si excellentes" (152). Non meraviglia quindi che l'analisi di Coryat delle "tre solennissime feste", a cui aveva assistito, riservasse sempre una sezione importante alla "sovranamente eccellente" musica vocale e strumentale, che era stata eseguita (153).
La società veneziana e i suoi costumi attiravano l'interesse dei viaggiatori e degli osservatori politici principalmente, se non esclusivamente, in relazione a due temi, il patriziato e le donne. Come spiegava Moryson, "howsoever this Common-wealth at the first founding was tied by many laws to mediocrity and the equality among the Citizens, yet pride hath by degrees seized upon the same", era emersa e si era imposta una classe nobiliare, che si distingueva anche per il fatto che indossava delle toghe particolari "in singular pride to be knowne from others" (154). Il nero delle "civili gownes" dei patrizi era apprezzato da Coryat in quanto "colore della gravità e del decoro" - tipico di un abito che Buchell definiva "antiquitate venerandus et immutabilis" - ed era polemicamente contrapposto ai colori sgargianti preferiti dalle nobiltà, come quelle di Francia e d'Inghilterra, facile preda delle correnti della moda (155). I gentiluomini veneziani erano, secondo Moryson, "worthy men for Martiall and civil government and learning", assolvevano, al pari delle altre classi dirigenti, i compiti più qualificati. Una tesi annacquata, tra gli altri, da Buchell, secondo il quale a Venezia "cives etiam nobiles et patritii mercaturae admodum sunt studiosi [...> multasque inde opes acquirunt"; "Lipsius parum idoneum", avvertiva l'olandese, "hoc genus hominum ad rempublicam esse putat, quamvis et admittat ex exemplo" (156). Anche Coryat criticava la circostanza che "i gentiluomini fino ai più grandi senatori" si recassero di persona al mercato ad acquistare la carne e altri viveri, un indizio, a suo avviso, di parsimonia, non certo una "dote di schietta nobiltà" (157).
In quanto mercanti di professione e di animo, i patrizi di Venezia erano accusati da Canaye di "avarice": il fatto stesso che, circondati come erano dalle ricchezze, conducessero "une vie sobre et soigneuse, qu'il faut se lever bien matin, pour leur apprendre ce qu'ils ont affaire" (158), appariva una prova decisiva a carico della loro grettezza. La "tavola frugale" - "un quarto di fasto e della magnificenza" degli Inglesi, calcolava Coryat - la circostanza che i patrizi fossero, secondo Moryson, "most sparing in diet and apparell", erano invece in qualche modo pareggiate, nei giudizi di altri viaggiatori, dall'abbandono ad altre "delights", dai giardini alle biblioteche (159). Tutti o quasi erano comunque pronti a condannare la Venezia patrizia per "the latitude of liberty she gives to carnall pleasure", in modo particolare per "the lasciviousness of their youth" (160). Canaye stigmatizzava anche "l'insolence de ces ieunes gens, qui n'ont veu que leur Rialte et Sainct Marc": soprattutto i nobili "les plus pauvres, les moins employez, sont communément les plus altiers, les plus insupportables" (161). Dalle analisi degli ambasciatori emergeva, come è stato scritto a proposito della relazione del marchese di Bedmar, "lo stridente contrasto tra la ricchezza di molti nobili e la degradante miseria di tante famiglie, decadute, abbruttite, lasciate in balia della peggiore corruttela" (162).
Tra i vizi più manifesti di una città, che compendiava nel bene e nel male le caratteristiche di quel "corrupted country", che era l'Italia tra '500 e '600, spiccava la presenza delle cortigiane, a detta di Coryat uno dei "due ceti di persone" (l'altro era quello dei saltimbanchi), che la rendevano famosa, cortigiane la cui fama attirava "molti a Venezia dalle più remote parti del mondo cristiano per ammirare la loro bellezza e godere dei loro sollazzevoli vezzi" (163). Le "Venetae meretrices" erano per Buchell "vere Seirenes", che "libere magis" di quanto non potessero fare un tempo, quando erano confinate in un postribolo, "incautis insidiantur" (164). Da parte sua Wotton raccontava che la sua prima visita a Venezia era durata soltanto quattro giorni, in quanto era stato "coactus maturare fugam" dai rischi che correva a frequentare "foeminas Venetianas". Secondo Marot nella città marciana "mesme rene de reputacion, / de liberté et d'estimation / y tient la femme esventée et publique / comme la chaste, honorable et pudicque", una parificazione che era giustificata con il pretesto che "Venise est de Venuz l'heritage". Anzi, come osservava Coryat, erano le cortigiane a godere di una maggiore libertà, dal momento che "questi signori tappano sempre le loro donne tra le pareti domestiche come polli nella stia" (165).
Anche se, come precisava Howell, l'osservatore più attento poteva facilmente distinguere le prostitute dalle "wifes and women of honour", in quanto le prime "go allwayes vayld in black" e le seconde "go in colours and unvayld", tuttavia molti viaggiatori erano inclini a fare d'ogni erba un fascio. Pflaumern contrapponeva il "lascivus mulierum habitus" a quello "gravis virorum" (166), mentre Villamont schizzava tutto divertito le silhouettes delle dame veneziane che, "cheminant avec gravité" sugli alti zoccoli, "s'en vont monstrant leurs tetins, ce que font aussi bien les vieilles que les ieunes" e Zeiller concludeva che "die Weibspersonen seyn schön aber darneben geil und vermessen" (167). Una bellezza, in ogni caso, contestata da Montaigne, che "n'y trouva pas cete fameuse beauté qu'on attribue aus dasmes de Venise" e, soprattutto, da Aldersey, il quale, forse perché non apprezzava che si presentassero con "les cheveulx en forme de deux cornes haultes quasi demy pied au dessus du front", vedeva nelle donne veneziane "rather monsters then women" (168).
1. Nathan Chytraeus [Kochhaffe>, Variorum in Europa itinerum deliciae, s.l. 1599, pp. 634-636.
2. Cf. in questo volume il saggio di Paolo Preto.
3. Jacques de Villamont, Les voyages, Rouen 1610, pp. 173 e 209.
4. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 54, c. 61, 29 dicembre 1583. Sugli esecutori contro la bestemmia cf. Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500-'600. Gli esecutori contro la bestemmia, in Stato società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I, Roma 1980, pp. 431-528.
5. Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, ovvero la città di Venezia (1493-1530) a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, pp. 137 e 142.
6. A.S.V., Giustizia nuova, b. 1, cc. 10 (9 febbraio 1501), 103v (17 gennaio 1517 m.v.) e 152-155 (7 settembre 1574). La licenza non era necessaria per alcune categorie: i religiosi, il "provisional" della segreteria, gli scolari, i forestieri da mar e i soldati (ibid., c. 54, 27 settembre 1505). Per uno studio dei flussi turistici nella Venezia del primo '500 utili i libri Campana (1518-27) e Stella (1530-32), dove sono registrate le licenze concesse a chi era rimasto ospite di un'osteria per il periodo prescritto e intendeva trasferirsi in un altro alloggio, entrambi in A.S.V., Giustizia nuova, b. 5.
7. La mariegola dell'università degli osti in ivi, Arti, b. 430. Alcune notizie sulle osterie in Eugenio Zaniboni, Alberghi italiani e viaggiatori stranieri sec. XIII-XVIII, Napoli 1921, in partic. pp. 57-86; insoddisfacente Giovanni Marangoni, Le associazioni di mestiere nella Repubblica Veneta (vittuaria farmacia-medicina), Venezia 1974.
8. A.S.V., Giustizia nuova, b. 1, cc. 152-155 (7 settembre 1574).
9. Cf. sopra la n. 4.
10. E. Zaniboni, Alberghi, p. 86.
11. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 57, Nottatorio di terminationi (1582-1597), c. 163v (10 gennaio 1590 m.v.).
12. Dati ricavati da un'analisi del Nottatorio cit. alla n. 11. Va tenuto presente che il controllo dei forestieri fu affidato eccezionalmente anche alla magistratura straordinaria dei provveditori sopra il quieto e pacifico vivere: cf. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, p. 159.
13. A.S.V., Esecutori contro la bestemmia, b. 54, c. 68 (18 luglio 1612).
14. Arend von Buchell, Iter italicum, "Archivio della R. Società Romana di Storia Patria", 23, 1900, p. 25 (pp. 5-66).
15. Thomas Coryat, Crudezze. Viaggio in Francia e in Italia 1608, a cura di Franco Marenco-Antonio Meo, Milano 1975, p. 200. La "Cittie of Venice" era definita da Howell "the most hospitable place upon Earth to this day for all Commers" (James Howell, A Survey of the Signorie of Venice, London 1,651, p. 33).
16. È il titolo dell'opuscolo di Rocco Benedetti apparso "alla Libraria della stella" di Venezia in quell'anno.
17. Philippe Canaye de Fresnes, Lettres et Ambassades, I, Paris 1635, p. 9 (19 ottobre 1601). In questa sede è stata tentata una ricostruzione dello sguardo "contingente" su Venezia degli osservatori politici istituzionali. Pertanto non sono state riprese le riflessioni dei teorici come Jean Bodin, Giovanni Botero ecc. (sulle quali cf. Franco Gaeta, Venezia da "stato misto" ad aristocrazia esemplare, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 437-494), riflessioni, in ogni caso, dedicate a Venezia non tanto in quanto città, ma in quanto Stato e quindi da inserire in un diverso contesto.
18. Marco Ferro, Dizionario del diritto comune veneto, I, Venezia 1778, p. 229.
19. Ibid., p. 231.
20. Antonio Branciforti Colonna, Memorie, in Aldo Stella, Chiesa e stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia. Ricerche sul giurisdizionalismo veneziano dal XVI al XVIII secolo, Città del Vaticano 1964, p. 321 (pp. 319-337). Cf. quanto scriveva Montaigne a proposito dell'ambasciatore francese Arnaud du Ferrier: "il n'avoit commerce avec nul home de la ville" (Alessandro D'Ancona, L'Italia alla fine del secolo XVI. Giornale del viaggio di Michele de Montaigne in Italia nel 1580 e 1581, Città di Castello 1895). Contra cf. T. Coryat, Crudezze, pp. 264-265, quando affermava che l'ambasciatore inglese Henry Wotton aveva "conquistati al massimo l'amore e la grazia dei maggiori senatori e uomini eminenti che frequenta".
21. Logan P. Smith, The Life and Letters of Sir Henry Wotton, I-II, Oxford 1907: I, p. 433 (16 agosto 1608) e II, p. 232 (5 aprile 1622).
22. A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 638, 10 agosto 1592.
23. Ibid., b. 522, 24 luglio 1617 (costituti del n.h. Giacomo Miani e del suo poppiere Daniel quondam Vanzelista).
24. Ibid., b. 638, 23 settembre 1613.
25. P. Canaye, Lettres, I, pp. 73 (28 dicembre 1601), 136 (8 febbraio 1602) e 478 (8 novembre 1602).
26. Cf. Storici e politici veneti del cinquecento e del seicento, a cura di Gino Benzoni-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982 e Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984.
27. Francesco Sansovino, Ritratto delle più nobili e famose città d'Italia, Venetia 1575, p. 126v; [Id.>, Trattato delle cose notabili, che sono in Venetia, Venetia 1575, p. C 1v.
28. Id., Venetia città nobilissima et singolare, Venetia 1581, p. 146v.
29. Ibid., p. 3. Cf. lo scarto rispetto a Id., Trattato, p. A 2.
30. Id., Venetia città nobilissima, pp. 3-4, 104, 139v, 140 e 146; Id., Trattato, pp. A 8v, C 8v, D 2v e D 3v.
31. Id., Venetia città nobilissima, pp. 145 e 260; Id., Trattato, p. C 5.
32. Sansovino inizia la panoramica dei sestieri da Castello, "primo fra gli altri per la Chiesa catedrale del Patriarcato" (Venetia città nobilissima, p. 4), mentre Stringa, che considera la chiesa di San Marco il "più nobile, sublime et eccelso luogo, che sia non solo nel suo corpo, ma nel corpo ancora di tutta la città insieme", colloca in testa agli altri il sestiere di San Marco (Id., Venetia città nobilissima, a cura di Giovanni Stringa, Venetia 1604, p. 4).
33. Ibid., p. 415.
34. Id., Trattato, p. D.
35. Leonico Goldioni [Giovanni Nicolò Doglioni>, Le cose meravigliose et notabili della città di Venetia, Venetia 1649, p. 87; F. Sansovino, Venetia città nobilissima, a cura di G. Stringa, p. 254.
36. L. Goldioni [G. N. Doglioni>, Le cose meravigliose, p. 326.
37. A. D'Ancona, L'Italia, p. 133.
38. Cit. in Emanuele Kanceff, Viaggiatori francesi e ispanici nella Serenissima, in Venezia dei grandi viaggiatori, a cura di Franco Paloscia, Roma 1989, p. 44. Buchell citava il sonetto in una versione più castigata: "coïons" diventava "colons" (Iter, p. 20).
39. Leandro Alberti, Descrittione di tutta Italia, Bologna 1550, pp. 450v-466v.
40. Justi Lipsii Epistola de peregrinatione italica, in appendice a Erpenii De peregrinatione gallica, Lugduni Batavorum 1631, p. 126.
41. Cesare De Seta, L'Italia nello specchio del "Grand Tour", in Storia d'Italia, Annali, 5, Il paesaggio, a cura di Id., Torino 1982, pp. 130-134 (pp. 127-263). Cf. anche, per ulteriori informazioni bibliografiche, Attilio Brilli, Il viaggio in Italia. Storia di una grande tradizione culturale dal XVI al XIX secolo, Milano 1989.
42. Gabriele Symeoni, Illustratione de gli epitaffi et medaglie antiche, Lione 1558, p. 83. Venezia diceva poco, in effetti, anche ai cultori delle iscrizioni e dei "monumenti" moderni: cf. Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae quae hoc saeculo et a Christianis posita sunt, Helmstadt 1592, il quale dedica più di cento pagine a Roma, più di quaranta a Padova e soltanto venti a Venezia.
43. Franz Schott, Itinerario onero nova descrittione de' viaggi principali d'Italia, Vicenza 1622, p. 6. Sulla complicata storia editoriale dello scritto di Franz e Andreas Schott cf. Ludwig Schudt, Italienreisen im 17 und 18 Jahrhundert, Wien-München 1959, pp. 21-22 e Lucia Tresoldi, Viaggiatori tedeschi in Italia 1452-1870. Saggio bibliografico, I, Roma 1975, p. 25.
44. Stephanus Vinandus Pighius, Hercules prodicius, seu principis iuventutis, vita et peregrinatio, Antverpiae 1587, pp. 270-272.
45. Paul Hentzner, Itinerarium Germaniae, Galliae, Angliae, Italiae, Breslae 1627, p. 226.
46. J. Lipsii Epistola, p. 128.
47. Aurelius Germanus Audebertus, Venetiae, Venetiis 1583, p. A I.
48. Juan del Encina cit. in Marcel Bataillon, Venise porte de l'Orient au XVI siècle: le "Viaje de Turquia", in Venezia nelle letterature moderne, a cura di Carlo Pellegrini, Venezia-Roma 1961, p. 20 (pp. 11-20).
49. Cit. in Martin Zeiller, Itinerarium Italiae nov-antiquae oder Raiss-Beschreibung durch Italien, Frankfurt am Main 1640, p. 58 col. 2.
50. Cit. in Alessandro Martinengo, Da Boccalini a Gracián: dibattito su Venezia, in AA.VV., Venezia nella letteratura spagnola e altri studi barocchi, Padova 1973, p. 20 (pp. 1-27).
51. J. Howell, A Survey, p. 32.
52. Cit. in E. Kanceff, Viaggiatori francesi, p. 44.
53. Hieronymus Megiser, Respublica Venetorum, Frankfurt am Main 1616, p. a 3.
54. Fynes Moryson, An Itinerary Containing His Ten ϒeeres Travell through the Twelve Dominions [...>, I-IV, Glasgow 1907-1908: I, p. 196.
55. L.P. Smith, The Life and Letters, II, pp. 270-271 (9 giugno 1623).
56. È il titolo di un opuscolo dell'"Eccell. Dottore Manzini Bolognese" a ricordo della visita di Enrico III, Venetia 1574.
57. A. von Buchell, Iter italicum, p. 18.
58. Nicola Lucangeli, Successi del viaggio d'Henrico III, Vinegia 1574, pp. 31-32.
59. Cit. in E. Kanceff, Viaggiatori francesi, p. 46.
60. Tommaso Porcacchi, Le attioni d'Arrigo terzo Re di Francia, Vinetia 1574, pp. 17 e 20v. Cf. per il resoconto delle feste seguite alla vittoria di Lepanto Rocco Benedetti, Ragguaglio delle allegrezze, solennità e feste fatte in Venetia per la felice vittoria, Venetia 1571.
61. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 165.
62. J. de Villamont, Les voyages, p. 174.
63. A. von Buchell, Iter italicum, p. 18; J. Howell, A Survey, p. 33.
64. Johann Heinrich von Pflaumern, Mercurius Italicus, Augustae Vindelicorum 1625, p. 10.
65. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 196. Cf. F. Sansovino, Venetia città nobilissima, p. 4.
66. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 7; L.P. Smith, The Life and Letters, II, p. 256 (Praefatio in Historiam Venetam, 1622).
67. Cit. in Giacomo Cacciapaglia, Scrittori di lingua tedesca a Venezia, Venezia 1985, p. 79.
68. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 56.
69. J. Howell, A Survey, p. 35.
70. A.G. Audebertus, Venetiae, p. A 1; S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 262.
71. J. de Villamont, Les voyages, p. 174; J. Howell, A Survey, p. 35.
72. T. Coryat, Crudezze, p. 208.
73. A. D'Ancona, L'Italia, p. 136.
74. J. de Villamont, Les voyages, p. 202.
75. J. Howell, A Survey, p. 35.
76. T. Coryat, Crudezze, p. 208.
77. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 9.
78. George Sandys, A Relation of a Iourney begun Anno Domini 1610, London 1632, p. 2. Cf. L.P. Smith, The Life and Letters, II, p. 113 (15 maggio 1617).
79. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 165.
80. J. Howell, A Survey, p. 35.
81. P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 218.
82. P. Canaye, Lettres, I, pp. 357 (27 luglio 1602) e 366 (2 agosto 1602).
83. F. Moryson, An Itinerary, I, pp. 164-165; J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 55.
84. Cit. in Bronislaw Bilinski, Viaggiatori polacchi a Venezia nei secoli XVII-XIX, in Venezia e la Polonia nei secoli dal XVII al XIX, a cura di Luigi Cini, Firenze 1968, p. 355 (pp. 341-417).
85. M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 59 col. 2.
86. William Thomas, The Historie of Italie, [London> 1549, p. 76.
87. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 163.
88. T. Coryat, Crudezze, pp. 240 e 255.
89. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 38.
90. J. de Villamont, Les voyages, pp. 192-193 e 197-198; T. Coryat, Crudezze, p. 240.
91. S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 270.
92. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 34.
93. S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 273.
94. J. Howell, A Survey, pp. 37-38.
95. T. Coryat, Crudezze, pp. 266 e 269. Cf. M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 69 col. 1; S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 278.
96. H. Megiser, Respublica Venetorum, pp. n.n.; F. Moryson, An Itinerary, I, p. 192.
97. J. de Villamont, Les voyages, p. 198; T. Coryat, Crudezze, pp. 221-222.
98. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 26.
99. P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 222.
100. F. Schott, Itinerario, p. 7.
101. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 21; J. de Villamont, Les voyages, pp. 186-187.
102. T. Coryat, Crudezze, pp. 228-248; S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 218.
103. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 185; F. Schott, Itinerario, p. 11v.
104. T. Coryat, Crudezze, pp. 209-212.
105. J. de Villamont, Les voyages, p. 199.
106. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 11.
107. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 185.
108. A. von Buchell, Iter italicum, p. 21; J. Howell, A Survey, pp. 36-37; T. Coryat, Crudezze, p. 210.
109. M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 61 col. 2; S.V. Pighius, Hercules prodicius, p. 275.
110. T. Coryat, Crudezze, p. 213; J. Howell, A Survey, p. 37.
111. P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 218; F. Moryson, An Itinerary, I, pp. 164 e 190-191 e III, p. 487.
112. T. Coryat, Crudezze, pp. 205-206; P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 230.
113. W. Thomas, The Historie of Italie, p. 74v; J. de Villamont, Les voyages, pp. 200-201.
114. Cit. in E. Kanceff, Viaggiatori francesi, p. 42.
115. T. Coryat, Crudezze, p. 249; M. Zeiller, Itinerarium Italiae, pp. 67-68 col. 2.
116. F. Schott, Itinerario, p. 14v.
117. J. Howell, A Survey, p. 35.
118. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 34.
119. F. Moryson, An Itinerary, I, pp. 188 e 192.
120. W. Thomas, The Historie of Italie, p. 75v; Zapata cit. in A. Martinengo, Da Boccalini a Gracián, p. 20.
121. A. von Buchell, Iter italicum, pp. 21 e 24.
122. Cf. W. Thomas, The Historie of Italie, p. 74v e J. Howell, A Survey, p. 35.
123. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 37; A. von Buchell, Iter italicum, p. 21.
124. F. Schott, Itinerario, p. 6; J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 37.
125. T. Coryat, Crudezze, pp. 201-204.
126. A. Martinengo, Da Boccalini a Gracidn, p. 22.
127. J. Howell, A Survey, p. 1; P. Canaye, Lettres, I, p. 2.
128. A.G. Audebertus, Venetiae, p. 99.
129. J. de Villamont, Les voyages, p. 187.
130. Cf. T. Coryat, Crudezze, p. 300 e J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 24.
131. P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 218.
132. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 35; T. Coryat, Crudezze, p. 304 (cf. W. Thomas, The Historie of Italie, p. 76v).
133. L.P. Smith, The Life and Letters, I, p. 337 (23 dicembre 1605) e II, p. 121 n. 1 (27 dicembre 1616).
134. P. Canaye, Lettres, I, p. 73 (28 dicembre 1601); L.P. Smith, The Life and Letters, II, p. 228 (6 marzo 1621).
135. Laurence Aldersey, The Voyage to the Cities of Jerusalem, and Tripolis, in the ϒeere 1581, in Richard Hakluyt, The Principal Navigations, Voyages, Traffiques, Discoveries of the English Nation, III, London-New York s.a., p. 75.
136. M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 22 col. 1; P. Hentzner, Itinerarium Germaniae, p. 223.
137. L.P. Smith, The Life and Letters, I, pp. 343 (18 febbraio 1606), 413 (22 gennaio 1607 m.v.) e 485 (13 marzo 1610); II, p. 263 (27 gennaio 1623).
138. Ibid., I, p. 350 (26 maggio 1605).
139. J. de Villamont, Les voyages, pp. 206 e 209.
140. Cf., soprattutto, T. Coryat, Crudezze, pp. 257-264.
141. J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 36.
142. Bergeron cit. in E. Kanceff, Viaggiatori francesi, p. 46; J. de Villamont, Les voyages, p. 203.
143. J. Howell, A Survey, pp. 39-40.
144. J. de Villamont, Les voyages, p. 202; J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 56.
145. F. Moryson, An Itinerary, I, pp. 148 e 165.
146. L.P. Smith, The Life and Letters, II, pp. 105 (1° ottobre 1616) e 121 (14 luglio 1617).
147. P. Canaye, Lettres, I, p. 73 (28 dicembre 1601).
148. T. Coryat, Crudezze, pp. 271 e 277.
149. S.V. Pighius, Hercules prodicius, pp. 276-278.
150. M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 70 col. 1.
151. J. Howell, A Survey, p. 55.
152. J. de Villamont, Les voyages, pp. 206-207.
153. T. Coryat, Crudezze, pp. 273-275.
154. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 193 e IV, p. 219.
155. T. Coryat, Crudezze, p. 282; A. von Buchell, Iter italicum, p. 19.
156. F. Moryson, An Itinerary, I, p. 194; A. von Buchell, Iter italicum, p. 20.
157. T. Coryat, Crudezze, p. 281.
158. P. Canaye, Lettres, I, pp. 40 (18 gennaio 1601) e 188 (23 febbraio 1602).
159. T. Coryat, Crudezze, p. 296; F. Moryson, An Itinerary, I, p. 192.
160. J. Howell, A Survey, p. 199; L.P. Smith, The Life and Letters, II, p. 121 (14 luglio 1617). Cf. W. Thomas, The Historie of Italie, p. 83v.
161. P. Canaye, Lettres, I, p. 249 (3 maggio 1602).
162. Alessandro Luzio, La congiura spagnola contro Venezia nel 1618, "Miscellanea di Storia Veneta Edita per Cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria", ser. III, 13, 1918, p. 79.
163. L.P. Smith, The Life and Letters, I, p. 341 (20 gennaio 1605 m.v.); T. Coryat, Crudezze, pp. 288-293.
164. A. von Buchell, Iter italicum, p. 20.
165. L.P. Smith, The Life and Letters, I, p. 18 n. 4; Marot cit. in E. Kanceff, Viaggiatori francesi, p. 44; T. Coryat, Crudezze, p. 287.
166. J. Howell, A Survey, p. 39; J.H. von Pflaumern, Mercurius Italicus, p. 36.
167. J. de Villamont, Les voyages, pp. 207-208; M. Zeiller, Itinerarium Italiae, p. 59 col. 2.
168. A. D'Ancona, L'Italia, p. 134; L. Aldersey, The Voyage to the Cities, p. 75 (cf. François Vinchant cit. in L'Italie septentrionale vue par les grands écrivains et les voyageurs célèbres. Le Piemont - Milan - Venise - Florence - l'Ombrie, a cura di Christian Beck, Paris 1913, p. 125).