Lo sport nel cinema e nella fiction televisiva
"… e ci si è dati allo sport con sacro furore". Queste parole scritte a metà degli anni Venti del secolo scorso dal teorico del cinema Béla Balász (1924; trad. it., p. 201), assieme agli elogi futuristi del film ginnico e dei temi dell'azione, del movimento, del gesto, sono un valido documento per iniziare a definire il problema del rapporto tra cinema e sport. Per Balász il cinema nasce in un punto della storia moderna in cui lo sport ha già cominciato ad annullare quell'oblio del corpo che aveva avuto modo di consolidarsi nel corso dei secoli precedenti, nelle forme di una società basata sul primato della dimensione astratta e verbale a sua volta resa possibile dall'invenzione della stampa. Ma, se tocca al cinema riscattare il patrimonio gestuale di una cultura che lo aveva dimenticato sotto il peso delle parole, è allo sport che spetta un compito di 'apripista' in tale processo. Si avanza per gradi: lo sport può rendere il corpo sano e bello; solo il cinema può donare una nuova eloquenza a tale bellezza. Balász aiuta a descrivere l'incontro tra universo cinematografico e universo sportivo nel segno di una doppia nascita: una nuova cultura del corpo e una nuova cultura dell'immagine; fisicità e sguardo. L'attenzione per il dato visivo e la celebrazione dellcara ai futuristi si intrecciano consegnando l'uomo a una visibilità nuova che si realizza attraverso il cinematografo.
Detto ciò, anche altri sono gli elementi che dal punto di vista dello studio generale della società accomunano i due fenomeni qui considerati. Cinema e sport moderno nascono assieme, anche se due miti possono aver distolto l'attenzione da questa coincidenza: il mito della novità assoluta dei mezzi di comunicazione di massa e il mito decoubertiniano della radice classica dello sport moderno. In realtà sport moderno e cinema hanno entrambi la loro origine in quella società industriale di fine Ottocento che comincia a organizzare consenso intorno ai nuovi ritmi richiesti dai nascenti mezzi produttivi e distributivi (Colombo 1988). Con la lenta dissoluzione del mondo contadino e il progressivo avvento delle macchine nel corso di tutta la prima parte del Novecento, si genera una profonda modificazione del rapporto tra le masse e il tempo libero. Il divertimento di massa è infatti una realtà piuttosto vicina a noi, che comincia ad avere una fisionomia definita nelle fasi più recenti della modernizzazione. La collettività si trova a disposizione un capitale temporale che va in qualche modo investito. Lo svago diventa un fenomeno determinante che viene gestito all'incrocio tra alcune principali istituzioni: narrativa popolare, fumetto, cinema, sport e, di poco posteriore, la radio. Non è un caso se lo sport comincia ad assumere largo peso nella vita sociale con le Olimpiadi del 1896 ad Atene, cioè in pratica contemporaneamente al momento iniziale di diffusione del cinematografo. Infatti le riprese d'attualità giocano un ruolo primario, in questa prima fase di assestamento del linguaggio cinematografico, nel diffondere assieme alla popolarità del nuovo medium anche quella delle varie discipline sportive.
Il cinematografo, inteso come forma spettacolare, ha uno statuto, in relazione alle proprie potenzialità documentarie e riproduttive del reale, ancora assai diverso da quello attuale. Il cinema fa sfoggio della propria vocazione scientifica alla registrazione il più possibile analitica e oggettiva degli eventi e, al contempo, tradisce la propria derivazione da contesti spettacolari in cui il trucco, la messinscena, la ricerca della visione straordinaria sono ancora la reale posta in gioco. Per quanto possa sembrare strano rispetto alle abitudini dello spettatore contemporaneo, il tipo di spettacolo prodotto dalla visione di un modellino di un treno o di un aereo sulla scena di un intrattenimento popolare era in assoluta continuità con lo stupore prodotto dal treno animato nella pellicola dei fratelli Louis e Auguste Lumière, Arrivée d'un train (1895). Ciò che di attuale e prodigioso c'era nella riproduzione del movimento per mezzo del cinematografo si disponeva, almeno a cavallo tra Ottocento e Novecento, in modo omogeneo con gli altri spettacoli di visioni straordinarie disponibili all'epoca, che potevano comprendere teatro di magia, spettacolo d'ombre, panorami e altri intrattenimenti ottici di tipo pre-cinematografico. In questa fase magia e scienza si intrecciano indissolubilmente. Perciò, anche per quanto riguarda la serie di film che portano in scena eventi di tipo sportivo, risulta metodologicamente inappropriato dividere la produzione documentaria dalle 'ricostruzioni' di fiction. Le attualità sportive sono prolungamenti di eventi che già prima di essere ripresi hanno uno statuto spettacolare. Non deve stupire quindi che le prime riprese dal vivo di avvenimenti sportivi abbiano un valore di certificazione che a noi sembra inevitabilmente compromesso con tecniche mistificatorie di manipolazione del reale. Ma ‒ è opportuno sottolinearlo ‒ ciò che a noi oggi sembra scorretto, o anche semplicemente ingenuo, all'epoca era del tutto giustificato.
Le prime tracce di incontro tra cinema e sport portano proprio di fronte a casi di 'attualità ricostruite'. Pare infatti che sia stato un ex combattente della guerra di Secessione americana, Woodville Latham, ad avere per primo l'idea di fissare su pellicola il match tra due pugili dell'epoca, Michael Leonard e Jack Cushing. A Latham, sul finire dell'Ottocento, non viene neppure in mente di riprendere semplicemente un evento sportivo pre-esistente. Egli produce una messinscena pugilistica, in cui i due sportivi, scritturati come attori, sono coinvolti in un atto di rappresentazione, con tanto di interruzioni per consentire le riprese, le quali si svolgono in un teatro di posa newyorchese assai celebre, il Black Mary di Thomas Edison.
Nei primi anni del Novecento comunque Latham non è certo l'unico a intuire che i consumatori di eventi sportivi e i consumatori di visioni cinematografiche possono essere assimilati. A consultare i cataloghi delle società di produzione dell'epoca è tutto uno scritturare atleti non professionisti, troupe acrobatiche, pugili, lottatori greco-romani, che a loro volta vengono affiancati da contorsionisti, cavallerizze, funamboli, tiratori scelti, ma anche da cani-lottatori, donne-cannone, giganti, e vari intrattenitori in continuità con le numerose forme di divertimento spettacolare disponibili alla riproduzione cinematografica: prove circensi, numeri di varietà, music-hall ecc.
Il primo esempio di una più stretta unione tra divismo sportivo e mondo dello spettacolo è con buone probabilità rappresentato dal caso di James J. Corbett. È ancora Latham che, soddisfatto degli esiti economici dei primi esperimenti, tenta di sfruttare in modo più sistematico la popolarità di atleti professionisti, immortalando le loro gesta in brevi riprese destinate a essere fruite attraverso le incerte immagini dei nickel-odeon (le sale cinematografiche americane del primo Novecento, così chiamate perché il biglietto d'ingresso costava un nickel, 5 cents). Nessuno sembra più adatto di Corbett. Questi è stato infatti, ai suoi tempi, lo sportivo più famoso degli Stati Uniti; ex impiegato di banca, divenuto campione mondiale dei pesi medio-massimi e dei massimi nel 1892, rimane imbattuto dal 1894 al 1897; viene unanimemente ammirato per la sua correttezza agonistica e per l'eleganza nel gesto, ed è inoltre il primo a introdurre l'uso dei guantoni. Latham lo mette a contratto per una serie di incontri di sei round ciascuno da disputarsi solo a scopo di ripresa cinematografica. Siamo in una fase in cui il divismo comunemente inteso non ha ancora visto la luce. Eppure il tentativo di Latham testimonia di un fenomeno proto-divistico: lo sportivo di fama che si fa attore, lo sportivo-divo. Da quest'ultimo al suo opposto, il divo-sportivo, il passo è breve.
Il cinema dei 'forzuti' deriva la propria iconografia dalle forme di intrattenimento popolare citate sopra (spettacoli circensi, illustrazione ecc.) e si impone dagli anni Dieci del Novecento alla fine del decennio successivo come un fenomeno principalmente italiano. È attraverso questo tipo di narrazione 'muscolare' che si afferma il modello socio-iconografico del 'corpo atletico'. Qui lo sport ha un ruolo non primario ma determinante. I forzuti sono uomini potentissimi, imbattibili che perseguitano i malvagi e annientano i nemici in virtù di una forza fisica a cui tutto deve soccombere, che si sprigiona e manifesta da corpi in grado di compiere azioni e gesti tipicamente sportivi. Il più celebre di essi è senz'altro il Maciste che compare per la prima volta in Cabiria di Giovanni Pastrone, nel 1914. Il nome è di derivazione dannunziana (un antico soprannome di Ercole) e ha bisogno di essere incarnato nel corpo di un semidio. Sarà quello di Bartolomeo Pagano, trentacinquenne ex scaricatore del porto di Genova, che nel giro di pochi anni vedrà moltiplicarsi oltre alla popolarità anche i guadagni. Dal 1914 al 1928 Maciste spopola in una serie di film atletico-acrobatici che prevedono svariati ruoli: Pagano sarà imperatore, sceicco, alpino, poliziotto, medium, bersagliere; non manca alla serie anche un Maciste atleta, interpretato nel 1917 a Torino. Cambiano i ruoli ma il personaggio sottostante non varia: il gigante buono dalle chiarissime virtù atletiche e morali e dal sorriso inscalfibile. Il successo del modello in Italia e anche all'estero porta con sé un gruppo di epigoni. Mario Guaita, uno studente universitario di oltre 2 m d'altezza e più di 100 kg di peso con una passione per le palestre e gli esercizi di abilità, interpreta Caesar in L'ombra del buon forzato (1919). Alfredo Boccolini è protagonista nella serie di Galaor (Galaor, 1918; Le ultime avventure di Galaor, 1920; Galaor contro Galaor, 1924), ma risulta anche presente in produzioni internazionali. Il bolognese Carlo Aldini si cimenta invece nel ruolo di Ajax in Il gladiatore di Tracia (1913). Aldini, già apprezzato campione di lotta e di salto, sulla scorta del successo cinematografico, concluderà la propria carriera come produttore dopo essere emigrato a Berlino. In Il gladiatore di Tracia debutta anche un altro emiliano, Luciano Albertini, ginnasta della società Virus, diplomatosi alla prestigiosa École Pechin, esecutore della celeberrima 'spirale della morte' (che esegue al circo Busch di Berlino e che riprende anche in un film tedesco, nel 1916). Egli porta avanti una serie basata sulla presenza del medesimo eroe: Sansonia (1917), Il regno di Sansonia (1918), Sansone e i relitti umani (1920), Sansone e la ladra di atleti (1923) in cui compare anche Costante Girardengo.
Si tratta nel complesso di un insieme di storie che tradiscono un'attrazione per i numeri spettacolari e le ascendenze dannunziane o superomistiche piuttosto che uno spirito di reale interesse nei confronti dei valori genuinamente sportivi. Lo dimostra il fatto che l'unico sportivo di fama dell'epoca ha vissuto con il cinema un successo del tutto effimero rispetto alla notorietà in campo agonistico. Ci riferiamo al triestino Giovanni Raicevich, campione mondiale di lotta greco-romana dal 1907 al 1930, ritiratosi imbattuto, esordiente sullo schermo con il successo di Il re della forza (1920) e destinato al fallimento commerciale nel giro di quattro anni.
Nel nome del culturismo vive sullo schermo un altro personaggio di derivazione letteraria, Tarzan. Creato dallo scrittore Edgar Rice Burroughs nel 1912, viene interpretato da vari attori tra i quali il più celebre rimane il nuotatore Johnny Weissmüller che, dopo essere stato cinque volte campione olimpionico e aver raggiunto una cinquantina di record mondiali, ricopre il ruolo per la prima volta in Tarzan l'uomo scimmia (1932). A questo film seguiranno altri dieci episodi che hanno sempre al centro il corpo atletico dell'attore-sportivo.
Non del mito del ritorno alla natura si parla invece nel magniloquente Olympia (1938) di Leni Riefenstahl. Qui l'iconografia del corpo atletico trova sistematica (e ideologicamente compromessa) realizzazione sul piano del documentario delle Olimpiadi berlinesi del 1936. In realtà si tratta anche di opera di propaganda che l'eccellenza tecnica ed espressiva ha promosso al grado di classico. Il kitsch (presente già dall'incipit in cui si assiste a un'animazione del Discobolo di Mirone che si trasforma in un atleta in carne e ossa) si mescola alla celebrazione della bellezza fisica intesa come prodotto di un confronto tra natura e artificio, come lavoro sul corpo educato armoniosamente allo sport. La fascinazione per questo corpo scolpito dall'attività agonistica è assoluta. La regista ha voluto affrontare le immense insidie tecnico-logistiche senza lasciarsi intimidire dalle difficoltà. Al Comitato olimpico che vieta alla troupe l'accesso ad alcune finali e che ostacola in parte le interferenze tra atleti e operatori, la Riefenstahl risponde con la resa fotogenica di sport tutt'altro che fotogenici in natura (ciclismo, calcio, canottaggio), mediante l'impiego di risorse da vero kolossal, di espedienti tecnici di prim'ordine: duecento ore di girato, quarantacinque cameramen, effetti speciali, palloni aerostatici, trincee scavate al fianco degli atleti, zattere, macchine da presa legate sul petto dei corridori e dei cavalli, riprese multiple, montaggio formale. Il tutto al servizio di un racconto che da un lato ricostruisce, documenta certe competizioni (la maratona del nipponico Son, le imprese dell'americano Jesse Owens), dall'altro celebra la forza, la competitività, il mito della forma e della bellezza come varianti di una valorizzazione germanica del mondo.
Nulla può apparire più lontano dalla glorificazione del fisico del divo o dell'azione atletica del tipo di gesto portato in scena dalla comicità cinematografica. Il corpo comico si oppone in tutto al corpo atletico e storicamente ne precede l'affermazione. Fin quasi dalle sue origini questa comicità ha le caratteristiche primordiali della perdita di controllo sulle azioni, dell'inciampo fisico, dell'incidente motorio. La quotidianità veicolata dal comico coincide con una vita ordinaria stravolta non verso l'alto dal gesto potente e risolutore, come capita con il divo muscolare, ma verso il basso dal mancato coordinamento tra i movimenti fisici e la realtà circostante.
La società cambia velocemente. Anzi, la velocità stessa diventa una componente essenziale del cambiamento. Gli abitanti dei grandi centri urbani vanno incontro a una modificazione rapida e progressiva dei propri tempi di reazione agli stimoli offerti dalla rutilante realtà esterna e lo shock percettivo ‒ di cui parla Walter Benjamin nel celebre saggio sull''opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica' (1936) ‒ viene presto sostituito da forme di confidenza con spostamenti in bicicletta, automobile, treno ecc. Le masse guardano con ammirazione alle imprese degli aviatori e si inseriscono sempre meno passivamente nel mondo dell'attività sportiva. Per l'attore comico lo sport si configura quindi come un aspetto specifico di un fenomeno generale riguardante l'aumento del dinamismo fisico nella società di massa. La gag sportiva si basa quasi sempre sullo scarto che intercorre tra il desiderio del performer di adeguarsi agli standard tecnici di esecuzione richiesti dalla disciplina e la sua reale competenza in materia. L'intenzione del personaggio viene smentita clamorosamente dal principio di realtà veicolato dall'oggettività della cinepresa che registra la degenerazione dell'azione in infortunio. Il corpo comico è un corpo residuale, che non basta mai a sé stesso, che 'manca' l'azione; è in eccesso, troppo grasso o troppo magro. L'abilità atletica non è assente quanto semplicemente dissimulata. Non a caso il genere comico-acrobatico si afferma con personalità di provenienza teatrale e circense: André Deed (conosciuto come Cretinetti), Larry Semon (Ridolini), Max Linder, Robinet, Buster Keaton e Charlie Chaplin. È proprio Semon il comico in cui forse si osserva meglio l'abilità acrobatica accostata a una volontà di stupire attraverso il gesto spericolato. In Sports and splashes (1917) e The sportsman (1920) sono ben evidenti alcune caratteristiche: gusto per l'inseguimento iperbolico, attrazione per la velocità, effetti funambolici che potevano arrivare a coinvolgere nell'azione più di una controfigura. Linder per certi versi invece viene considerato un precursore di Chaplin. Egli è tra i primi ad aver tematizzato la gag sportiva fin dall'esordio (Les débuts d'un patineur, 1907, in cui sono messe in scena le difficoltà di un pattinatore dilettante) per poi continuare in un personale attraversamento di varie discipline con Champion de boxe (1910), Max fait du ski (1910), Jockey pour amour (1912), attraversamento idealmente concluso con quella vera e propria antologia agonistica rappresentata da Max pratique tous les sports (1913). Anche Chaplin visita il genere sportivo dimostrando una confidenza eclettica verso varie discipline, con una netta predilezione per boxe e pattinaggio ben testimoniata da The knockout (1913), Charlot boxeur (1915) e l'esaltante segmento pugilistico di Luci della città (1931); nonché dalle scorribande sui pattini immortalate a vent'anni di distanza l'una dall'altra in Accidenti alle rotelle (1916) e Tempi moderni (1936). Come ha rilevato Jan Mukarovsky (1966; trad. it., pp. 342-49), la comicità del corpo chapliniano trova peculiare efficacia nella scissione tra il gesto-comunicazione (nel nostro caso, il gesto sottomesso al codice gestuale della disciplina sportiva coinvolta) e il gesto-espressione (attraverso il quale si manifesta in modo disordinato la soggettività del personaggio).
Questo tipo di scissione è meno osservabile in un altro sperimentatore comico dell'atletismo come Harold Lloyd, il quale, in Io e la palla (1925), celebra l'ascesa alla vittoria di un giocatore di rugby su cui neppure l'allenatore avrebbe mai scommesso un centesimo. In questo caso il protagonista è lo studente-eroe che, facendo leva solo su qualità come l'impegno, la determinazione e il coraggio, sa portare la propria squadra a un risultato inaspettato. Scappa invece da un campo di rugby Buster Keaton in My wife's relations (1922), e la cosa non deve stupire in quanto l'attore mette in scena un personaggio che è la parodia vivente della sportività del ragazzo americano. Keaton appare indifeso, disarmato; propone un corpo scarno che però, con improvviso scatto, dà prova di prontezza e insospettabile atletismo in Se perdo la pazienza (1926, in cui deve improvvisarsi campione dei pesi leggeri) e Ti voglio così (1927, in cui attraversa varie competizioni come baseball, crew, corsa). In Il cameraman il corpo dell'attore letteralmente precipita ai bordi del campo di baseball sotto lo sguardo del custode e in tale caduta si ha "la perfetta immagine plastica di questa dimensione del corpo grottesco come residuo, come precipitato" (Costa 2002, p. 356).
Proseguendo negli anni, altre sono le prove di legami non sporadici tra sport e comicità. Jacques Tati era un valido calciatore, ottimo pugile dilettante, praticava il rugby e l'equitazione. Tali passioni si riversano ancor prima che sullo schermo in vari numeri di pantomima ispirati agli ambienti delle palestre e dei circoli sportivi poi eseguiti sui palcoscenici dei music-hall, al Ritz e al Tabarin. Dopo la prima fase di avvicinamento al cinema, che produce tra le altre cose un incontro con la boxe in Soigne ton gauche (1936), i film più celebri rimangono Giorno di festa (1949) e Le vacanze del signor Hulot (1953). Nel primo Tati fa un uso spericolato della bicicletta, mentre nel secondo trionfa in un torneo di tennis grazie a un indimenticabile servizio in tre tempi.
Anche Jerry Lewis incontra lo sport in Quel fenomeno di mio figlio (1951), in cui ha il ruolo del figlio ventenne di un celebre giocatore di rugby che non riuscirebbe mai a eguagliare le gesta del padre se non ci fosse l'amico, interpretato da Dean Martin, a incoraggiarlo e sostenerlo. In Occhio alla palla (1953) interpreta la parte di un giocatore di golf che soffre di attacchi di panico in presenza del pubblico (situazione che si incontra spesso riguardo a questo sport). Con Lewis il tema della società incomprensibile e incontrollabile trova nello sport un luogo di dimostrazione esemplare (e al contempo di rivisitazione del repertorio slapstick, genere di comicità basato sulla gesticolazione esagerata, sulla mimica, su situazioni inverosimili), come avviene nell'impeccabile sequenza in palestra di The nutty professor (1963; Le folli notti del dottor Jerryll).
In Italia invece l'episodio sportivo, malgrado la curiosità sociale sempre crescente verso la vita privata di divi-calciatori o ciclisti e l'interesse generalizzato per lo spettacolo dello sport, non ha aiutato i vari comici a definire meglio le rispettive personalità espressive. Non si può dire che Totò al Giro d'Italia (1949) e Gambe d'oro (1958) aggiungano qualcosa al patrimonio comico di Totò. E lo stesso discorso vale per Alberto Sordi con Mamma mia, che impressione! (1953) e Il presidente del Borgo-rosso Football Club (1970), come pure per Lando Buzzanca con L'arbitro (1974) e la coppia Vianello-Tognazzi con Le olimpiadi dei mariti (1960).
Il cinema non si è limitato a consentire allo sport di attraversare e definire i suoi generi e la sua iconografia; ha anche compiuto il percorso inverso adattando le proprie storie e i propri mezzi espressivi ai vari generi sportivi. Si può cominciare tale percorso dallo sport che tradizionalmente ha intrattenuto un rapporto privilegiato con il cinema: la boxe. Sono numerosi gli attori che prima di calcare i set hanno avuto a che fare con il ring, da Errol Flynn a Lino Ventura, da Victor Mc Laglen a Mickey Rourke. E ancora più numerosi i boxeur professionisti imprestati al cinema. Solo per ricordare i principali, Georges Carpentier, Enzo Fiermonte, Primo Carnera, Joe Walcott, Nino Benvenuti, Max Bear, Tony Talento, Tiberio Mitri, Ray 'Sugar' Robinson, Carlos Monzon, Archie Moore, Cassius Clay. L'interesse è stato del resto ampiamente ricambiato. Al mondo della boxe si sono accostati, con risultati spesso pregevoli, molti registi di fama come Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Rouben Mamoulian, King Vidor, Robert Wise, Mark Robson, John Huston, Martin Scorsese, Luchino Visconti, Michael Mann. A cosa si deve questa fitta rete di scambi? Qualcuno ha voluto porre l'attenzione sull'analogia che lega il set al ring: entrambi spazi separati dalla vita quotidiana, entrambi luoghi disposti sotto le luci dei riflettori, in grado di attivare forme di voyeurismo diffuso, entrambi luoghi assediati da fan e fotografi. La boxe, dal punto di vista strettamente figurativo, ha un'iconografia di facile lettura. L'azione è limitata a una zona controllabile dalla macchina da presa e la dinamica dell'azione si presta a essere scomposta dal taglio o découpage delle inquadrature. Ciò non spiega ancora perché i film sulla boxe superino in numero, e di grande misura, i film dedicati a qualsiasi altra disciplina sportiva. C'è però un dato da rilevare: il terreno d'elezione del film di boxeur è il cinema americano, e questo elemento può aiutare a spiegare molte cose. Il cinema americano classico ha bisogno di narrazioni forti, di storie perfettamente delineate dal punto di vista drammatico. Il mondo della boxe risulta un serbatoio inesauribile per ambientare tale genere di storie. Il pugilato si basa su uno schema drammatico manicheo incentrato sull'azione: due uomini messi uno contro l'altro che devono lottare per vincere. Si tratta senz'altro di un grosso vantaggio rispetto ad altre discipline sportive. La boxe è intrinsecamente feconda di spunti drammatici e implicazioni tematiche. Al centro pone la figura di un eroe che è destinato a emergere tra mille difficoltà o a cadere per una serie di scelte sbagliate. Il film di boxe, boxe movie, è il campo prediletto per ambientare alcune costanti della specificità americana: spinta all'ascesa sociale del singolo, necessità di emergere da un contesto che di solito è quello del ghetto, abitudine alla violenza e necessità di 'incanalarla' in percorsi non dannosi per sé e la comunità (tensione tra violenza cieca e violenza legalizzata). Il pugilato è un dramma che viene recitato nel rispetto di regole severe. Come avviene nel western, in cui un ruolo centrale è ricoperto dal momento della sparatoria, così anche nel film di boxe i personaggi sono ben orientati a uno scopo: raggiungere il ring e vincere. Verso il match si dispongono tutte le psicologie, le emozioni, gli interessi coinvolti nel plot, nell'intreccio narrativo. Anche la gerarchia degli attori in campo è ben definita. Intorno al protagonista è organizzato un microcosmo con figure e situazioni fisse: la fiducia degli allenatori, i manager più o meno onesti, più o meno corrotti, gli scommettitori, la malavita, le apprensioni delle madri e delle mogli, le brame delle dark ladies ("donne tenebrose"), le delusioni e le aspirazioni dei fan. Al centro però, come abbiamo detto, c'è il boxeur. Si tratta per la maggior parte dei casi di un individuo istintivo, che non si rassegna a ripercorrere la squallida esistenza di chi gli è vicino o lo ha preceduto: il rapporto tra padre e figlio è per es. determinante nell'intreccio di Il campione (1931) di King Vidor. Ottenuto il successo, il pugile comincia a puntare troppo in alto e viene sconfitto nelle sue aspirazione spesso a causa degli stessi individui che lo hanno portato al successo. Lo schema rise and fall, dell'ascesa e della decadenza, non è del resto l'unico tratto che unisce il film di boxe al noir e al gangster movie, con i quali ha spesso in comune ambientazioni, luci, contrasti e spinte centripete. I film di pugili prendono di frequente il via in contesti urbani, in qualche periferia o comunità di emigrati. Il protagonista lotta anche per emanciparsi da questo ambiente, che però lo sovrasta e lo richiama a sé: a tale proposito è esemplare la figura di Rocky in Lassù qualcuno mi ama (1957) di Robert Wise, figura che si trova sperduta nella luce accecante en plein air della periferia di Chicago e torna nottetempo ai chiaroscuri, ai contrasti tra luce e tenebra, dell'East Side di New York.
La struttura del film sui pugili emerge nella sua forma più canonica in L'idolo delle donne di William Van Dyke, in cui recita anche il campione dei pesi massimi Primo Carnera, e in L'uomo di bronzo (1931) di Michael Curtiz. In quest'ultimo ‒ di cui esistono due rifacimenti, Il circo insanguinato (1941) con Humphrey Bogart, e Pugno proibito (1962), remake in chiave musicale con Elvis Presley ‒ la storia, malgrado l'estremo realismo delle riprese degli incontri, ruota intorno al rapporto tra Kid il pugile protagonista, e i personaggi di contorno: la sorella del manager, il manager Nick Donati (Edward G. Robinson), la sua amante (Bette Davis). Il tema del rapporto tra sport e malavita è presente nella figura ambigua del manager concorrente (Bogart), come presente è il lieto fine con vittoria e matrimonio del pugile 'bravo ragazzo'.
Al periodo del secondo dopoguerra, invece, appartengono i film che cominciano a dare una descrizione disincantata, critica, smitizzante, dell'universo pugilistico. Ne sono protagonisti campioni infelici o perdenti che non riescono mai a raggiungere il successo. A tale sottofilone appartiene Anima e corpo (1947) di Robert Rossen, che racconta la storia di Charlie Davis (interpretato da John Garfield), un ambizioso pugile che per uscire dalla povertà usa la boxe sacrificandole l'amore della fidanzata (riuscirà comunque nel finale a riscattarsi). In Il grande campione (1949) di Mark Robson, Kirk Douglas impersona un pugile che ottiene successo e vittorie rinnegando gli affetti familiari. La vittoria finale giunge quasi per motivi inspiegabili ed è perfettamente inutile. Il film ha la capacità di rivedere certi stereotipi del genere concentrandosi sul rapporto tra i due fratelli e sull'interiorità del protagonista, mediante uno stile estremamente realistico reso ancora più efficace dal montaggio serrato di Harry Gerstad (che guadagna l'Oscar).
Di altissimo livello è pure Stasera ho vinto anch'io (1949) di Robert Wise, il cui protagonista è un perdente di 35 anni che si trova a disputare il match della propria vita per una somma irrilevante. Egli rifiuta di perdere come vorrebbero i gangster che hanno truccato l'incontro e per questo nel finale subisce una punizione terribile. La storia presenta unità di tempo e si concentra soprattutto sull'ambiente degli spogliatoi dove sono osservabili le aspirazioni e le delusioni dei pugili sportivamente mediocri, e sulla figura della moglie del protagonista che vive nel terrore di perdere il marito, professionista di uno sport in cui i sogni di gloria sono stati sostituiti dai lividi, dalla prostrazione del corpo, dalla fatica e dalla disillusione.
Al filone dei pugili perdenti appartiene a pieno titolo anche Città amara (1972) di John Huston. Nel più documentaristico dei propri film di fiction, il regista disegna i contorni di un ambiente popolato di piccoli boxeur che arrotondano i magri guadagni facendo la raccolta dei pomodori, che desiderano solo abbandonare un mondo di perdenti costretti ad accettare incontri truccati per qualche dollaro, e che incarnano l'altra faccia, desolata e nascosta, dell'America benestante.
Proprio negli anni Settanta prende piede però un filone che si contrappone alla ricostruzione quasi da cronaca neorealista dei perdenti; è un filone nostalgico che rivisita il mito originario della boxe come riscatto e passaggio dall'ombra alla luce delle ribalte. Di tale corrente bisogna ricordare almeno tre titoli. Con Ma che sei tutta matta? (1979) di Howard Zieff, in cui Ryan O'Neal fa la parte di un pugile 'proprietà' di una giovane donna d'affari (Barbra Streisand), abbiamo un tentativo non perfettamente riuscito di recuperare i toni della commedia sofisticata adattandoli ai battibecchi tra i due protagonisti. In Il boxeur e la ballerina (1979) di Stanley Donen, un episodio sembra raccogliere tutti gli stereotipi del genere stemperandoli in modi affettuosi e positivi: in scena troviamo un ragazzo povero che si divide tra studi legali e ring nella necessità di guadagnare il denaro indispensabile a far operare la sorella malata; il giovane riuscirà a vincere sul ring e ad avere la sua vittoria in sede legale facendo condannare l'organizzatore degli incontri. Vero e proprio fenomeno di costume è diventata anche la serie dedicata a Rocky Balboa, per la prima volta approdata sullo schermo in Rocky (1976) di John G. Avildsen. Qui, come nei tre successivi, siamo alla restaurazione di tutti i valori positivi del genere: Rocky, interpretato da un Sylvester Stallone destinato alla gloria, è un uomo della strada, non brillante per doti deduttive, eppure capace di sentimenti veri e genuini. Egli vincerà il titolo dei massimi grazie alla forza di volontà e all'amore di una ragazza. Rocky rappresenta in qualche modo la rivincita degli esclusi, il potere consolatorio della parabola dell'uomo che si fa da solo, capace di violenza ma bisognoso di affetto, elementi che gli hanno guadagnato la simpatia di migliaia di emigrati italo-americani, di portoricani, di rifugiati sudamericani e di altri soggetti vittime di una cattiva integrazione.
Tra una visione positiva dell'universo sportivo e un atteggiamento più realistico e documentario oscillano anche la maggior parte delle biografie di pugili che hanno contribuito a nutrire il genere. Una delle storie più significative è senz'altro Il sentiero della gloria (1942), dedicato alla vita di James J. Corbett. La regia, attentissima alla ricostruzione d'epoca, è di Raoul Walsh e la parte del pugile spetta a Errol Flynn, il quale interpreta con rigore la parte del pugile-intellettuale amante di Shakespeare, che alterna la vittoria di stile contro la forza bruta di John Sullivan a episodi legati alla vita sentimentale (sposerà la figlia di un senatore), sullo sfondo di una giovane America intrisa di ottimismo.
Sulla biografia del perdente è imperniato Il gigante di Boston (1945) di Frank Tuttle. La parte di Sullivan (imbattuto per il titolo dei massimi per dieci anni prima di essere sconfitto da Corbet) è affidata a Grey McClure, ma la regia, alla descrizione del percorso agonistico del pugile, preferisce le annotazioni di costume riguardanti le sue numerose intemperanze e la passione per la bottiglia. In Per salire più in basso (1970) invece Martin Ritt porta in scena la vita di John 'Jack' Johnson, il primo pugile di colore ad aver vinto un titolo mondiale, a Sydney nel 1908. Il già citato Lassù qualcuno mi ama di Wise è tratto dall'autobiografia di Rocky Graziano, campione mondiale dei medi nel 1946. Il ruolo del pugile è interpretato da Paul Newman il quale, in perfetto stile Actor's Studio, si immerge completamente nel mondo del campione, mimandone gli scatti nervosi, i gesti di impazienza, la parlata italo-americana. La ricostruzione, immersa in una splendida luce dagli effetti espressionisti, insiste sul valore della boxe come palestra di vita e convertitore in energia positiva della violenza individuale. È solo grazie alla potenza del proprio destro che Graziano non finisce ucciso o in carcere per atti criminali, come accade a tutti i suoi amici di infanzia. Solo il pugilato libera dall'odio. La messinscena dei momenti che precedono l'incontro per il titolo si alterna ai nuovi problemi del campione con la malavita e alle parti di sapore melodrammatico che descrivono il rapporto tra il pugile, il padre boxeur fallito e le figure forti e positive della moglie e della madre.
Altrettanto efficace è Toro scatenato (1980) che riguarda le gesta irruente di Jack La Motta, professionista dai primi anni Quaranta e per tutto il decennio al vertice della categoria dei pesi medi. In questo caso Martin Scorsese utilizza un mimetico Robert De Niro per approntare la consueta iperbolica anatomia della violenza, delle pulsioni autodistruttive e della comunità italo-americana da cui proviene il protagonista.
Va ricordato anche che Cassius Clay-Muhammad Alì è stato al centro di numerosi audiovisivi biograficocelebrativi, alcuni dei quali lo hanno visto anche nella veste di attore di sé stesso. Si va dal documentario antologico A.k.a. Cassius Clay (1970) di Jim Jacobs a Muhammad Alì il più grande (1974), semidocumentario firmato da William Klein, al film di finzione Io sono il più grande (1977) di Tom Gries in cui Alì fa Alì. L'opera di Klein è probabilmente la meglio riuscita sul piano del ritratto di un boxeur che alterna impegno politico a momenti di sbruffoneria provocatoria. La narrazione, intervallata da brani di interviste a Malcolm X, Sonny Liston, Joe Louis, comprende i dieci anni che vanno dal match con Liston (nel 1964) all'incontro con George Foreman a Kinshasa. Sorvola invece sulla precisione storica Alì (2001) di Michael Mann nel tentativo, solo in parte riuscito, di riassorbire la cronaca di una vita in un processo di messinscena improntato a uno psicologismo che si concentra sull'interiorizzazione di ogni conflitto da parte del protagonista.
Bisogna però citare altre discipline tipicamente americane. Anzitutto il golf, sport che, malgrado la notevole popolarità nazionale, non ha trovato sullo schermo un efficace luogo di trasposizione. I campi sembrano luoghi adatti a ospitare un tipo di competitività incentrata sul piano del rapporto tra il giocatore e la sua meta (la buca). Molto spesso al confronto con la sfida del tiro perfetto si affiancano elementi spettacolari estranei al genere sportivo e più che altro derivati dal territorio della commedia. È ciò che accade in due film che declinano la parabola sportiva seguendo i medesimi spunti: Lui e lei (1952) di George Cukor, in cui Katharine Hepburn, che gioca meravigliosamente a golf ma non riesce a fare neppure una buca se qualcuno la guarda, viene aiutata da un burbero Spencer Tracy; e Tin cup (1996) di Ron Shelton (un vero specialista del film sportivo), dove Kevin Coster, tra toni da sophisticated comedy, deve accettare lezioni di fiducia in sé stesso da una allieva-psicologa per poter diventare il campione che potenzialmente è.
Va poco meglio sul terreno del cinema per il basket. Con il passare degli anni, il playground o campo di gioco è diventato sempre più dominio della televisione. Il senso della diretta, della ripresa televisiva dal vivo ha avuto un valore assai condizionante per il cinema. La pallacanestro è spesso associata alla realtà sociale che più le è vicina, quella del campus universitario. I problemi del basket cinematografico emergono bene in titoli come In punta di piedi (1960) di Joshua Logan o 40.000 dollari per non morire (1974) di Karel Reisz; ma anche in produzioni più recenti in cui lo sport è molto presente a livello quantitativo e sebbene non rappresenti affatto il fulcro della narrazione. È ciò che accade in He got game (1998) di Spike Lee, in cui, pur comparendo giocatori come Michael Jordan e Shaquille O'Neal, l'attenzione è spostata sul rapporto padre-figlio in un contesto di redenzione dai toni religiosi; e in O come Otello (2001) di Timothy Blake, tentativo non scorretto ma poco convincente di adattare all'agonismo sportivo la tragedia shakespeariana.
Il baseball si afferma molto rapidamente dalla fine della Guerra di Secessione (1861-65). Il cinema ne registra la notorietà attraverso opere che presentano situazioni dedicate a tale sport pur restando fuori dal genere sportivo, o con contributi espressamente centrati su singoli protagonisti. Appartengono al primo gruppo Facciamo il tifo insieme (1948) di Busby Berkeley, con Frank Sinatra e Gene Kelly, in cui balli, canzoni e incontri si alternano con i ritmi della commedia musicale, e Che botte se incontri gli orsi! (1977) di Michael Ritchie con Walter Matthau e Tatum O'Neal. Appartengono al secondo gruppo due film diretti da Sam Wood: L'idolo delle folle (1942), dove Gary Cooper impersona Lou Gehring, giocatore morto prima della Seconda guerra mondiale, dopo sedici anni di onorata carriera; Il ritorno del campione (1949) in cui si narra la storia di un campione che, allontanato dai campi per la perdita di una gamba, grazie alla sua forza di volontà torna a giocare con un arto artificiale. Intorno al tema del ritiro forzato per ragioni di salute si sviluppa anche Batte il tamburo lentamente (1973) di John Hancoch, con De Niro. In questo caso al centro della storia sono due giocatori legati da un'amicizia virile che si consolida quando uno dei due si ammala. Senza calcare la mano sui toni melodrammatici, la regia riesce a restituire il clima di sconfitta in cui si svolge la trama con i problemi di rendimento e di reingaggio, di esclusione cui va incontro uno dei protagonisti.
Ancora un padre che vuole imporre i propri sogni frustrati a un figlio di talento è lo spunto drammatico al centro di Prigioniero della paura (1957), film d'esordio di un ventenne, Robert Mulligan. Il baseball ha inoltre consentito di sviluppare una contrapposizione drammatica tra la figura del battitore e quella del lanciatore. La resa cinematografica di questo conflitto ha trovato nell'alternanza del campo/controcampo su tutta la scala dei piani un naturale ed efficace strumento di trasposizione. In questo modo l'agonismo dello sport ha assunto spesso i caratteri di una sfida a due. Il cinema ha scelto di raccontare alternativamente storie di lanciatori e storie di battitori. A quest'ultima categoria appartiene Il migliore (1984) di Barry Levinson, in cui un talento (Robert Redford) che ha abbandonato per infortunio il campo di gioco si ritrova a gareggiare all'età di 35 anni dando così corpo alla più classica delle metafore sportive: lo sport come insegnamento morale e metafora della necessità della speranza nella vita. Figure di lanciatori sono coinvolte invece nella trama di Gioco d'amore (1999) di Sam Raimi, in cui il regista rinuncia alla deformazione fantastica della materia narrata presente nei suoi film precedenti, concedendosi solo alcuni notevoli effetti nella resa sonora del lancio della palla.
Il virtuosismo tecnico di ripresa trova anche nel football americano un terreno di elezione. In Quella sporca ultima meta (1974) Robert Aldrich porta in scena una commistione tra due dei generi più definiti del cinema americano: il film sportivo e il film carcerario. Un ex giocatore finito in carcere per la sua natura violenta si trova impegnato in una partita di football tra prigionieri e secondini. L'ultimo match è al contempo un'occasione di riscatto e di esercizio del sadismo delle guardie. La partita è messa in scena senza risparmio di elementi stilistici in grado di esaltare la spettacolarità e la violenza dell'azione (divisione interna dello schermo, ralenti, montaggio sincopato). Molto più spensierato è il remake di L'inafferrabile signor Jordan (1941) di Alexander Hall, cioè Il paradiso può attendere (1978) di Warren Beatty e Buck Henry in cui il quarterback, il giocatore che conduce l'offensiva, dei Rams di Los Angeles viene spedito in cielo, vivo tra i morti. Il giovane vivrà una seconda vita evitando un disastro ecologico e alla fine porterà la propria squadra a vincere il Super Bowl. Ironico nei confronti del professionismo sportivo è Un gioco da duri (1977) di Michael Ritchie, in cui si intrecciano la satira del mito dell'invincibilità agonistica e la descrizione di una competitività immatura. Il rapporto tra sportività, rito di passaggio all'età adulta e crisi dei valori adolescenziali è messo in scena, in una fusione edificante (frequente nel caso del football come del basket) tra campus movie e film sportivo, in The program (1993) di David S. Ward. Del tutto dedicato alla violenza in campo, all'estetica dell'urto dei corpi è il recente Ogni maledetta domenica (1999) di Oliver Stone, dove l'elemento del trauma fisico, della brutalità del gioco trova una poco realistica iperbole nella sequenza in cui a uno dei giocatori schizza un occhio fuori dall'orbita.
Anche al rugby spetta nella storia novecentesca dello sport moderno un percorso di affermazione rispetto a quando Edoardo VIII d'Inghilterra lo aveva posto accanto ai reati comuni. Non pochi sono i film che prendono spunto da (o sono dedicati a) incontri di rugby. Tra questi si ricordano: L'atleta innamorato (1927) di Willard Webb, La grande sfida (1929) di John Ford, Partita d'amore (1932) di Sam Wood, l'italiano Stadio (1934) di Romolo Marcellini, Non per soldi…ma per denaro (1966) di Billy Wilder, Io sono un campione (1963) di Lindsay Anderson.
Il cinema ha un legame anche con gli sport acquatici. Tralasciando il successo che lo schermo ha tributato a nuotatori professionisti come il già citato Johnny Weissmüller e Buster Crabbe (quest'ultimo protagonista di alcuni serial dedicati alle gesta di super-eroi come Flash Gordon, 1936, Red Burry, 1938, Buck Rogers, 1939), si deve però ricordare Esther Williams, non certo attrice dalle grandi doti drammatiche, eppure personaggio di indubbia avvenenza fisica, protagonista assoluta nel sottogenere musicale coreografico. La Williams si esibisce all'interno di coreografie acquatiche, in numeri acrobatici dal grande effetto spettacolare per quasi vent'anni in pellicole come Bellezze al bagno (1944), La ninfa degli antipodi (1952), Annibale e la vestale (1954), Ziegfeld Follies (1946) di Vincente Minnelli.
Scoperto dal grande pubblico negli anni Sessanta, il surf, nel corso di tutto il decennio, compare come strumento inseparabile per dare sfogo alla voglia di emergere di una gioventù già inquieta ma non ancora ribelle, in tutta una serie non proprio indimenticabile di commedie da spiaggia. Da I cavalloni (1959) a L'onda lunga (1967) passa quasi un decennio in cui è collocabile uno dei capostipiti del film documentario sul surf: The endless summer (1966) interamente realizzato, tra California, Sudafrica, Hawai, da Bruce Brown; girato con una camera a mano posta sulla tavola o in immersione nell'acqua, mette in scena la ricerca dell'onda perfetta da parte di due surfisti. In chiave nostalgica è girato anche il documentario A personal history of the Australian surf, dove Michael Blakemore rivisita i luoghi della propria giovinezza collegandoli ad altrettanti momenti della propria attività sportiva. Interpretato da due attori ex campioni della disciplina, Un mercoledì da leoni (1978) di John Milius è il risultato migliore della produzione surfistica. Il regista narra il percorso di tre giovani i cui destini poco alla volta si separano e che hanno un momento di rincontro, nel 1974, di fronte alla più grande mareggiata mai vista. Qui i valori della vita e quelli dello sport si contrappongono di continuo gli uni agli altri. Ciò che realmente conta, nell'oblio della realtà esterna alla spiaggia di Dark Point (fuori, di cose ne succedono: la storia è collocata tra il 1962 e il 1974, periodo ricco di avvenimenti politici ma diviso dai ritmi delle 'grandi mareggiate' interne al mondo del surf), è lo scontro tra il coraggio dell'individuo e gli elementi della natura, in questo caso messi in scena con una sontuosità di mezzi e con un'accuratezza di ripresa difficilmente eguagliate in seguito. Bisogna però ammettere che, a sfidare Milius sul piano della resa figurativa dell'onda, ha giocato alcune delle sue carte migliori Kathryn Bigelow con Point Break - Punto di rottura (1991) dove, sulle onde e attraverso una serie mozzafiato di prove di volo, di inseguimento e di forza, si confrontano un agente dell'FBI e una banda di ragazzi di spiaggia, beach boys ribelli che si autofinanziano rapinando banche.
Le imprese automobilistiche hanno suscitato sin dagli esordi del cinema l'interesse di grandi masse e la conseguente attenzione dello schermo. I mezzi tecnici primitivi erano di difficilissima gestione, non potevano essere trasportati con agilità, e quindi risultavano inadatti al dinamismo dell'avventura automobilistica. Ma la figura del pilota è sempre stata circondata da un alone di successo irresistibile per il cinema. La macchina da presa doveva riuscire a registrare l'azione, la velocità, il continuo rischio d'infortunio. I primi operatori che si avventurano nella ripresa delle auto in corsa sono 'piccoli eroi' che rischiano la vita raddoppiando il pericolo corso dagli sportivi. Arturo Ambrosio fu forse il primo a riprendere, con l'aiuto dell'operatore Roberto Omega, la corsa automobilistica Susa-Moncenisio, ma il più spericolato tra i cronisti fu Luca Comerio, il quale, prima di abbandonare le riprese a seguito di un incidente accadutogli a fianco di Antonio Ascari nel 1920, aveva documentato la prima Targa Florio nel 1907 e il primo Giro d'Italia. Gli operatori che girano brani documentari nel periodo delle origini si moltiplicano in pochi anni. Oggi questi materiali sono in gran parte dispersi o riemergono gradualmente dai depositi delle cineteche. Qualcosa comunque è stato salvato in varie antologie. Il Museo nazionale dell'auto di Beaulieu (Francia) ha iniziato negli anni Settanta una vasta attività di archiviazione. Altre antologie di riferimento sono: History of motor racing promossa dalla Shell nei primi anni Sessanta, I giganti del brivido (1973), Le 24 ore di Les Mans (1971), e le italiane Formula 1. La febbre della velocità (1978), Pole position (1980), entrambe prodotte da Alessandro Fracassi. Nel campo del cinema di finzione alcuni film non si discostano molto dall'anonimato e vanno ricordati solo per ragioni tematiche: Corsa infernale (1953), I diavoli del Gran Prix (1963), Il diavolo del volante (1973). Invece Linea Rossa 7000 (1965) ha maggiori meriti, se non altro per il fatto che la regia è affidata a un veterano glorioso, esperto di aviazione e automobilismo, come Howard Hawks. Dalle pagine di un buon romanzo sull'automobilismo di Hans Ruesch (Il numero uno) è tratto Destino sull'asfalto (1955) di Henry H. Hathaway, con Kirk Douglas nei panni di un pilota che va alla conquista di un posto tra i vincitori. La storia di un pilota vedovo con un figlio è al centro del patetismo sentimentale (con forti vene di intellettualismo) dispiegato da Claude Lelouch in Un uomo, una donna (1967), il più grande successo commerciale per il regista francese (premiato a Cannes). Alle scorribande di due rallisti è dedicato Grand Prix (1966), film ben diretto da John Frankenheimer. In chiave ironico-demenziale è messa in scena la Cannonball Run da New York a Los Angeles in La corsa più pazza d'America e nel suo altrettanto fortunato seguito: due occasioni per allineare una serie di gag in gran parte riferite alla presenza nel cast di guest stars, ospiti illustri tra i quali si intravedono Sammy Davis Jr., Frank Sinatra e Roger Moore.
In Italia, l'attenzione per i raid motociclistici è ben documentata da Romolo Marcellini che dirige La conquista dell'aria (1939) in cui la fiction si alterna all'uso di materiali d'attualità e da Bruno Corbucci, regista di Bolidi sull'asfalto (1970), dove recita Giacomo Agostini (primo titolo mondiale nel 1966). Fa da testimonial a sé stesso e alla propria passione per il motorismo sportivo (già documentata nel finale di La grande fuga, 1963) Steve McQueen in Il rally dei campioni (1971), un documentario sul mondo motociclistico statunitense. Nello stesso anno pure Robert Redford interpreta un pilota di professione in Lo spavaldo, per la regia di Sidney J. Furie. Sono invece affidate a ottime controfigure le gesta acrobatiche su due ruote osservabili in Mission: Impossibile II (2001) di John Woo.
Il cavallo accompagna il cinema americano fin dalle sue origini. Compare nei western dei primi tempi, domina deserti e praterie come nelle cavalcate di Ombre rosse (1939) di John Ford, è il compagno inseparabile di tutti i cavalieri solitari. Nel mondo dell'equitazione sono ambientati racconti che si concentrano solo in parte sull'aspetto agonistico, traendo spunti drammatici da altre situazioni stereotipate. Per es. in molti casi le storie vertono sul rapporto di legame solidale tra uomo e animale, come in Onore di fantino (1931) di Albert S. Rogell e Strettamente confidenziale (1934) di Frank Capra. Nell'ambiente degli allenatori e degli allevatori si svolgono le vicende di La vita che sognava (1952), di William Mieterle, La sua donna (1950), Traguardo (1941). Uno dei pochi esempi incentrati sulla carriera di un puledro è Un angelo per Ribot (1963) di Carlo Capriata. Del tutto irriverenti e di una comicità distruttiva sono invece i fratelli Marx (Chico, Harpo e Groucho) in Un giorno alle corse (1936) di Sam Wood, dove le convenzioni del mondo ippico sono trattate con lo stesso spirito distruttivo che l'umorismo yiddish dei comici riservava a ogni troppo rigido codice sociale.
Il mondo dell'alpinismo e degli sport invernali ha trovato, già dagli esordi del cinema, un valido mezzo di documentazione nel lavoro alla macchina da presa di alcuni coraggiosi rocciatori-operatori. Il film di montagna, Berg Film, in una prima fase, è praticato da sciatori, alpinisti professionisti che fanno anche i registi. Le esigenze primarie sono quelle di produrre un evento sportivo che deve essere documentato. Tra i pionieri delle riprese in alta quota bisogna ricordare Mario Piacenza, il quale, dopo avere scalato più volte il Cervino, ha dato prova di abilità tecniche notevoli nelle riprese (in gran parte disperse) di ascensioni nelle regioni alpine e himalayane. Nei primi quindici anni del secolo anche in Francia si diffonde la moda dei film plein air, ben presto affiancata da una massiccia produzione di intrecci drammatici di ambientazione montana, in realtà del tutto estranei allo spirito sportivo. Tutto l'opposto della lezione offerta dal maestro del film di montagna tedesco, Arnold Fanck. Egli, nel 1919, fonda una casa di produzione di film sportivi in cui la storia di fiction non va mai ad appannare il tema del confronto tra l'uomo e la natura minacciosa. La tragedia di Pizzo Palù (1929) è tratto da un reale fatto di cronaca e si ricorda soprattutto per la fiaccolata finale all'interno del ghiacciaio. Per descrivere il dramma di un uomo isolato in un osservatorio, Fanck si trasferisce sul ghiacciaio di Bussons e affronta enormi rischi per realizzare le riprese che confluiscono in Tempeste sul Monte Bianco (1930). Al primo scalatore del Bianco (Jacques Balmat) è dedicato Balmat, il re del Monte Bianco (1934). Luis Trenker, allievo di Fanck, gira alcune pellicole di indubbio elogio dell'agonismo sportivo come Il figliuol prodigo (1934), La grande conquista (1937), Lettere d'amore dall'Engadina (1938).
In Francia, il più stretto rispetto delle regole del documentario è ricercato da Marcel Ichac, autore di Karakoram (1938). Nel 1942, egli ricostruisce l'ascensione alle 'Cinq Aiguilles du Diable' compiuta da Armand Charlet nel 1925 in à l'assault des Aiguilles du Diable, uno dei migliori contributi di un cinema di montagna che viene realizzato lontano da ogni tentazione spettacolare, nel desiderio di utilizzare la macchina da presa come testimone invisibile di un evento da rispettare in tutta la sua integrità. Non sempre il documentario di montagna ha ottemperato così scrupolosamente a tali buone intenzioni, ma ha saputo spesso mantenersi su buoni livelli come testimoniano, tra i tanti titoli, Italia K2 (1954) di Marcello Baldi (con commento di Dino Buzzati), Kanjut Sar (1961) di Piero Nava, La conquista dell'Everest (1953) di Thomas Stobart e George Lowe.
Alla spettacolarizzazione dello sport puntano invece film come Gli spericolati (1969) di Michael Ritchie e Centesimo di secondo (1981) di Duccio Tessari. Interamente regolato sui ritmi dell'action movie a base di arrampicate acrobatiche è il grande successo di botteghino Cliffhanger (1993) di Renny Harlin. Si tratta del tipico film che scandalizza i puristi delle vette, i quali non hanno mancato di togliere il loro appoggio anche alla ricostruzione della scalata del Cerro Torre proposta, senza risparmio di scene di pericolosa realizzazione, da Werner Herzog in Grido di pietra (1991).
Per chi corre a piedi l'attenzione del mondo del cinema è testimoniata da un interesse per i caratteri di sfida e preparazione atletica necessari alla buona riuscita dell'impresa. Da Il corridore di maratona (1933) a Il vincitore (1979), il motivo della sfida a sé stessi e alle proprie possibilità agonistiche è al centro di molti soggetti (e indirettamente anche di un thriller di successo come Il maratoneta, di John Schlesinger, 1976). Al vincitore del pentathlon e del decathlon ai Giochi di Stoccolma del 1912 Michael Curtiz ha dedicato Pelle di rame (1952) con Burt Lancaster; ma la biografia di Jim Thorpe sullo schermo non tiene conto delle drammatiche conseguenze del ritiro della medaglia su questo campione pellerossa. Con Momenti di gloria (1981) di Hugh Hudson, il cinema sportivo ritorna dopo diversi anni alla conquista dell'Oscar (ne vince quattro). Protagonisti sono due podisti britannici che rappresentano il proprio paese nelle specialità dei 100 e dei 400 m alle Olimpiadi di Parigi del 1924. In tutta la storia i motivi ideali di riscatto e lealtà sportiva dominano dall'inizio alla fine in un film senza ombre, di sicuro impatto spettacolare (Hudson fa un uso assai ricercato del ralenti per dare maggiore enfasi alle gesta sportive). Assai più problematico è il rifiuto della vittoria da parte di uno scattista-fondista in Gioventù, amore e rabbia (1962) di Tony Richardson, film fondamentale del Free cinema inglese nel quale le sperimentazioni formali sul tempo della narrazione si legano in modo assai efficace al rifiuto della gloria da parte di un marginale rinchiuso in un riformatorio.
Alle Olimpiadi non si è interessata nel corso del Novecento solo Leni Riefenstahl. In contrasto netto con Olympia si deve ricordare Le Olimpiadi di Tokyo (1965), in cui Kon Ichikawa tralascia la celebrazione del gesto sportivo riprendendo, in una sorta di pedinamento reso possibile dall'uso del teleobiettivo, gli attimi meno programmati della manifestazione, concentrandosi sull'interiorità degli atleti, sul retroscena delle prove, sul lavoro di preparazione e sulla fatica necessaria al conseguimento della vittoria. I Giochi di Monaco del 1972 sono invece l'occasione per un film a episodi (Quello che l'occhio non vede, 1973), affidati a otto registi di varie nazionalità, tra i quali Milos Forman, Arthur Penn, Claude Lelouch.
Infine, il calcio. Sport che ha contribuito più di qualunque altro a definire l'identità sportiva italiana e l'identità nazionale tout court, il calcio non ha mai trovato sullo schermo una messinscena che fosse in grado di renderne al meglio le peculiarità agonistiche. Prima della spettacolarizzazione diffusa dello sport in televisione, era abbastanza frequente la pratica del film di montaggio con materiali d'archivio sui grandi campioni. A questa categoria appartiene una serie di documentari che sono riusciti a mettere a fuoco la dimensione, altrimenti difficilmente registrabile, del protagonismo all'interno di uno sport di squadra. Tra questi: Goal! (1958) che ha al centro il trio brasiliano Pelè-Didi-Vavà, Idoli controluce (1966) che documenta le gesta di Omar Sivori, Libero (1973) in cui si analizza la figura di Franz Beckenbauer, Il profeta del goal (1976) dove la voce di Sandro Ciotti ripercorre la carriera dell'olandese Joahn Cruiff. Sul terreno del cinema di fiction il calcio funziona come pretesto per raccontare storie sviluppate all'interno di vari generi. In Parigi è sempre Parigi (1951) Luciano Emmer, dopo Domenica d'agosto (1950), continua a descrivere i desideri e i sogni della piccola borghesia narrando la trasferta francese di alcuni italiani al seguito della nazionale. Mario Camerini, in Gli eroi della domenica (1952), utilizza Raf Vallone, ex giocatore del Torino, per portare in scena un giocatore corruttibile in una squadra che ha la possibilità di passare in serie A. In L'inafferrabile 12 (1950) di Mario Mattoli, Walter Chiari fa la parte di un portiere della Juventus con un gemello che scatenerà la commedia degli equivoci. Nel film di Mattoli compaiono i 'veri' giocatori della squadra dando il via a un fenomeno che diventa in breve una caratteristica del film calcistico: la costante apparizione di calciatori o operatori del settore nel ruolo di sé stessi. Un altro tentativo di commedia ambientata nel mondo del calcio degli anni Cinquanta è Gambe d'oro (1958) di Turi Vasile, in cui Totò ha la parte del presidente della Cerignola. Ben riuscita è la parodia del cinema di Sergio Leone nella regia accorta di un calcio di rigore contenuta nel volutamente poco serio Don Franco e don Ciccio nell'anno della contestazione (1970) di Marino Girolami.
Storie del passato, in chiave nostalgica, ambientate nel mondo del calcio e del consumo che gli ruota attorno sono messe in scena in Italia-Germania 4 a 3 (1990) di Andrea Terzini e in Figurine (1997) di Giovanni Robbiano. In Pane e cioccolata (1974) di Franco Brusati, Nino Manfredi ha il ruolo di un cameriere emigrato in Svizzera, il quale, pur essendosi tinti i capelli di biondo per apparire più simile al modello nordico, non si contiene di fronte a un gol della nazionale italiana, denunciando così le proprie origini. Questa scena codifica una situazione tipica del film ad argomento calcistico: l'incapacità di autocontrollo emotivo da parte del tifoso. Il tifoso semplicemente non riesce a contenere umori e rabbie. Tutto ciò può creare la degenerazione dei rapporti interpersonali come l'inciviltà sociale. Nel primo caso siamo di fronte di solito a forme di insensibilità nel rapporto con le donne, colpevoli di poca empatia verso lo sport e la squadra del cuore. È ciò che si può osservare in alcune scene di Piccoli equivoci (1988) di Ricky Tognazzi, di Febbre a 90° (1997) di David Evans, e di tutta la serie di Fantozzi (il primo è Fantozzi, 1975, di Luciano Salce), in cui Paolo Villaggio si umilia e umilia i suoi simili nella ritualizzazione maniacale della visione televisiva della partita. Nel secondo caso, gli aspetti sociali della tifoseria sono visti come forme di scontro tra club (il contrasto tra 'romanisti' e 'laziali' è il più indagato e paradigmatico). Per quanto riguarda questo temo uno dei film più attenti nel descrivere le degenerazioni violente del tifo e il suo legame oscuro con l'ordine e la legalità è Hooligans (1995) di Philip Davis. Bisogna però citare anche le esternazioni di Vittorio Gassman in un episodio di I mostri (1963) di Dino Risi; la definizione del popolarissimo personaggio del 'terrunciello' di Diego Abatantuono in Eccezzziunale …veramente (1982) di Carlo Vanzina, Ultrà (1991) di Ricky Tognazzi, Ultimo Minuto (1987) di Pupi Avati e, in altra chiave, Il tifoso, l'arbitro e il calciatore (1983) di Pier Francesco Pingitore, Tifosi (1999) di Neri Parenti.
La partita di calcio giocata in libertà, fuori dal mondo agonistico, vissuta come elemento di svago, come occasione di comicità o di esagerazione/risoluzione dei contrasti nel rapporto tra i personaggi è presente in numerose pellicole, tra le quali: Marrakech express (1989) e Mediterraneo (1991) di Gabriele Salvatores, Selvaggi (1995) di Carlo Vanzina, Tre uomini e una gamba (1997) di e con Aldo Giovanni e Giacomo, Baci e abbracci (1999) di Paolo Virzì. Legato a una comicità grezza o a situazioni drammatiche stereotipate, un po' di calcio è osservabile anche in I due maghi del pallone (1970) di Mariano Laurenti, Paulo Roberto Cotechiño (1983) di Nando Cicero, Al bar dello sport (1983) di Francesco Massaro, L'allenatore nel pallone (1984) e Mezzo destro, mezzo sinistro (1985), entrambi di Sergio Martino.
In contrasto, al centro di un impianto risolutamente drammatico in cui lo sport diventa metafora del rapporto tra libertà e tirannia, nonché unica occasione di sopravvivenza, si colloca la storia raccontata in Due tempi all'inferno (1961) di Zoltan Fabri. La stessa idea è ripresa nel 1981 da John Huston in Fuga per la vittoria, dove tra nazisti e prigionieri si gioca una partita in cui è in palio la vita. Le riprese del film sono affidate a Robert Riger nell'intenzione di adeguare lo stile di messinscena agli standard televisivi degli anni Ottanta. La condizione del portiere è assunta a occasione di riflessione d'autore in Prima del calcio di rigore (1971) di Wim Wenders.
Passando a considerare la fiction televisiva, è d'obbligo la segnalazione di un serial di animazione giapponese che ha contribuito come pochi a definire l'immaginario agonistico giovanile tra gli anni Ottanta e Novanta. Si tratta di Holly e Benji, cartone animato in cui si narrano le vicende di alcuni giovani calciatori, impegnati in incontri nazionali e internazionali. La serie è concepita nel segno della deformazione espressiva. Le partite possono durare anche cinque episodi. Alla celebrazione delle virtù sportive si affianca una dilatazione sistematica dello spazio e del tempo del racconto: il campo viene irrealisticamente deformato all'infinito, le corse estenuanti dei giocatori sono rese in modo iperbolico. A tutto questo si aggiunge l'uso del ralenti e del fermo immagine che interrompe lo scorrere delle competizioni con lunghi flashback ancorati ai ricordi dei singoli protagonisti.
Quest'uso espressivo e deformante dell'iconografia sportiva non è inedito nell'animazione ma piuttosto insolito nel campo delle serie televisive di argomento sportivo. In questo campo sono pochi gli esempi da ricordare. Si può citare il serial di massimo ascolto televisivo The aqua spectacular of 1957 con Esther Williams impegnata nella ripetizione del proprio repertorio di danza subacquea. Si può richiamare lo sceneggiato, non di ambientazione sportiva, con Cassius Clay come protagonista nei panni di un ex schiavo nero ai tempi della Guerra di Secessione. Alcuni serial poi hanno avuto un'ambientazione simile. Tra questi Amore e ghiaccio, produzione franco-canadese degli anni Ottanta (1986) che ha come protagonista un giocatore di hockey; Rivali sul ghiaccio, produzione tedesca dei primi anni Novanta (1991) in cui una diciassettenne tenta di diventare una campionessa di pattinaggio artistico, e Rollergirls (1978) produzione americana che, nel periodo di massima diffusione dei pattini a rotelle, racconta le gesta della squadra femminile delle Pittsburgh Pitts.
Complessivamente è però legittimo affermare che i tentativi di portare la fiction sportiva sui terreni della serialità non hanno avuto successo. Anche l'assenza, negli studi sulla televisione, di capitoli specifici dedicati allo sport nella fiction televisiva testimonia di un'incisività minima del genere nell'immaginario sportivo e sociale. La fiction televisiva di argomento sportivo è un tentativo di fermarsi a metà strada tra i modi di spettacolarizzare lo sport propri del cinema e quelli propri della televisione. Ma le ragioni per cui la serialità televisiva fallisce nei confronti dello sport sono le stesse che investono i problemi di 'ridiscorsivizzazione' dello sport da parte della televisione e hanno a che fare con la cattiva resa cinematografica di giochi come il calcio o il basket. Lo sport prevede regole precise: rispetto di norme, limitazione della violenza, principi relazionali. Lo sport televisivo aggiunge a tali regole quelle relative alla messa in discorso delle pratiche sportive. Sono in questione regole relative anche alla quantità delle informazioni trasmesse (posso decidere di fare vedere solo una parte di campo e non un'altra, di mostrare un'immagine a rallentatore mentre il gioco continua), alla rilevanza delle informazioni trasmesse (posso decidere di fare vedere solo certe azioni e non altre), alla chiarezza delle informazioni trasmesse (da qui la necessità di fare vestire ai giocatori maglie dai colori distinguibili). La maggior parte di tali questioni sono discorsive e mostrano il fatto che la televisione, per mettere in scena lo sport, si è gradualmente impossessata dei moduli stilistici ed espressivi propri del cinema.
Le modalità di ripresa televisiva degli incontri di pugilato degli anni Sessanta assomigliano ancora a come la boxe viene messa in scena in un film degli anni Trenta (per es. Luci della città di Chaplin). Negli anni Cinquanta ‒ lo testimoniano film come Il grande campione e Lassù qualcuno mi ama ‒ al cinema era già possibile seguire gli incontri in modo analitico attraverso la variazione della scala dei piani, l'ingresso sul ring, l'uso della macchina da presa in funzione soggettiva. Oggi la boxe utilizza inquadrature a piombo, ralenti, alternanza di vari punti di vista sullo stesso gesto. Lo stesso vale per il calcio. Le prime telecronache erano seguite da una sola telecamera che si muoveva attraverso panoramiche laterali. Oggi il calcio è stato reso assai più cinematografico mediante l'uso di carrelli scorrevoli a lato del campo, di gru per le riprese da dietro la porta. I modi in cui la televisione spettacolarizza il calcio, da un punto di vista strettamente legato alla messinscena e al montaggio, sono cinematografici. Così al cinema ‒ che già per ragioni costitutive non può accedere alla dimensione della diretta (da qui la necessità cinematografica di mostrare pubblici in campo che assistono virtualmente agli incontri, da qui l'insistenza sui volti, sulle reazioni degli spettatori) ‒ sono state sottratte anche le risorse stilistico-espressive.
Oggi è il cinema che deve rincorrere la televisione. Oliver Stone, in Ogni maledetta domenica, lo ha capito e ha cercato di adeguarsi: il film è messo in scena seguendo la retorica da videoclip delle sintesi sportive. Ma in tale elemento sta anche il punto debole dell'operazione e la possibilità di chiudere con un paradosso: vi sono sport (basket e calcio soprattutto) che nel passaggio sul grande schermo sembrano perdere inevitabilmente qualcosa. Qualcosa che solo la diretta televisiva riesce almeno in parte a sostituire ricorrendo proprio a quelle forme di discorso che il cinema, nel corso di tutto il Novecento, ha contribuito a imporre.
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