Lo spettatore e le nuove pratiche della visione
Nell’arco di pochi anni, con una rapidità che non ha eguali nella storia delle tecnologie, la digitalizzazione dei sistemi di comunicazione ha trasformato l’assetto e l’esperienza dei media. L’identità degli apparati (anche dei più longevi, come i giornali, la radio, il cinema), la rete di relazioni che li lega, le modalità di erogazione dei contenuti e il rapporto con i fruitori sono stati così profondamente riconfigurati da rendere improvvisamente inadeguati i tradizionali paradigmi della comunicazione mediata. Anche previsioni recenti sulle trasformazioni attese dalla conversione al digitale sono state superate dagli scenari, complessi e ambivalenti, aperti dallo switch on, cioè dall’avvio della transizione dal sistema analogico a quello binario.
Sebbene la palingenesi dei dispositivi mediali sia ancora in corso, e in alcuni settori non più che in una fase aurorale, e pur a fronte della magmaticità delle forme che essa assume, alcune linee di cambiamento sembrano ormai precisate e offrono al fruitore un primo sistema di coordinate all’interno del quale ridefinire il proprio statuto e la propria esperienza.
La palingenesi dei sistemi mediali
La trasformazione dei dispositivi mediali si sta distendendo lungo quattro principali direttrici.
Anzitutto la diffusione delle tecnologie digitali ha innescato un processo di convergenza fra i media (Jenkins 2006). L’adozione per tutti i mezzi (televisione, cinema, radio, editoria) di un unico metodo di codifica dei mezzi ha reso finalmente fluidi e aproblematici i rapporti fra gli apparati. L’intermedialità, cioè l’istituzione di una rete di relazioni fra i dispositivi di comunicazione, condizione virtuosa, ricercata fin dalla nascita dell’industria culturale e dal costituirsi a sistema dei suoi molti settori, risulta per la prima volta pienamente realizzabile. L’impiego del codice binario, che va a sostituire diversi linguaggi adottati dai media (dalle immagini e dai suoni impressi sulla pellicola per il cinema, al linguaggio elettronico della televisione), facilita infatti il passaggio di contenuti da un apparato a un altro, favorendo la loro riallocazione in ambienti mediali talora anche lontani, per caratteristiche tecniche e funzionali, dalla piattaforma d’origine.
La libera circolazione dei prodotti fra le piattaforme, oltre a rientrare in una logica consolidata di sfruttamento intensivo degli immaginari, per cui temi, personaggi, intrecci vanno a rifornire l’offerta di più mezzi, costituisce anche una risorsa indispensabile nello scenario attuale della comunicazione. L’ingresso di nuovi supporti e il potenziamento di quelli già esistenti creano, infatti, un bisogno crescente di contenuti e, se in passato il problema è stato quello di sfrondare, ora la questione è di reperire materiale in quantità sufficiente a riempire i palinsesti dei molti mezzi che si contendono l’attenzione degli utenti. Per fare l’esempio più ovvio, si pensi a come la digitalizzazione del sistema televisivo e la conseguente moltiplicazione dei canali abbiano generato una richiesta di contenuti cui è diventato difficile fare fronte tramite le strategie produttive tradizionali. Di qui, fra le altre, la soluzione di sfruttare i testi prodotti dagli stessi spettatori televisivi. Si tratta del fenomeno degli user generated contents, letteralmente contenuti generati dagli utenti, sui quali si tornerà più avanti.
Se la frontiera verso cui sta conducendo il digitale è quella della permeabilità fra le piattaforme (obiettivo perseguito anche attraverso la costruzione di società che inglobano e controllano più apparati, orchestrandone le sinergie), il processo di convergenza mostra però dei limiti. L’omologazione dei linguaggi non abbatte, infatti, completamente le barriere fra gli ambienti mediali e la digitalizzazione delle tecniche di produzione lascia inevasa la questione dei formati, ossia della confezione che occorre dare a un contenuto per renderlo fruibile all’interno di uno specifico ambiente. Un film, per es., per quanto sia ‘consumabile’ attraverso la mediazione di molti apparati (dalla televisione al personal computer, dalla PlayStation ai lettori MP4 fino ad arrivare al videofonino) manifesta una patente inconciliabilità con molti di essi. Si pensi a cosa possa significare guardare un’inquadratura in campo lungo su uno schermo di pochi pollici, ma anche a che cosa significhi vedere un film in un contesto ‘non dedicato’ e in modo discontinuo, condizioni d’impiego usuali per molti devices mobili della comunicazione. Più che al libero scambio, l’economia del simbolico sta dunque puntando a un modello di franchise (S. Gunelius, Harry Potter. The story of a global business phenomenon, 2008; trad. it. Harry Potter. Come creare un business da favola, 2008) che prevede, a partire da un nucleo tematico, la produzione di una pluralità di testi, diversi, per formato e per contenuto, a seconda delle piattaforme che li veicoleranno. È esemplare il caso dei mobisodes, storie brevi, che si esauriscono nell’arco di pochi minuti, ispirate a serie televisive di successo di cui sviluppano nuclei narrativi secondari, e destinate alla telefonia mobile.
Il processo di digitalizzazione comporta, in seconda istanza, una partecipazione più estesa alla comunicazione (Lévy 2001). La maggiore flessibilità delle piattaforme digitali e il più ampio margine di manovra che esse concedono al fruitore moltiplicano le occasioni di consumo. Per vedere un programma televisivo non è più necessario sintonizzarsi sul canale che lo trasmette al momento della sua messa in onda ed è persino possibile fruirlo al di fuori del tv-set. La digitalizzazione, infatti, allarga le possibilità di time shift-ing, eliminando i vincoli temporali della fruizione mediante l’introduzione di nuove e più semplici procedure di registrazione dei testi (è il caso del servizio, offerto da alcune piattaforme televisive, che consente di conservare un programma e di renderlo disponibile per una visione successiva senza dover ricorrere a strumenti di registrazione come il lettore VHS o il DVD recorder). Inoltre la diffusione delle tecnologie digitali mobili rende i contenuti ubiqui e fruibili ovunque: con il videofonino, infatti, lo spettatore è in grado di ricevere la propria trasmissione preferita in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.
Nonostante la capacità delle tecnologie digitali di diffondersi più capillarmente nel tessuto sociale e di interpolarsi con le abitudini di vita degli utenti, la realizzazione di un sistema demotico di comunicazione è, nei fatti, ancora di là da venire. Vedremo più avanti, tracciando il profilo del nuovo spettatore, come l’eliminazione delle ‘barriere’ fra media e utente venga almeno in parte pregiudicata dal permanere di soglie culturali (sociali ed economiche) che reintroducono una divisione fra soggetti sociali ‘informati’ e altri esclusi dai flussi comunicativi e quindi anche, nell’attuale ‘società dell’informazione’, dal consesso pubblico.
Il terzo portato dell’introduzione delle tecnologie digitali è il potenziamento e la moltiplicazione dei servizi che ciascuna piattaforma offre. Ogni media ha la possibilità, rispetto al passato, di erogare un volume di contenuti maggiore e, insieme, di mettere a disposizione dei propri utenti un ampio e diversificato ventaglio di servizi (Menduni 2007). Prendiamo nuovamente il caso della televisione. Il passaggio dai sistemi di trasmissione analogici ai sistemi binari ha, come noto, fatto crescere esponenzialmente il bouquet di canali. Contemporaneamente, la televisione ha anche incrementato le proprie funzioni: non più solo terminale per fruire testi audiovisivi, ma anche, per es., memoria in cui custodire (senza il bisogno di altri supporti) le trasmissioni preferite; strumento per navigare in rete; interfaccia con le amministrazioni locali. In linea di principio, attraverso la sola televisione diventa cioè possibile soddisfare una serie di bisogni per i quali era prima necessario affidarsi a supporti molteplici. La digitalizzazione determina, dunque, la concentrazione e l’omologazione delle funzioni delle nuove piattaforme della comunicazione cosicché, almeno idealmente, ognuna diventa capace di erogare servizi che in precedenza richiedevano l’azione combinata di più mezzi e diventa anche totalmente interscambiabile con essi.
Come per la convergenza e l’accessibilità, anche in questo caso, però, le forme concrete assunte dalla comunicazione digitale confermano solo in parte la possibilità e anche l’opportunità di favorire la cosiddetta interoperatività degli apparati, cioè appunto la loro capacità di svolgere contemporaneamente più funzioni. Ai vantaggi che possono derivare dall’incrementare le prerogative dei singoli media, si affianca infatti il rischio di una perdita di identità dei dispositivi (tutti uguali a tutti) che pregiudica la loro possibilità di trovare un posizionamento nel mercato e di stabilire una relazione forte con l’utente.
Fra i molti cambiamenti che lo switch on ha avviato, il più noto è senz’altro la ridefinizione del ruolo dello spettatore e del suo rapporto con i media (New media worlds, 2007). Lo sforzo impiegato per aggiornare i supporti tecnologici e apprendere le regole del nuovo sistema ha come contropartita per il fruitore la nobilitazione del suo statuto, il riconoscimento della sua dignità e del peso del suo giudizio sulle scelte editoriali degli apparati. Il digitale consente infatti di stabilire una relazione addirittura paritetica fra consumatore e medium. È stato citato il fenomeno degli user generated contents, cioè dei contenuti prodotti dai consumatori e immessi nei circuiti comunicativi alla stessa stregua dei prodotti creati dagli apparati. Anche senza arrivare a questa forma estrema, che evidentemente presuppone una propositività non comune da parte dei fruitori, si possono annoverare altre e più accessibili espressioni di interattività. In primo luogo, il digitale permette agli utenti di personalizzare la comunicazione mediata, modellandola sulle proprie esigenze. Già in epoca analogica venivano approntati supporti per esercitare un controllo sui flussi comunicativi e adattarli ai ritmi dei consumatori. Il successo e la diffusione di tecnologie quali il VCR o, successivamente, il lettore DVD dicono molto sul bisogno degli utenti di negoziare modi e tempi del consumo. Con la digitalizzazione gli spazi di intervento del destinatario della comunicazione assumono dimensioni persino inopinate. Non solo si può decidere il quando e il dove della fruizione (se ne è parlato a proposito dell’accessibilità), ma lo spettatore può addirittura contrattare con l’emittente i contenuti da ricevere. Il VOD (Video On Demand) permette di scegliere che cosa fruire e quando farlo. E anche nel caso in cui l’erogazione dei contenuti segua percorsi tradizionali (per es., con le reti tematiche satellitari o terrestri) la sovrabbondanza di proposte consente una libertà di scelta senza precedenti. In seconda istanza, l’utente può stabilire un vero e proprio dialogo con l’apparato. I dispositivi tradizionali della comunicazione mediale hanno sempre sofferto dell’impossibilità di ricevere un feedback diretto dal consumatore, a conferma (o disconferma) della bontà delle scelte di programmazione. Se, infatti, i dati d’ascolto consentono di stimare con buona approssimazione la diffusione e la visibilità di un contenuto, rilevarne il gradimento si presenta come un problema metodologicamente quasi irrisolvibile. Con il digitale la comunicazione mediale diventa bilaterale, uno scambio non solo virtuale (quello che per la teoria dell’enunciazione si compiva all’interno del testo, fra simulacri del destinatore e del destinatario), ma reale. Il DTT (Digital Terrestrial Television), cioè la televisione digitale terrestre, prevede, per es., la possibilità di mettere in collegamento l’apparato con ogni set di visione attraverso la rete telefonica. Uno spettatore può così chiedere e ottenere informazioni sul programma in onda; esprimere il proprio giudizio su quanto sta vedendo semplicemente pigiando un tasto del telecomando; o anche gareggiare in un gioco a premi con i concorrenti presenti in studio. L’attivazione del canale di ritorno permette inoltre, come si anticipava in apertura, di interagire con le istituzioni. I progetti di T-Government, in molti Paesi già in fase avanzata, prevedono la possibilità di accedere attraverso il televisore agli sportelli virtuali di amministrazioni locali, centri ospedalieri, istituti bancari così come di ottenere informazioni e documenti (per es., gli esiti di esami clinici, il proprio estratto conto bancario o ancora attestati anagrafici). La digitalizzazione, infine, offre allo spettatore la possibilità di intervenire sui contenuti della comunicazione. Siamo a un passo dalla ‘generazione’ di testi, tanto più che la manipolazione dei prodotti mediali già esistenti si configura sovente come una prassi creativa. Sono esemplari gli interventi cui vengono sottoposte le opere cinematografiche nello spazio ‘franco’ della rete informatica. Si tratta in larga misura di operazioni ‘tecniche’ indispensabili a far circolare il film, come l’inserimento di sottotitoli, qualora la lingua originale del testo non lo renda facilmente fruibile, o anche, più frequentemente, l’elisione di parti considerate accessorie per ridurre l’ingombro e il peso dei file e accelerare così le procedure di download dell’opera. Sono tuttavia in crescita anche forme di manipolazione più profonde, che riscrivono il senso del testo, come quando una sequenza famosa viene parodiata o anche come quando un film o, più spesso, una serie cinematografica alimentano attività grassroots, cioè dal basso, che nascono nel ‘sottobosco’ dei fan, e che ne ridiscorsivizzano l’immaginario (Klinger 2006). Una delle forme più frequenti è quella costituita dalle action figures, sorta di cartoni animati che rimettono in scena i topoi del testo, i suoi personaggi e i suoi principali passaggi narrativi, aggiungendo in alcuni casi dettagli e porzioni di intreccio.
Anche con l’interattività ci si trova tuttavia di fronte a una svolta più attesa che reale e non solo per il particolare momento che i media stanno vivendo, letteralmente a metà del guado fra il vecchio e il nuovo sistema. Come si dirà più estesamente tratteggiando il profilo del nuovo spettatore, insieme ai limiti della digitalizzazione, vi sono anche difficoltà più profonde legate all’investimento che la comunicazione mediale chiede e al senso che ambisce ad avere. Se le pratiche interattive sono dunque certamente destinate a diffondersi come correlato delle nuove tecnologie, le forme che probabilmente si affermeranno sono quelle più blande, che poco aggiungono alle ‘attività’ già svolte dallo spettatore analogico.
Le nuove coordinate della comunicazione
Anche se la digitalizzazione sta marciando più lentamente di quanto previsto e il suo passaggio non ha generato quelle trasformazioni benefiche che erano state annunciate, la comparsa delle nuove tecnologie ha indubbiamente evidenziato la vetustà dei modelli comunicativi e delle strategie precedentemente in uso. Quel sistema di regole che nell’arco di alcuni decenni, almeno dalla comparsa della televisione in poi, era stato costruito per rafforzare l’impatto dei media e per assicurare la buona riuscita delle loro istanze appare oggi fatalmente anacronistico e i soggetti della comunicazione, i produttori come i fruitori, si trovano attualmente a dover fissare ex novo i confini e le coordinate della propria azione.
In particolare lo scenario aperto dalle tecnologie digitali sta mettendo in crisi le tre regole d’oro della comunicazione mediale.
Anzitutto, la convergenza fra gli apparati, la possibilità per un contenuto di passare da un ambiente mediale a un altro, senza limitazioni né necessari adattamenti, fa saltare il principio dell’adeguazione, che prevede che un testo, per comunicare efficacemente, debba sapere da chi e soprattutto in quale condizioni sarà fruito. L’ostensione dello spettatore, la simulazione del contesto di consumo, la presupposizione del proprio destinatario elettivo, con le sue competenze, interessi, disponibilità di tempo e di attenzione, procedure usate per mettere in sintonia il contenuto con la situazione di consumo, si rivelano inefficaci e, di più, inutili dal momento che destinatario e contesto fruitivo restano ignoti. Anche quando si ha un’idea del percorso che il contenuto cui si sta lavorando compirà all’interno dell’arco mediale, gli ambienti che si trova ad attraversare sono così diversi da rendere estremamente difficoltoso, se non impossibile, calibrarlo. Prendiamo il caso di un film (È tutto un altro film. Più coraggio e più idee per il cinema italiano, a cura di F. Casetti, S. Salvemini, 2007). Il suo iter di sfruttamento già da tempo prevede la dislocazione successiva in ambienti mediali diversi, per tipo di supporto (la distinzione più macroscopica è quella fra grande e piccolo schermo) e per tipo di esperienza di consumo. Ciò nonostante nella realizzazione del film l’autore (e il produttore) possono fare riferimento alla sala cinematografica come destinazione prima e ideale dell’opera: transito obbligato per accedere al mercato televisivo e dell’home entertainment e soprattutto canone di visione che il pubblico si sforza di riprodurre anche dentro il salotto di casa propria. Questo fino a quando il digitale non ha moltiplicato i supporti in grado di mostrare un film, proponendone anche di incommensurabili alla sala cinematografica (come i supporti mobili), e fino a quando non ha degerarchizzato gli apparati, per cui se anche il passaggio al cinema continua a costituire una prerogativa di successo del film, essa non si impone più né come prima e necessaria tappa del suo sfruttamento, né come habitat ideale per la visione. Il tentativo di accorciare o persino di abbattere le windows, cioè le finestre temporali che devono intercorrere fra la presentazione del film in sala e il suo inserimento nelle altre piattaforme, è esemplare della trasformazione che sta investendo il ciclo di vita del film; e così pure è esemplare la diffusione di modalità di fruizione che non hanno nulla, o poco, a che vedere con quelle prototipiche del cinema: in primo luogo il buio, il silenzio, e la ‘quasi immobilità’ dello spettatore. Si rimanda nuovamente a titolo di esempio all’esperienza che del film si fa attraverso il personal computer.
Il secondo principio spazzato via dall’entropia della comunicazione mediata è quello della pertinentizzazione dei contesti di fruizione, ovvero della loro organizzazione in funzione del testo e delle sue peculiarità. Convergenza e interoperatività scombinano di nuovo le carte creando una situazione nella quale sono virtuose le piattaforme che non esprimono alcuna predisposizione per un contenuto e che accolgono esperienze e prodotti diversi; e, di contro, vengono penalizzati i contesti che rimandano esclusivamente (o elettivamente) a un certo tipo di esperienza di consumo. Tornando al caso del cinema, il lungo processo di definizione degli assetti della sala (dalla progressiva eliminazione delle luci, fino alla codifica di un’etichetta della visione), finalizzato a corrispondere al testo filmico, compromette oggi la possibilità per l’esercizio cinematografico di sfruttare la flessibilità di destinazione offerta (o imposta) dalle nuove tecnologie. I sistemi digitali di acquisizione dei contenuti permetterebbero, infatti, di includere nella programmazione a fianco dei film la diretta di spettacoli teatrali, eventi sportivi o concerti. Un’opportunità che la rigidità fisica e performativa dello spazio di visione, che lo rende inidoneo a ospitare forme di fruizione e contenuti diversi da quelli filmici, impedisce di cogliere. Analogo problema per la televisione: per quanto dotata di una versatilità senz’altro maggiore di quella del cinema e di altre piattaforme, anch’essa fatica a rivedere i propri supporti per sostenere le funzioni che le sono state assegnate. In particolare, appare complesso il lavoro di revisione delle interfacce, sia quelle software (la partizione dello schermo), sia quelle hardware (anzitutto il telecomando), necessario a sostenere le molte e differenti strategie di erogazione dei contenuti (dalla televisione generalista, ai canali tematici al VOD, così come i nuovi servizi interattivi).
Da ultimo, è il principio stesso della comunicazione mediale a essere messo in discussione dalle recenti innovazioni tecnologiche e la particolare natura della relazione che unisce lo spettatore al medium (Bolter, Grusin 1999; Hesmondhalgh 2002). La sparizione del tradizionale modello del broadcaster, che distribuisce contenuti senza quasi conoscere il proprio destinatario (non a caso per lungo tempo considerato come un soggetto collettivo, non meglio identificato) e che si pone con esso in un rapporto di tipo verticale (facendolo oggetto di un flusso di informazioni e di norme), e l’imporsi di un modello orizzontale di comunicazione, in cui l’apparato riconosce i propri utenti e li tratta ‘da pari a pari’ arrivando al punto di affidare loro la creazione dei contenuti, porta a compimento il processo di avvicinamento dei media ai fruitori, già avviato in epoca analogica con la sperimentazione di forme ‘primitive’ di interazione e di personalizzazione dell’offerta. Esso, tuttavia, chiede anche al fruitore un impegno del tutto inedito in termini di competenze, senso critico e propositività, che quest’ultimo non sempre vuole o può assumersi.
In particolare il neofruitore si trova a fronteggiare tre sfide che ne ridefiniscono il profilo e le azioni: conoscere il nuovo sistema dei media, acquisire familiarità con i suoi supporti, con quelli nuovi e con le nuove forme assunte dagli apparati tradizionali, e decidere quali utilizzare e con quali funzioni; fissare un nuovo sistema di regole per interagire appropriatamente e produttivamente con le piattaforme, stabilire i tempi, i modi, persino la prossemica del consumo; collaborare fattivamente alla definizione del senso e del valore della comunicazione mediata: ripensare il ruolo sociale e culturale dei media e partecipare alla costruzione della loro proposta comunicativa.
Il neoconsumatore: profili e sfide
Moltiplicazione dei supporti, crescita delle funzioni e dei servizi che ciascuna piattaforma può offrire, denegazione del rapporto elettivo fra contenuto e piattaforma: la prima sfida che la digitalizzazione lancia al fruitore è quella di decidere quale uso fare dei diversi supporti della comunicazione (La digitalizzazione dei media, a cura di F. Colombo, 2007). Come è già stato detto, l’azzeramento dell’identità rappresenta in epoca digitale un vantaggio competitivo per un medium, che può candidarsi a ospitare più contenuti ed esperienze di consumo. Contemporaneamente l’eliminazione dello specifico delle piattaforme costringe però l’utente a un lavoro di semantizzazione e di redistribuzione di funzioni prima avocate di imperio dai vari mezzi di comunicazione. Così, per es., per informarsi si può decidere di acquistare il quotidiano in edicola, oppure navigare in rete o ancora affidarsi agli aggiornamenti recapitati sul proprio telefono cellulare. Il contenuto può anche essere lo stesso, ma l’esperienza che l’utente fa è evidentemente differente. Sul telefono cellulare si potrà ottenere un’informazione aggiornata, ma necessariamente breve e priva di approfondimenti. Il quotidiano tradizionale potrà invece supportare l’utente che desidera un commento o una riflessione a margine dell’evento. E ancora ai siti Internet ci si rivolgerà per avere informazioni ‘in tempo reale’ o da fonti alternative: si pensi alla fondamentale funzione di conoscenza che la rete ha avuto per alcuni eventi non coperti dalla stampa ufficiale. In questo caso, il gioco di distribuzione delle funzioni è semplice, ma vi sono realtà più complesse, in cui la specificità della proposta delle piattaforme appare meno decifrabile, sia perché i supporti non sono ancora pienamente conosciuti dagli utenti, sia perché la peculiarità dell’offerta è più sfumata. È quanto avviene per le piattaforme televisive digitali. Complice l’apparente uniformità dei set di visione, gli strumenti per la fruizione dei contenuti televisivi faticano a delineare un ambito di impiego proprio, imponendo allo spettatore un lavoro oneroso di comparazione e di scelta, in cui svolgono un ruolo determinante la familiarità con il medium, la facilità con cui viene introdotto nello spazio domestico, la natura e la varietà della sua offerta, e anche fattori come il valore intrinseco della tecnologia o la sua capacità di riattivare modalità collettive di fruizione. La difficoltà a ritagliarsi uno spazio nello scenario dei media anche da parte di tecnologie espressamente pensate per gettare un ponte fra analogico e digitale e per fare da volano alla conversione al nuovo sistema dipende sovente dall’opacità della loro proposta. Esemplare l’iniziale fallimento del DTT in Italia, da imputare a difficoltà di ordine tecnico (in particolare ai persistenti problemi di ricezione), ma soprattutto a una comunicazione generica e vaga delle prerogative della nuova piattaforma. Va detto che, per la società italiana, la scarsa diffusione del DTT ha significato non solo una grave battuta d’arresto nel processo complessivo di digitalizzazione e un’innaturale estensione della fase di switch over, cioè di coesistenza delle tecnologie analogiche e di quelle digitali, ma anche l’approfondirsi del solco fra chi possiede le risorse economiche e culturali necessarie ad accedere ad altre piattaforme televisive digitali (dalla televisione satellitare all’IPTV, Internet Protocol Television, che indica le emittenti che trasmettono utilizzando la rete telefonica a banda larga) e chi non ha opportunità né capacità per affrancarsi dai sempre più poveri ambienti analogici. All’ideale dello spettatore che sceglie consapevolmente e con piena discrezionalità i supporti a cui appoggiarsi si contrappone dunque la realtà di un utente ancora vincolato ad alcuni supporti e ad alcuni contenuti, il cui accesso al plesso dei mezzi di comunicazione è tutt’altro che garantito e che alterna l’anelito a esplorare le opportunità offerte dal digitale, l’interesse e l’attenzione verso le sue proposte, con un’attitudine passiva e inerte degna dell’esecrato couch potato, lo spettatore vittima dei raggiri e degli allettamenti dell’industria mediale su cui tanto è stato scritto in epoca analogica.
La lentezza con cui le prassi interattive si stanno diffondendo mette in discussione anche un secondo e fondamentale assioma delle teorie sul digitale. Per quanto il ritardo sia determinato in buona parte dall’immaturità del sistema, che ha solo cominciato a sviluppare le applicazioni necessarie a consentire forme di comunicazione più partecipate, esso dipende anche dall’indisponibilità dei fruitori, che faticano a ripensare il proprio statuto e le modalità di relazione con gli apparati. Cade in tal modo la tesi che assegna alle tecnologie digitali la capacità di emancipare ipso facto i fruitori, e agli utenti che personalizzano le pratiche di visione e stabiliscono un dialogo con il medium si affiancano i molti che patiscono la mancanza di vincoli e che si sforzano di riprodurre situazioni di consumo il più possibile simili a quelle a cui sono avvezzi (Terre incognite. Lo spettatore italiano e le nuove forme dell’esperienza di visione del film, a cura di F. Casetti, M. Fanchi, 2006). Si pensi al tentativo di regolamentare le pratiche d’uso di Internet, introducendo un insieme di norme destinate a ricondurre le azioni degli utenti a protocolli definiti. Lo scambio di file audiovisivi o musicali attraverso i sistemi peer to peer prevede, per es., che per accedere ai materiali si debbano mettere a disposizione degli altri utenti contenuti propri, secondo una logica che richiama quella del baratto, o prevede l’assegnazione di una priorità nelle liste di attesa per scaricare l’ultimo blockbuster a chi è collegato in banda larga e che dunque è in grado di completare più rapidamente le operazioni di download. Quando poi i siti di scambio sono specializzati, l’utente deve dare prova della propria affiliazione culturale alla comunità, padroneggiando lo slang del gruppo ed esibendo le proprie competenze sugli argomenti a cui il sito è dedicato, pena lo scherno e l’esclusione dall’interazione. La normazione degli ambienti e delle situazioni di consumo digitali si esprime anche in forme meno eclatanti ma significative, come quando si tenta di ripristinare tempi e modi tradizionali di fruizione. Vedere sullo schermo televisivo un film scaricato dalla rete, magari allestendo il set di visione ‘come’ una sala cinematografica; o ancora usare la televisione digitale satellitare come si faceva con la televisione generalista, adottando una logica per appuntamento e limitando le proprie incursioni entro un range di pochi canali; o anche trascurare le funzioni avanzate delle piattaforme e circoscrivere l’uso ai soli servizi di base sono altrettanti segnali del permanere di un’utenza ‘tradizionale’, che avverte tutto il carico della libertà che i nuovi media concedono e che si sforza di contenere le proprie esperienze entro perimetri noti.
Vi è almeno un terzo profilo di fruitore che lo scenario dei mezzi di comunicazione e le forme che il consumo assume relegano fra le previsioni non (ancora) realizzate. L’intangibilità del testo è l’ultimo dei tabù della comunicazione mediata a cadere sotto gli strali dell’innovazione tecnologica (Klinger 2006). Anche quando in epoca analogica l’evoluzione dei supporti già prevedeva la possibilità di manipolare, per quanto in modo blando, i prodotti mediali, chi ne violava l’integrità era soggetto a reprimende: che si trattasse dell’emittente che interrompeva la trasmissione di un film per mandare in onda annunci pubblicitari o dell’audience che fruiva in modo discontinuo un programma televisivo. La cosiddetta visione monitorata, che prevede un consumo a intermittenza, o ancora di più l’idling, in cui la comunicazione televisiva viene ridotta a rumore di fondo, venivano considerate forme corrotte di visione, per quanto le più comuni. La posta in gioco, si diceva, era la preservazione dell’istanza comunicativa del testo, dissipata da condizioni e da modalità di consumo irrispettose della sua organicità. Al punto che anche l’uso di lettori di VHS o di DVD sollevavano qualche dubbio di legittimità. Nel caso del testo filmico, in particolare, il dibattito denunciava lo stravolgimento delle istanze pragmatiche dell’opera, ovvero del suo peculiare modo di mettersi in relazione con lo spettatore e di coinvolgerlo, a favore di un’esperienza epidermica, fàtica, più simile a quella del telespettatore. Le prospettive aperte dalla digitalizzazione evidentemente rendono anacronistica la crociata in difesa dei testi: perché non vi sono più (o così dovrebbe essere) specificità dei dispositivi comunicativi da preservare, né prototipi di situazione di consumo da emulare e perché l’azione del fruitore sul testo è indizio della sua conoscenza dei supporti e delle loro potenzialità e della sua capacità di personalizzare l’esperienza di consumo. Inoltre, come già si ricordava, le iniziative degli utenti costituiscono una riserva cruciale di risorse creative di cui i media hanno sempre più bisogno. Tuttavia, contro ogni previsione, l’esigenza di preservare il testo si ripresenta oggi con prepotenza. Per un verso, essa è espressione dell’inerzia del sistema, come prova il permanere di norme per la tutela del diritto d’autore evidentemente anacronistiche sia a fronte del diffuso lavoro di appropriazione e di ridiscorsivizzazione dei prodotti mediali condotto dagli utenti (emblematici i già citati movimenti grassroots), sia a fronte della messa in circolazione di opere di cui non si conoscono gli autori o che addirittura sono prodotto di un lavoro collettivo, come avviene con i sistemi open source, software che vengono definiti progressivamente attraverso l’intervento degli utenti. Per un altro verso, il rispetto per l’opera s’impone come condizione insopprimibile della comunicazione. Legittimare gli interventi sul testo, mettere fra parentesi il principio della fedeltà all’originale significa, infatti, pregiudicare l’atto comunicativo stesso. Ancor prima della dissipazione dell’aura dell’opera, cioè del suo fascino, della sua ricchezza semantica ed estetica (problema enunciato già all’inizio del secolo scorso, quando con la comparsa dei nuovi mezzi di comunicazione, che consentivano la riproduzione meccanica, ci s’interrogava sulla possibilità per l’opera d’arte di mantenere intatto il proprio potenziale simbolico) in gioco vi è la conservazione del senso che s’intende comunicare. Senza invocare il principio della fedeltà filologica al testo, è incontrovertibile che un film di cui si taglino le inquadrature per adattarlo al formato televisivo ‘perde’ una parte del proprio patrimonio semantico e, in generale, del proprio valore. Ed è incontrovertibile che un testo di cui si decurtino componenti, fossero anche i titoli di testa e di coda, per alleggerirlo e per renderlo più facilmente ‘trasportabile’ attraverso il web diventa un testo diverso dall’originale, con un proprio portato comunicativo. Inoltre, anche e solo la ‘possibilità’ di modificare il testo si rivela un fatto dirompente per i meccanismi della comunicazione, nella misura in cui rende incerto il suo contenuto, la credibilità di ciò che enuncia e quindi anche il senso complessivo che gli va attribuito. L’esperienza cui vanno incontro gli ‘avventurieri’ di Internet, che fra le pieghe della rete informatica cercano film, brani musicali o anche e solo informazioni, e che si trovano a fare i conti con l’indecidibilità del valore di ciò che hanno reperito, sembra destinata a marcare in un futuro prossimo tutta la comunicazione mediale e a collocarla all’interno di un nuovo orizzonte teleologico, in cui il fine non pare più essere il passaggio di informazioni, bensì l’esperienza complessiva del fruitore, anche a prescindere da quanto comunicato. Il fenomeno del ‘pubblico autore’, per es., e segnatamente i casi sempre più numerosi di produzione collettiva di testi, evidenziano un deciso spostamento del baricentro della comunicazione dal contenuto alla relazione. Nella pratica del pass along, strategia creativa sperimentata nell’ambito del web cinema (etichetta data alle opere ‘cinematografiche’ realizzate in digitale e prodotte e distribuite attraverso il sostegno della rete informatica) e che prevede che il film venga ‘scritto’ dagli spettatori, ciascuno dei quali contribuisce al suo sviluppo aggiungendo parti o, nei frequenti casi di plot seriali, interi episodi, il senso va ricercato, prima che nel risultato, nel sodalizio che si viene a creare fra soggetti che non si conoscono e che sono non di rado distanti sia geograficamente sia culturalmente. Così pure lo scambio di contenuti sulla rete sembra in taluni casi finalizzato più al contatto (con altri utenti, con cui si condivide la passione per un genere o un testo) che all’acquisizione di prodotti. E ancora la generazione di contenuti a opera dei fruitori attesta un desiderio di accesso alla ribalta sociale, inteso in un’accezione debole come ricerca di notorietà, ma anche con un significato più forte di presenza nelle politiche sociali e culturali.
La connotazione iperbolica assunta dal fruitore di media (che la qualifica di iperspettatore ben definisce) non vale dunque solo a denotare la sua capacità di destreggiarsi fra i meandri del nuovo sistema mediale, di padroneggiare i molti supporti che lo costituiscono, maneggiandoli con spregiudicatezza e piegandone le istanze alle proprie esigenze, ma anche, e forse primariamente, a misurare la difficoltà del mandato di dare una nuova forma alla comunicazione mediale. Compito che si può adempiere anche senza aderire ai modelli di performatività estrema preconizzati dalla mitologia digitale, e facendo persino un passo indietro, verso forme di consumo più tradizionali e meno attive. Sempre però nella consapevolezza che le scelte di questa fase sono destinate a lasciare un segno profondo sulle forme che la comunicazione mediale assumerà negli anni a venire (Culture in the communication age, 2001; Silverstone 2007). La posta in gioco è alta: è la possibilità di sostituire alla logica della speculazione quella del dono; al criterio dell’esclusività quello della condivisione; alla prospettiva del ricavo quella del servizio; all’idea dei media come mondi paralleli e alternativi quella di un insieme di strumenti atti a promuovere la vita relazionale e civile. Cogliere questa opportunità significa assicurarsi che la comunicazione mediale si evolva in una direzione autenticamente antropocentrica, rivolta alla promozione della persona e della società.
Bibliografia
J.D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding new media, Cambridge (Mass.) 1999 (trad. it. Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano 2002).
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L. Manovich, The language of new media, Cambridge (Mass.) 2001 (trad. it. Milano 2002).
Culture in the communication age, ed. J. Lull, London-New York 2001.
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B. Klinger, Beyond the multiplex. Cinema, new technologies, and the home, Berkeley (Cal.) 2006.
E. Menduni, I media digitali. Tecnologie, linguaggi, usi sociali, Roma-Bari 2007.
R. Silverstone, Media and morality. On the rise of the mediapolis, Cambridge-Malden (Mass.) 2007.
New media worlds. Challenges for convergence, ed. V. Nightingale, T. Dwyer, Oxford 2007.