Lo Stato nazionale e la nuova scienza del diritto pubblico
La storia d'Europa nell'Ottocento fu anche la storia della nascita degli Stati liberali nazionali e tra essi dei nuovi Stati unitari, Italia e Germania. In Italia la nuova scienza del diritto pubblico, la 'scuola giuridica nazionale', sorse con Vittorio Emanuele Orlando solo negli anni Ottanta dell'Ottocento, a un quarto di secolo dall'Unità, in coincidenza con le riforme amministrative crispine e alla vigilia del ῾decollo amministrativo᾿ e industriale del Paese. La nuova scienza giuspubblicistica fu espressamente concepita e definita come diretta e immediata conseguenza della nozione di Stato liberale. I suoi principi teorici e criteri metodici vennero programmaticamente pensati come un nuovo statuto scientifico disciplinare ordinato al fine dei principi e dei valori dello Stato liberale nazionale.
Nel 1889, Orlando iniziava i Principii di diritto costituzionale scrivendo che
contrariamente alle tendenze in generale dominanti, noi non crediamo possibile di cominciare il nostro studio con la definizione della scienza. Di fatti questa è così strettamente connessa con la nozione di Stato che non si può avere una piena e scientifica intelligenza dell'una, senza aver prima determinata l'altra (p. 13).
Dunque, la nuova scienza del diritto pubblico veniva intesa quale corollario della nozione di Stato liberale nazionale, che Orlando descriveva come Stato di diritto e al contempo come persona giuridica sovrana,
in quanto la società si concepisce organizzata politicamente per la tutela del Diritto sorge la nozione di Stato [...] questo Stato costituisc[e] un organismo sui generis, dotato di volontà propria, di propri organi e soggetto a determinate leggi: e da tutti questi criteri sorgerà completo il concetto della personalità giuridica dello Stato, presupposto anch'esso essenziale della scienza nostra (pp. 15-16).
E dai concetti di Stato di diritto e di personalità giuridica dello Stato deduceva sia la natura della metodologia della nuova scienza giuspubblicistica – «il carattere essenzialmente giuridico del nostro studio» (p. 16), il «metodo giuridico» o «logico-giuridico» –, sia l'intera sequenza di enunciati che ne costituivano l'oggetto teorico: teoria della sovranità, forme di governo, nozione di rappresentanza politica, poteri dello Stato, diritti politici di libertà e libertà civili, organizzazione e attività dell'amministrazione, giustizia amministrativa. Insomma, tutti i capitoli dei Principii di diritto costituzionale del 1889, dei Principii di diritto amministrativo del 1891 e, a partire da 1897, tutte le grandi partizioni del monumentale Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano.
Nella dottrina dello Stato liberale di diritto formulata dall'Orlando la nozione di Stato come persona giuridica implica, sulla scia di Karl Friedrich Gerber, quella di sovranità quale affermazione della sua capacità giuridica, «l'affermarsi dello Stato come giuridica persona e quindi la fonte della sua generale capacità di diritto» (p. 45), una definizione che salda sovranità e diritto, ovvero sovranità e limite giuridico al suo esercizio, che fonda insomma lo Stato liberale di diritto come Stato a un tempo sovrano e limitato appunto dal diritto, Stato-persona giuridica sovrana che si autolimita, «in cui i diritti di libertà sono diritti meramente legali, rimessi all'auto-limitazione del legislatore» (L. Mannori, B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, 2001, p. 322). Implica la scelta di basare il diritto pubblico sulle fondamenta del soggettivismo pandettistico, ovvero su una trama di «soggetti artificiali» (a partire dallo Stato-persona giuridica) e «sulla separazione fra l'organizzazione soggettiva dei poteri pubblici e l'attività di questi soggetti», sul dualismo tra gli «organi» e l'attività dello Stato, concepita come manifestazione di volontà dei suoi «organi» (V.E. Orlando, Principii di diritto amministrativo, 1891, p. 46), un dualismo calco della distinzione «privatistica tra soggetto e negozio» (G. Berti, Interpretazione costituzionale, 1987, p. 221), tra il concetto di individuo (das Rechtssubjekt) e la sua volontà. Implica anche l'«identità dello Stato sardo con quello italiano», visto che l'identità «concerne, più che altro, la personalità dello Stato, così di diritto interno come di diritto internazionale», come sosterrà Santi Romano, allievo di Orlando e uno dei maestri della nuova giuspubblicistica italiana in un noto saggio del 1911 (I caratteri giuridici della formazione del Regno d'Italia, in Id., Scritti minori, 1° vol., Diritto costituzionale, 19902, p. 417), seguendo l'opinione tradizionale già accolta da Orlando nei Principii di diritto costituzionale del 1889 (p. 39). Implica infine il ῾riduzionismo᾿ giuridico, la subordinazione e l'assorbimento della società nello Stato-persona. Lo Stato unitario, persona giuridica sovrana, è pensato da Orlando, in opposizione al pluralismo sociale e al conflitto politico, come soggetto coeso, capace di superare le lotte sociali e politiche e di includere in una superiore unità individui e classi sociali:
Lo Stato è dunque un istituto giuridico, ed è un subietto capace di Diritto; nei quali termini è già compresa la nozione di personalità giuridica dello Stato. In mezzo dunque alla varietà dei rapporti sociali, alle manifestazioni indefinitamente multiformi delle forze e delle tendenze così degli individui come delle classi sociali, lo Stato appare come la integrazione di esse in una poderosa unità (Principii, cit., p. 16).
Alla fine dell'Ottocento e poi in età giolittiana, con il ῾decollo amministrativo᾿ e industriale del Paese, con lo sviluppo delle funzioni pubbliche legate ai servizi sociali e la grande espansione degli apparati e del personale amministrativo, con la modernizzazione della società (Melis 1996, pp. 181-96), la dottrina dello Stato persona giuridica sovrana (e dunque «l'impersonalità del potere pubblico, la personificazione del potere per mezzo dello Stato, concepito esso stesso come persona») resta «principio fondamentale del diritto pubblico moderno», «stupenda creazione del diritto», «luminosa concezione dello Stato» (S. Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi, in Id., Scritti minori, cit., pp. 382-83), e assieme diventa, nelle pagine di due dei massimi rappresentanti della scuola giuridica nazionale, Romano e Oreste Ranelletti (1868-1956), dottrina dello Stato amministrativo. È infatti la pubblica amministrazione a «impersonare lo Stato stesso nella pienezza della sua sovranità», a costituirne l'«essenza», la funzione originaria, primaria, indefettibile, autoritativa, capace di garantire i valori dello Stato liberale di diritto, l'autorità-sovranità, l'unità nazionale, la stabilità delle istituzioni, la continuità, l'impersonalità del potere pubblico, l'autonomia dalla politica, la neutralità rispetto ai particolarismi sociali, la generalità e il principio di legalità nell'esercizio dei poteri pubblici dinanzi alle divisioni ed ai contrasti sociali e politici (Fioravanti, in Stato e cultura giuridica in Italia dall'Unità alla Repubblica, 1990, pp. 21-39). E
i giuristi dello Stato amministrativo, difendendo l'integrità dell'amministrazione e del suo diritto, non difendevano altro che quella sovranità dello Stato-persona che è stata al centro di tutta la riflessione giuspubblicistica italiana precedente la costituzione democratica del 1948 (Fioravanti, in Storia dello Stato italiano: dall'Unità a oggi, 1995, p. 433).
Va d'altra parte ricordato che le classi dirigenti liberali, che avevano evitato di organizzarsi in partito moderno, identificarono proprio nello «Stato, inteso come amministrazione, [...] l'unica [loro] forma di organizzazione» nazionale (P. Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, 1971, p. 164). Quando nel 1909 Romano intitola una sua celebre prolusione pisana allo Stato moderno e la sua crisi, che attribuisce al carattere «eccessivamente semplice» del suo ordinamento politico dinanzi all'affermarsi di una «società corporativa», organizzata sulla base di interessi particolari; e ribadisce la sua fede nello Stato moderno, nella sovranità dello Stato persona, definito al contempo come «l'organizzazione superiore che unisca, contemperi e armonizzi le organizzazioni minori in cui la prima va specificandosi», e come «l'ente reale», titolare di un «potere pubblico […] indivisibile nella sua spettanza»; ebbene, questa «organizzazione superiore» e questo «ente reale» sono l'organizzazione pubblica amministrativa (Lo Stato moderno e la sua crisi, cit., pp. 379-96).
Del resto nel 1909 siamo a mezzo dell'età giolittiana, e il giolittismo è stato acutamente definito «progetto burocratico di governo» (P. Farneti, Sistema politico, cit., p. 164). Dodici anni dopo, Donato Donati (1880-1946), un altro maestro della nuova giuspubblicistica, parla dei pubblici dipendenti come «sostanza della persona reale dello Stato» (La persona reale dello Stato, «Rivista di diritto pubblico», 1921, 13, poi in Id., Scritti di diritto pubblico, 2° vol., 1966, p. 238). Nel ventennio fascista, poi, lo Stato amministrativo fa dell'Italia, per molti versi, un Paese di burocrazie pubbliche (Melis 1996, p. 380), tradizionali e nuove. Insomma, lo Stato amministrativo, che «può dirsi una variante, o forse più semplicemente un modo d'essere, dello Stato liberale di diritto di Spaventa e di Orlando» (Fioravanti, in Storia dello Stato italiano: dall'Unità a oggi, 1995, p. 433), risulta «la forma politico-statuale vincente fino alla Costituzione del 1948, a partire dall'età giolittiana, ed attraverso tutto il periodo fascista» (Fioravanti 2001, p. 424).
Ora, mostrare come la dottrina dello Stato persona giuridica fosse scientificamente conciliabile con gli istituti della rappresentanza politica e del governo parlamentare e come il governo parlamentare a sua volta fosse scientificamente conciliabile con lo Stato di diritto, con il Rechtsstaat, costituì un assunto teorico e ideale che distinse il lavoro della nuova scuola giuridica di Orlando dalla pubblicistica antiparlamentaristica della Destra e dai giuristi tedeschi, da Gerber (1823-1891) a Paul Laband (1838-1918), a Rudolf von Gneist (1816-1895).
E non a caso la prima applicazione concreta del metodo giuridico è dedicata da Orlando nel 1886 agli Studi giuridici sul governo parlamentare (in Id., Diritto pubblico generale, 1954, pp. 345-415), alla fondazione scientifica della natura giuridica del governo parlamentare, che postula sia la critica al principio della divisione dei poteri (perché la specialità dello Stato costituzionale moderno riguarda piuttosto la distinzione, garantita da norme di diritto pubblico, della forma, natura ed efficacia degli atti legislativi, esecutivi e giudiziari in cui si manifestano le singole funzioni fondamentali della sovranità); sia quella della rappresentanza politica per via di delegazione di poteri (perché il popolo non è un ῾organismo giuridico᾿ che possa conferire mandati, non è persona, si personifica nello Stato), per affermare invece che la forma rappresentativa mira solo ad assicurare l'elezione e l'esercizio del governo ai ῾migliori᾿, ai più ῾capaci᾿, e che il Gabinetto deriva il suo carattere giuridico dalla Corona: insomma, per sostenere una concezione dualistica della costituzione e della forma di governo, palesemente tributaria nei confronti della storia e del modello costituzionale inglesi, che contempera in una forma di governo bilanciato, nel governo di gabinetto, prerogativa regia e maggioranza parlamentare.
Vi sono dunque un nesso stretto, una vicenda parallela e una legittimazione reciproca tra la costruzione, gli sviluppi e le vicende dello Stato nazionale e quelli della nuova scienza del diritto pubblico (Ferrajoli 1999, pp. 6, 10, 24-25). Orlando elabora un nuovo statuto scientifico disciplinare pubblicistico, specialistico, formalizzato, che in quanto scientifico assume di essere oggettivo, neutrale, e così realizza un'opera di vicendevole uniformazione, di omologazione reciproca, tra i caratteri del nuovo paradigma disciplinare e il suo oggetto teorico, il diritto e lo Stato nazionale, assunti, sulle orme di Friedrich Carl von Savigny (1779-1861) e della scuola storica, nel rifiuto della concezione volontaristica e contrattualistica rousseauiana, come prodotti della storia, fatti storico-naturali, e dunque anch'essi come oggettivi, impersonali, imparziali, neutrali.
In questa maniera Orlando avvia un processo storico di legittimazione reciproca, incrociata, circolare, tra il nuovo statuto scientifico disciplinare (e la comunità professionale di giuristi di diritto pubblico che lo elaborano e lo sviluppano), il suo oggetto teorico (il diritto e lo Stato nazionale) e le classi dirigenti politiche e burocratiche formate nelle facoltà giuridiche secondo i principi del nuovo paradigma scientifico giuspubblicistico. A un tempo, Orlando statualizza e nazionalizza la scienza giuspubblistica e «la comunità displinare» degli studiosi che la coltivano (P. Costa, in Stato e cultura giuridica, 1990, pp. 91, 93), ῾scientificizza᾿ diritto e Stato, e accultura, educa ai suoi metodi, linguaggio, schemi argomentativi, principi, valori e metafore la classe dirigente di formazione giuridica universitaria.
Così la nuova scienza del diritto pubblico, la 'scuola giuridica nazionale', come amò chiamarsi la scuola dell'Orlando, dà un contributo concettuale, tematico e lessicale talmente importante alla costruzione dello Stato nazionale da assumere un vero e proprio ruolo istituzionale non solo di consolidamento ma anche di supplenza delle istituzioni unitarie nel rafforzamento della compagine nazionale. La ristrettezza delle basi sociali e la debolezza delle istituzioni di uno Stato fragile, sorto per la volontà della classe dirigente politica di favorire anzitutto l'unificazione economica del Paese, disunito non solo sul piano dell'economia ma della lingua e della cultura, è un topos della letteratura storiografica.
Se il lavoro di unificazione costituzionale, amministrativa e legislativa fatto dal '59 al '70 era stato «enorme» (B. Croce, Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 19427, pp. 31-32), l'unificazione nazionale «formalmente proclamata e scritta nelle grandi leggi» di quella prima fase costituente «restava fortemente da realizzare sul piano della prassi amministrativa e della vita concreta delle istituzioni»:
Delle grandi istituzioni che avevano altrove caratterizzato la nascita della nazione borghese, nessuna o quasi negli anni successivi al 1861 poteva dirsi pienamente realizzata. Non una magistratura unitaria e coesa, […] non un'unica ossatura del credito, […] non una legislazione propriamente unitaria, […] non un sistema concorsuale moderno per l'assunzione ai pubblici impieghi, […] non un unico sistema metrico, […] né un catasto nazionale, né un sistema moderno e centralizzato di prelievo fiscale (G. Melis, La nascita dell'amministrazione nell'Italia unita, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2011, 61, p. 454).
Lo stesso accoglimento del modello centralista napoleonico si era mutato in Italia in un centralismo debole, ove il prefetto non aveva il controllo di tutte le amministrazioni periferiche dello Stato ma esercitava soprattutto un ruolo «di integrazione al centro delle domande della periferia» delle piccole patrie, una «integrazione contrattata» (pp. 457-59) con i notabilati locali, che d'altra parte nella figura del deputato erano «simultaneamente periferia e centro, vale a dire notabili socialmente e notabili politicamente» (M. Meriggi, La politica e le nuove istituzioni, «Le carte e la storia», 2011, 17, pp. 29-31).
Nei due decenni che seguirono l'Unità la politica di national building «indubbiamente ci fu, e impegnò duramente le classi dirigenti, ma senza investire in modi particolare l'amministrazione». Il ‘decollo amministrativo’ si ebbe nel successivo trentennio 1881-1911 (Melis 1996, p. 181) a partire dall'età e dalle riforme crispine, e
lo Stato nacque davvero a cavallo dei due secoli, quando si potette registrare il decollo burocratico, funzionale (in molti modi) alla formazione di un sistema industriale (perché assicurava i grandi servizi pubblici che esso chiedeva e perché assorbiva diplomati e laureati meridionali, tagliati fuori dallo sviluppo dell'economia) (S. Cassese, 'Fare l'Italia per costituirla poi'. Le continuità dello Stato, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2011, 61, p. 323).
Anche la storiografia giuridica ha parlato di Stato «inefficiente, debole, in qualche modo isolato e disprezzato», una debolezza che «coinvolge una per una, le istituzioni di vertice», corona, governo, parlamento, ma anche magistratura, amministrazione ed esercito (U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, 1989, pp. 273-74). Ha parlato di «fragile identità nazionale» (Ferrajoli 19992, p. 25), di «carenza genetica», di «originaria debolezza» dello Stato italiano (G. Amato, La costituzione italiana, «Rivista trimestrale di diritto pubblico», 2008, 58, pp. 917, 919), di «mancata costituzione di un 'corpo' statale, e cioè di una 'élite' amministrativa», di «dislivelli di statualità» nella storia dello Stato italiano comparata ad altre esperienze (S. Cassese, 'Fare l'Italia per costituirla poi', cit., pp. 326-29). E ha rilevato il singolare contrasto di questa statualità debole con la «tanta enfasi» posta sullo Stato (U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, cit., p. 273), con «la glorificazione della 'persona' dello Stato», con «la forte statalità culturale» della teoria italiana dello Stato «presa a prestito dai tedeschi» (S. Cassese, 'Fare l'Italia per costituirla poi', cit., pp. 326-27).
Alla debolezza costitutiva dello Stato proprio la nuova scienza giuridica risponde con lo statalismo teorico e ideologico, con la costruzione di uno statuto scientifico prettamente statalista e con una fervida, continuamente rinnovata professione di fede nello Stato-persona sovrano. Se Orlando, nella prolusione palermitana del 1889, nel manifesto scientifico e ideologico del nuovo indirizzo, come vedremo, affida alla nuova scuola e al sistema del diritto pubblico nazionale da essa costruito la vita e il futuro dello Stato italiano, Romano nella prolusione modenese del 1903 vede nella «tecnica e la logica giuridica» della nuova scienza il «ricostituente eroico» del «gracile organismo» della dottrina e del diritto pubblico italiani (Il diritto costituzionale e le altre scienze giuridiche, in Id., Scritti minori, 1° vol., cit., p. 245).
Sino allora era mancato al diritto pubblico un autonomo paradigma scientifico disciplinare egemone a livello nazionale; non vi era una comunità professionale nazionale di studiosi organizzata intorno a esso ed era assente all'interno delle università l'educazione ai suoi criteri metodici e principi teorici della classe dirigente nazionale, in prevalenza di formazione giuridica; ed erano incompiute e fragili le istituzioni dello Stato nazionale rispetto ai modelli dei moderni Stati europei. A colmare questo complesso di deficienze (scientifiche, culturali, ideologiche e pratiche) delle istituzioni dello Stato nazionale mira la nuova scienza del diritto pubblico, l'opera scientifica e culturale della scuola giuridica nazionale, che aspira a svolgere una vera e propria plurima funzione istituzionale di consolidamento e supplenza delle istituzioni dello Stato nazionale e di completamento delle loro incompiutezze.
La 'scuola giuridica nazionale' vuole essere per Orlando «il soffio del diritto» che «anima» le istituzioni (I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, in Id., Diritto pubblico generale, cit., p. 21), il romaniano «ricostituente eroico» del «gracile organismo» statale e nazionale, il rimedio di mancanze, difetti e debolezze che evocano la figura del «cavallo tutto fame e piaghe», che in quell'anno dell'Unità «inizia il lungo viaggio» dalle remote campagne del feudo di Donnafugata per riportare a Girgenti il cavaliere Aimone Chevalley di Monterzuolo.
Proprio dalla Sicilia, a un quarto di secolo dall'inizio del lungo viaggio dello Stato italiano, prende avvio la svolta pandettisca che porta all'avvento del paradigma scientifico giuspubblicistico e alla nascita della 'scuola giuridica nazionale'.
Nel 1885 Orlando vince il concorso per la cattedra di diritto costituzionale dell'Università di Modena e l'anno successivo per quella di Messina. I principi metodici indicati nelle prolusioni inaugurali di Modena e di Messina sono riproposti in maniera organica nella prolusione su I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico letta l'8 gennaio 1889 nell'Università di Palermo, dove il 16 dicembre dell'anno precedente è stato chiamato a coprire la cattedra di diritto amministrativo.
Essa costituì il manifesto del moderno specialismo scientifico disciplinare nella giuspubblicistica italiana e «fece in questo senso epoca» per il diritto pubblico, come scrisse Romano (Il diritto pubblico italiano, 1988, p. 6, nota 13), l'antico discepolo, tra il 1893 e il 1898, della sua «bottega» palermitana «di artigianato giuridico»: rispose a quella tendenza alla frammentazione del sapere in una moltitudine di specialismi disciplinari, a quel «principio della divisione del lavoro scientifico» in «distinti ed autonomi ordini scientifici diversi», che «è fondamentale nelle scuole moderne», come Orlando osservava proprio nella prolusione palermitana.
Distinto «l'ordine politico ed il giuridico», «la discussione filosofica e politica circa la natura e la convenienza generica e specifica di un istituto» dallo «studio giuridico di esso»; rifiutato il «commento esegetico», che costituisce la «meno nobile e degna manifestazione del pensiero e dell'attività creativa giuridica», Orlando propose di ricorrere alla tecnica elaborata nell'esperienza romana e nella tradizione romanistica per costruire anche il diritto pubblico «nel modo stesso che il diritto privato come un sistema di principi giuridici sistematicamente coordinati», a cominciare dalle idee «di personalità giuridica dello Stato» e «dei diritti pubblici subiettivi» e dunque di rapporto giuridico, dominato dalla signoria della volontà dello Stato e dei soggetti individuali, cioè dagli elementi costitutivi del soggettivismo pandettistico.
Se la prolusione di Orlando fece epoca per il diritto pubblico in Italia, più risalente e corale fu l'inizio del rinnovamento nelle scienze del diritto romano e privato, a opera dei vari Filippo Serafini, Vittorio Scialoja, Carlo Fadda e Paolo Emilio Bensa. Medesimi ne furono, però, gli obiettivi: la costruzione dello Stato giuridico italiano e l'affermazione in esso del ruolo di guida teorica da assegnare alla scienza giuridica universitaria nei confronti della pratica forense, amministrativa e politico-legislativa. Nell'accoglimento della lezione savignyana riguardo al dualismo tra diritto e legge, tra legge e sistema (V.E. Orlando, I criteri tecnici, cit., pp. 16, 20), si aprivano per il giurista universitario gli spazi necessari per interporsi tra il momento della statuizione e quelli dell'interpretazione e applicazione giudiziale e amministrativa; per svolgere la funzione di guida teorica della pratica forense e amministrativa e subordinare a sé la stessa legislazione.
Il modello pandettistico permetteva, dunque, di riproporre e teorizzare a fine secolo, in un paese a diritto codificato come l'Italia, il vecchio progetto del Beruf savignyano che aveva legato assieme centralità, autonomia e prevalenza della dottrina universitaria sulla legislazione e sulla pratica giudiziale, adozione del metodo logico-giuridico e costruzione del sistema degli istituti e dei principi giuridici. Il giurista promuoveva un'«alleanza della scienza con la legislazione» (A. Giuliani, L'applicazione della legge, 1983, p. 54), facendosi mallevadore del controllo scientifico di legittimità dell'operato della giurisprudenza. Assicurava la sottoposizione del giudice alla legge, subordinandone l'applicazione al suo inserimento nel sistema del diritto positivo e affidava la costruzione scientifica del sistema al concettualismo giuridico.
A sua volta, il dualismo tra diritto e legge generava il sostanzialismo concettuale e linguistico, l'ipostatizzazione dei principi ed istituti del sistema, con il richiamo allo Jhering del Geist ancora rappresentante della Begriffsjurisprudenz, «l'abitudine a considerare le varie nozioni ed i vari istituti giuridici, come delle entità reali, esistenti, viventi»; pareva dare universalità ai concetti, sino a ricordare a Orlando il ‘calcolo colle idee’ dei giureconsulti romani di leibniziana e savignyana memoria.
Le categorie pandettistiche fornirono così ai giuristi universitari il modello teorico e metodico per la costruzione del sistema dei concetti di ogni disciplina giuridica. Il paradigma pandettistico divenne lo statuto scientifico del moderno specialismo in tutte le discipline giuridiche e permise a tutti i nuovi rami della scienza giuridica la costruzione della specifica identità di propri ambiti teorici rigorosamente disciplinari.
Le università, luoghi di produzione del paradigma pandettistico e della formazione pandettistica degli operatori giuridici, ne furono naturalmente anche luoghi privilegiati di trasmissione, «il centro motore di questo nuovo indirizzo», come aveva auspicato nella prolusione palermitana Orlando. E come Gneist aveva concluso il suo Rechtsstaat invitando i giuristi tedeschi alla Missione del Rechtsstaat germanico, Orlando conclude la prolusione palermitana indicando ai giuristi italiani nella ricostruzione scientifica del diritto pubblico italiano l'apporto che possono dare all'edificazione dello Stato giuridico nazionale e al compimento della «meravigliosa storia del Risorgimento».
Alla formulazione del nuovo paradigma scientifico poco o nulla aveva contribuito la giuspubblicistica precedente Orlando. Abbiamo ricordato la distinzione orlandiana tra «l'ordine politico ed il giuridico» e il suo rigetto tanto delle «elucubrazioni filosofiche» e delle discussioni politiche quanto del commento esegetico, del «commento pedestre», che avevano caratterizzato l'opera della vecchia scuola italiana (V.E. Orlando, I criteri tecnici, cit., pp. 17-20). Rifiuto che Alfredo Rocco ripeterà nel bilancio dell'opera della scienza giuridica italiana fatto nel cinquantenario dell'Unità, scrivendo del vecchio «studio del diritto pubblico, per tanti anni in Italia divagante nelle vacue e nebulose generalità sociologiche e politiche» o perduto nella «morta gora dell'esegesi» del «commentario pedestre» (La scienza del diritto privato in Italia negli ultimi cinquant'anni, «Rivista del diritto commerciale», 1911, 9, pp. 298, 302, 303).
Anche se questi recisi giudizi erano dati in una logica identitaria e programmatica, necessariamente schematica, di contrapposizione di indirizzi scientifici, di credi ideologici e di ambizioni di egemonie culturali, rispondevano però in gran parte ai contenuti della riflessione costituzionalistica e amministrativistica preorlandiana.
Tra i costituzionalisti si usano ricordare nomi come Ludovico Casanova (1799-1853), Luigi Palma (1837-1899) e Attilio Brunialti (1849-1920), ma senza riuscire a trovare nelle loro opere smentite al parere orlandiano. In definitiva analogo, anche se più articolato, diventa il giudizio quando leggiamo le pagine degli amministrativisti preorlandiani più noti, come Giovanni Manna (1813-1865), Giovanni De Gioannis Gianquinto (1821-1883) e Lorenzo Meucci (1835-1905).
Le Lezioni di diritto costituzionale di Casanova divise in due parti, la prima dedicata ai diritti «guarentiti dallo Statuto ai cittadini», la seconda alle «forme di governo» (Del diritto costituzionale. Lezioni, 2 voll., 1859-1860), sono un compendio dei luoghi comuni dello statalismo liberale ottocentesco, detti in una combinazione eclettica di schemi argomentativi esegetici, storico-politici e filosofici, senza che la descrizione esegetica si elevi alla costruzione giuridica di istituti e principi:
Commentando lo Statuto che ci regge, dobbiamo cercare che è, quale è, perché è; testo, storia, filosofia, ecco i fonti a cui dobbiamo attingere le nostre dottrine (1° vol., 1859, p. 6).
Ben altro rilievo nella storia della costituzionalistica italiana hanno le opere di Palma. Si pensi a lavori come Del potere elettorale negli Stati liberi del 1869, ai due volumi del Corso di diritto costituzionale del 1877, al saggio sui Nuovi studi sulla costituzione inglese del 1887, a La costituzione dei popoli liberi del 1894, che appare nella Biblioteca di Brunialti. L'approfondita conoscenza della letteratura internazionale e il respiro europeo dei suoi lavori fanno di Palma uno dei maestri del primo trentennio postunitario, che rimane però fautore di un indirizzo di studio politico-giuridico e storico comparativo e non dà un contributo diretto alla formulazione di un nuovo autonomo paradigma disciplinare.
E tanto meno ne dà Brunialti, autore di una straripante bibliografia e, con la cura della monumentale Biblioteca di scienze politiche e poi di scienze politiche e amministrative apparsa in tre serie tra il 1884 e il 1921 per i tipi della UTET, uno dei massimi organizzatori e divulgatori culturali tra Ottocento e Novecento. Le questioni dell'autonomia concettuale e metodologica delle singole scienze, dello specialismo scientifico moderno, risultano non solo estranee ma contrarie alla concezione pratica, pedagogica e politica insieme che egli assegnava alla scienza, come ribadirà anche nel suo trattato costituzionalistico, Il diritto costituzionale e la politica nella scienza e nelle istituzioni, pubblicato nel 1900 nell'8° vol. della Biblioteca, in espressa polemica proprio con l'indirizzo logico-giuridico orlandiano che aveva voluto distinguere l'ordine giuridico dal politico.
Se esaminiamo poi l'amministrativistica preorlandiana mutano solo in parte l'ambito teorico culturale e i termini dell'analisi. All'indomani dell'Unità si avverte presto un vigore nuovo negli studi amministrativistici, una più larga circolazione delle dottrine italiane e straniere, un approfondimento dell'indagine teorica e l'avvio progressivo di un lavoro comune, che supera o ripropone in un'ottica nazionale le tradizionali problematiche delle singole scuole regionali. Dopo le leggi di unificazione amministrativa del 1865 e con l'istituzione di cattedre di diritto amministrativo in tutte le facoltà giuridiche del Regno si fece sempre più assidua e generale, per impulso degli studiosi che le salivano – si pensi in specie a De Gioannis Gianquinto e a Meucci, ma anche a Giacomo Macrì (1831-1908) e a Saverio Scolari (1831-1893) –, la riflessione, preparata dall'opera di Giandomenico Romagnosi (1761-1835) e avviata da Manna, sul concetto del diritto amministrativo, sulle sue partizioni, sul metodo di trattazione delle materie, sul ‘sistema’: sui rapporti, insomma, del diritto amministrativo con il diritto civile, con il diritto pubblico costituzionale, con la politica, e quindi, sull'identità della nuova scienza del diritto amministrativo e sulla sua distinzione dalle altre scienze sociali. Sappiamo però che occorsero alcuni decenni ai giuristi universitari italiani per giungere con la scuola pandettistica od orlandiana a costruire l'autonomia scientifica del diritto amministrativo inteso come un sapere e un discorso specialistici capaci di unificare la comunità disciplinare amministrativistica.
Dei libri ‘nuovi’, che i giuristi dedicarono alle questioni dell'unificazione amministrativa e dell'ordinamento amministrativo, parecchi apparvero fin dai primi anni Sessanta a Napoli, scritti dai rappresentanti dell'autonomismo neoguelfo napoletano. Tra essi, ancora ‘nuova’ per intatto vigore speculativo e duratura fertilità nella successiva tradizione letteraria amministrativistica, la ristampa nel 1860 delle Partizioni teoretiche del diritto amministrativo di Manna, già apparse a Napoli vent'anni prima (primo dei tre volumi di Il diritto amministrativo del Regno delle due Sicilie. Saggio teorico, storico e positivo, 1840-1847). Manna propose alla nuova dottrina amministrativistica nazionale un modello di analisi strutturale volto a descrivere i «caratteri generali e invariabili» dell'amministrazione pubblica, che traeva ispirazione dalle leggi della filosofia della storia dettate da Giambattista Vico, e volto alla definizione dei principi di dottrina generale di un diritto amministrativo razionale, astratto, che a partire dal 1860 diventava anche un modello ideale per le scelte dei nuovi ordini positivi che di lì a poco la classe politica nazionale avrebbe dovuto adottare.
Dopo Manna e prima della svolta pandettistica di Orlando due amministrativisti emergono su tutti, De Gioannis Gianquinto e Meucci. Leggere una qualsiasi delle opere di De Gioannis equivale a leggere l'intera enciclopedia giuridica. Era la genesi stessa dei suoi scritti a fare di parecchi di essi una proluvie di dottrine e a legarli assieme in un continuum, che non conosceva cesure metodiche e teoriche ma solo aggiunte di nuove parti alle vecchie. Saldi e immoti rimanevano, dall'enunciazione del programma nella prolusione pavese del '63 di un Nuovo diritto amministrativo d'Italia al suo compimento nell'ultimo dei tre volumi del Corso di diritto pubblico amministrativo, usciti a Firenze tra il 1877 e il 1881, i concetti e gli ideali, il metodo e il sistema.
Nel 1863 a Pavia De Gioannis aveva indicato i principi banditi da Vincenzo Gioberti nel suo testamento politico-religioso, dettato per il Rinnovamento civile in Italia, quali criteri da seguire per dare mano anche alla scienza del diritto amministrativo italiano. Si doveva creare un diritto amministrativo, una scienza e una scuola nazionali, emancipati «dalle influenze prevalenti de' metodi stranieri». Era ciò che De Gioannis aveva già tentato nei corsi cagliaritani di filosofia del diritto. E all'insegnamento vichiano del De uno attinse i principi generali del diritto e il «metodo filosofico-storico-positivo o dommatico», che da essi «scaturiva», anche per la trattazione del diritto amministrativo, che svolse seguendo la partizione sistematica gaiana delle personae, res e actiones. Netto era invece il rifiuto sia di ogni positivismo giuridico sia della scienza giuridica ridotta a «meschina esegesi», a «inventario da magazziniere» di leggi create dall'arbitrio del legislatore; e l'invocazione, per contro, della «legge naturale» fondata sulla «natura delle cose» come «la prima fonte in tutti gli ordini del diritto sociale».
Quanto alla sua concezione del diritto amministrativo, esso appariva l'ordinamento di libertà e di diritti e doveri reciproci tra amministrazione e privati, posti su un piano di sostanziale parità; un ambito di usuali, comuni rapporti di diritto civile tra cittadini e amministrazione, che confinavano il ricorso al potere d'impero da parte di quest'ultima a casi eccezionali e ben delimitati. Ne risultava un'idea del diritto amministrativo segnata certo da una forte connotazione liberale e garantista, ma in un impianto teorico complessivo profondamente ambivalente di liberalismo e organicismo pluralista della società e dello Stato, che rimaneva comunque del tutto estraeo all'esigenza dell'autonomia del discorso specialistico amministrativo.
Nel 1879 uscirono a Torino per i tipi della Utet le Instituzioni di diritto amministrativo di Meucci, che nel 1909 giunsero alla sesta e ultima edizione, e su cui si formò il «maggior numero» dei «cultori» del diritto amministrativo tra Ottocento e Novecento (U. Borsi, Il primo secolo della letteratura giuridica amministrativa italiana, «Studi senesi», 1914, 30, p. 249). Nelle Instituzioni culminava e insieme si esauriva lo sforzo costruttivo della prima scuola amministrativistica postunitaria, la scuola civilistica, che aveva applicato nello studio del diritto amministrativo i principi e gli istituti del diritto civile. Osservava Giannini nei Profili storici:
Quest'opera che oggi a noi appare disorganica, come tutte quelle di questo periodo, rivelava che la nostra scienza era giunta a un punto morto, perché con i criteri che essa usava non si poteva realmente andare più oltre di dove essa era giunta, per cui era necessario un colpo di spugna, che ne permettesse un rinnovamento dal profondo, cioè dal nudo e grezzo materiale delle leggi. Di questo rinnovamento fu artefice l'Orlando (1940, p. 195).
Il ‘punto morto’, cui giungevano le Instituzioni di Meucci, era costituito dalle contrastanti risposte date alla questione dell'autonomia del diritto amministrativo rispetto ai principi e agli istituti del diritto comune civilistico. Le incertezze erano dovute alla mancata soluzione del problema pregiudiziale del rapporto tra amministrazione e costituzione, risiedevano nel contrasto tra la concezione etica dello Stato, fatta propria da Meucci che postulava una disciplina speciale, privilegiata a favore della pubblica amministrazione, e il modello privatistico, paritario, che egli affermava, invece, come idea direttiva nella formulazione del «complesso dei principii» generali e del «sistema» del diritto amministrativo e per la definizione dei suoi singoli istituti, tutti doppiati e modellati sui corrispondenti istituti civilistici.
Meucci riaffermava l'«indivisibile» unità del diritto, e alla critica alla distinzione tra il diritto pubblico e il privato univa il rifiuto della sequenza delle distinzioni che da essa dipendevano – tra persona politica e giuridica, pubblica e privata nello Stato, e fra atti di impero e di gestione – e che, a suo avviso, derivavano dal disconoscimento del principio dell'«unità della giurisdizione», dall'anomalia costituzionale data dal contenzioso amministrativo. Mentre «il concetto della unità e della universalità della giurisdizione» andava ribadito anche come criterio d'interpretazione delle leggi del 1889 sul Consiglio di Stato e del 1890 sulla giustizia amministrativa e per la soluzione degli ardui problemi esegetici che esse ponevano.
Sullo scorcio dell'Ottocento non è dato di udire voci più ferme di questa di Meucci contro il processo in corso di «grande pubblicizzazione» dei rapporti tra amministrazione e privati, ma neppure più inattuali e non a caso le ultime di tutta una fase storica, avverso l'incipiente avvento dello Stato amministrativo, che la scuola pandettistica orlandiana avrebbe invece accompagnato, teorizzato e legittimato come oggetto teorico di un nuovo paradigma disciplinare.
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