Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Pure nei secoli che vedono il tracollo dell’Impero romano d’Occidente sopravvive una tradizione rappresentativa e teatrale che sfida le denunce e gli anatemi dei Padri della Chiesa. La fascinazione corporea dell’attore-mimo resiste a editti e condanne e, proprio come il nesso vita-teatro, regge alla stessa riconversione cristiana. L’evangelizzazione dei regni romano-barbarici porta poi con sé l’esclusione sociale e religiosa degli istrioni e di ogni manifestazione teatrale.
Tertulliano
Sullo spettacolo e la passione
De spectaculis
Nessuno spettacolo, infatti, si svolge senza profondo scotimento dello spirito: dov’è il piacere ivi è pure la passione, che – come è naturale – provoca il godimento; dove è la passione, ivi è anche una rivalità, che dà senso alla passione. Ma, a sua volta, dove c’è rivalità ci sono anche il furore, la bile, l’ira, il dolore e tutti gli altri sentimenti che, insieme con questi, non si conciliano con le leggi morali. Se anche, infatti, qualcuno assiste agli spettacoli con moderazione e saggezza, conformemente alla sua posizione sociale o alla sua età o anche al suo carattere, tuttavia non è perfettamente sereno nell’animo e senza una recondita passione nello spirito. Nessuno viene al piacere senza passione, nessuno soggiace a una passione senza cadere in peccato.
Tertulliano, De spectaculis
Il tracollo dell’Impero romano d’Occidente, segnato dal collasso sociale e culturale del mondo antico, provoca una lenta ma inesorabile estinzione delle forme teatrali e degli spettacoli che avevano trionfato in età imperiale. I ludi circensi, dai combattimenti gladiatorii alle corse dei carri, dalle naumachie (rappresentazioni di battaglie navali) alla lotta con le fiere delle venationes, si estinguono tra la riprovazione etica delle comunità cristiane prima e della Chiesa poi. Si spengono le musiche e i canti (melos) che avevano scandito la rappresentazione delle commedie palliate e togate o della aristocratica tragedia; l’orchestra (synphonia) è relegata sempre più frequentemente all’accompagnamento di danzatori (saltatores) o pantomimi. La decadenza e la lenta estinzione del sistema spettacolistico romano condanna per alcuni secoli al silenzio e all’oblio tutta la tradizione rappresentativa e il ritualismo pagano della festa-spettacolo, i cui elementi superstiti – soprattutto la prassi dell’attore mimo – sopravvivono e si possono ricostruire solo attraverso le notizie che filtrano tra la contestazione, le polemiche e le denunce dei Padri della Chiesa.
Qualche decennio dopo la fatidica soglia del 476 un veemente sermone di san Cesario d’Arles tocca il tema degli spettacoli “pagani” (Sermones, 12, 4) e vi appone il sigillo di condanna per immoralità: al pari di tante altre superstizioni viziose e disoneste essi sono definiti pompae diaboli, ostentazione, apparati, operazioni diaboliche. Ma l’anatema contro gli spettacoli e le forme teatrali dell’età imperiale era risuonato ben prima della deposizione di Romolo Augustolo. Se il loro processo d’estinzione aveva accompagnato il disgregarsi dell’Impero d’Occidente, vi aveva contribuito, ben più delle invasioni barbariche e della precarietà dei nuovi regni, l’intransigente avversione della Chiesa cristiana. Dovere del cristiano sarà distinguersi dai pagani con il ripudio totale del teatro, la cui interdizione viene da Dio in quanto è contraffazione oltraggiosa della sua opera creatrice attraverso travestimenti offensivi, mutazioni di volto e di voci, simulazione di sentimenti e affetti. Eppure proprio queste forme mimetiche, i travestimenti, le maschere, l’allusività del gesto, la fascinazione della fisicità, oppongono una forte resistenza a ogni condanna morale, a ogni tentativo di rimozione, anche teologica.
Sebbene nel 380 l’editto di Tessalonica promuova il cristianesimo a religione di Stato e, dieci anni dopo, Teodosio lo proclami l’unica religione consentita, il patriarca di Costantinopoli, Giovanni Crisostomo, denuncia che i seguaci di Ario introducono negli spazi della liturgia le modalità mimico-espressive, l’esuberanza corporea e il pathos iperbolico dei pantomimi: “Mostrano se stessi come se fossero pazzi, agitandosi e scuotendosi, emettendo strani suoni, esprimendosi in modi estranei alle cose dello Spirito. Introducono nei luoghi sacri i costumi dei mimi e dei danzatori”.
Il mimo, va ricordato, era erede di arcaiche pratiche imitative, affidate soprattutto alla espressività corporeo-gestuale degli interpreti e in età imperiale finisce per confluire nel pantomimo. La recita pantomimica modera così i suoi lazzi scurrili e le irridenti allusioni politiche – improvvisate su un canovaccio drammatico – mentre le parti sentimentali o fantastiche vengono eseguite con l’ausilio di musica e danza. L’innesto del mimo nella pantomima volge poi al fantastico e al mitologico il consueto canovaccio del marito babbeo e della sposina poco affidabile insidiata dall’astuto seduttore. L’intrattenimento pantomimico allenta in seguito anche il suo originario assetto formale che richiede a un coro o a un cantore di eseguire brani di testi drammatici, mentre sulla scena appare a piedi nudi l’interprete della fabula planipedaria, “l’archimimo” o “l’archimima” capaci di rappresentare tutti i personaggi e i loro mutevoli stati d’animo. E, quando prevale l’ispirazione mitologica, l’attenzione degli spettatori continua ovviamente a essere stimolata, oltre che dall’eleganza e dalla bellezza della performance mimetica, da una sorta di spettacolarità pornografica, per nulla restia a mostrare scene d’amore etero o omosessuale.
Risulta quindi sorprendente ma comprensibile il sarcastico riscontro del patriarca Crisostomo: la forza ostensiva della teatralità pantomimica finisce per interferire con gli stessi rituali liturgici come una sorta di trance esagitata o di estasi religiosa-emozionale. Ma la stessa quotidianità dei rapporti sociali non è esente dalle finzioni e dalle convenzioni – se si vuole più pacate – d’una recita gerarchica di ruoli: quelli del gran teatro del mondo.
D’altronde la teatralità, l’essenza illusoria ed effimera delle gerarchie sociali, la stessa speculare equivalenza vita-teatro, l’aveva proclamata lo stesso vescovo Crisostomo, riconoscendola quasi connaturata alla natura umana: “Come a teatro, al cader della sera, gli spettatori se ne vanno, e gli attori escon fuori e depongono il loro apparato scenico, e quelli che davanti a tutti comparivano come re e condottieri, si mostrano ormai per quel che sono, così anche nella vita: quando sopraggiunge la morte e la rappresentazione è terminata, tutti depongono la maschera della ricchezza o della povertà e se ne partono di qui.” (G. Crisostomo, De Lazaro).
Tra il IV e il VII secolo le varie popolazioni europee vengono evangelizzate e i regni romano-barbarici si convertono al cristianesimo. La Chiesa eredita quindi dalla tradizione romana l’impianto organizzativo e le modalità centralizzate che essa offre a supporto dei nuovi regni; di riflesso tutte le attività culturali e artistiche divengono retaggio delle strutture ecclesiastiche: dalle scuole vescovili, attive presso ogni sede episcopale, ai grandi monasteri dei vari ordini monastici.
L’esclusione religiosa e sociale colpisce – come si è visto – la categoria degli istrioni e il loro peccaminoso trasformismo. Il mimo dalle dita parlanti e dal gesto osceno, ma capace di imitare qualsiasi racconto deve abbandonare le chiuse scene cittadine, insieme alle pantomime addestrate a mostrare libidine e seduzione, insieme ai danzatori, ai giocolieri e ai musici cantori. Sono i superstiti d’una teatralità dispersa che s’affida all’improvvisazione invece di vincolarsi a un testo scritto, predeterminato: una teatralità, la loro, capace d’insinuarsi nelle pieghe delle celebrazioni liturgiche e nella simbologia del cerimoniale laico. Solo più tardi incontrandosi con la parola e con la voce del giullare avrebbe operato su dei pre-testi inventivi legati a un’oralità improvvisata e adattabile alle aspettative del pubblico.
Solo il nomadismo di questi superstiti, ambulanti da una festa pubblica a un mercato, da una ricorrenza pubblica o privata a un banchetto nuziale o a una corte “bandita”, consente la stentata sopravvivenza degli scaenici protagonisti del teatro popolare. Sempre in cerca di una sede o di un’occasione per esibirsi, la dispersa famiglia degli istrioni non rinuncia a insinuarsi persino nei monasteri e nelle sedi episcopali, profittando d’una prassi che consentiva ambigue deroghe agli anatemi, alle prescrizioni e alle condanne della censura ufficiale.