Lo spazio sacro dell'ortodossia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In età medio bizantina il monastero assume caratteristiche liturgiche e funzionali che si riflettono sull’architettura dello stesso edificio. È nei primi monasteri della Bitinia che si sperimenta il modello della chiesa a croce greca inscritta, detto anche a quattro colonne, poi diffusosi a Costantinopoli. Nell’XI secolo si afferma un’altra innovativa tipologia architettonica, quella della chiesa con cupola su trombe angolari. Peculiari forme architettoniche si sviluppano in specifici ambienti monastici con variazioni che approdano alla pianta a triconco. Questo gusto sperimentale sembra attenuarsi nelle opere di epoca comnena, nella icnografia delle chiese si recupera il consolidato schema a quattro colonne, puntando più che altro all’elaborazione degli apparati decorativi dei paramenti.
Quando ci si accinge a esaminare e valutare gli edifici religiosi sviluppatisi nell’area bizantino ortodossa tra XI e XII secolo ci si trova di fronte, da un lato, a tipologie architettoniche peculiari di questi due secoli, dominati dagli ultimi discendenti della dinastia macedone e dai rappresentanti di quella comnena, dall’altro, a formulazioni già pienamente radicate nella cultura artistica medio bizantina, attraverso un processo di rielaborazione di modelli della grande età giustinianea che prende corpo tra VIII e X secolo, ovvero sullo scorcio dell’epoca iconoclasta e i primi 150 anni di regno degli imperatori macedoni. Per chiarire meglio questo secondo aspetto è dunque opportuno fare un passo indietro e prendere in considerazione per lo meno due fatti fondamentali, tra loro peraltro strettamente connessi, che assumono grande rilievo proprio in quest’ultimo periodo: la fioritura dell’istituzione monastica e l’affermazione di una ben precisa tipologia quale è la chiesa con pianta a croce greca inscritta.
Monasteri ovviamente non mancano nella prima età bizantina, tanto in contesti remoti e isolati, quanto in pieno ambito urbano, come dimostra il monastero di San Giovanni fondato a Costantinopoli dal console Studio nel 450. Ma, indubitabilmente, a partire dall’età medio bizantina il monastero (emblematico per la sua icnografia quello di Hosios Meletios) assume caratteristiche liturgiche, funzionali e amministrative del tutto particolari: i monasteri, che possono sorgere tanto in siti isolati dal mondo quanto nel cuore delle città, sono centri di vita spirituale, lavoro manuale, attività assistenziale, gestiti da comunità di monaci mai eccessivamente numerose; essi sono patrocinati il più delle volte da facoltosi laici, i quali si assumono l’onere di sostenere economicamente quelle fondazioni cui l’amministrazione ecclesiastica non è in grado di provvedere, secondo il sistema noto col nome di charistikè. In cambio del suo pio gesto, il patrono laico ha un indubbio ritorno di immagine, la garanzia di una sepoltura per sé e i suoi familiari incessantemente officiata dai monaci e anche la possibilità di usufruire delle eccedenze dalle rendite fondiarie del monastero. L’edificio di culto del cenobio è l’elemento preminente, isolato e ben visibile al centro del monastero che è delimitato da un muro di cinta contro il quale si addossano abitazioni dei monaci e ambienti di servizio.
I primi monasteri di epoca medio bizantina, disseminati nei territori della Bitinia, dove vivono e operano monaci ed egumeni di alto profilo spirituale e intellettuale quali Teodoro Studita e Pietro d’Atroa, sono anche una sorta di laboratorio in cui si sperimenta il modello più fortunato della chiesa medio bizantina, quello a croce greca inscritta o altrimenti detto del tipo a quattro colonne, come la Fatih Cami di Triliye, databile agli inizi del IX secolo. Forse grazie anche a personalità di spicco come il già citato Teodoro, stabilitosi nel 798 nel monastero di Studios, il legame con la capitale si fa più stretto e questo modello di chiesa si diffonde a Costantinopoli. Ne fanno fede esempi più tardi, della prima metà del X secolo, e oramai pienamente maturi, come il katholikon del monastero fondato nel 907 dal patrizio Costantino Lips e la chiesa del monastero del Myrelaion, fatto erigere nel 920 dall’ammiraglio e futuro imperatore Romano Lecapeno.
Ma dove risiedono le ragioni del successo di questo modello di santuario monastico? Ovviamente le comunità bizantine, drasticamente ridotte di numero rispetto ai primi secoli per effetto di particolari congiunture politiche, economiche e sociali, non hanno bisogno di edifici di scala monumentale, alle esigenze pastorali bastando le grandi basiliche di età teodosiana e giustinianea; si prediligono quindi chiese di dimensioni contenute, perfettamente calibrate per il numero di monaci e di selezionati laici che partecipano ai servizi liturgici.
In un contesto monastico viene meno anche la necessità, avvertita in passato, di parcellizzare gli spazi per distinguere i fedeli in base al sesso o al livello di affiliazione alla comunità. Da queste premesse di ordine liturgico e funzionale si definisce un tipo di chiesa caratterizzato da un impianto fortemente centralizzato e su cui si impone la cupola. Rimangono, ovviamente, elementi tipici delle chiese paleocristiane come il nartece, spazio di filtro e diaframma tra l’esterno e l’interno, spesso deputato a specifiche azioni liturgiche e a ospitare sepolture, sia dei principali membri della comunità religiosa che del committente, quasi sempre un facoltoso personaggio laico, e dei suoi familiari. Altri elementi dell’arredo liturgico tendono invece a scomparire, come la solea o l’ambone (letture e omelie vengono declamate alla porta del templon), oppure a cambiare aspetto, come la recinzione presbiteriale che, da bassa e permeabile alla vista del fedele, si fa sempre più opaca, con una sorta di muro costituito da plutei pilastrini ed epistili che sostengono icone, da cui solo occasionalmente il celebrante si palesa ai fedeli disposti nello spazio del naos.
Questa gerarchia degli spazi che si può leggere in filigrana nell’articolazione planimetrica, diviene ancor più evidente se si considera la chiesa nel suo sviluppo in alzato: la dominante della cupola, impostata su un tamburo e sui quattro punti di appoggio, forniti da colonne o pilastri, determina un effetto a cascata sui corpi voltati dei bracci della croce, sull’emiciclo dell’abside e sulle coperture più depresse dei pastophoria (spazi laterali del bema tripartito, distinti in prothesis e diakonikon e adibiti alla preparazione dell’eucarestia e alla custodia delle suppellettili liturgiche). Quest’effetto è ben percepibile a una visione dall’esterno, mentre all’interno sottolinea l’impostazione gerarchica degli spazi. Se l’asse orizzontale, suggerito dalla lettura dell’edificio in termini puramente planimetrici, esalta la zona absidale, l’asse verticale, evidenziato dall’alzato, pone in primo piano il centro dell’edificio coronato dalla cupola, riproponendo, in altri termini e con ben diversa complessità, il rapporto dialettico tra spazio longitudinale e spazio centralizzato che aveva caratterizzato, all’epoca di Giustiniano, la formazione della basilica con cupola. La distribuzione gerarchica degli spazi punta ovviamente a restituire al fedele l’immagine dell’ordine gerarchico del cosmo e del disegno provvidenziale tramite il quale l’umanità potrà esser salvata. In questo senso non è possibile scindere l’analisi architettonica della chiesa mediobizantina dal suo programma decorativo, improntato a una costruzione gerarchica delle immagini, dal sommo della cupola con il busto del Pantocratore fino al popolo dei santi rappresentato nelle parti più basse dell’edificio, quelle più prossime al fedele che, in questo coordinato sistema di spazi, assiste e partecipa alla proiezione del cielo sulla terra costituita dalla chiesa, ove il Dio dei Cieli, come scrive nell’Historia Mystagogica il patriarca Germano, “dimora e si muove”.
Il modello della chiesa a quattro colonne incontra un notevole successo al di fuori della capitale: in Grecia le attestazioni più precoci sono a Tessalonica, con la chiesa della Panagia ton Chalkeon, fatta edificare nel 1028 da Cristoforo, catapano di Longobardia, un edificio che, nella movimentazione dei piani del paramento murario esterno per mezzo di archeggiature e semicolonne in laterizio addossate, ricalca, anche se in modo meno riuscito, la chiesa costantinopolitana del Myrelaion, di un secolo più vecchia; e, prima ancora, la chiesa della Theotokos nel monastero di Hosios Loukas, nella Focide, un edificio di più incerta datazione ma da porre comunque nell’ambito della metà o seconda metà del X secolo, che si differenzia dai modelli canonici costantinopolitani per l’inusitata ampiezza del nartece – articolato in sei campate e modello a sua volta di un tipo di nartece, chiamato lité, molto diffuso in seguito nei monasteri dell’Athos – e per il paramento murario, di forte gusto decorativo per l’utilizzo di blocchi lapidei incorniciati da mattoni (cosiddetta tecnica a cloisonné) e per i fregi con motivi pseudo cufici (ovvero simulanti un tipo di scrittura araba), sempre realizzati in laterizio, elementi costruttivi, questi, che caratterizzeranno in seguito tutta l’architettura religiosa della penisola ellenica. Il tipo a quattro colonne diviene normativo anche nelle regioni più lontane dell’Anatolia, come la Cappadocia: i modelli germinati nella capitale trovano infatti la loro diffusione in alcune chiese a croce greca inscritta, come la San Barbara di Soğanlı, provvista di colonne, volte, cupola tutte rigorosamente scavate nella roccia, secondo la tradizione costruttiva locale, mentre anche le poche chiese costruite in muratura, come quella di Çanlı kilise, riprendono i modelli costantinopolitani, imitandone persino alcune peculiari tecniche costruttive, ma utilizzando i pilastri in luogo delle colonne.
Il secolo XI vede però l’affermarsi di un’altra innovativa tipologia architettonica, quella della chiesa con cupola su trombe angolari. In questa famiglia di chiese si rinuncia alle quattro colonne di sostegno collegate da archi su cui si impostano i pennacchi: l’elemento architettonico che permette la transizione tra il vano quadrato di base del naso e l’imposta circolare della cupola è ora la nicchia o tromba angolare, che smussa gli angoli creando un’imposta ottagona su cui la cupola va a gravare: il nuovo sistema permette di avere un naso più libero e arioso e soprattutto, potendo contare su ben otto punti di appoggio, consente di ampliare notevolmente il diametro delle cupole. Traggono vantaggio da questo innovativo sistema alcune delle più importanti chiese monastiche della Grecia e, in particolare, le tre chiese (katholikon di Hosios Loukas, Nea Moni di Chios, Dafni) in cui si conservano i cicli musivi più completi e importanti di tutta l’età medio bizantina, per lo meno nell’ambito dei confini dell‘impero; il riferimento al programma decorativo pittorico non è casuale, perché più di uno studioso ritiene che tra gli obiettivi che ci si prefigge con l’adozione della cupola su trombe angolari ci sono proprio l’ampliamento delle superfici disponibili per i programmi iconografici e la loro più chiara leggibilità da terra, grazie alla duttilità dei piani convessi e curvilinei delle nicchie destinate alla mise en scène dei cicli narrativi.
Nell’ambito delle chiese con cupola su trombe angolari si è soliti distinguere tra un tipo semplice, in cui la cupola poggia direttamente sui muri d’ambito del naos, e un tipo complesso, in cui il nucleo cupolato è cinturato da una serie di vani sussidiari. Del primo gruppo fa parte la Nea Moni, fatta costruire nell’isola di Chios da Costantino IX Monomaco: preceduta da un più tardo nartece esterno biabsidato, la chiesa appare sovrastata dall’immane cupola, ricostruita dopo il terremoto del 1881, che ne sbilancia un poco il profilo esterno, mentre all’interno crea qualche difficoltà il raccordo tra il bema e l’ottagono di imposta. Queste incertezze – nei confronti delle quali le chiese che replicano il tipo di Nea Moni, molto diffuse nell’isola stessa di Chios e a Cipro, porranno in qualche modo riparo – fanno ritenere che il sontuoso katholikon, eretto da Costantino IX come pegno per i monaci locali che avevano predetto la sua ascesa al trono, sia un’opera di sperimentazione, con varianti approntate in corso d’opera su un impianto originariamente concepito a quattro colonne. Lo spunto può essere derivato dalla conoscenza di monumenti armeni e soprattutto arabi (moschea di al-Hakim al Cairo, fine X sec.) che gli architetti di Costantino, impegnati in quegli anni nella ricostruzione del Santo Sepolcro di Gerusalemme, potevano ben conoscere.
Altri spunti potevano derivare dalla capitale stessa dove, nel corso della prima metà dell’XI secolo, i basileis bizantini gareggiano nel costruire splendidi monasteri con stravaganti e capricciose variazioni architettoniche e un prodigale dispendio di risorse, i cui eccessi sono stigmatizzati dalle fonti coeve. Purtroppo della Theotokos Peribleptos fatta costruire da Romano III, del Kosmidion di Michele IV, del San Giorgio delle Mangane di Costantino IX, nulla ci resta se non le estatiche descrizioni antiche e alcune sostruzioni, dalle quali è comunque possibile ricavare, sia pure approssimativamente, la planimetria della chiesa. Soprattutto nel San Giorgio la presenza di piloni curvilinei permette di immaginare, in alzato, un’imposta ottagonale della cupola, garantendoci che lo schema a trombe angolari, non rappresentato da alcuna delle chiese bizantine tuttora esistenti a Costantinopoli (unica eccezione la piccola Panagia Kamariotissa di Heybeliada), è comunque conosciuto e può anzi fungere da tramite per l’irradiazione del modello nelle province elleniche.
In Grecia, come detto, si trovano molte chiese con questo impianto, soprattutto nella variante “a tipo complesso”, preferita per la maggiore armonicità e per la più salda concatenazione dei volumi. Si passa dal katholikon del monastero sorto attorno alla tomba di Hosios Loukas, variamente datato tra la fine del X e i primi decenni dell’XI secolo, in cui i vani sussidiari ospitano un giro di gallerie senza però che venga occultata la pianta a croce del vano centrale, a esempi più tardi, come Dafni (fine XI sec.), in cui le gallerie all’interno sono assenti e il proporzionatissimo profilo esterno è arricchito dalla meticolosa stesura delle murature apparecchiate nella tecnica a cloisonné. Il modello viene riproposto ancora alla fine dell’XI secolo a Christianou e quindi nel XII secolo alla Santa Sofia di Monemvasia, fino alle ultime attestazioni, in piena età paleologa, nei Santissimi Teodori di Mistrà.
Alcune peculiari forme architettoniche si diffondono poi in specifici ambienti monastici, come quelli, ben noti, sviluppatisi sul Monte Athos, grazie alla spinta e all’attività di grande organizzatore delle comunità cenobitiche esercitata da Sant’Atanasio. Qui, più che la morfologia degli impianti monastici, in cui si ritrova la cinta muraria con le celle dei monaci e gli ambienti di servizio, il katholikon isolato in posizione centrale e, nei pressi, la phiale (fontana monumentale) e la trapeza (refettorio per il pasto comune al termine delle funzioni religiose), è la morfologia degli edifici di culto a essere arricchita da alcuni elementi che permettono di parlare di un vero e proprio tipo athonita: alla classica pianta a croce greca inscritta si aggiungono il nartece profondo (lité) articolato in più campate, la cui introduzione è legata a necessità liturgiche, le cappelle che si generano nelle espansioni del nartece e le due ampie absidi laterali che determinano una pianta a triconco: si è parlato in questo caso di un contributo della liturgia monastica che esige la disposizione dei monaci in questi settori, o piuttosto di una mutuazione da tradizioni architettoniche georgiane e armene qui giunte per il tramite di alcuni influenti egumeni, in primis lo stesso Atanasio. È però certo che le absidi non sono previste negli impianti originari ma sono aggiunte tra XI e XIV secolo alle principali chiese, come il katholikon della Grande Lavra.
L’inventiva e il gusto sperimentale dimostrati dagli architetti bizantini nel corso dell’XI secolo sembrano essere accantonati nelle opere commissionate in epoca comnena (1081-1204). Nella icnografia delle chiese si recupera il consolidato schema a quattro colonne, puntando più che altro all’elaborazione degli apparati decorativi dei paramenti esterni e interni. A Costantinopoli un esempio precoce è costituito dalla Eski Imaret Cami – comunemente ritenuta essere la chiesa del monastero di Cristo Pantepoptes, fondato da Anna Dalassena, madre di Alessio I Comneno – un elegante edificio a quattro colonne con cupola percorsa da nervature e galleria impostata sul nartece, che affaccia sul naso attraverso un tribelon sostenuto da pilastrini. Il monumento di gran lunga più prestigioso è però il monastero del Cristo Pantokrator, un imponente complesso svettante su alte sostruzioni adibite a cisterna, noto per le sue capaci ed efficienti strutture assistenziali, di cui restano oggi tre edifici di culto, costruiti uno accanto all’altro tra 1118 e 1136 per volere degli imperatori Giovanni II e Irene. Due chiese a quattro colonne – il katholikon, più antico, a sud, la chiesa dedicata alla Vergine Eleousa a nord – delimitano uno spazio occupato in una fase immediatamente successiva dal mausoleo dinastico dei Comneni dedicato all’arcangelo Michele, coperto da due cupole di cui una ellittica. Anche in questo complesso l’impianto planimetrico delle chiese riprende senza sostanziale variazioni quello in voga al tempo dei primi imperatori macedoni; appaiono innovative solo la mossa articolazione dei paramenti murari esterni (spettacolare il prospetto delle absidi delle tre chiese), con un fitto gioco di nicchie e arcature cieche ospitanti motivi ornamentali in laterizio e l’uso armonioso della tecnica a filari alternatamente nascosti (dove un filare di mattoni, arretrato rispetto ai due che gli sono contigui, è coperto da un abbondante letto di malta), in auge a Costantinopoli già dall’XI secolo. L’interno delle chiese appare dilapidato, ma doveva essere di grande ricchezza, come dimostrano gli ampi brani di pavimentazione in opus sectile della chiesa sud e i resti di vetro istoriato rinvenuti nei restauri, testimonianti l’uso, anche a Bisanzio, di apporre alle finestre vetrate policrome e decorate. Frammenti di vetri simili sono stati trovati nella fase comnena della chiesa del San Salvatore di Chora (odierna Kariye Camii), un edificio di culto, più volte ristrutturato, che nella seconda metà del XII secolo viene restaurato dal sebastokrator Isacco Comneno: la pianta in questo caso è a croce greca a braccia atrofizzate, priva come è di colonne di sostegno, sostituite nel loro ufficio dalla particolare sagomatura dei pilastri. Ancora una volta è la tecnica muraria, pienamente comnena, a garantire sulla cronologia della costruzione, che per tipologia planimetrica può anche essere assimilata, come difatti è stato fatto in passato, a monumenti di VII-VIII secolo; piante analoghe si trovano in altri edifici di XII secolo al di fuori della capitale, come la chiesa di Sant’Abercio a Kurşunlu, sul mar di Marmara, mentre, sempre al di fuori della capitale ma strettamente legata ad essa per ragioni di committenza, è la chiesa della Panagia Kosmosoteira di Feres, fondata nel 1152 dallo stesso Isacco Comneno, colui che aveva restaurato il monastero di Chora.