Lo sport oltre il limite
Nel 21° sec. lo sport è chiamato a interrogarsi sui limiti umani, di comunicazione, sui record da battere, sul modo di affrontare e sconfiggere la tentazione di lasciarsi andare alla scorciatoia del doping, sul fascino sempre più forte esercitato dalle discipline estreme, nelle quali la sfida non è rivolta a un avversario o a un cronometro, ma a sé stessi. Tuttavia, in questo nuovo secolo, lo sport deve anche e soprattutto giocare una partita più semplice e, per certi versi, più importante e solenne. Ritrovare radici e insegnamenti di rispetto, fair play, mettere un limite alla necessità di vincere sempre e comunque, in quanto la vittoria produce ricchezza in un circolo assolutamente vizioso e inaccettabile. La ricerca della sopraffazione al fine di ottenere successo e denaro in misura sempre maggiore, nello sport più popolare, il calcio, ha portato in Italia nel 2006 a uno scandalo di proporzioni ancora indecifrabili. È finito sotto processo un capillare meccanismo che, attraverso una fitta rete di relazioni, cercava di controllare il potere per poter avvantaggiare sempre gli stessi soggetti. ‘Calciopoli’, questa la definizione più comune, ha portato anche a interrogarsi sul ruolo di molti arbitri e addirittura sul ruolo e sull’esercizio del potere di chi questi arbitri doveva designare. Di sicuro il più grave scandalo della storia dello sport italiano in cui era in gioco, certamente, la vittoria finale, ma proprio perché quel successo, in un mondo ormai costruito per essere un business, avrebbe assicurato il ‘premio’ maggiore. Una competizione ristretta a un’élite di squadre, fatta per impedire sorprese, può d’altronde autoalimentarsi soltanto attraverso una competitività sempre più scarsa. In modo che i più forti possano continuare a vincere e, grazie alle loro vittorie che si traducono in soldi, diventare ancora più forti. Proprio nel periodo immediatamente precedente e successivo allo scandalo il calcio ha tentato di porsi un limite, lavorando per arrivare a far emanare una legge sulla vendita collettiva dei diritti televisivi, la più grande fonte di ricchezza delle società. Con l’avvento delle reti a pagamento, infatti, i club calcistici si erano ritrovati a fare i conti con un nuovo modo di ottenere incassi: non attraverso il solo botteghino, ma cedendo la titolarità delle immagini. All’inizio del 21° sec., però, i club principali si sono preoccupati di prendersi la parte più grande della torta, schiacciando così il potere contrattuale degli altri e creando una forbice talmente evidente da rendere impossibile la competizione. Una lunga battaglia ‘politica’, con un fronte rappresentato dalle società medio-piccole, ha portato alla fine alla decisione della Lega calcio di vendere in blocco i diritti, per poi ripartire gli introiti in maniera più equilibrata.
I record del 21° secolo
Era il 1942 quando lo statunitense Cornelius Warmerdam stabilì l’allora primato del mondo di salto con l’asta a 4,77 metri. A rileggere le cronache dell’epoca l’aggettivo usato più di frequente è imbattibile: così infatti veniva definita la prestazione dell’atleta americano. Per il salto si usavano aste di bambù. Quel record ‘imbattibile’ durò quindici anni: l’avvento dell’alluminio consentì a un altro americano, Robert Gutowski, di salire a 4,78 metri. Morale: nello sport molti limiti che sembrano insuperabili vengono poi raggiunti e sorpassati. Esistono in ogni caso dei limiti fisiologici alle prestazioni umane, sebbene lo sviluppo tecnologico – ne abbiamo visto un esempio parlando dell’asta di bambù e d’alluminio –, le metodologie di allenamento e la ricerca scientifica in campi come l’alimentazione consentano di spostarne i confini in avanti. Soltanto spostarli, però, non abbatterli all’infinito. Non abbiamo timore di sbilanciarci affermando, per es., che nei prossimi due secoli nessun uomo riuscirà a correre i 100 m in meno di 9 secondi. Di più: molti sostengono che mai essere umano riuscirà a scendere sotto quel limite. Discorso molto simile per quanto riguarda la maratona, il cui muro invalicabile, almeno per il prossimo futuro, dovrebbe essere quello delle due ore (per limitarci al campo maschile). L’atletica è uno dei macrocampi dello sport in cui ha più senso e risulta più evidente il discorso che riguarda i limiti oltre i quali è ipotizzabile che un essere umano non possa andare. Parliamo di confini ancora lontani nel tempo. Anche in questo caso, però, non c’è accordo su ‘quando’ questi confini verranno raggiunti. Alcuni studi a riguardo hanno tracciato la linea di confine entro i prossimi settant’anni. Altri ricercatori sostengono invece che il termine ultimo per toccare le vette delle prestazioni umane debba essere individuato non prima del 2250-2300.
Nell’ottobre 2005, Alan M. Nevill (dell’Università di Wolverhampton) e Gregory Whyte (ora coordinatore scientifico dell’English institute of sport) pubblicarono un interessante articolo sulla rivista «Medicine & science in sports & exercise» (Are there limits to running world records?, pp. 1785-88). Lo studio era concentrato sui risultati ottenuti in tutte le specialità dell’atletica leggera nel 20° sec. e sosteneva che «molti primati sulla media e lunga distanza sono attualmente vicini al proprio limite assoluto». La teoria alla base di questa analisi, definibile, per praticità, della ‘Curva a S’, situa il raggiungimento dei limiti umani entro la fine del 21° sec., sostenendo inoltre che le prestazioni record incideranno in percentuale sempre minore rispetto agli attuali primati raggiunti nelle varie discipline sportive. Il quadro ricostruito mostra miglioramenti graduali e costanti nei primi anni del Novecento, quando lo sport stava conoscendo la fase iniziale di decollo. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’avvento del professionismo innescò un meccanismo di crescita improvvisa, soprattutto dalla fine degli anni Quaranta alla fine dei Sessanta, per arrivare poi alla stabilizzazione dei risultati a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Crescita graduale, impennata, stabilizzazione: tracciando su un foglio l’andamento dei record si ottiene una sorta di ‘S’. E al momento siamo nella lunga fase di stabilizzazione che dovrebbe portarci a toccare i limiti umani entro la fine di questo secolo. In ambito femminile vi è un primato che viene addirittura ipotizzato come il limite massimo raggiungibile da una donna. Si tratta del record del mondo dei 1500 m, stabilito dalla cinese Qu Yunxia a Pechino l’11 settembre del 1993. La mezzofondista asiatica corse la distanza in 3′50″46. Due dati per capire il valore di questo tempo. Il primo è che l’atleta cinese ha migliorato di ben due secondi (2″01 per l’esattezza) il precedente primato della russa Tatijana Kazankina, che il 13 agosto 1980 a Zurigo aveva fermato il cronometro a 3′52″47. Il secondo, ancora più determinante, riguarda il margine che c’è tra il record mondiale e il tempo con cui l’inglese Kelly Holmes ha vinto la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Atene nel 2004, 3′57″90, record della Gran Bretagna. Sette secondi e mezzo in più rispetto al tempo della cinese. Non è certo che questo primato resti imbattuto, ma probabilmente si tratta di un tempo molto vicino al limite per le atlete. Si indagano quali potrebbero essere i valori di confine toccati dall’uomo, impegnandosi soprattutto nella ricerca del ‘quando’, e soltanto in misura minore del ‘quanto’. Era l’opinione di Roger Bannister, il neurologo ex mezzofondista che nel 1954 fu il primo uomo a scendere sotto i 4 minuti nel miglio: «O scegliete di prevedere il record oppure quando esso accadrà, ma se non volete perdere la faccia non fate le due previsioni insieme» (cit. in F. Fava, Superuomo, sei vicino, «Corriere dello Sport-Stadio», 1° novembre 1997).
L’indagine sul ‘quanto’ è difficile ma allo stesso tempo affascinante. Per intraprenderla si possono utilizzare le proiezioni, necessariamente approssimative, avanzate da un convegno organizzato dalla IAAF (International Association of Athletics Federations) nell’autunno del 1997 a Budapest. Dal convegno, che pure ha registrato alcuni pareri discordanti, sono emerse numerose ipotesi di massima sui primati assoluti per l’uomo. Alla ricerca di una prestazione insuperabile, ‘imbattibile’ come si presumeva del già ricordato record del 1942 di Warmerdam nell’asta, nel convegno sono state ipotizzate alcune misure massime. Nello specifico, si è calcolato che mai nessun uomo riuscirà a scendere sotto i 9″15 nei 100 m, con un margine d’errore dell’1%. Vuol dire che l’attuale record del mondo del giamaicano Usain Bolt, il 9″69 stabilito il 16 agosto 2008 al National Stadium di Pechino, potrà essere migliorato al massimo di 54 centesimi. Ma non sono state effettuate proiezioni temporali, se non per alcuni primati raggiungibili nel giro di due secoli. Per i 100 m, un atleta dovrebbe poter correre in 9″24 in un lasso temporale compreso tra il 2187 e il 2254. Significa limare di quasi mezzo secondo in circa 200 anni l’attuale record del mondo di Bolt. Gli studi contemporanei giudicano impossibili tempi che scendano sotto ai 9″15: quindi considerano non ottenibili prestazioni che restano comunque al di sopra del simbolico muro dei 9 secondi netti. Un muro che per gli studiosi potrebbe non essere mai abbattuto. Se ci spostiamo dalla distanza più breve a quella più lunga dell’atletica leggera, la maratona, possiamo ipotizzare che nessun uomo riuscirà a scendere sotto le due ore nel futuro prossimo. L’attuale primato dell’etiope Haile Gebrselassie è di 2h03′59″, stabilito il 28 settembre 2008 nella maratona di Berlino, non a caso tra le più veloci al mondo (come noto, la differenza di percorsi e di fattori ambientali nelle varie maratone mondiali determina il fatto che si parli di ‘migliore prestazione mondiale’ e non di ‘record del mondo’ per questa specialità; perché nessuna maratona è identica a un’altra). L’etiope ha abbassato di circa mezzo minuto (29 secondi) il precedente primato del keniota Paul Tergat: incremento non lieve, ma è certo che nel breve periodo non si arriverà ad abbattere il muro delle due ore, un’altra delle frontiere simboliche dello sport. E in maratone come quella di New York o di Boston, tra le più impegnative al mondo a causa delle caratteristiche del percorso in cui i saliscendi e i cambi di ritmo non permettono elevate prestazioni assolute, forse il limite delle due ore non sarà mai raggiunto.
Esistono altre proiezioni riguardo misure limite per l’uomo. Negli 800 m, per es., si è ipotizzato che nessun atleta riuscirà mai a correre in meno di 1′32″96, circa nove secondi in meno dell’attuale primato mondiale del keniota naturalizzato danese Wilson Kipketer (1′41″11), stabilito a Colonia il 24 agosto 1997. Sarebbe invece di 3′04″15 il muro invalicabile sui 1500 m, il cui attuale primato appartiene al marocchino Hicham El Guerrouj con il tempo di 3′26″00, stabilito allo stadio Olimpico di Roma (Gran Gala del 14 luglio 1998). Anche nel fondo, nei 5000 m in particolare, nessun essere umano dovrebbe mai riuscire ad andare sotto il tempo di 11′22″87, migliorando di ben oltre un minuto l’attuale record mondiale di 12′37″35 stabilito dall’etiope Kenenisa Bekele a Hengelo, nei Paesi Bassi, il 31 maggio del 2004.
Per tornare al salto con l’asta, è stato sufficiente un cambiamento di materiale nel secondo dopoguerra per arrivare ad altezze fino allora ritenute irraggiungibili. È possibile che in futuro l’uomo possa riuscire a toccare i 7 m, addirittura 86 cm oltre l’attuale primato del leggendario Sergej Bubka, stabilito il 31 luglio 1994 al Sestriere (6,14 m). E proprio i 7 m saranno le ‘colonne d’Ercole’ dell’astista di domani.
Anche nel nuoto è affascinante il percorso verso la scoperta dei limiti umani. La disciplina ‘regina’ in vasca, i 100 m stile libero, ha un obiettivo ormai visibile: abbattere il muro dei 47″ sulla distanza. Attualmente il record mondiale appartiene all’australiano Eamon Sullivan: 47″05, stabilito il 13 agosto 2008 alle Olimpiadi di Pechino. Per dare la dimensione dell’impresa di Sullivan basti dire che, nella storia dello sport, solo due uomini hanno nuotato i 100 m con tempi inferiori ai 47″50; oltre al primatista mondiale, c’è riuscito il francese Alain Bernard, autore della seconda prestazione mondiale di tutti i tempi (47″20, tempo ottenuto sempre il 13 agosto 2008 a Pechino, nella semifinale precedente a quella in cui era impegnato Sullivan). La barriera dei 47″ netti appare sempre più come una soglia simbolica per i prossimi anni e sempre meno un limite assoluto per l’uomo.
È ipotizzabile che un essere umano si fermerà intorno ai 45″ sulla distanza dei 100 metri. C’è un’altra distanza simbolica che si presta a discussioni interessanti rispetto ai limiti umani. Sono i 1500 m, la gara più lunga che si disputa in vasca. L’australiano Grant Hackett ha nuotato, il 29 luglio 2001 ai Mondiali di Fukuoka (Giappone), in 14′34″56, stabilendo il record mondiale sulla distanza. Sono passati diversi anni da allora, ma il primato non è stato ancora superato. Uno degli obiettivi per il futuro è abbattere la barriera dei 14′20″, da molti considerata proibitiva. Così come sarà molto difficile scendere sotto i 4 minuti nei 400 m misti, una gara che richiede agli atleti il massimo delle prestazioni in tutte le specialità. Il 4′03″84 stabilito alle Olimpiadi di Pechino il 10 agosto 2008 dallo statunitense Michael Phelps, uno dei fenomeni di ogni tempo in questo sport, suggerisce che ‘limare’ circa quattro secondi al suo primato sarà impresa che avvicinerà i nuotatori del futuro al limite fisico di un essere umano.
L’apnea è un’affascinante metafora del nostro breve viaggio alla scoperta dei limiti dell’uomo. Scendere nelle profondità del mare, senza l’aiuto di bombole di ossigeno, è anche simbolicamente un percorso esplorativo delle proprie capacità. L’apnea pone un preciso limite fisico agli specialisti dei record. La pressione dell’acqua produce un effetto che può essere letale per il corpo umano. Attualmente il primato di profondità, in assetto cosiddetto no limits (si scende zavorrati senza limiti di peso e si risale grazie all’ausilio di un pallone), tocca i 214 m (Herbert Nitsch, austriaco, giugno 2007). Il no limits è specialità affascinante ma rischiosa, perché aumenta i potenziali effetti di una rapida risalita e di una conseguente troppo rapida decompressione. Un risultato del genere è incredibile se rapportato ai primi record d’immersione: Enzo Maiorca era arrivato a -101 m nel 1988; personaggi come Umberto Pelizzari e il cubano Francisco Ferreras, detto Pipín – diventati icone del no limits nell’era delle sponsorizzazioni dei grandi record – si sono spinti oltre i -150 a cavallo del 21° sec., tra il 1999 e il 2003. Nitsch è stato il primo uomo ad abbattere, nel giugno 2007, il muro dei -200. E già la sua impresa viene definita incredibile dalla maggior parte degli esperti. Ma oggi appare fisicamente impossibile, per un corpo umano, poter scendere sotto i 300 metri. La pressione sarebbe eccessiva, soprattutto per il rischio di emorragie a livello delle orecchie. Direttamente connessa ai primati di profondità è la capacità di resistenza in apnea. Uno dei pionieri delle imprese in tale ambito, il greco Georgios Statti, era privo di un timpano, dell’altro aveva solo pochi residui (a testimonianza di ciò vi è un rapporto stilato da un ufficiale medico italiano): nel 1913 aiutò l’esercito italiano a recuperare parti della nave da guerra Regina Margherita. Scendeva sotto i 70 m, ma giurava di essere arrivato oltre i 110 di profondità. Restava senza respirare anche per 3 minuti. Oggi i limiti nella specialità dell’apnea statica superano i 10 minuti: 10′12″, per la precisione, è il primato riconosciuto dall’AIDA (Association Internationale pour le Développement de l’Apnée), stabilito dal tedesco Tom Sietas, ad Atene, nel luglio 2008. È possibile che tale limite venga ulteriormente spostato nel futuro prossimo, ma il muro dei 15 minuti, senza l’ausilio della preventiva erogazione di ossigeno, già sperimentata, probabilmente non sarà mai neppure avvicinato.
Per abbattere i limiti: la scorciatoiadel doping
Lo sport è l’esaltazione della competitività. In quanto tale, spinge l’uomo a migliorarsi, ad andare persino oltre i limiti del proprio corpo. Se ciò valeva per l’antichità, vale soprattutto oggi, grazie alle possibilità infinite offerte dalla scienza, dall’ingegneria genetica in particolare. Parlare di doping oggi vuol dire affrontare ciò che viene definito trans-umano, il desiderio cioè di migliorare le proprie condizioni di vita con l’aiuto della tecnologia. È in quest’ambito che va affrontato – e se possibile risolto con norme chiare – il problema, altrimenti destinato a trattazioni banali, tipiche del mondo sportivo, secondo le quali, per es., è doping utilizzare i farmaci definiti illeciti da una lista che viene continuamente aggiornata e che è comunque sempre incompleta. Parlare di doping vuol dire invece affrontare temi delicati basilari: la contrapposizione tra natura e cultura, la distinzione tra terapeutico e migliorativo, l’infinito dualismo tra naturale e artificiale. Parlare di doping, insomma, è molto più difficile e rischioso di quanto si creda. Il mondo dello sport si è reso conto prima degli altri del pericolo. Ma, fatta questa scoperta in seguito alle prime morti di atleti intossicati dai farmaci, ci si è poi limitati a combattere il fenomeno perché sleale, in grado cioè di alterare il risultato agonistico, in pratica contrario alla cosiddetta etica dello sport. Ed è da questa etica che dobbiamo partire, del tutto identica a quella che mosse, sul finire dell’Ottocento, il barone Pierre de Coubertin, l’inventore delle Olimpiadi moderne. In oltre cent’anni lo sport è profondamente mutato, anche se ci si ostina ancora a considerarlo quel che era solo in origine: un semplice dare delle regole a un particolare tipo di gioco. Oggi lo sport è sempre più industria e spettacolo, ma conserva la sua etica di gioco che, come tutte le etiche deboli, si è fatta travolgere dall’irruzione del mercato. Ormai il doping è molto più di un semplice attentato alla regolarità della competizione, un tentativo di alterare il risultato: è una piaga sociale che riguarda milioni di individui e non più solo gli atleti giunti al vertice; è un crimine contro l’umanità per la sperimentazione selvaggia che viene praticata su persone sane (soprattutto ragazzi); è un grande affare per la malavita organizzata e per le multinazionali del farmaco. Il sistema di contrasto – basato quasi esclusivamente sui controlli antidoping – è così debole da far apparire il problema praticamente irrisolvibile. E la proposta di soluzione più convincente – e condivisa da un numero sempre più alto di persone – sembra essere quella della legalizzazione delle sostanze vietate, almeno per quanto riguarda gli sportivi professionisti: cioè il doping sotto controllo medico. Come cercheremo di dimostrare, questa sarebbe una soluzione fallimentare. Ma è ancora troppo presto per arrivare alle conclusioni.
La definizione di doping
È il caso invece di partire dall’inizio, dal concetto stesso di doping. Per il mondo dello sport il doping è: «a) la somministrazione, l’assunzione e l’uso di sostanze appartenenti alle classi proibite di agenti farmacologici e l’impiego di metodi proibiti da parte di atleti e di soggetti dell’ordinamento sportivo; b) il ricorso a sostanze o metodologie potenzialmente pericolose per la salute dell’atleta, o in grado di alterarne artificiosamente le prestazioni agonistiche; c) la presenza nell’organismo dell’atleta di sostanze proibite o l’accertamento del ricorso a metodologie non consentite facendo riferimento all’elenco emanato dal CIO e ai successivi aggiornamenti» (Convenzione antidoping di Stasburgo, 16 nov. 1989, ratificata in Italia con l. 29 nov. 1995 n. 522). Inoltre «il doping è contrario all’essenza stessa dello spirito sportivo» (World anti-doping code Wada, entrato in vigore nel 2004). Per la legge italiana invece «costituiscono doping la somministrazione o l’assunzione di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive e l’adozione o la sottoposizione a pratiche mediche non giustificate da condizioni patologiche e idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti» (l. 14 dic. 2000 n. 376, art. 1, 2° co.). Come si capisce, la definizione scelta dal mondo dello sport è riduttiva e irrazionale, divide i farmaci tra leciti e illeciti, porta come conseguenza a uno stravolgimento dell’etica: il reato diventa il farsi trovare positivi ai controlli, non il doparsi in sé. Apre la strada a quella che è diventata una vera e propria medicalizzazione selvaggia dello sport (se non è reato, posso utilizzare qualsiasi tipo di farmaco lecito, anche se non c’è alcuna necessità terapeutica). Di più: se l’unico mezzo di controllo sono i test antidoping, l’importante sarà evitarli (esiste un numero infinito di stratagemmi) o renderli inefficaci, utilizzando, per es., quei farmaci che, pur essendo vietati, non sono riscontrabili ai test. Ciò spiega il ricorso massiccio a sostanze per le quali non esiste un metodo di rilevamento ritenuto unanimemente sicuro (per es., l’eritropoietina) o addirittura non esiste alcun metodo (l’ormone della crescita). Studi statistici dimostrano che solo un terzo della produzione mondiale di questi farmaci finisce ai malati, il resto viene consumato dagli atleti, con vantaggi enormi per le case farmaceutiche. In Italia, una svolta importante si è avuta proprio in apertura del 21° sec. con la l. 376 del dic. 2000 in base alla quale il doping è diventato reato penale. La legge ha fornito armi importanti alla magistratura (innumerevoli i sequestri di farmaci dopanti effettuati dal 2000 a oggi), provocando nel contempo un allargamento del concetto stesso di doping. Fondamentale, per es., quanto definitivamente stabilito dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza 3087 depositata il 25 genn. 2006, in base alla quale deve essere considerato doping anche il ricorso a sostanze lecite per motivi non terapeutici. Sostengono infatti i giudici di legittimità che «la ripartizione in classi operata dal decreto ministeriale previsto dall’art. 2 della legge 376 del 2000 non è e non può essere tassativa, perché un elenco chiuso di farmaci, sostanze biologicamente attive e pratiche mediche, il cui impiego non è considerato doping, non rispetterebbe le disposizioni della Convenzione di Strasburgo e le indicazioni del Comitato internazionale olimpico, che consentono un’estensione in virtù della mera coincidenza degli effetti farmacologici e della composizione chimica, ed esorbiterebbe i limiti della delega». Questo fatto ha inciso pesantemente anche sulle decisioni dell’istituzione sportiva, che ha dovuto almeno parzialmente adeguarsi. Il TAS (Tribunal Arbitral du Sport) di Losanna (il più alto organismo giuridico a livello internazionale), dovendosi esprimere sulle risultanze del processo penale a carico della squadra di calcio della Juventus (basato in larga parte sull’utilizzo non terapeutico di una quantità enorme di farmaci), ha fatto sapere che «l’assunzione di sostanze non vietate potrebbe costituire illecito disciplinare sotto altri profili, ossia costituire, in presenza di solida base giuridica, violazione degli obblighi di lealtà sportiva incombenti ai tesserati» (2005). Poi ha puntualizzato che «i farmaci devono essere usati solo per esigenze mediche» e che «qualsiasi massiccio e/o frequente riscorso da parte degli atleti (o somministrazione agli atleti) di prodotti farmaceutici non inclusi nelle liste del CIO e attuato senza una valida giustificazione terapeutica, appare come abbastanza sospetto e deve essere indagato dalle autorità sportive allo scopo di accertare, attraverso la ricerca scientifica, se altre forme di doping possono essere evidenziate». Inoltre «in situazioni come quelle prima puntualizzate, il WADC [World Anti-Doping Code] non solo permette, ma addirittura invita tutte le autorità sportive a informare immediatamente la WADA [World Anti-Doping Agency] affinché siano attuate delle appropriate valutazioni scientifiche allo scopo di aggiungere o meno una certa sostanza alla lista di quelle proibite». Infine, il TAS ha segnalato (Parere consultivo 2005/C/841 CONI) che «se la sentenza di un Tribunale di Stato dimostra lo stoccaggio di sostanze proibite o a uso limitato, secondo i regolamenti sportivi, e probabilmente usate da singoli soggetti o da club riconosciuti in ambito di federazioni nazionali, le autorità sportive nazionali che hanno giurisdizione in materia devono aprire un procedimento disciplinare e investigare».
L’opposizione alla politica antidoping
Affidarsi esclusivamente alla repressione risolverà solo in parte il problema della diffusione delle sostanze dopanti, anche se continuare a ripetere che «il doping è sleale», come stancamente fa l’istituzione sportiva, non serve. In un mondo estremamente commercializzato, in cui i guadagni degli atleti sono diventati ormai elevatissimi e la differenza tra ricchezza e povertà si misura in centesimi di secondo (chi corre i 100 m in 9″75 è ricchissimo, chi impiega 3 decimi in più ha guadagni notevolmente inferiori), non può essere un semplice richiamo alla lealtà sportiva a frenare il ricorso al doping e a ogni altro mezzo in grado di migliorare le prestazioni. Viviamo in un’epoca in cui, fortunatamente, c’è il pieno riconoscimento dei diritti civili e il principio di libertà individuale si è definitivamente affermato. È più difficile contrastare il doping se non si ricorre a criteri razionali e in gran parte condivisi. Lo studioso Barrie Houlihan pone correttamente la questione dicendo che «ci sono coloro che si oppongono all’antidoping basandosi sul principio per il quale è un’interferenza indebita nell’autonomia dell’individuo. In altre parole, così si incrina non solo l’attuale tentativo di realizzare concretamente una politica antidoping, arrecandole più danni che benefici, ma si perde anche un esteso investimento nell’antidoping perché si basa sul disprezzo dei fondamentali diritti dell’individuo» (Houlihan 1999; trad. it. 2000, p. 167). È per questo che Houlihan – sostenendo tesi non sempre condivisibili, ma comunque intelligenti – smonta pezzo per pezzo i fondamenti della politica antidoping. Eccolo dunque affermare che il doping non è sleale se con questo termine si intende l’ingiusto vantaggio che un atleta conquista grazie al ricorso a esso. Infatti uno dei fondamenti dello sport è quello di procurarsi un vantaggio sugli avversari: ma non necesariamente viene considerato sleale l’uso di costumi idrodinamici, o un periodo di allenamento in altura (che, come alcuni farmaci, permette una migliore ossigenazione del sangue), o il farsi seguire dai migliori staff tecnici e sanitari (di cui non può servirsi, per motivi economici, la maggioranza degli altri atleti). Non regge neanche la tesi del doping come pericolo per la salute, perché altrimenti alcune discipline sportive – il pugilato e l’automobilismo, per es. – dovrebbero essere bandite perché troppo rischiose. Anche chi sostiene che il doping sia un pessimo esempio per i giovani non offre un’arma particolare alla politica antidoping: un cantante di successo tiene i suoi concerti di fronte a migliaia di spettatori e nessuno gli chiede di non far uso di sostanze stupefacenti. Houlihan conclude sostenendo che non regge neppure la tesi secondo cui il doping è una costrizione per gli atleti: a meno che non si tratti di sportivi che vivano in Paesi a regime dittatoriale. Un atleta, insomma, è sempre in grado di scegliere, e ha tutta la libertà di non doparsi.
Legalizzare il doping: falsa soluzione
Come vedremo, è soprattutto quest’ultima tesi ad apparire debole, anche se è evidente che, per controbattere considerazioni così radicali, la politica antidoping deve cercare strade diverse rispetto a quelle tradizionali. La risposta, insomma, deve essere laica e non religiosa: deve cioè basarsi sulla razionalità piuttosto che su un atto di fede. E deve partire da una definizione: l’atleta è una persona sana, o una persona che a causa della sua attività subisce delle alterazioni fisiologiche che rendono necessario il ricorso alla farmacologia? Bisogna insomma stabilire se oltre alle condizioni di sano e malato possa esistere anche la situazione di ‘quasi malato’. La miglior risposta scientifica al quesito arriva a parer nostro da quanto sosteneva il compianto Gianmartino (Gianni) Benzi, farmacologo di fama internazionale: «L’atleta è un soggetto ‘diverso’, non inquadrabile come ‘sano’. Da oltre trent’anni è noto come in esso, con l’adattamento all’allenamento e alla prestazione, si operi una profonda modificazione biochimica, muscolare, nervosa, endocrina, cardiaca. Pertanto ogni intervento sull’atleta si deve confrontare con un biochimismo profondamente modificato e diverso da quello dello stesso soggetto quando era un sedentario. Questo, naturalmente, non significa affatto che l’atleta possa essere definito come un soggetto patologico o quasi. La sua diversità è materia della metodologia dell’allenamento e in nessun caso può essere l’alibi per introdurre trattamenti con i farmaci, siano essi inclusi o meno nelle liste del CIO. I malati sono malati e i farmaci sono farmaci» (G. Benzi, P. Bellotti, Farmaci, allenamento e sport, 1990, cit. in «Corriere della sera» del 1° maggio 2005, p. 43). Insomma, non esiste alcuna buona ragione per ritenere la medicina dello sport un campo a sé stante, in grado di autogestirsi e abilitato a non rispettare il Codice deontologico medico, le leggi sui farmaci, le norme etiche nazionali e internazionali che dettano le linee guida per la medicina clinica e sperimentale. Parliamo di documenti universalmente riconosciuti: la Dichiarazione di Helsinki (ultimo aggiornamento nel 2000), le Norme di buona pratica clinica (1991), le Direttive etiche internazionali (1992), la Convenzione europea di bioetica (1997). Secondo la Dichiarazione di Helsinki «la ricerca biomedica che coinvolge soggetti umani deve conformarsi a principi scientifici comunemente accettati e deve basarsi su sperimentazioni di laboratorio e su animali adeguatamente eseguite, nonché su una approfondita conoscenza della letteratura scientifica». Ricordiamo che il doping altro non è che una forma di sperimentazione impropria su soggetti umani: non c’è farmaco che possa essere utilizzato per motivi diversi da quelli terapeutici. Secondo le Norme di buona pratica clinica (Linee guida dell’Unione Europea di buona pratica clinica, recepito in Italia con d.m. 15 luglio 1997): 1) prima che uno studio abbia inizio, devono essere valutati i rischi e gli inconvenienti prevedibili rispetto al beneficio atteso sia per il singolo soggetto dello studio sia per la società. Uno studio potrà essere iniziato e continuato solamente se i benefici previsti giustificano i rischi; 2) i diritti, la sicurezza e il benessere dei soggetti dello studio costituiscono le considerazioni più importanti e devono prevalere sugli interessi della scienza e della società; 3) lo studio deve essere condotto in conformità al protocollo che abbia preventivamente ricevuto approvazione/parere favorevole di una commissione di revisione dell’istituzione o di un comitato etico indipendente; 4) un consenso informato deve essere ottenuto liberamente fornito da ciascun soggetto prima della sua partecipazione allo studio.
L’attenta lettura di queste direttive esclude, a parer nostro, che una delle soluzioni possibili per risolvere il problema del doping possa essere la sua legalizzazione. Tesi sostenuta con forza da alcuni esponenti del mondo sportivo (sia pure a livello di semplice provocazione), ma anche da esperti di farmacologia e bioetica. L’equivoco di fondo in cui cadono i fautori della legalizzazione è proprio quello di considerare l’atleta un quasi malato: visti i danni provocati dalla politica proibizionista (ricerca condotta nella clandestinità, ricorso a farmaci non sicuri), preferibile per loro sarebbe la scelta di un doping sotto controllo medico. L’atleta sarebbe così più garantito sotto il profilo della tutela della sua salute. In realtà gli staff medici al seguito degli atleti si porrebbero come obiettivo principale il miglioramento delle prestazioni (a scapito invece delle condizioni di salute).
Se il discorso teorico non basta, si può fare ricorso a quanto già avvenuto negli anni. Solo apparentemente, infatti, la legalizzazione del doping può aprire nuovi scenari di cui è difficile prevedere la conclusione. In realtà, questa strada è già stata seguita con esiti disastrosi in tempi e luoghi diversi. Una forma di doping sotto controllo medico fu infatti quella scelta nella Repubblica Democratica Tedesca. Se formidabili furono i risultati ottenuti dagli atleti di quel Paese, drammatici problemi fisici furono riscontrati e documentati da una vasta letteratura internazionale. Dei 10.000 atleti sottoposti al doping di Stato, 1000 hanno denunciato patologie per sé o per i propri figli, un numero imprecisato ha preferito non rendere pubbliche le proprie sofferenze. Ma analoghi, sconvolgenti risultati si sono ottenuti negli Stati Uniti, Paese in cui la legalizzazione del doping è stata la norma – sino a poco tempo fa – dei maggiori sport professionistici (hockey su ghiaccio, football, basket), nonché di quel miscuglio tra sport e spettacolo che è il wrestling. Un numero impressionante di morti, l’insorgere di gravi patologie, nonché l’esplosione di vere e proprie tragedie, come quella del wrestler Chris Benoit (suicidatosi dopo aver ucciso moglie e figlio nell’estate del 2007), hanno portato sia all’intervento diretto del presidente George W. Bush contro l’uso degli steroidi, sia all’istituzione dei controlli antidoping da parte delle Leghe professionistiche. Al quesito di base (come impedire che si vada oltre i limiti del corpo umano) la risposta è scontata: è sufficiente controllare i progressi scientifici, con l’applicazione delle norme già previste per la medicina clinica e sperimentale. La strategia deve essere quella di andare oltre i test antidoping, utilizzandoli non come unico mezzo di lotta, ma come un primo strumento, capace di indicare le successive strade da seguire.
I grandi scandali e gli alibi dei controlli
La storia dello sport ha sinora dimostrato l’esatto contrario di quanto viene invece pubblicizzato dall’istituzione sportiva. La bontà dei controlli antidoping è infatti esaltata citando il caso di positività più importante di sempre, quello relativo a Ben Johnson, il giamaicano-canadese dominatore dei 100 m negli anni Ottanta. Il suo caso, in realtà, è ormai vecchio (si verificò nel 1988 alle Olimpiadi di Seoul), e solo di recente si sono registrate vicende di simile spessore: nel 2006, per es., sono stati smascherati lo statunitense Justin Gatlin (allora coprimatista mondiale dei 100 m) e il vincitore del Tour de France, lo statunitense Floyd Landis. Ma sono molti di più i fallimenti dell’attuale sistema antidoping, incapace di scoprire gran parte delle sostanze vietate. Il caso emblematico è quello relativo alla velocista statunitense Marion Jones, esploso definitivamente nel 2007 e conclusosi con la condanna e l’ingresso in carcere della protagonista. Marion Jones è stata la seconda miglior velocista di sempre (la prima, la statunitense Florence Griffith, tuttora primatista mondiale dei 100 e dei 200 m, è morta improvvisamente a soli 38 anni, un decennio esatto dopo le sue straordinarie volate da record). La Jones, trionfatrice alle Olimpiadi di Sydney nel 2000 (cinque medaglie, di cui tre d’oro), da sempre sospettata di pratiche dopanti, è risultata regolarmente negativa alle diverse centinaia di controlli cui è stata sottoposta nel corso della sua lunga carriera. Ma è poi incappata in un’indagine federale, nata per motivi fiscali e capace invece di far scoppiare uno dei più grandi scandali doping della storia (quello legato al laboratorio della Balco, dove era stato messo a punto un anabolizzante – il tetrahidrogestrinone, comunemente denominato THG – ‘invisibile’ ai controlli). Marion Jones è stata così condannata a sei mesi di carcere, non per doping (tale reato non esiste negli Stati Uniti), ma per aver mentito. Il giudice ha trovato estremamente grave il suo atteggiamento, e la tardiva confessione (le foto dell’atleta in lacrime hanno fatto il giro del mondo) ha permesso alla velocista solo di evitare una pena assai più pesante (rischiava sino a 10 anni di prigione). In seguito a questa condanna, l’istituzione sportiva ha cancellato tutte le prestazioni della Jones tra il 1999 e il 2001, privandola nel contempo delle medaglie vinte. Il nome di Marion Jones è l’ultimo di una lunga serie. Se la sono sempre cavata, risultando negativi ai controlli, altri atleti come Lance Armstrong, vincitore di sette Tour de France consecutivi (e trovato positivo solo grazie ad analisi retrospettive, effettuate con un nuovo metodo su provette congelate, e che, eseguite a puro scopo scientifico, al di fuori del protocollo ufficiale dei controlli antidoping, non hanno portato ad alcuna sanzione: è provato, per es., che nel 1999, anno in cui vinse il suo primo Tour, egli assunse a più riprese l’eritropoietina). Ma persino i tanti ex tedeschi dell’Est, che in seguito alla caduta del Muro di Berlino hanno poi raccontato il dramma del doping e l’effetto che ha avuto sul loro fisico, non sono mai risultati positivi. Dimostrando, per l’ennesima volta, che l’istituzione sportiva ha preferito per anni nascondere il problema, trincerandosi dietro l’ingente numero dei test antidoping, mai confessando che essi erano virtualmente inefficaci se utilizzati come unico strumento di lotta. Oggi sembra esserci maggiore consapevolezza, anche se è ancora molto lunga la strada da percorrere: il passaporto biologico (che consiste in una sorta di schedatura permanente dei dati fisiologici di ogni singolo atleta) viene considerato lo strumento più accreditato per il futuro della lotta al doping.
Il linguaggio dello sport
«Bellicizzazione dello sport» è l’espressione, di stampo moderno, con cui si vuole indicare quel fenomeno di degenerazione che prende spunto dall’attività agonistica per sfociare nelle pulsioni e nelle passioni meno onorevoli che questa comporta. Oggi, sempre più spesso, il rispetto e il fair play, cui devono essere improntati i comportamenti di coloro che animano gli eventi sportivi, finiscono per essere soverchiati dal desiderio di vittoria, intesa, secondo un pensiero non condivisibile, come unico obiettivo.
Questo fenomeno però non coinvolge solo gli atleti in prima persona, in quanto a volte il clamore che si scatena intorno all’evento finisce per costituirne addirittura la cornice; ne sono un esempio le interviste ben sopra le righe che vengono rilasciate nei giorni che precedono una gara, oppure certe dichiarazioni e determinati comportamenti degli stessi protagonisti più adatti al Far West che a un mondo che dovrebbe ispirarsi ai principi del fair play.
L’eccesso è dunque in alcuni casi l’elemento caratteristico del linguaggio sportivo del nuovo secolo. Ciò ha portato alla nascita di un tipo di vocabolario ‘bellico-sportivo’ che sembra recepire come unico obiettivo il conseguimento di risultati immediati, e che non vede più l’avversario come semplice rivale, ma come vero e proprio ‘nemico’ da annientare.
La prerogativa ludica della competizione perde via via di significato e il linguaggio non riflette più la semplice passione sportiva; così termini come cannonata, bomba e duello vengono utilizzati nel lessico sportivo in maniera assai più ricorrente rispetto a quanto richiesto da un uso iperbolico e scherzoso. Winston Churchill, con una delle sue brevi frasi destinate a diventare proverbiali, una volta disse: «Gli italiani fanno guerre come fossero partite di calcio. In compenso giocano partite di calcio come fossero una guerra».
Fortemente esplicativa di questo ‘militarizzato’ approccio linguistico al calcio in particolare risulta una interessante e divertente pagina scritta dall’uruguaiano Eduardo H. Galeano: «La nostra squadra si è lanciata alla carica prendendo l’avversario alla sprovvista. È stato un attacco demolitore […]. La fanteria locale ha invaso il territorio nemico […]. Allora, il guardiano ormai vinto, custode del bastione che sembrava inespugnabile, è caduto in ginocchio con il viso tra le mani, mentre il carnefice che lo aveva fucilato alzava le braccia davanti alla folla che lo acclamava. […] Alla fine, quando l’arbitro sordo e cieco ha considerato conclusa la contesa, una meritata salva di fischi ha salutato la squadra vinta. Allora il popolo vittorioso ha invaso il campo e portato in trionfo gli undici eroi, di questa epica vittoria, questa epopea che tanto sangue, sudore e lacrima ci è costata» (El furbo a sol y sombra, 1995; trad. it. Splendori e miserie del gioco del calcio, 1997, p. 19).
La conseguenza peggiore della violenza verbale, già assolutamente inopportuna, è che sempre più spesso sfocia in una violenza fisica ancor più intollerabile: sono molte infatti le pagine di cronaca nera scritte negli ultimi anni proprio in relazione ad avvenimenti sportivi. Basti ricordare la tragica scomparsa del commissario di polizia Filippo Raciti, ucciso a Catania il 2 febbraio 2007, nel corso degli incidenti scoppiati tra gli ultrà della squadra etnea e le forze dell’ordine; l’assurda morte, l’11 novembre 2007, di Gabriele, ‘Gabbo’, Sandri, colpito da un proiettile sparato da un poliziotto che si trovava in un’area di servizio (quella di Badia al Pino) opposta rispetto al luogo in cui si trovava il tifoso laziale e da esso divisa da varie corsie di autostrada; e, ancora, la perdita di Matteo Bagnaresi, il ventisettenne tifoso del Parma travolto e ucciso, il 30 marzo 2008, ancora una volta in un autogrill (quello di Crocetta nord), da un pullman di tifosi della Juventus.
Per far fronte a questa situazione, ormai esasperata, nell’ambiente sportivo dovrebbe essere effettuato un energico cambiamento di rotta da parte di chi scrive, parla e vive di calcio; il limite del buon gusto e quello del buon senso dovrebbero essere ripristinati da chi, sentendone l’esigenza morale, si trova direttamente a contatto con il pubblico, che deve essere interessato e coinvolto senza superare mai i giusti limiti. È quindi un dovere di tutti impegnarsi per restituire allo sport (e in particolare al calcio, il più amato in Italia e nel mondo) la giusta dimensione, sdrammatizzando e riportando le situazioni entro i giusti limiti, facendo attenzione a scindere le azioni interne al rettangolo di gioco da quelle che avvengono al di fuori.
Un importante esempio di correttezza sportiva si è avuto nel derby giocato tra Lazio e Roma il 19 marzo 2008. Gabriele Sandri è stato ricordato da entrambe le tifoserie con slogan e striscioni di grande impatto emotivo e, fatto ancora più rilevante, il padre del tifoso scomparso si è diviso tra le due curve per far comprendere che il mondo del pallone dovrebbe rappresentare una realtà di forte aggregazione e non di divisione. Sono questi messaggi di pace, solidarietà e fratellanza che il calcio dovrebbe riuscire a fare suoi nella quotidianità e non nell’eccezionalità.
Tutto ciò dovrebbe spingere a parlare di azioni, di dribbling, contemporaneamente stigmatizzando con fermezza il comportamento dei violenti che in tutti i modi cercano di rovinare questo sport. È quindi compito dei media cercare di stemperare i toni al fine di rendere quanto più possibile equilibrato il clima in cui viene vissuto l’evento sportivo. Compito di chi comunica – e di esempi positivi ce ne sono molti – deve essere proprio quello di appassionare e interessare, senza mai superare un limite che nessun codice, se non la propria educazione, può stabilire.
Gli sport estremi
Si parla di sport estremi quando l’impegno fisico e atletico coincide con il bisogno di avventura e con la voglia di esaltare le più forti emozioni dello spirito umano; quando si ricercano immagini irripetibili, sensazioni mai provate prima, e ricordi indelebili da imprimere nella propria mente. Questa categoria di sport rispecchia una vera e propria filosofia di vita finalizzata all’assidua ricerca del limite e, soprattutto, per chi decide di intraprenderli, rappresenta anche un viaggio interiore al cui termine si esce profondamente mutati, nello spirito e nelle prospettive. Gli ‘sport estremi’ portano a confrontarsi direttamente con la natura e quindi con le difficoltà più primitive che questa pone all’uomo. Chi pratica questi sport coltiva un rispetto pressoché assoluto verso lo stato più selvaggio del mondo: questo tipo di discipline, per molti versi, tendono a valorizzarne le zone più belle, ma anche più pericolose, luoghi in cui con facilità si possono correre seri rischi.
I motivi che portano a intraprendere gli sport estremi sono numerosi, ma tutti accumunati dall’ambizione di misurarsi con alcuni stimoli fondamentali; ne sono un esempio la ricerca del rischio, la voglia di mettere alla prova i propri limiti, fisici e psicologici, e il desiderio di confrontarsi con i principali elementi naturali. Oggi, proprio grazie a queste caratteristiche, fanno parte ormai delle consuetudini della nostra società e vanno conquistando, anno dopo anno, un numero sempre maggiore di seguaci. Quelle che prima erano attività riservate a pochi appassionati sono ormai divenute un fenomeno consolidato, e, di conseguenza, oggetto di analisi e studio da parte di sociologi, psicologi, economisti e, ovviamente, giornalisti. Gli sport estremi vengono catalogati da alcuni esperti sotto il nome di sport californiani in riferimento al loro luogo di origine. Storicamente infatti è proprio la California il luogo in cui, intorno agli anni Cinquanta e Sessanta, gli appassionati iniziarono a praticare alcune discipline come il surf, il free climbing (scalata di pareti in roccia senza attrezzatura alpinistica), il rafting (discesa in zattera dei torrenti) e il triathlon (combinazione di nuoto, ciclismo e corsa).
La loro diffusione è stata rapidissima e si è imposta anche in Europa. A queste discipline se ne sono poi aggiunte altre divenute nel corso del tempo veri e propri fenomeni di massa: basti pensare al successo delle mountain-bike negli anni Ottanta, e, più recentemente, a quello del kite-surf (una disciplina che unisce la tradizionale tavola per cavalcare le onde con una vela simile al parapendio).
Sono tutti sport per i quali non si può prescindere da una prima, indispensabile, qualità: il coraggio. La spregiudicatezza, o, come viene chiamata da altri con un pizzico di invidia, incoscienza, è senza dubbio il principale elemento di ammirazione per chi li pratica. Un altro elemento che rende gli sport estremi veramente unici è la quasi totale libertà di azione che viene lasciata al soggetto; non vi sono regole da seguire né strade già battute da percorrere: l’unico vero limite che si può riscontrare è rappresentato dalle proprie capacità. Inerente all’essenza stessa degli sport estremi è anche il loro legame con le variabili ambientali, che portano spesso a confrontarsi con situazioni impreviste: un cambio repentino di vento per chi si avventura senza rete tra i cieli, un temporale che può scoppiare all’improvviso per chi si arrampica in montagna, le diverse correnti dei corsi d’acqua per chi lotta con le rapide. L’obiettivo principale negli sport tradizionali è quello di primeggiare sugli altri, quello degli sport estremi risponde invece a ben altri caratteri. Secondo Reinhold Messner, uno dei più grandi alpinisti italiani di tutti i tempi, a spingerlo in ogni sua impresa è stata proprio la voglia di sperimentare sé stesso, fino a scoprire il limite di sopportazione del proprio fisico. Misurare e testare il proprio coraggio e la tenuta del proprio corpo spinge dunque l’uomo a gettarsi a chilometri di altezza con un paracadute, a ondeggiare tra le correnti d’aria con un parapendio, a scalare una montagna con la sola forza delle braccia e delle gambe, o a cimentarsi tra le rapide di un torrente, affidandosi soltanto al controllo e al conforto di un gommone. Il fine ultimo degli sport estremi è quindi quello di scoprire potenzialità rimaste sopite fino a quel momento. Così da poter verificare quale è il punto, l’estremità, il limite, oltre il quale non si può andare senza danneggiare la propria integrità fisica e psicologica; il confine invalicabile, il limite estremo che non ci è dato oltrepassare.
Bibliografia
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