Lo storicismo nel secondo dopoguerra
Nella filosofia italiana del secondo dopoguerra, la riflessione sullo storicismo ha rappresentato un passaggio essenziale nel più ampio confronto con l’eredità dell’idealismo. Era stato Benedetto Croce, infatti, a elaborare la teoria dello «storicismo assoluto», in un difficile rapporto con le premesse idealistiche della «filosofia dello spirito». Gli autori che si possono ricondurre alla linea dello storicismo, partendo da competenze e prospettive diverse, hanno cercato di liberare la dimensione storica dai vincoli che il discorso filosofico le aveva imposto. Con riferimento a correnti vitali della cultura europea, come lo Historismus tedesco, questi autori hanno perciò ridiscusso il nesso tra filosofia storia e politica, con profonde ripercussioni anche sul piano etico-civile.
Nell’ultima fase del proprio itinerario speculativo, all’incirca dal 1939, quando la «filosofia dello spirito» era stata ormai compiuta in ogni aspetto, Croce avvertì che l’antica denominazione di «idealismo», che fin dall’inizio aveva assegnata al suo pensiero, doveva essere «abbandonata» e sostituita con quella, più adeguata e precisa, di «storicismo assoluto» (B. Croce, Discorsi di varia filosofia [1945], 2° vol., 1959, pp. 15-17). In diversi scritti successivi ribadì la medesima persuasione, sottolineando che il concetto, «diventato vago ed equivoco, d’“idealismo”» (B. Croce, Filosofia e storiografia [1949], a cura di S. Maschietti, 2005, p. 65), meritava di essere eliminato; e precisò di avere adottato il «titolo» di «storicismo» «solo tardi, quasi sforzato dalle cose stesse, per designare l’indirizzo secondo cui avevo spontaneamente lavorato ed ero andato innanzi per oltre cinquanta anni» (B. Croce, Filosofia e storiografia, cit., p. 321). Il significato profondo del suo storicismo, d’altronde, era maturato lentamente e con sempre maggiore precisione, almeno da quando, in una conferenza tenuta a Oxford nel 1930, intitolata Antistoricismo, aveva indicato l’origine della crisi europea (quella crisi che già aveva generato il fascismo e che, di lì a poco, avrebbe dato luogo alla catastrofe del nazionalsocialismo e della guerra) nella «decadenza del sentimento storico» e nell’emergere di «uno spiccato atteggiamento antistorico» (B. Croce, Ultimi saggi [1935], 1948, p. 246). Più in generale, l’accento portato sull’orizzonte storicista del proprio pensiero significava, da un lato, il netto rifiuto della tendenza soggettivistica dell’idealismo, come si era manifestata nella filosofia di Giovanni Gentile, e, d’altro lato, l’ostilità verso l’immagine metafisica del puro filosofo – «di colui che, incurioso delle cose piccole, sta intento a risolvere il gran problema, il problema dell’Essere» (B. Croce, Ultimi saggi, cit., p. 386) –, del filosofo costruttore di «sistemi», a cui opponeva le fluide «sistemazioni» (p. 327), capaci di rispondere alle domande che, di volta in volta, vengono poste dal tempo storico.
Lo «storicismo assoluto» di Croce, tuttavia, non solo intendeva distinguersi dalla grande tradizione dello storicismo europeo – quella tradizione che, in Germania, si era svolta da Wilhelm Dilthey a Max Weber, Friedrich Meinecke e Ernst Troeltsch –, ma assumeva anzi, nei confronti di questa linea di pensiero, un atteggiamento di sostanziale ostilità: «La dottrina alla quale si fa allusione – scrisse – è diversa, e quasi del tutto opposta alle altre, che vanno sotto questo nome» (B. Croce, Terze pagine sparse, 1° vol., 1955, p. 251). Nel libro del 1938 su La storia come pensiero e come azione, nel quale la posizione storicista era ampiamente argomentata, l’opera di Leopold von Ranke veniva rubricata sotto il capitolo dedicato alla «storiografia senza problema storico»; e pagine altrettanto polemiche erano riservate a Meinecke. Lo stesso Dilthey, che pure Croce aveva letto e meditato sin dalla preparazione dei suoi scritti giovanili, era bensì apprezzato per le «squisite indagini di storia», ma sostanzialmente svalutato per lo «scarso vigore» delle dottrine filosofiche (B. Croce, Nuove pagine sparse [1949], 1° vol., 1966, p. 187).
Il contrasto con il pensiero tedesco mostra come la denominazione di idealismo fosse stata eliminata da Croce per scansare gli equivoci che, ormai, essa comportava, e anche come, in realtà, l’idealismo genuino, quello che si era espresso nella filosofia dello spirito, continuasse ad agire alla radice dello «storicismo assoluto». In effetti, il tardo storicismo crociano si fondava su due tesi essenziali, che proprio nei quattro volumi della filosofia dello spirito, in modo particolare nella Logica come scienza del concetto puro (1909) e in Teoria e storia della storiografia (1917), avevano ricevuto una giustificazione filosofica. In primo luogo, lo storicismo indicava l’identità di filosofia e storia, che nella Logica era stata raggiunta attraverso la teoria del «giudizio individuale»: teoria che affermava, sulle orme di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, l’universalità e la concretezza del concetto, nonché la sua funzione individuante rispetto alle rappresentazioni estetiche. In secondo luogo, lo storicismo manifestava la tesi, in apparenza paradossale, della «contemporaneità» di ogni storia, cioè della storia come tale: tesi che, largamente ripresa negli ultimi scritti, significava che l’identità di filosofia e storia, in quanto culmine del sapere teoretico, sempre trae origine da un interesse della vita presente, da un’oscurità che il pensiero è chiamato a illuminare. Per questo, in una pagina del libro del 1938 su La storia, seguendo un’espressione di Johann Wolfgang von Goethe, aveva affermato che la storiografia è «liberazione» dalla storia e dal passato, perché «sovr’esso s’innalza idealmente e lo converte in conoscenza» (B. Croce, La storia come pensiero e come azione, a cura di M. Conforti, 2002, p. 38).
Non ostanti le novità speculative che accompagnarono gli ultimi anni di Croce, a cominciare dal ripensamento della categoria dell’utile e della vitalità, lo «storicismo assoluto» derivava dalla filosofia che – a partire dal confronto con Hegel, avviato tra il 1905 e il 1906 – egli aveva via via elaborato. Per questo, nel suo pensiero, tra idealismo e storicismo il rapporto non fu mai pacifico; e la netta affermazione per cui «la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 59) generò, sino alla fine, una tensione irrisolta, forse irresolubile, con l’altro principio secondo cui la realtà è costituita da categorie eterne, le quali, per essere tali, non possono partecipare del ritmo del tempo e del divenire, insomma della storia. È vero che negli ultimi scritti Croce accentuò il lato storicista del suo pensiero, sino a parlare di una «risoluzione della filosofia nella storiografia» (B. Croce, Il carattere della filosofia moderna [1941], a cura di M. Mastrogregori, 1991, p. 9) e a riprendere, perciò, l’antico motivo della filosofia come «metodologia» della storia. Tuttavia la soluzione del problema, e dunque la sintesi, assai instabile, tra i due momenti che lo costituivano – lo storicismo e l’idealismo –, restava consegnata alla distinzione tra il piano delle categorie, eterne e «operatrici dei cangiamenti», e «i nostri concetti delle categorie» (La storia come pensiero e come azione, cit., p. 31), che invece variano e si arricchiscono e progrediscono, perché l’uomo converte e trascina le forme categoriali fin dentro il ritmo del divenire.
Per quanto instabile sul piano speculativo, la sintesi, che Croce aveva tentata, tra le ragioni della storia e quelle dell’idealismo, assumeva un significato importante, destinato a condizionare la vicenda successiva dello storicismo italiano. Da un lato, quella sintesi intendeva ribadire il nesso inestricabile di filosofia e storiografia, al punto da configurare la loro perfetta identità. D’altro lato, essa acquistava un vibrante senso etico e civile, persino politico o «metapolitico», perché si coniugava con la teoria del liberalismo, tanto che, negli ultimi scritti, «libertà» e «storia» vennero ad assumere un significato analogo, se non coincidente. Di più, l’accezione di libertà, che lo storicismo prendeva in questa dottrina, tendeva altresì ad allargare le prerogative della forma etica, della dimensione morale, che Croce arrivò a determinare come «potenza unificatrice dello spirito» (B. Croce, Filosofia e storiografia, cit., p. 65), «moderatrice e governatrice» dell’intero circolo delle categorie. Insomma, all’apice dello «storicismo assoluto», al di là delle sue difficoltà o incongruenze speculative, si stagliava l’ideale di una cultura fondata sulla connessione tra le ragioni della filosofia, della storia, della politica.
Il tentativo dell’ultimo Croce – volto a elaborare una teoria dello «storicismo assoluto» che conservasse un forte legame con le premesse idealistiche della filosofia dello spirito, e dunque consentisse di salvaguardare la relazione intrinseca di storia, filosofia e politica – incontrò resistenze e critiche, proprio fra coloro che, in un modo o nell’altro, si erano formati sui suoi libri e nel suo insegnamento. Certo non mancarono studiosi che cercarono di svolgere i motivi di quella concezione, difendendone tuttavia il nucleo essenziale, come Raffaello Franchini (1920-1990), il quale, a partire dai saggi di Esperienza dello storicismo (1953) e di Metafisica e storia (1958), dapprima meditando le categorie crociane della vitalità e dell’esistenza, avrebbe in seguito proposto, nella Teoria della previsione (1964), la nuova figura del «giudizio prospettico», cioè una revisione della teoria crociana del giudizio individuale. Ma in generale, prima che altre correnti di pensiero (il marxismo, l’esistenzialismo, la fenomenologia) intervenissero a sancirne la crisi, la critica dello «storicismo assoluto» fu dichiarata nell’ambito della scuola crociana, e formulata sulla base di elementi e principi che riposavano al fondo dello stesso idealismo di Croce.
In una serie di scritti pubblicati tra il 1945 e il 1946, che successivamente confluirono nel libro Il ritorno alla ragione (1946), Guido De Ruggiero (1888-1948) obiettò a Croce che il suo storicismo, a causa della premessa hegeliana che lo condizionava, si risolveva in un esito contemplativo e quietistico, incapace di generare la «storia che si fa». Tra la comprensione teoretica e la volontà pratica mancava, secondo De Ruggiero, una molla ideale in grado di giustificare l’aspirazione umana all’azione. Rivalutando le osservazioni che Friedrich Nietzsche aveva svolto nella seconda considerazione inattuale (ma confermando tuttavia la sua ostilità allo storicismo tedesco), De Ruggiero diede voce a quella «nota d’insoddisfazione» per la soluzione crociana, cercando di recuperare il valore della «norma ideale», del dover essere, positivo retaggio del «razionalismo illuministico», che sola avrebbe consentito la «spezzatura», come la definì, tra conoscenza e azione, cioè «il vitale squilibrio tra il reale e l’ideale, l’impulso a proporsi nuovi compiti, a preparare una nuova azione» (G. De Ruggiero, Il ritorno alla ragione, 1946, p. 19).
Se la critica di De Ruggiero cercava di svincolare l’idealismo di Croce dallo hegelismo aprendolo a temi giusnaturalistici, di ben altro spessore si presentò, tra il 1946 e il 1959, la riflessione di Carlo Antoni (1896-1959), che per altro risentiva, sul piano speculativo, della inquieta indagine teoretica che, con la Critica del capire (1942), era stata condotta da Luigi Scaravelli (1894-1957) intorno al problema del giudizio e delle categorie. In effetti, l’intera opera che Antoni aveva elaborata, dal libro del 1940 Dallo storicismo alla sociologia al volume del 1942 La lotta contro la ragione, consisteva in una vasta ricognizione della vicenda dello storicismo, in particolare dello storicismo tedesco, che, da un lato, vedeva emergere il fondo più oscuro e barbarico derivato dalla lunga lotta contro l’Aufklärung, e, d’altro lato, indicava proprio nella teoria crociana del giudizio storico, ripensata a partire dalla terza critica di Immanuel Kant, la possibilità di una soluzione della «rivolta romantica». Ma quando, negli ultimi anni della sua vita, cominciò a fare i conti con l’eredità di Croce, quei temi, che già aveva enucleato, assunsero una fisionomia critica più rilevata, sino a mettere in discussione aspetti essenziali della filosofia dello spirito. In generale, era proprio il rapporto con la filosofia di Hegel che, ormai, si configurava nella riflessione di Antoni in una diversa prospettiva. Fin dalle Considerazioni su Hegel e Marx (1946), formulava una critica perentoria della concezione storica di Hegel, nella quale, spiegava, la scissione tra ciò che è essenziale e ciò che, invece, viene abbandonato all’accidentalità, configura una svalutazione dell’individuo e dell’individualità, ormai ridotti a mero strumento dei piani di una ragione trascendente. Nel successivo Commento a Croce (1955), Antoni opponeva la crociana teoria del giudizio, restauratrice di un’identità dinamica, alla fallace logica hegeliana della contraddizione, insomma alla dialettica, mostrando in questa la confusione tra concetti e astrazioni. Infine, nella sua ultima opera, La restaurazione del diritto di natura (1959), arrivava a riconoscere il retaggio hegeliano dello stesso Croce, auspicando ormai, attraverso la dottrina delle categorie, una ripresa dei motivi profondi del giusnaturalismo, ossia la soluzione della secolare disputa tra storicismo e diritto di natura, tra le ragioni del kratos e quelle dell’ethos. Più in generale, nella prospettiva che Antoni delineò, lo storicismo recuperava, non solo oltre Hegel, ma anche oltre Croce, il valore dell’individualità, di quell’individuo che Croce, con Hegel, aveva considerato alla stregua di uno pseudoconcetto.
Le riflessioni di De Ruggiero e Antoni, per quanto diverse tra loro, giungevano a porre un problema analogo, poiché entrambe indicavano l’insufficienza dello «storicismo assoluto», la necessità di una riapertura verso le tematiche del giusnaturalismo e del diritto di natura. Diversa, ma altrettanto radicale, fu la questione che, nel libro Il mondo magico (1948), venne sollevata da Ernesto De Martino (1908-1965), cioè dall’autore che, allievo di Adolfo Omodeo (1889-1946) e vicino alla filosofia di Croce, aveva fondato o rifondato su basi storiciste, con Naturalismo e storicismo nell’etnologia (1941) e con altri scritti, la scienza etnologica italiana. In quel libro del 1948, infatti, si leggevano una decina di pagine di forte impegno teoretico, nelle quali De Martino affermava che l’unità trascendentale dell’autocoscienza, il «supremo principio» della soggettività, non può essere considerato eterno, ma è piuttosto il risultato di un processo storico, dello «sforzo di fondare l’individualità, l’esserci nel mondo, la presenza» (E. De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, 1997, p. 161). Ciò significava – come Croce stesso rilevò in una discussione del libro – che, al pari della «presenza», le forme categoriali non potevano essere intese come la struttura eterna della realtà, sottratte al divenire e alla storia, ma come risultati di una «crisi», sempre a rischio di ripresentarsi nel cammino della civiltà. De Martino (che pure rifiutò tale conseguenza) aveva, come si disse, «storicizzato» le categorie: ossia aveva distaccato il suo storicismo da quella premessa idealista (il circolo eterno delle categorie) che Croce, con pazienza e difficoltà, sempre aveva cercato di garantire al proprio discorso filosofico.
I segni di inquietudine che percorsero gli studiosi di formazione crociana nell’immediato dopoguerra tendevano dunque a distaccare lo «storicismo assoluto» dalla sua base filosofica, in particolare dai legami che lo univano alla tradizione hegeliana, e quindi a guardare con occhi diversi il rapporto (l’identità, come Croce aveva sostenuto) tra filosofia e storiografia. Non può sorprendere, allora, che gli esiti forse più nitidi di questo processo cominciarono ad avvertirsi tra gli storici, nell’intento di emancipare il metodo storiografico dal vincolo che la filosofia sembrava imporgli. In effetti, una storiografia impregnata di motivi concettuali, come era stata quella, per es., di Omodeo, o quella di cui lo stesso Croce aveva dato prova nella Storia d’Europa (1932), sembrava, dopo il 1945, ormai lontana. Il nuovo «storicismo degli storici» (come è stato definito) trovò espressione in due esponenti di spicco della storiografia italiana: Delio Cantimori (1904-1966) e Federico Chabod (1901-1960). Il primo di essi, Cantimori, aveva ricevuto una solida formazione filosofica alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove era stato allievo di Giuseppe Saitta e aveva discusso la tesi di laurea su Ulrich von Hutten con Gentile. Ma nel periodo di elaborazione del suo capolavoro, gli Eretici italiani del Cinquecento (1939), era giunto a consumare del tutto la fiducia nel nesso tra filosofia e storia, sino a prospettare una specie di «conversione» al puro metodo storico, o almeno, come scrisse,
un passaggio dalla ‘filosofia’ alla ‘storia’, che coincise con una critica della filosofia e un allontanamento della professione di essa e anche con un approfondimento della concezione della storia e della sua funzione e dei suoi elementi (Eretici italiani del Cinquecento e altri scritti, a cura di A. Prosperi, 1992, p. 13).
Certo, i diversi autori che via via entrarono nel suo caratteristico laboratorio – Karl Marx, Johann Gustav Droysen, Jacob Burckhardt, Max Weber – non offuscarono mai del tutto la sensibilità per il discorso filosofico (che fu tanto respinto quanto silenziosamente coltivato), ma lo condussero a delineare un ideale di storiografia che rifiutava le connessioni «orizzontali» tra le idee e le commistioni speculative, per cercare invece una penetrazione in quella che definì la «concreta, rugosa e rilevata realtà storica» (Storici e storia, 1971, p. 507). Così, negli Appunti sullo ‘storicismo’ (1945) metteva a fuoco la polemica, già da tempo avviata, contro il modello idealistico della «pura storia della storiografia», attribuito in modo particolare ad Antoni. In uno degli ultimi scritti, Storia e storiografia in Benedetto Croce (1966), Cantimori enucleò con precisione la parte vitale dell’insegnamento di Croce (verso cui mantenne sempre un atteggiamento di rispetto e ammirazione), riconoscendola nella distinzione tra res gestae e historia rerum e, d’altro lato, nella corretta pratica della storia della storiografia, intesa a individuare le «soluzioni» storiografiche piuttosto che le «interpretazioni» filosofiche.
Lo scritto di Cantimori su Croce, che di fatto separava un «Croce storico» da un «Croce filosofo» – quale riflesso della disgregazione, che si era operata in lui, tra le ragioni della storiografia e quelle della filosofia – risentiva delle conclusioni a cui era pervenuto Chabod nel saggio, scritto subito dopo la morte del filosofo, su Croce storico (1952). La grande autorità di Chabod nella storiografia italiana, il fatto stesso che dal 1946, morto Omodeo, Croce lo avesse chiamato a dirigere l’Istituto di studi storici da lui fondato, conferì a quello scritto un’importanza esemplare. A differenza di Cantimori, Chabod aveva ricevuto una formazione sostanzialmente estranea alla filosofia, rivolta piuttosto alla grande storiografia politica, e dunque aperta (ben più di quanto non fosse accaduto in Croce) alla lezione metodologica di Leopold von Ranke e allo storicismo tedesco, come mostrano i due profili che scrisse di Meinecke. Nel saggio del 1952, Chabod riconduceva il Croce migliore all’«‘istinto’ dello storico», che «parlò in lui prima di quello filosofico» (Lezioni di metodo storico. Con saggi su Egidi, Croce, Meinecke [1969], a cura di L. Firpo, 1973, p. 182), al «senso vivo del particolare concreto» (p. 186), destinato a emergere nel modo più perfetto negli scritti dedicati a figure e aspetti particolari. Ma di contro alle opere dell’«istinto» storico, restava in Croce l’«eredità hegeliana», il «provvidenzialismo storicistico»: e dunque si apriva, nella sua opera, uno «iato», una frattura non composta, tra il particolare e l’universale, tra i fatti e le idee, tra la storia e la filosofia (p. 210). L’analisi di Chabod era condotta con rigore implacabile, fino alla considerazione della Storia d’Europa – per lo più ritenuta il capolavoro dello storicismo crociano – come opera non riuscita e, anzi, riuscita male: «Il was eigentlich gewesen del Ranke – concludeva Chabod –, accolto ancora nel 1929, è ora criticato» (p. 228). Per il prestigio dell’autore, per la data in cui venne scritto, per la nettezza delle tesi sostenute, il saggio di Chabod segnò un punto di passaggio nella vicenda dello storicismo italiano, dichiarando, di fatto, l’abbandono dello «storicismo assoluto» crociano, nel suo tentativo di tenere insieme, in un solo nodo, il discorso filosofico e quello storico, l’idealismo e lo storicismo.
Se nell’ambito della cultura crociana si erano prodotti importanti tentativi di revisione, se le riflessioni di Chabod e Cantimori avevano cominciato a ricollocare il rapporto tra storiografia e filosofia, fu la vasta opera di Eugenio Garin (1909-2004) che offrì, a questo processo, un grado più elevato di consapevolezza. Garin si era formato all’Università di Firenze, con maestri come Ludovico Limentani e Francesco De Sarlo, in un ambiente dove sopravviveva l’eredità dell’alta erudizione e del migliore positivismo italiano; in tale temperie aveva condotto i primi studi su Joseph Butler e l’Illuminismo inglese, per poi volgersi, fin dal 1931, a quelle ricerche sull’Umanesimo e sul Rinascimento che lo avrebbero consacrato tra i maggiori studiosi a livello internazionale. Il suo incontro con l’idealismo, che fu serio e profondo (come volle sottolineare in un tardo scritto del 1985 su Agonia e morte dell’idealismo italiano), avvenne nel segno di una estrema complessità, perché alla lezione di Gentile e di Croce presto s’intrecciarono altre suggestioni, quali gli provennero, per es., dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e dai classici dello Historismus, a partire da Dilthey. Però il suo giudizio – che si articolò, specie dopo il 1945, in una lunga serie di studi sulla filosofia italiana contemporanea – divenne ben presto nitido: se, a proposito di Gentile, rifiutò la posizione «teologale» che tendeva a risolvere la storia nella dialettica dell’atto puro, nella filosofia di Croce seppe distinguere con cura il retaggio hegeliano, che culminava nella dottrina delle categorie eterne, dal più autentico motivo storicistico, che ravvisò nel principio per cui «la realtà è storia e nient’altro che storia» (mentre le idee sono fatti particolari «malamente innalzati a universali») e, d’altra parte, nella tesi della «contemporaneità», capace di indicare l’origine pratica dell’indagine storica e il suo orientarsi all’azione futura.
La posizione di Garin si precisò, sul piano teorico, in una serie di scritti che, composti tra il 1956 e il 1958, confluirono nel libro del 1959 su La filosofia come sapere storico. Come spiegò nell’Avvertenza, quei saggi erano sorti «dall’esigenza di chiarire il compito e i metodi della storia della filosofia», e, dunque, dalla consapevolezza che, nella «concreta ricerca storica», condotta «per decenni in campi precisi», gli «strumenti di lavoro» si erano via via «consumati» (La filosofia come sapere storico, 1990, pp. VII-VIII). Gli «strumenti di lavoro», a cui alludeva, erano gli stessi principi teorici che, ereditati dal positivismo e dall’idealismo, si mostravano ormai del tutto inadeguati. In quei saggi, Garin metteva in discussione, anzi tutto, il dogma dell’«unità» della storia della filosofia: quella tesi che, rintracciata nel § 13 dell’Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse (1817, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) di Hegel, dove si affermava il concetto dell’unità della filosofia nella molteplice e «accidentale» apparenza delle sue manifestazioni storiche, restava alla base della visione gentiliana dell’identità di filosofia e storia della filosofia, per prolungarsi nello stesso pensiero di Croce, dove, nella Logica, la storia della filosofia veniva concepita nei termini dell’astrazione e dello pseudoconcetto. Superare quel dogma dell’«unità» significava dunque, nella prospettiva di Garin, riscattare l’«accidentale», restituire al concreto storico un significato di verità, e quindi rendere possibile la storia della filosofia, emancipandola dalla premessa «teologale» che l’aveva degradata a mera erudizione.
Così, il discorso sulla storia della filosofia si ampliava a una complessiva riaffermazione del senso storico, attraverso una netta distinzione dalla struttura metafisica che, nel segno dell’idealismo, lo aveva per secoli compresso. Il rovesciamento della tesi dell’«unità», il diverso rapporto che occorreva garantire tra filosofia e storia della filosofia, portava Garin a insistere sulla «storicità del filosofare»: si trattava di superare, insomma, l’antico modello di una storia della filosofia che concresce su se stessa, lungo un progresso orizzontale da idea a idea, de claritate in claritatem. Le idee, spiegava Garin, non nascono dalle idee, ma
sorgono nell’urto delle ‘cose’, per reagire su di esse modificandole lungo linee molto più sinuose e complesse di quelle disegnate dal filosofo-storico nel casto regno delle essenze ucroniche (La filosofia come sapere storico, cit., p. 61).
Sulla base di questa priorità delle «cose» sulle idee, il compito stesso dello storico della filosofia cominciava a delineare un diverso volto: allo storico si chiedeva, infatti, di ripercorrere all’inverso il processo di formazione delle idee, considerando i concetti come «risposte» alle «domande» poste dal tempo e dalla realtà. Si trattava, insomma, di cogliere il «perché dei sistemi», di scoprirne e ricostruirne la «genesi», individuandone le radici, i moventi, le zone opache. E dunque di «valutare» i concetti non più sulla base di una premessa metafisica, ma con il metro dell’«appropriatezza o meno delle risposte», svelando ciò che era oscuro allo stesso artefice del «sistema».
In tale prospettiva, quello di Garin (che nei luoghi cruciali del discorso citava Gramsci e Cantimori) appariva come uno storicismo integrale, del tutto emancipato dall’ipoteca metafisica in cui le filosofie dell’idealismo lo avevano conservato. Nelle Osservazioni preliminari a una storia della filosofia, pubblicate nel 1959 sul «Giornale critico della filosofia italiana», per sottolineare che il discorso filosofico non può mai manifestarsi «puro» e precedere la storia, scrisse, in una forma molto netta: «Non la storia della filosofia dopo la filosofia, ma la filosofia dopo la storia della filosofia» (in E. Garin, La filosofia come sapere storico, cit., p. 37). Questo aforisma, che in certo modo riassume il nucleo del suo storicismo, non va però inteso nel senso che Garin semplificasse, o addirittura annullasse, il difficile nodo speculativo del rapporto tra filosofia e storia. Al contrario, come spiegò nell’articolo del 1956 su L’unità nella storiografia filosofica, «rigida nel rifiuto di ogni presupposizione a priori», tuttavia la storia riconosce «una ragione che non cerchi garanzie fuori di sé», una «ragione storica o, se si vuole, semplicemente ragione» (La filosofia come sapere storico, cit., p. 16). Ma questa razionalità, che pure veniva presupposta al concreto manifestarsi delle cose storiche, non poteva mai assumere il carattere di un sistema, non poteva essere definita in sé, nell’articolazione dei suoi contenuti concettuali, ma osservata soltanto nell’esercizio della ricerca, nel contatto con le individualità presenti nel tempo e nello spazio. La «ragione storica» incarnava l’ideale stesso della comprensione storiografica, che per Garin non poteva, d’altronde, realizzarsi nell’ideale rankiano di un’aderenza passiva alle cose, ma richiedeva l’iniziativa attiva dello storico, che stabilisce «rapporti fra idee, teorie, visioni d’insieme, e situazioni reali»; e che dunque, lungi dall’atteggiarsi a spettatore, «sceglie e collega: intesse la storia là dove ha trovato serie e complessi di eventi e dati» (La filosofia come sapere storico, cit., p. 77). In questo ideale della comprensione, lo storicismo di Garin incontrava, oltre l’idealismo, la tesi crociana della «contemporaneità», il principio di una storia che trascende il semplice accadere nella prospettiva di un tempo vissuto e umano, preparando l’azione futura attraverso l’illuminazione del passato.
Abbiamo visto come alcuni protagonisti del dibattito sullo storicismo, quali Cantimori e Garin, avessero trovato nel pensiero di Antonio Gramsci (1891-1937) un importante riferimento teorico. Dopo la pubblicazione, nel 1947, delle Lettere dal carcere, erano infatti apparsi per l’editore Einaudi, tra il 1948 e il 1951, i sei volumi dei Quaderni del carcere, raccolti e sistemati in ordine tematico (un ordine controverso, che sarà superato solo nel 1975, con la nuova edizione curata da Valentino Gerratana), sotto la «sapiente regia» (come la definì Garin) di Palmiro Togliatti. Nel momento in cui il dibattito sul marxismo teorico era attraversato da inquietudini e da domande di rinnovamento – dai saggi di Antonio Banfi su «Studi filosofici» all’esperienza del «Politecnico», dal razionalismo di Ludovico Geymonat alle riflessioni di Galvano della Volpe su La libertà comunista (1946) –, la pubblicazione dei Quaderni gramsciani, gestita direttamente dalla dirigenza comunista, e accompagnata, a partire dal 1947, da alcuni discorsi dello stesso Togliatti, sembrò rispondere a un preciso disegno di egemonia culturale, volto a ricondurre la ricerca marxista nello specifico terreno della tradizione italiana, e dunque a «costruire» quella linea di continuità capace di unire grandi classici come Francesco De Sanctis al marxismo eterodosso di Antonio Labriola e, quindi, all’esperienza umana e intellettuale di Gramsci. Una linea – quella centrata sui nomi di De Sanctis, Labriola, Gramsci – che tendeva a riproporre la concezione del marxismo come storicismo, allontanando o restringendo quei tentativi di contaminazione con altre correnti filosofiche (dall’esistenzialismo al razionalismo) che sembravano affermarsi nel dibattito culturale.
Nel primo volume dei Quaderni, dove vennero raccolte le note su Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce (1948), Gramsci delineava il rapporto tra la filosofia della prassi e l’idealismo crociano secondo un’analogia con il rapporto tra Marx e Hegel, auspicando sia una ripresa che un rovesciamento dello «storicismo assoluto»:
Occorre fare – scriveva – per la concezione filosofica del Croce la stessa riduzione che i primi teorici della filosofia della prassi hanno fatto per la concezione hegeliana (A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948, p. 199).
Il programma dell’«Anti-Croce», come lo definì, implicava un’attenzione particolare per la filosofia dello spirito, considerata come l’espressione più autentica della cultura borghese italiana, e, al tempo stesso, comportava il superamento del suo «carattere speculativo» e astratto. Per questo, Gramsci arrivò a definire il proprio marxismo non solo come una «filosofia della praxis», ma anche, alla maniera di Croce, come uno «storicismo assoluto», finalmente liberato da ogni residuo teologico-speculativo, da ogni idealismo, e ricondotto all’autentica dialettica della realtà:
la filosofia della prassi – concludeva – è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa (p. 191).
Il programma gramsciano, sostenuto e promosso da un grande partito politico e dai suoi istituti culturali (come accadde, per es., nei due convegni nazionali di studi gramsciani del 1958 e del 1967), ebbe un impatto considerevole nel dibattito sul marxismo. Lo storicismo delineato da Gramsci condizionò e ispirò gli studi storici – con figure come Emilio Sereni (1907-1977) ed Ernesto Ragionieri (1926-1975) –, e quelli di letteratura e archeologia, suscitando discussioni su riviste come «Società» e «Studi storici». Tuttavia, sul piano più strettamente teorico, dove ci si sarebbe aspettati una ripresa e un approfondimento dei temi proposti da Gramsci, l’indicazione di un rinnovato «storicismo assoluto» non ebbe particolari sviluppi, o comunque non trovò svolgimenti speculativi all’altezza delle questioni emerse. Anche un filosofo di punta come Cesare Luporini (1909-1993) – che era stato tra i fondatori di «Società», e aveva approfondito lo studio dell’esistenzialismo tedesco e pubblicato un libro come Situazione e libertà nell’esistenza umana (1942) –, pure negli anni di maggiore successo della linea gramsciana rimase sostanzialmente ai margini di quel progetto teorico, realizzando una diversa impostazione nel libro Filosofi vecchi e nuovi. Scheler, Hegel, Kant, Fichte, Leopardi (1947), dove si leggeva l’innovativo saggio su Leopardi progressivo, e formulando, dopo il 1958, una critica sempre più decisa dello storicismo, fino a dichiarare di essere «diventato un nemico dello storicismo, almeno nel significato o nei significati culturalmente correnti e suggestionanti della parola» (La filosofia dal ’45 ad oggi, a cura di V. Verra, 1976, p. 460).
Il dibattito tornò di attualità nel 1962, con diversi interventi su «Rinascita», dopo la pubblicazione del libro di Nicola Badaloni (1924-2005) Marxismo come storicismo (1962). Autorevole storico della filosofia, interprete di Giordano Bruno, Tommaso Campanella, Giambattista Vico, con il suo studio Badaloni riportava al centro dell’attenzione la questione teorica dello storicismo, che avrebbe poi ulteriormente sviluppato, con riferimento a Gramsci, nei capitoli centrali (il dodicesimo e il tredicesimo) del libro Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica (1975), e, in relazione alla storia della cultura italiana, nel volume, scritto con Carlo Muscetta, su Labriola, Croce, Gentile (1977). Nel libro del 1962, Badaloni riprendeva integralmente il programma gramsciano, non solo sviscerando la critica dell’idealismo (l’indicazione dell’«Anti-Croce»), ma anche sottolineando il carattere antimetafisico dello storicismo di Gramsci, il quale – spiegava –, anche nei confronti del marxismo dottrinale, «ha levato la sua critica severa contro lo scheletrimento della metodologia in una metafisica» (Marxismo come storicismo, 1962, p. 198). Lo «storicismo assoluto» si presentava, così, come «il nuovo illuminismo del secolo XX» (p. 77), o, più precisamente, come uno «storicismo senza miti», capace di riconoscere il «relativamente permanente» della struttura economica e, soprattutto, di «attaccarla» e «modificarla» con «la prassi cosciente umana» (p. 179).
Per conseguire tale risultato, Badaloni metteva in discussione quei caratteri di «necessità» e «totalità» che ancora segnavano lo storicismo di Croce, cercando di inserirvi, attraverso la lezione del marxismo, l’apertura alla «possibilità», cioè il momento della prassi consapevole e rivoluzionaria. Lo stesso concetto di «contemporaneità», spiegava, solo così riesce a vincere quel «residuo di passività», quell’«atteggiamento ricettivo» (p. 145), che ancora conservava nell’idealismo. Alla luce delle teorie di Gramsci, insomma, lo storicismo poteva realizzarsi davvero, oltre ogni premessa metafisica, eliminando la finzione delle categorie eterne, perché, aggiungeva,
per il marxismo nessuna categoria è eterna; ogni concetto logico deve essere decifrato non solo in un rapporto interno con altri concetti ma nel rinvio alla realtà a cui esso nella sua astrattezza rimanda» (p. 210).
Un esempio capitale di questo metodo riguardava la volontà economica, quella forma che Croce aveva considerato come una sua scoperta e che, negli ultimi anni, aveva declinato nella dialettica della vitalità: Badaloni (non diversamente da quanto accadeva nelle ultime meditazioni di De Martino) tornava invece a distinguere i due termini – il vitale e l’economico –, sottolineando, da un lato, che la vitalità non può sfuggire al divenire storico, e, d’altro lato, che «l’economico storicizza il vitale», individuando in esso «il relativo e il costante», come valore di scambio e valore d’uso (p. 154). Solo a questa condizione, cioè reincludendo nel divenire storico le forme categoriali, si sarebbe potuto concepire il momento della «possibilità» e della «libertà», l’apertura della prassi umana oltre il dominio della necessità. Perciò, lo storicismo indicato da Gramsci costituiva l’unica delle due strade percorribili dopo la filosofia crociana: «l’una – chiariva Badaloni – era quella della filosofia del valore», perseguita da De Ruggiero e da Antoni, l’altra quella gramsciana, «capace di porre in modo antideterministico e antimetafisico il problema dell’intendimento del divenire storico» (p. 158).
Negli autori che abbiamo fin qui considerato, la teoria dello storicismo tendeva a costituirsi, in primo luogo, attraverso la critica dell’illustre precedente crociano, al quale si imputava, in un modo o nell’altro, un’incoerenza di fondo, ossia l’incapacità (o l’impossibilità) di comporre il discorso filosofico di matrice hegeliana (l’idealismo) con la più tarda affermazione dell’istanza storicista. Ne erano derivati, da un lato, un recupero dell’assolutezza dei valori, d’altro lato una più netta distinzione tra storiografia e filosofia, infine la ripresa del marxismo, nella sua nuova versione gramsciana. Ma altri autori, pur conservando un’attenzione critica alla vicenda dell’idealismo italiano, cominciarono a sviluppare la linea dello storicismo assumendo diversi riferimenti, ricominciando a guardare, per es., alla tradizione dello Historismus tedesco, oppure innestando lo storicismo su suggestioni provenienti dall’esistenzialismo e dalla fenomenologia.
Il libro che Pietro Rossi (n. 1930) pubblicò, nel 1956, su Lo storicismo tedesco contemporaneo, seguito, nel 1960, dai saggi di Storia e storicismo nella filosofia contemporanea (dove si leggeva, tra l’altro, un importante scritto su Benedetto Croce e lo storicismo assoluto), acquista, in tale prospettiva, un’importanza peculiare. Allievo di Nicola Abbagnano all’Università di Torino (ma anche di Chabod, almeno nel periodo di perfezionamento all’Istituto italiano per gli studi storici), Rossi proponeva una ricostruzione completa, destinata a diventare classica, della parabola dello storicismo tedesco, da Dilthey a Meinecke, che (richiamandosi soprattutto a Raymond Aron, ma risentendo altresì delle interpretazioni di Karl Löwith, che aveva seguito a Heidelberg) intendeva letteralmente rovesciare il giudizio sullo Historismus formulato da Croce e da Carlo Antoni. In modo particolare, la vicenda dello storicismo veniva separata dalla «visione romantica della storia», sia dalla linea che da Johann Gottfried von Herder portava a Ranke, sia da quella che, da Kant, giungeva a Hegel: tra Hegel e Dilthey, spiegava Rossi, nel decennio 1840-50 si era già consumata la crisi della cultura romantica, attraverso l’opera della sinistra hegeliana, di Ludwig Feuerbach, Marx, Sören Kierkegaard. Dunque, lo storicismo tedesco appariva come «uno storicismo alternativo nei confronti dello storicismo romantico» (P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, 19712, p. XIX), sorto sul terreno del positivismo e di un richiamo a Kant che, programmaticamente, rifiutava il contenuto speculativo dell’idealismo. Il percorso che Antoni aveva definito, in termini negativi, «dallo storicismo alla sociologia», assumeva così un significato positivo, persino esemplare, capace di superare l’antitesi tra storicismo e illuminismo.
Per quanto Rossi, negli anni successivi, sarebbe arrivato a correggere queste posizioni iniziali, fino a dichiarare, in un convegno del 2000, il suo «congedo dallo storicismo» (Martirano, Massimilla 2002, pp. 6-20), non vi è però alcun dubbio che quel libro, oltre che per il rilievo dell’importante ricostruzione storiografica, esercitò una funzione essenziale nella vicenda dello storicismo italiano.
Fu però nell’opera di Pietro Piovani (1922-1980) che, specie a partire dagli anni Sessanta, si realizzò il tentativo più organico, sotto il profilo speculativo, di elaborare le basi teoriche di un nuovo storicismo. Riprendendo alcune intuizioni di Giuseppe Capograssi (1889-1956), di cui era stato allievo all’Università di Napoli, dopo avere offerto un contributo rilevante nell’ambito dell’etica e della filosofia del diritto, Piovani pubblicò due libri – Filosofia e storia delle idee (1965) e Conoscenza storica e coscienza morale (1966) – nei quali intraprendeva la ricerca di uno storicismo critico, problematico, aperto a diversi influssi del pensiero contemporaneo, che guardava da un lato a Gottfried Wilhelm von Leibniz e Vico, d’altro lato a Karl Wilhelm von Humboldt e Meinecke. Soprattutto, Piovani pose al centro di tutta la sua meditazione il problema dell’«individualità»: se la filosofia moderna gli si configurò come «una faticosa maieutica dell’individuale» (P. Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, 1966, p. 65), la storia gli appariva, con forte accento vichiano, come una «logica del concreto», una «logica degli individuali» (p. 96), cioè come l’unica scienza capace di esplorare i recessi di una personalità mobile, in perenne divenire, di penetrare – come scrisse, richiamandosi a Karl Jaspers e a Carl Gustav Jung – l’«anima» dell’uomo. Se questo era il principio dello storicismo, le filosofie dell’idealismo – da Johann Gottlieb Fichte a Hegel, a Croce – si erano adoperate a negarlo, assolutizzando, e quindi cancellando, la figura dell’individuo in un «totalismo» universale e monista.
Riconosciuta nell’individualità la questione capitale dello storicismo, Piovani cercava di chiarirne la struttura con un discorso di particolare impegno etico, cioè distinguendola nettamente dalla «singolarità», dalla chiusura dell’individuo in se stesso («persona», ma non ancora «personalità»): l’individuo, spiegava, è «espansione», e quindi incontro con l’alterità, dialogo e contaminazione; e il «metodo filologico», lungi da essere qualcosa di accidentale o di pseudoconcettuale, è la garanzia di quel processo di «simpatia» per l’altro, di quel «transfert speculativo», che caratterizza la comprensione storica. Il rischio stesso del relativismo dei valori, che sempre era stato imputato allo storicismo, poteva essere superato, oltre l’errore del «totalismo», guardando alla struttura profonda dell’individualità, che non si fonda su una tavola di valori assoluti, ma sulla perenne e inestinguibile «esigenza di valori». Perciò, l’individuo si delineava come un continuo «individuarsi», come la ricerca e la conquista di se stesso, capace di trovare l’universale dentro di sé, nella mediazione costitutiva con la propria originaria immediatezza.
La riflessione di Piovani trovò uno svolgimento ulteriore, e di grande rilievo, nel libro (pubblicato postumo, grazie alle cure di Fulvio Tessitore) su Oggettivazione etica e assenzialismo, che in certo modo rappresenta il suo approdo speculativo. Qui Piovani tornava a meditare le radici ultime dell’individualità storicista, rintracciandole nello squilibrio della soggettività, nella differenza tra il cogito e il sum, tra la razionalità del pensiero e la sua esistenza. A partire da questa asimmetria originaria, l’individuo – spiegava – è sempre chiamato a dirimere il «primario dilemma esistenziale» (P. Piovani, Oggettivazione etica e assenzialismo, 1981, p. 50), a decidersi tra l’esistenza e l’inesistenza: ma la scelta per l’esistenza non può che essere una scelta espansiva, di autolimitazione della propria libertà e, al tempo stesso, di continuo superamento della singolarità in forme di oggettivazione, in un ethos concreto, attraverso la dinamica del riconoscimento e dell’interazione con l’alterità. Tale concetto di «valorazione», come lo definì, stringeva in un solo nodo il discorso storico e quello etico, ponendosi alla base della struttura dell’individuo.
La scelta originaria tra l’esistenza e l’inesistenza, in cui sembrava costituirsi la storicità dell’individuo, rivelava, tuttavia, un volto più oscuro e inquieto, perché la soggettività storica, capace di espandersi nelle forme oggettive della civiltà, conservava pure, alla sua radice, il segno della difettività, della finitezza, o – come Piovani scrisse – dell’«assenza»:
Il fondamento dell’esistenza – spiegava – è la difettività. […] L’essenza di ogni realtà fenomenica è l’assenza. Il reale non riesce mai ad esistere, integralmente; non si realizza mai compiutamente (Oggettivazione etica e assenzialismo, cit., p. 129).
Il passaggio cruciale dall’«universo» all’«universalizzazione», che rendeva ogni individuo umano «un universo da penetrare», spalancava anche questa consapevolezza tragica, negatrice del «totalismo» idealista, per cui (con riferimento a Rudolf Otto) la stessa vita umana appariva legata al «mysterium tremendum», e la cultura storica (con Otto, ma anche con Vico) manifestava la fisionomia di una «inventio mortis», come «un sistema di trasformazione del terrore originario» (p. 81).
Anche il contributo degli storici di professione alla discussione teorica sullo storicismo è stato ampio e variegato. Per limitare il discorso ai casi più notevoli, si possono ricordare i numerosi scritti critici di Arnaldo Momigliano (1908-1987), il grande studioso di storia e storiografia antica; quelli dello storico di Roma antica Santo Mazzarino (1916-1987), a cominciare dall’articolo del 1964 Qu’est-ce-que l’histoire? e dalla celebre nota 555 al libro Il pensiero storico classico (3 voll., 1966), dove veniva riconsiderata e corretta la consueta antitesi tra tempo ciclico degli antichi e tempo lineare dei moderni; infine, nell’ambito della ricerca moderna, quelli di Rosario Romeo (1924-1987), l’autore della monumentale opera su Cavour e il suo tempo (4 voll., 1969-1984), il quale, educato alla scuola di Gioacchino Volpe e di Chabod, sempre rivendicò il «fondamento storicistico» dell’«umanesimo crociano», come «persuasione che all’universale svolgimento della storia ciascuno concorre con la propria particolarità e individualità» (R. Romeo, Scritti storici. 1951-1987, 1990, pp. 302-03).
In anni più recenti, una ripresa e un tentativo di revisione della tradizione dello storicismo crociano è stato compiuto da Giuseppe Galasso (n. 1929). Accanto a una vasta opera nell’ambito della storiografia moderna e contemporanea, Galasso ha proposto un’interpretazione dell’opera di Croce che, fin dal saggio del 1967 su Croce storico, pubblicato in volume nel 1969, ha non solo rifiutato, ma in certo modo ribaltato, la lettura di Chabod: una posizione ribadita e rafforzata nella monografia del 1990 su Croce e lo spirito del suo tempo, in cui si legge, appunto, che la predilezione chabodiana per i saggi minori «non è sostenibile», poiché, anzi, è «attraverso le sue opere ‘maggiori’ che Croce ha agito e resta vivo nella cultura storica» (p. 383). Procedendo in una direzione inversa rispetto a quella che, sulle orme di Chabod, aveva a lungo segnato il giudizio interpretativo, Galasso rimetteva al centro della considerazione l’intreccio tra filosofia e storicismo, individuando tuttavia, nel percorso crociano, un «punto di rottura» nel quarto volume della «filosofia dello spirito», cioè in Teoria e storia della storiografia, dove il principio della «contemporaneità della storia» avrebbe determinato una «pratica dissoluzione» e un «capovolgimento» del sistema, così come si era delineato soprattutto nella Logica: in questo modo – concludeva Galasso – Croce sfuggiva «a una conclusione monistica, attualizzante, assolutizzante, che sarebbe stata la più lontana dal suo pensiero» (p. 193).
La peculiare interpretazione di Croce costituisce una premessa necessaria per intendere come, negli scritti successivi, Galasso abbia tentato di elaborare una più complessa teoria dello storicismo. Soprattutto nei saggi su Storia e storicismo e Filosofia e storiografia, raccolti nel 2000 in un volume caratterizzato da una forte tensione speculativa, Galasso ha riaffermato, se non proprio l’identità crociana, una «special partnership» tra filosofia e storiografia, fondata sul superamento della dualità tra storia e natura, e quindi sul principio della storicità di ogni oggetto di considerazione umana, incluso quello delle scienze fisiche e matematiche: la stessa natura, dunque, cessa di essere osservata come una res, «sostanza o materia più o meno inerte e passiva» (Nient’altro che storia. Saggi di teoria e metodologia della storia, 2000, p. 170), per presentarsi come temporalità e divenire. Riprendendo, anche qui, un tema della filosofia crociana, Galasso individuava la radice dello storicismo nella forma del giudizio (inteso sempre come giudizio storico), in quanto «cellula-madre del pensiero», e nei predicati che lo costituiscono: in primo luogo il «mutamento», ossia il divenire intrascendibile della realtà; in secondo luogo l’«accadimento o successo», cioè «il prevalere di determinati elementi materiali o morali su altri nel costituire la situazione così com’è» (p. 174). Se, da un lato, questa impostazione consentiva di correggere la teoria crociana delle «finzioni concettuali» o «pseudoconcetti», riportando anche i concetti delle scienze nell’ambito veritativo del giudizio logico, dall’altro riaffermava con vigore il principio della «contemporaneità», e quindi la «circolarità» costitutiva dell’orizzonte storiografico, che è relazione di passato e presente o, anche, compresenza «simultanea», cioè sintesi, di induzione e deduzione, di rispetto dell’alterità del documento e di interesse attuale, volto all’azione futura. Riprendendo, in forma aperta, il significato della dialettica (il principio «per cui la vita si sviluppa drammaticamente nel contrasto») e il postulato del progresso, Galasso riteneva così, attraverso la teoria del giudizio storico, di scansare i due rischi supremi dello storicismo, quelli del «relativismo» e dell’«assolutezza storiografica».
Proseguendo la linea di pensiero inaugurata da Piovani (ma, come vedremo, con importanti sviluppi e correzioni), del quale fu assistente e stretto collaboratore, Fulvio Tessitore (n. 1937) ha elaborato, in oltre cinquant’anni di lavoro critico, una più articolata teoria dello storicismo «problematico». Almeno a partire dal libro del 1965 su I fondamenti della filosofia politica di Humboldt, Tessitore ha via via proposto una ricognizione completa e imponente dell’intera tradizione filosofica dello storicismo, da un lato soffermandosi con particolare cura sullo Historismus – da Humboldt e Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher a Weber, fino ai più recenti dibattiti nella cultura storica tedesca –, d’altro lato rileggendo il pensiero italiano, a cominciare da Vincenzo Cuoco (argomento della tesi di laurea e del primo libro del 1961), per poi interpretare autori come De Sanctis, Alessandro Manzoni, Croce e diversi altri. L’analisi meticolosa delle molteplici Dimensioni dello storicismo (come recita il titolo «programmatico» di un libro del 1971), lo ha quindi condotto ad approfondire ulteriormente la divisione tra due linee teoriche: da un lato la via dello «storicismo idealistico», che inizia con Hegel e giunge fino alla filosofia dello spirito di Croce, che si dichiara «storicista» ma che in realtà, con il suo «totalismo» dialettico, nega le radici stesse di questa filosofia; d’altro lato, la linea genuina e critica, la quale, sulla base di una ripresa «eterodossa» del criticismo di Kant, riesce a dissolvere la pretesa ontologica e metafisica della Weltgeschichte hegeliana, attraverso un percorso tortuoso ma uniforme, che include le diverse riflessioni di autori come Humboldt e Schleiermacher, di storici come Barthold Georg Niebuhr e Ranke, e quindi con Dilthey, Meinecke, Troeltsch e Weber.
A partire da questo sfondo interpretativo, tenuto sempre fermo nelle numerose indagini, Tessitore ha elaborato una teoria critica dello storicismo, al cui centro vi è il principio secondo cui lo storicismo non costituisce soltanto una posizione metodologica, uno «spazio problematico» o una Weltanschauung, ma «una filosofia, un tipo filosofico preciso e storiograficamente definibile tra quelli maggiori del Novecento»:
lo storicismo – ha spiegato –, questo storicismo è la filosofia che, al culmine del pensiero moderno, introduce la ricerca di una razionalità diversa da quella poggiante sulla identificazione di pensiero ed essere, in quanto interessata a ripensare, in chiave anti-metafisica e anti-ontologica, il nesso vita-temporalità-storia (F. Tessitore, Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, 2002, pp. 426-27).
La discussione con Rossi (l’altro grande interprete italiano della tradizione tedesca), diventata particolarmente nitida dopo il «congedo» dichiarato da quest’ultimo, ha dunque consentito di chiarire fino in fondo questa posizione: se Rossi ha avuto il merito di ribaltare la lettura di Antoni e di mostrare la pars destruens operata dallo Historismus nei confronti della cultura romantica, ha poi avuto il torto di confinare lo storicismo nei limiti di una considerazione metodologica, negandovi la peculiarità filosofica, e disciogliendolo, perciò, nel processo di costruzione di una filosofia neoilluministica. Il «congedo» di Rossi, concludeva Tessitore, era iscritto nella stessa impostazione del libro del 1956, nella sua negazione dello storicismo come filosofia.
Se queste osservazioni riconducevano Tessitore nel percorso intrapreso da Piovani, ben presto egli ha anche avvertito, nei numerosi scritti dedicati al «maestro», il «limite» e il difetto che ancora ne condizionavano il pensiero, e dunque la necessità di un ulteriore sviluppo nella direzione di una compiuta teoria dello storicismo. Attraverso analisi speculative sul rapporto tra storicismo ed esistenzialismo, in particolare su Martin Heidegger, ha dunque indicato «i residui ontologistici e metafisici che permangono pur nella drastica rivisitazione piovaniana» (F. Tessitore, Lo storicismo come filosofia dell’evento, 2001, p. 40), riconoscendone il segno nel mancato confronto di Piovani con Weber, cioè con «il pensatore del Novecento che con maggiore drasticità aveva contestato le forme dell’ontologia» (p. 29). Il riferimento centrale alla teoria della storia di Weber (che Rossi, nel suo «congedo», era arrivato a definire «al di là» dello storicismo), assumeva così, nella riflessione di Tessitore, un’importanza strategica e costruttiva. Lavorando sulla nozione di «evento» – autentico punto di convergenza, e quasi di sintesi, dei concetti di Augenblick («istante»), inteso come l’inesauribile incontro di passato presente e futuro, di Ereignis («evento», «evenienza»), di Entstehung («origine», «evenienza», «emergenza») –, Tessitore poneva infatti al centro del suo storicismo l’idea weberiana della storia come Sinngebung, «dazione di senso» o «conferimento di senso». Sottolineando «la centralità dell’attimo che è l’evento, in quanto questo è la funzione fondante dell’operazione conoscitiva», chiarendo che «l’oggetto della storia è il caos, ossia un non-oggetto», Tessitore poteva concludere che la storia
non è qualcosa di effettivamente esistente, una specie di luogo da cui si proviene e con cui necessariamente ci si relaziona; è realtà in quanto nostra costruzione, ossia prodotta dagli individui agenti e conoscenti. Essa è […] il risultato della storiografia quale scienza etica (pp. 52-53).
Al termine di questa forte ripresa della nozione weberiana di Sinngebung, Tessitore poteva annunciare, oltre la stessa lezione di Piovani, «il congedo definitivo dell’ontologia», della stessa «ontologia della storia», nello storicismo reinterpretato come «filosofia dell’evento».
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