Lo sviluppo della popolazione mondiale
La straordinaria crescita della popolazione
Dal punto di vista demografico, il 20° sec. e, in particolare, i suoi ultimi cinquant’anni, hanno visto una grande esplosione – questo è il termine comunemente usato – della popolazione mondiale, e una sua non minore trasformazione. Alla base di questi fenomeni vi sono, com’è noto, due grandi vittorie, che l’uomo ha da sempre ricercato ma che ha ottenuto appieno (peraltro non dappertutto) soltanto da pochi decenni: la vittoria contro la morte precoce che, percorrendo una lunga strada, prende le mosse dai vaccini di Edward Jenner alla fine del Settecento, e che ha comportato un crollo della mortalità; la vittoria contro le nascite indesiderate, che prende le mosse dalla ‘pillola’ di Gregory G. Pincus alla metà del secolo scorso, cioè 150 anni dopo Jenner, e che ha comportato un crollo della fecondità.
L’ampia differenza temporale esistente fra l’inizio dell’abbassamento della mortalità e l’inizio di quello della fecondità ha portato alla straordinaria crescita della popolazione prima citata. Questa è stata favorita dalla sempre maggiore disponibilità di energia e di cibo, che a partire dalla Rivoluzione industriale ha evitato il ritorno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse – la fame, l’epidemia, la guerra, la morte – i quali non hanno più esercitato sulla crescita della popolazione un’azione devastante, com’era invece successo per millenni (Golini 20032; Livi Bacci 1989, nuova ed. 2005).
Nella storia contemporanea della popolazione mondiale, le migrazioni hanno giocato un ruolo di gran lunga meno importante. Questo è stato rilevante soltanto in alcuni e limitati casi e periodi, in particolare nel popolamento dei nuovi mondi e, di conseguenza, nell’allentare decisamente la pressione demografica, prima nei vecchi mondi, specialmente nell’Europa, poi anche nell’America Latina.
I guadagni nella durata media della vita sono stati davvero straordinari: nel mondo intero, fra il 1950-1955 e il 2000-2005 questa è passata da 47 a 65 anni, crescendo di 18 anni, cioè di 4,3 mesi per ognuno dei cinquant’anni di calendario. Tutto ha giocato a favore di una crescita tanto strabiliante: il miglioramento dell’igiene e dell’alimentazione; le case più protette dagli eccessi del caldo e del freddo; la medicina curativa e anche quella preventiva; l’ambiente di lavoro più sano e meno stressante per ritmi e orari; il poter contare su diritti individuali in tutte le sfere della vita, assicurandoli in particolare alla donna (con consistenti miglioramenti della sua salute e di quella dei suoi piccoli); l’aumento dell’istruzione e della cultura. Del tutto eccezionale il caso della Cina, dove negli stessi cinquant’anni la durata media della vita è passata da 41 a 72 anni, mostrando cioè un aumento di 7,5 mesi per ogni anno di calendario.
Gli strumenti facili, efficaci, diffusi ed economici per controllare le nascite indesiderate sono arrivati, come si accennava, molto dopo che si era cominciato a controllare la morte precoce, anche se questi strumenti sono condizione necessaria ma non sufficiente perché il controllo si attui. Infatti, le sovrastrutture culturali – quelle macro, consolidate nei secoli, e quelle micro, introiettate nel profondo delle coscienze – hanno fortemente e a lungo inciso sui tempi di conoscenza, accettazione, diffusione e uso della pillola e degli altri contraccettivi. Gli strumenti per il controllo delle nascite hanno peraltro contribuito (e vanno contribuendo) in misura decisiva, insieme con l’istruzione e il lavoro, a una diversa condizione della donna e, all’interno e all’esterno della casa, a una sua diversa socializzazione e interazione con tutti gli altri componenti della famiglia. È intuitivo come, a parità di altre condizioni, sia 2 (per l’esattezza 2,06) il numero di figli che assicura la crescita zero della popolazione, dal momento che 2 figli garantiscono nel ciclo delle generazioni la pura sostituzione dei genitori. Ebbene, nel 1950 nel mondo nascevano in media 5 figli per donna; dopo soli cinquant’anni si sono ridotti a circa la metà (2,6). Il contributo maggiore alla diminuzione della fecondità del mondo è venuto dalla Cina, dove il numero medio di figli per donna è sceso fra il 1950-1955 e il 2005-2010, in soli cinquantacinque anni, da 6,2 a 1,7, mentre il numero medio annuo dei nuovi nati è diminuito da 25,5 milioni (che vivevano in media 41 anni) a 17,5 milioni (che però si aspettano di vivere 73 anni). Ormai quasi la metà della popolazione mondiale ha una fecondità inferiore a 2 figli per donna, ed è quindi in una fase di declino virtuale, che diventerà reale mano a mano che usciranno dal gioco riproduttivo le generazioni assai affollate del passato. In varie aree del mondo, però, il tasso di fecondità è sceso da tempo molto al di sotto di 2, con grave pregiudizio della possibilità (demografica, economica e sociale) di una piena e completa sopravvivenza da parte della popolazione interessata, a meno di immigrazioni molto consistenti. Questo è il caso della popolazione dell’Europa, che ha ormai una fecondità pari a 1,4 figli per donna, o, più specificamente, dell’Italia o del Giappone, che da tempo ne hanno una pari a 1,3, con prospettiva di declino, perché più è bassa la fecondità più, a parità di altre condizioni, è forte il declino della popolazione e la velocità del suo invecchiamento. E infatti l’Italia e il Giappone – che godono entrambi anche di una forte longevità – sono i Paesi più vecchi del mondo. In casi come questi si pone il problema del se e per quanto tempo ancora sia possibile sopportare una così prolungata e bassissima fecondità.
Come detto, il ruolo delle migrazioni internazionali nello sviluppo delle popolazioni contemporanee è ridotto, o finanche ridottissimo, nonostante il clamore e le polemiche che così frequentemente suscitano le migrazioni nell’opinione pubblica e nelle formazioni politiche. A questo proposito, bisogna ricordare che l’immigrazione straniera costituisce in ogni caso un ‘trapianto’ di persone, non necessariamente compatibili e qualche volta decisamente in contrasto con il corpo sociale del Paese di arrivo, costituito da una popolazione consolidata e dotata di caratteristiche sue proprie. Quando l’afflusso avviene con velocità e intensità tali che permettono alle persone che arrivano e rimangono di essere gradualmente integrate, allora non si hanno fenomeni di rigetto, o se si hanno sono del tutto marginali. Tali fenomeni, in ogni caso, presentano tratti completamente diversi a seconda che l’immigrazione arrivi in un continente di ridotto o ridottissimo popolamento – com’erano i nuovi mondi un secolo fa – o in un continente di vecchio e intenso popolamento – com’è l’Europa – dove il tessuto sociale ha una sua strutturazione, in primo luogo culturale, consolidatasi e perpetuatasi nei secoli. Dal punto di vista statistico, c’è da considerare che i migranti e i loro discendenti sono difficilissimi da conteggiare, anche a causa delle diversità internazionali nelle normative, la più importante delle quali riguarda le modalità e i tempi di acquisizione della cittadinanza del Paese di arrivo; una volta che questa sia acquisita, infatti, i migranti e i loro discendenti ‘scompaiono’ dalle statistiche delle migrazioni. Questa è la ragione per la quale le Nazioni Unite contano nel mondo al 2005 ‘soltanto’ 191 milioni di migranti, peraltro cresciuti dal 1990 di 36 milioni, cioè di 2,4 milioni all’anno.
La seconda transizione demografica e la demografia prossima ventura
L’imprevedibile, ulteriore declino della mortalità che si sta avendo nelle età molto avanzate, il perdurare di una fecondità bassa o bassissima e i cambiamenti sociali legati alla nuova condizione della donna e alle mutate condizioni della formazione e della sopravvivenza della famiglia, sono fra gli elementi che si ritrovano alla base di una nuova transizione demografica, la quale sta conducendo il mondo (e in particolare i Paesi demograficamente ed economicamente più avanzati) verso nuove dinamiche e strutture della popolazione e della sua organizzazione sociale (Van de Kaa 1987; Lesthaeghe 1995). Nel lungo periodo, le maggiori conseguenze sono, quindi, un più o meno intenso e rapido declino della popolazione totale e un intensissimo e ‘sconvolgente’ mutamento nella struttura per età di tale popolazione, che si manifesta attraverso un suo progressivo, rapido, irrefrenabile, ma silenzioso, invecchiamento. In verità, quest’ultima conseguenza coinvolgerà anche le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo, tutte o quasi caratterizzate da declino della fecondità: infatti, per effetto di un’inderogabile legge demografica, quanto più forte è la discesa della fecondità tanto più forte risulta essere, a parità di altre condizioni, l’invecchiamento della popolazione. Le tendenze al declino della fecondità e della mortalità, le intense migrazioni rurali-urbane – legate soprattutto alla modernizzazione dell’agricoltura, alla crescente industrializzazione, all’enorme crescita urbana, oltre che al grande sviluppo e diffusione dei servizi – così come le migrazioni internazionali, hanno largamente contribuito alla generalizzata, decrescente importanza della famiglia estesa. Per di più, i raggiunti maggiori livelli di istruzione, in particolare delle donne, hanno favorito, da un lato, la discesa della fecondità e della mortalità, dall’altro la crescente proporzione di famiglie nucleari. Il matrimonio ritardato, che ha conosciuto una straordinaria diffusione negli ultimi trent’anni, e un notevole aumento dei divorzi e della vita da single vanno influenzando dappertutto dimensione, durata e struttura delle famiglie. Alla luce delle considerazioni appena svolte, diventa davvero difficile e problematico prevedere sul lungo periodo tutte le variabili dinamiche che sono alla base dello sviluppo delle popolazioni (la mortalità e la durata della vita, il numero medio di figli per donna, il numero di migranti) e, di conseguenza, determinare il futuro dell’ammontare e della distribuzione territoriale di tali popolazioni.
Numerose risultano le speculazioni e le ‘esercitazioni’ di tipo biologico, medico, attuariale e statistico-demografico che sono state (e vengono) fatte per stimare la durata massima dell’aspettativa di vita, e che via via la spostano sempre più in là. Attualmente le organizzazioni e gli studiosi più accreditati che si occupano di questo tipo di problemi sono propensi a ritenere che la massima durata media di vita per un’intera popolazione possa essere individuata in 88-90 anni. Biologi e genetisti ipotizzano però che, con i progressi della genetica, della diagnostica, della farmacologia e della terapia individuale, questa possa arrivare anche a 120 anni. Per i Paesi economicamente progrediti il raggiungimento di tale traguardo è tutt’altro che scontato (e per gli altri sarebbe in ogni caso molto lontano), dal momento che durante il percorso si potranno incontrare fattori che, ove agiscano, avrebbero effetti positivi – fra i quali si considerano: successi sostanziali nella ricerca di base, e conseguenti cure efficaci, semplici ed economiche legate alle cellule staminali, all’ingegneria genetica e alle nanotecnologie; strumenti diagnostici ancora più efficaci e affidabili; scoperta e produzione di medicine specifiche per anziani e vecchi; attività fisica lungo l’intera vita; maggior cura nella nutrizione e negli stili di vita – e altri fattori che, al contrario, avrebbero effetti negativi – inquinamento dell’aria, dell’acqua, del cibo; comparsa di nuove e inattese epidemie; accresciuta diffusione (soprattutto fra le giovani generazioni) di droghe, doping e obesità; mutamenti climatici su larga scala; insostenibilità del sistema di welfare, legata all’invecchiamento della popolazione e/o a crisi economiche. Il saldo complessivo dei fattori positivi e di quelli negativi è ovviamente imprevedibile, a causa delle incertezze riguardo alla cadenza temporale, all’intensità e all’interazione dei vari fattori. Negli ultimi decenni, soprattutto per i Paesi economicamente più sviluppati, il saldo è stato molto positivo, ma non sono mancate, in alcuni periodi o in alcune aree del mondo, pesanti crisi di mortalità, che hanno penalizzato soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Mettendo insieme tutti questi elementi, le Nazioni Unite ipotizzano che nella prima metà del 21° sec. la durata media della vita continuerà a crescere in tutte le aree del mondo, e che la distanza fra durata massima e minima si potrà ridurre dai 33 ai 23 anni, rimanendo, quindi, comunque molto pesante (tab. 1).
Tutto lascia credere che nel prossimo futuro la fecondità continuerà a declinare: quasi tutti i Paesi dove questa permane a livelli medio-alti (cioè sopra il livello di sostituzione, 2,06 figli per donna, che, lo si ricorda, assicura la crescita zero della popolazione) adottano politiche che spingono a una sua ulteriore discesa. Nel 2005-2010, fra i 150 Paesi in via di sviluppo la fecondità rimane molto alta – sopra i 5 figli per donna – solo in 27, che contano per il 9% della popolazione mondiale. Al contrario, la fecondità è scesa al di sotto di 2,06, oltre che in tutti i Paesi economicamente sviluppati, anche in 28 Paesi in via di sviluppo, fra cui la Cina (1,73 figli per donna), che contano per il 25% della popolazione mondiale.
Mentre nei Paesi ad alta fecondità è ormai scontata l’accettazione del principio di favorire una sua discesa e la messa in atto di politiche per attuarla, nei Paesi a bassissima fecondità di lungo periodo, soprattutto in quelli economicamente sviluppati, le tendenze e le politiche mirate a un suo modesto recupero sono molto più complesse, difficili e incerte. Esse comunque vanno pensate e decise alla luce di questi elementi: a) il problema della sostenibilità sul lungo periodo di una fecondità bassissima, pari o inferiore a 1,3 figli per donna, che provoca, a parità di altre condizioni, un intenso declino della popolazione e un suo fortissimo invecchiamento; b) l’alterazione del rapporto fra nascite e morti, che potrebbe arrivare fino a 3-5 morti per 1 nascita (e oltre), e quindi trasformare il concetto stesso di vita e di morte, oltre che gli atteggiamenti e comportamenti nei confronti del bambino, ‘bene’ raro e quindi assai prezioso, e del vecchio, persona dalla presenza ormai assai diffusa e quindi largamente ‘svalutata’; c) il fatto che ridurre un’alta fecondità della donna e della coppia (e quindi dell’intera collettività) corrisponde assai spesso sia all’interesse della coppia stessa sia a quello dell’intero Paese, mentre tentare di rialzare una fecondità bassissima corrisponde certo all’interesse del Paese, ma non necessariamente all’interesse delle coppie e delle donne (e l’esperienza storica dimostra che quando si verifica una coincidenza di interessi tra l’individuo e la collettività nell’abbassare la fecondità, allora le politiche che mirano a diminuirla funzionano; se invece gli interessi nel rialzarla sono contrastanti, normalmente – almeno nelle democrazie occidentali – sono gli interessi degli individui, e quindi i loro comportamenti, a prevalere sugli interessi della collettività); d) l’inesperienza e l’incapacità finora manifestate nel trovare strumenti e politiche per favorire una ripresa, anche modesta, della fecondità.
C’è poi da considerare la straordinaria difficoltà di individuare e di ‘centrare’ gli obiettivi quantitativi di queste politiche, dovuta al fatto che la grande crescita della popolazione che si è avuta nell’ultimo mezzo secolo e la conseguente non minore alterazione nella struttura per età, rendono eccezionalmente complicato e stretto il sentiero lungo il quale camminare per rendere la fecondità futura ‘ottimale’, o anche solo sostenibile. Al riguardo, prendendo come riferimento l’esempio della Cina (dove vive quasi un quarto dell’intera umanità), si trova che, se l’attuale fecondità di 1,70 figli per donna scendesse a 1,35, fra il 2005 e il 2050 si avrebbe una diminuzione di 230 milioni degli individui con meno di 80 anni, il che renderebbe difficilmente fronteggiabile il contemporaneo, forte incremento di ultraottantenni (circa 86 milioni). Né d’altra parte la Cina può permettere che, per meglio gestire l’atteso invecchiamento, la fecondità risalga fino a 2,35 figli per donna, dal momento che questa fecondità porterebbe a un non auspicabile incremento di 245 milioni per la popolazione con meno di 80 anni (che andrebbero a sommarsi all’incremento di 86 milioni di vecchi, con un incremento totale quindi di 331 mi-lioni di persone). Davvero un puzzle di estrema difficoltà per i politici e i cittadini cinesi. Situazioni non meno complesse e difficili si hanno anche per molti altri Paesi, compresa l’Italia.
Al punto in cui è arrivata l’evoluzione demografica, un obiettivo per una fecondità sostenibile potrebbe essere quello di assicurare la crescita zero della popolazione, e quindi il valore di 2,06 figli per donna, o (essendo un obiettivo assai arduo da conseguire con precisione) un valore all’interno di una fascia che va all’incirca da 1,85 a 2,27 figli per donna (cioè il 10% in più o in meno intorno a 2,06). Naturalmente poi, per raggiungere un ottimo dinamico di popolazione – in relazione a fattori ambientali, economici, sociali, culturali – all’interno del Paese dovrebbe essere possibile un’assoluta, libera mobilità della popolazione, altrimenti si dovrebbe cercare di perseguire l’impossibile obiettivo di una crescita zero a tutti i livelli territoriali, il che comporterebbe fra l’altro una straordinaria e insostenibile rigidità della popolazione e della società in senso lato. La tendenza del numero medio di figli per donna nelle varie popolazioni del mondo all’incirca verso il valore 2 è condivisa da molti governi nazionali, oltre che da numerosi studiosi, ed è di conseguenza anche l’obiettivo che compare nelle ultime proiezioni delle Nazioni Unite (tab. 2). Cosicché, mentre al 2000-2005 si osserva uno scarto di 3,7 figli per donna fra il valore massimo di 5,0 raggiunto in Africa e 1,3 registrato in Giappone, per il 2045-2050 si immagina (o forse si auspica) uno scarto ridotto a soli 0,7, come differenza fra il valore massimo di 2,5 per l’Africa e 1,8 per varie parti del mondo. Il che significa, quindi, che tale convergenza implica un’ulteriore riduzione della fecondità laddove è molto alta (e in particolare una riduzione del 50% in Africa) e una difficilissima ripresa laddove è molto bassa (e in particolare un aumento del 46% in Giappone).
Gli squilibri demografici, economici e sociali a livello macro, attuali e prospettivi, non sono mai stati così forti fra il Nord del mondo, economicamente progredito e demograficamente depresso, e il Sud, demograficamente vitale ed economicamente depresso, per cui ci si potrebbero aspettare migrazioni assai massicce. Ma poi a livello micro, per prendere la decisione di partire conta il bilancio che una singola persona e la sua famiglia fanno fra la situazione attuale (o quella sperata) nel luogo di origine e la situazione sperata nel luogo di destinazione, compresi tutti i costi da affrontare per arrivarci. Per tentare di valutare il futuro delle migrazioni internazionali, bisogna tener conto del fatto che entrano in gioco numerosi attori e non soltanto i due più importanti, i quali per l’appunto sono da un lato il migrante – che vuole avere il diritto di lasciare il proprio Paese, per necessità e/o desiderio – e dall’altro il Paese di destinazione – che vuole avere il diritto di lasciare entrare soltanto un certo numero di immigrati, per salvaguardare una propria armoniosa capacità di sviluppo economico e sociale, oltre che la propria identità etnico-culturale. Vanno infatti prese in considerazione anche le politiche e le azioni operative svolte da altri attori, quali i Paesi di transito, che non riescono e/o non vogliono trattenere gli irregolari sul proprio territorio, adoperato sempre più spesso come trampolino per tentare di arrivare nell’‘eldorado’ (si considerino, per es., il caso Messico-Stati Uniti e quello Libia-Italia), e i trafficanti di manodopera, che sullo stato di bisogno dei migranti lucrano ignobilmente.
Nella partita delle migrazioni internazionali, però, da sempre sono in gioco anche: a) il Paese d’origine del migrante, che può volere allentare la pressione sul proprio mercato del lavoro e acquisire fondamentali rimesse finanziarie; b) la famiglia di origine del migrante, che sotto il profilo psicologico e affettivo, ma in primo luogo sotto quello delle risorse finanziarie, può comportare o no la spinta a partire; c) la comunità di connazionali già insediata nel Paese di destinazione, che, formando la ben nota ‘catena migratoria’, è spesso elemento determinante per prendere la decisione di partire; d) i datori di lavoro nei Paesi di arrivo, che, nel caso ci sia carenza, per quantità e/o qualità, di manodopera sul mercato interno, causano l’afflusso di immigrati, anche irregolari; e) gli altri Paesi di immigrazione, specie se contigui, le cui politiche migratorie hanno un’influenza indiretta su un singolo Paese, nel senso che le loro aperture o chiusure rispetto ai flussi di immigrazione – anche soltanto mediante i visti – possono modificare intensità, cadenza e direzione dei flussi verso quel singolo Paese.
Come elementi strumentali, che interagiscono intensamente con molti dei soggetti, vanno considerati sia le facili ed economiche comunicazioni telefoniche e informatiche, che consentono a chi è già immigrato di comunicare e avvertire in tempo reale le comunità rimaste a casa delle opportunità e degli ostacoli esistenti nel Paese di origine e del modo di sfruttarle e superarle, sia, ancor di più, l’enorme quantità di mezzi di trasporto che con grande frequenza, rapidità ed economicità collegano ogni Paese con tutto il resto del mondo. In particolare poi nell’Unione Europea, va considerato il Trattato di Schengen (dal 21 dicembre 2007 allargato a 25 Paesi), che, annullando le frontiere dei singoli Stati-nazione e spostandole ai bordi di un’enorme area di libera circolazione delle persone, fa sì che la politica migratoria dei singoli Paesi europei si stia trasformando sempre di più da unidimensionale e bilaterale a multidimensionale e multilaterale. Il massimo contributo (relativo e assoluto) delle migrazioni internazionali in relazione all’incremento naturale di alcuni Paesi si prevede si avrà nel quinquennio 2005-2010, quando le migrazioni nette tenderanno a più che raddoppiare il contributo dell’incremento naturale (nascite meno morti) alla crescita della popolazione. In sostanza si può affermare che mentre l’immigrazione può risolvere la crisi demografica dei Paesi a bassissima fecondità e a forte economia, con particolare riferimento a quelli europei, la parallela emigrazione, per quanto consistente, non può risolvere l’eccesso di crescita demografica dei Paesi a economie deboli, né può risolvere le miserie del mondo, dal momento che l’uno e le altre sono relative a miliardi di persone.
La tab. 3 mette bene in luce le tendenze passate e quelle previste per i primi decenni del 21° sec., con i Paesi economicamente sviluppati che nel decennio 2000-2010 dovrebbero guadagnare 2,902 milioni di migranti all’anno, e i Paesi in via di sviluppo che dovrebbero perderne altrettanti. In particolare, l’Europa è passata da area di emigrazione netta (‒489.000 persone all’anno nel decennio 1950-1960) ad area di forte immigrazione netta (+1.271.000 persone all’anno nel decennio 2000-2010). A livello di singolo Paese, nel 2000-2010 l’emigrazione netta più forte in valori assoluti dovrebbe aversi per Cina (−329.000 all’anno), Messico (−306.000), India (−241.000), Filippine (−180.000), Pakistan (−167.000) e Indonesia (–164.000).
Forme diverse di migrazioni internazionali
Di fronte a cifre così imponenti per i flussi migratori, e che certo non potranno diminuire in futuro, in sede internazionale ci si è posto il problema di trovare formule che massimizzino i vantaggi e minimizzino gli svantaggi per i tre protagonisti principali del processo migratorio: i Paesi di destinazione, i Paesi di origine e i migranti. Per meglio valutare il problema vanno analizzate le politiche migratorie dei vari Paesi, compresi quelli di transito, i cui obiettivi principali sono di seguito indicati.
Per i Paesi di destinazione: a) sostenere o promuovere, attraverso l’immigrazione, un forte sviluppo economico, possibilmente anche nei Paesi di origine e in quelli di transito; b) favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, o alleggerire gli squilibri quantitativi e/o qualitativi esistenti nel mercato del lavoro; c) favorire la modernizzazione e lo sviluppo (o la ripresa) di uno specifico settore della produzione e dell’intera economia; d) favorire la ripresa dello sviluppo demografico, soprattutto nei Paesi caratterizzati da un forte e prolungato eccesso di bassa fecondità; e) favorire il pacifico inserimento della comunità immigrata nel Paese di destinazione, garantendole una fruttuosa convivenza e la possibilità di promozione sociale e professionale, in specie per le seconde generazioni; f) avere un flusso e uno stock di migranti di intensità ‘sostenibile’ rispetto alla capacità di accoglienza della società e di una sua positiva interazione con la comunità immigrata, basata anche sulla salvaguardia della identità dei popoli e dei luoghi di accoglienza (specie in società e città storicamente stratificate com’è in Europa).
Per i Paesi di origine: a) sostenere e promuovere, attraverso l’emigrazione, un consistente sviluppo economico, riducendo nel mercato del lavoro la fortissima offerta, che sia di origine demografica o socioeconomica; b) offrire ai propri cittadini, e alle loro famiglie, un’opportunità di sopravvivenza e di promozione sociale; c) acquisire rimesse finanziarie essenziali per la bilancia dei pagamenti e per gli investimenti produttivi, e poi acquisire anche, specie nel lungo termine, rimesse sociali; d) favorire in generale lo sviluppo e la modernizzazione della società e dell’economia; e) non subire un eccessivo dispendio di capitale umano, onerosamente formato e necessario per lo sviluppo; f) stringere con i Paesi di destinazione relazioni economiche e socioculturali, con lo scopo anche di favorire le proprie esportazioni e acquisire investimenti diretti stranieri.
Per i Paesi di transito: a) agevolare un rapido e indolore smaltimento dei migranti di transito che via via si accumulano nel proprio territorio; b) annullare o ridurre la tensione politico-diplomatica che si viene a creare tanto con i Paesi di origine dei migranti di transito, quanto con quelli di destinazione.
Per il migrante (in linea di massima): a) favorire il pieno inserimento suo e della sua famiglia nel Paese di destinazione, una volta che si vogliano e si riescano a superare gli ostacoli legati al lavoro, all’abitazione, alla lingua, alla scuola dei figli, alla pacifica e fruttuosa convivenza con la comunità autoctona; o, alternativamente, b) restare un periodo più o meno limitato di tempo nel Paese di destinazione per mettere da parte una somma che consenta poi una piena sopravvivenza nel Paese di origine, anche attraverso l’inizio di una propria attività.
Nei primi anni di questo secolo hanno preso avvio alle Nazioni Unite un’approfondita analisi e un’iniziativa politica che mirano a valorizzare le migrazioni temporanee e rotatorie, in modo da poter minimizzare gli inconvenienti delle migrazioni permanenti o di lungo periodo. Infatti: a) per il Paese di destinazione, diminuiscono i problemi dell’integrazione – economica, logistica, psicologico-culturale – soprattutto quando le esigenze dell’economia richiedono per molti anni o decenni flussi di immigrazione così intensi da mettere in difficoltà la capacità d’integrazione, o quando vi siano fluttuazioni del ciclo economico che richiedono un numero variabile di migranti; b) per il Paese di origine, diminuisce la perdita di capitale umano, si prolunga nel tempo l’acquisizione delle rimesse finanziarie (contribuendo in misura spesso decisiva allo sviluppo del Paese), si ottiene al rientro il guadagno di capitale sociale costituito dalle caratteristiche sociali e professionali acquisite all’estero dal migrante; c) per il Paese di transito, si annulla o si allenta decisamente la pressione sul proprio territorio, essendo molto maggiore il numero di coloro che possono regolarmente emigrare nel Paese desiderato.
A pagare il prezzo maggiore di questo tipo di migrazione è spesso il migrante, con la separazione dalla famiglia durante il periodo di migrazione e con l’obbligo di far rientro nel luogo di origine, non sempre abbastanza attraente per lui e/o per il futuro dei suoi figli. E pur tuttavia questo tipo di migrazione, per il quale si possono immaginare strumenti e meccanismi adeguati per ridurre al minimo i danni del migrante, sembra essere una delle poche forme in grado di assicurare la circolazione di una grande quantità di migranti e una riduzione degli inconvenienti legati a una migrazione massiccia e crescente.
Se ci si è soffermati così a lungo sulle migrazioni è perché si ritiene che per i decenni a venire esse saranno sempre più importanti nel determinare le tendenze della popolazione. Al di là infatti delle considerazioni sulla pressione migratoria, che saranno svolte nel paragrafo successivo, le migrazioni restano l’elemento più flessibile per regolare lo sviluppo della popolazione in relazione allo sviluppo economico. La mortalità, infatti, è ormai straordinariamente ridotta e unidirezionale (nel senso che tutto viene fatto perché si abbassi ulteriormente), mentre la fecondità non è unidirezionale, ma è sempre più difficile da regolare per indirizzarla su un percorso che, come si è visto, è comunque molto stretto.
La popolazione mondiale nella prima metà del 21° secolo
La popolazione mondiale presenterà una crescita fortissima anche nella prima metà del 21° sec.: ci si aspetta (nell’ipotesi ‘centrale’, cioè di fecondità media) un incremento di circa 2,5 miliardi di persone nei 43 anni che vanno dal 2007 al 2050, e quindi in media 59 milioni in più all’anno (tab. 4). Il gioco delle variabili demografiche fa sì che la popolazione mondiale, stimata al 1° luglio 2007 in quasi 6,7 miliardi di persone (dei quali 5,4 vivono nei Paesi in via di sviluppo e 1,2 in quelli economicamente sviluppati), possa arrivare nel 2050 a 9,2 miliardi (dei quali rispettivamente 8,0 e 1,2). E questo come effetto della prevista discesa della fecondità (da 2,55 a 2,02 figli per donna), dell’allungamento della vita media (da 67,2 a 75,4 anni), delle migrazioni internazionali (2,9-2,3 milioni all’anno dal Sud al Nord) e delle caratteristiche della struttura per età (che ha accumulato nei decenni passati un forte potenziale di crescita).
Le differenze territoriali nello sviluppo delle popolazioni saranno straordinarie per effetto della diversa velocità, intensità e cadenza delle variabili demografiche in gioco (Angeli, Salvini 2007).
Differenze straordinarie si potranno registrare anche in relazione ai percorsi di fecondità seguiti dalle diverse aree territoriali. Si prenda il caso del possibile sviluppo della popolazione dell’Africa in confronto a quello dell’Europa (tab. 4): se il percorso della fecondità fosse per entrambi i continenti quello medio, allora la loro differenza di popolazione, che attualmente è di 234 milioni, salirebbe nel 2050 a 1334 milioni; con una fecondità bassa per l’Africa e alta per l’Europa (percorsi con ridotta probabilità di verificarsi), allora la differenza salirebbe a 941 milioni; con una fecondità alta per l’Africa e bassa per l’Europa (percorsi che hanno ridotta probabilità di verificarsi, ma comunque maggiore di quella del caso precedente), allora la differenza salirebbe a 1736 milioni.
Ci si può aspettare circa 1 miliardo di differenza fra popolazione africana ed europea, a fronte dei 234 milioni attuali. Con 3 africani per ogni europeo, necessariamente cambierà tutta la geopolitica dell’area euroafricana. La recentissima Unione per il Mediterraneo, che mette insieme i 27 Paesi dell’Unione Europea e i Paesi rivieraschi del Sud del Mediterraneo (Libia esclusa), dal punto di vista demografico non può che essere valutata positivamente, soprattutto come premessa di una più larga Unione che in futuro includa anche i Paesi dell’Africa subsahariana. È destinata a cambiare, per fare un altro esempio, la geopolitica in un’area particolarmente delicata anche dal punto di vista delle tensioni militari: nel 1950 la Russia (considerata nei confini attuali) aveva una popolazione (103 milioni) che era circa tre volte quella del Pakistan (37 milioni); nel 2050 il Pakistan potrebbe avere una popolazione pari a tre volte quella della Russia (292 contro 108).
Nell’ambito dei Paesi in via di sviluppo, la crescita demografica sta avendo e avrà un impatto molto forte in primo luogo sulla domanda di acqua, cibo ed energia, in particolare da parte dei 4,6 miliardi di persone che abitano nei Paesi emergenti, e che ci si aspetta diventino 6,2 miliardi nel 2050. Si tratta di Paesi con vaste popolazioni e con una assai forte crescita economica – a partire da Cina e India – in cui la formazione di una classe media fa aumentare la domanda di beni che siano al di là della pura sopravvivenza. Da qui la richiesta di cibo, ma poi anche di abitazioni più confortevoli, di automobili, e quindi di energia e di acciaio. Una domanda sostenuta dalla spinta a superare l’arretratezza di questi Paesi – in campi fondamentali come il tenore di vita, oltre alla soluzione di problemi come la povertà, la salute e l’istruzione – e che va mettendo in crisi il sistema di produzione, scambi e prezzi di merci e servizi delle società occidentali; domanda che per di più si accentuerà in futuro, proprio in relazione al fortissimo aumento della popolazione e alla sua attesa e auspicabile crescita in termini socioeconomici.
Di alcune sfide legate allo sviluppodella struttura per età della popolazione mondiale
Al di là dei grandi mutamenti nella geopolitica e nelle relazioni internazionali e agli imponenti cambiamenti legati alla domanda dei beni e servizi per effetto della crescita demografica e di quella economica, immense sfide vengono poste ai singoli Paesi e alla comunità internazionale dalle ‘sconvolgenti’ variazioni nella struttura per età delle popolazioni legate al calo della fecondità e della mortalità (tab. 5) e alle forme di insediamento della popolazione sul territorio.
La popolazione giovane (meno di 15 anni)
Si prevede che tra il 2005 e il 2050 cali nel mondo intero di 15 milioni, in conseguenza della già consistente discesa della fecondità e di quella dei prossimi decenni. Ci si aspetta che cali di poco nei Paesi economicamente sviluppati, dove già costituisce una frazione molto ridotta della popolazione, e molto nei Paesi emergenti (di 176 milioni, il 13,3% in meno), dove il problema maggiore sarà, una volta assicurato a tutti i minori un adeguato livello di istruzione, quello di far diminuire in parallelo e dolcemente tutto il settore relativo all’istruzione, che altrimenti si troverebbe a essere sovradimensionato. Nei Paesi a sviluppo minimo, l’incremento invece sarà massiccio – di 173 milioni, il 54% in più – e la sfida sarà quella di riuscire a far crescere adeguatamente il settore dell’istruzione, considerando anche la sua grande arretratezza in molti di questi Paesi.
Ma per questo segmento di popolazione, riguardo i Paesi a sviluppo minimo due ulteriori sfide aspettano i governi e la comunità internazionale: a) assicurare un forte incremento delle condizioni di salute, dal momento che in alcuni Paesi, per es. in Mali o in Etiopia, la mortalità infantile supera ancora il valore di 100 bambini morti nel primo anno di vita per ogni 1000 nati vivi; b) salvaguardare i bambini dal lavoro e proteggere i minori nel lavoro, dal momento che è difficile immaginare che si possa ridurre o annullare il lavoro minorile, tenendo conto che quasi la metà della popolazione (il 42%) ha meno di 15 anni (una proporzione che tenderà a ridursi, ma lentamente, per arrivare al 28,2% nel 2050).
La popolazione adulta (15-64 anni)
Si prevede che fra il 2005 e il 2050 la popolazione in età lavorativa aumenterà nel mondo intero di 1,677 miliardi, con fortissime differenze territoriali: −92 milioni nei Paesi economicamente sviluppati; +708 nei Paesi a sviluppo minimo; +1067 nei Paesi emergenti. Il che comporta (tenendo conto del fatto che in questa fascia di età il tasso normale di attività si aggira intorno al 70%) la necessità di creare nei Paesi in via di sviluppo circa 1,250 miliardi di nuovi posti di lavoro, per fronteggiare l’offerta che deriva dalla sola dinamica demografica. L’immensità della sfida si può valutare tenendo conto che l’intero ricco Nord del mondo occupa attualmente 550-600 milioni di persone. Ma alla componente demografica bisogna aggiungere un’offerta addizionale di lavoro che deriva: dall’espulsione di addetti all’agricoltura, quando questa, com’è in specie nei Paesi a sviluppo minimo, è arretrata e ammodernandosi espelle decine di milioni di lavoratori; dal miglioramento della condizione femminile, che immette sul mercato grandi quantità di lavoratrici, non infrequentemente più istruite degli uomini; dall’aumento dell’istruzione, che contribuisce a immettere sul mercato del lavoro frazioni di persone che altrimenti resterebbero emarginate o scoraggiate. Si tratta, per di più, di creare posti di lavori che siano, secondo la definizione dell’International labour organization (ILO), ‘decenti’, in grado quindi di assicurare un reddito adeguato.
Dall’altra parte, i Paesi economicamente sviluppati, per la prevista diminuzione della popolazione in età lavorativa, avranno bisogno di immigrati, che, si è visto, le Nazioni Unite prevedono nella misura di 2-3 milioni l’anno. La pressione migratoria Sud-Nord sarà quindi fortissima e incontenibile, ma, come si diceva, mentre le migrazioni sarebbero in grado di risolvere i problemi demografici del Nord del mondo (compreso quello di ridurre in misura modesta l’invecchiamento, sempre che i flussi di immigrazione abbiano continuità nel tempo), non saranno certo in grado di risolvere i problemi demografici ed economici che interessano invece il Sud.
La possibilità e la capacità di creare abbastanza lavoro, e lavoro decente, per fronteggiare un’offerta che nei prossimi decenni supererà largamente 1,5 miliardi di persone, costituisce una delle sfide principali per l’umanità prossima ventura, sfida verso la quale però si presta molta meno attenzione rispetto a quelle relative a problemi, peraltro non meno rilevanti, come il cibo, l’energia, l’inquinamento.
La popolazione anziana (65 anni o più)
Questo segmento di popolazione costituisce l’altra ‘bomba demografica’ del 21° secolo. Ci si aspetta nel mondo un incremento di 1,013 miliardi di ultrasessantacinquenni fra il 2005 e il 2050 (tab. 5), di cui 139 milioni nel mondo economicamente sviluppato (dove raggiungeranno la quota del 26,1% sul totale della popolazione) e 877 nei Paesi in via di sviluppo, dove, con un incremento di oltre il 300%, raggiungeranno la quota del 14,7%. I Paesi del Nord del mondo si ritroveranno con una quota elevatissima di anziani e vecchi, che metterà a dura prova la sicurezza sociale, il sistema pensionistico e la loro competitività internazionale. I Paesi del Sud si ritroveranno con una quota minore, ma in vertiginosa crescita; e questo in Paesi dove i sistemi di sicurezza sociale e pensionistici sono ancora approssimativi se non del tutto assenti, i redditi ancora bassi e la crisi della famiglia già largamente presente.
Alcune sfide legate al previsto sviluppo della popolazione italiana
Le sfide di cui si è detto nel paragrafo precedente saranno particolarmente forti per i Paesi a più intenso e rapido invecchiamento della popolazione, per i Paesi quindi con prolungata bassissima fecondità e con recente intensissima immigrazione, elementi che alterano profondamente tendenze e livelli dello sviluppo della popolazione, della sua struttura per età e del suo insediamento sul territorio.
Proiezioni demografiche elaborate nel 2008 dall’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) mostrano chiaramente come rilevantissimi siano i mutamenti che ci si possono ragionevolmente attendere nello sviluppo della popolazione italiana (tab. 6). Prendendo come base la proiezione cosiddetta centrale (che allo stato sembra avere la maggiore probabilità di verificarsi), nel giro di 44 anni, dal 2007 al 2051, i mutamenti potrebbero essere quelli esposti di seguito.
La popolazione italiana continuerà, sia pure debolmente, a crescere, ma grazie al solo effetto dell’immigrazione straniera. Infatti, l’intera popolazione residente sul territorio crescerà di 2,5 milioni, da 59,1 a 61,6 milioni, con la popolazione di origine italiana che scenderà da 56,2 a 50,9 milioni, e quella di origine straniera che salirà da 2,9 a 10,7 milioni. Delle persone che risiedono nel Paese, nel 2007 è straniera circa 1 su 20; nel 2051 invece sarà 1 su 6. Una vera e propria rivoluzione, che richiede politiche rivolte agli stranieri molto più attive delle attuali in tema di integrazione, con particolare riferimento al lavoro, alla casa, alla salute, alla scuola e alla mobilità sociale, elementi essenziali per una corretta e appropriata crescita delle seconde generazioni di immigrati e quindi per una duratura e proficua pace sociale. In una parola, l’immigrazione straniera diventa elemento strutturale e centrale della popolazione italiana e non più elemento marginale e marginalizzato, com’è stato considerato e collocato finora.
Verrà scompaginata la distribuzione della popolazione italiana sul territorio, come conseguenza del fatto che l’immigrazione straniera si stabilirà molto di più nelle più ricche regioni del Centro-Nord che non in quelle meno floride del Mezzogiorno, da dove, per di più, ripartiranno consistenti migrazioni interne. La conseguenza è che la popolazione del Mezzogiorno scenderà da 20,8 milioni nel 2007 a 18,1 nel 2051. Quella del Centro-Nord salirà invece da 38,4 a 43,5 milioni (senza immigrazione scenderebbe da 35,8 a 33,6 milioni), cioè dal 65 al 71% del totale dell’Italia.
L’invecchiamento della popolazione italiana proseguirà intensissimo, appena lievemente intaccato dall’apporto positivo dell’immigrazione: saliranno al 33% gli ultrasessantacinquenni (contro l’attuale 19,9), e scenderanno al 12,8% le persone con meno di 15 anni (contro l’attuale 14,1). Ma l’aspetto più sconvolgente dal punto di vista demografico e socioeconomico è dato dalla circostanza che il Centro-Nord, la ripartizione italiana attualmente più vecchia, diventerà la più giovane, e il contrario succederà per il Mezzogiorno.
Queste tendenze demografiche pongono grandi sfide all’attuazione di un pieno federalismo fiscale: ci si aspetta che le regioni attualmente ricche del Centro-Nord siano caratterizzate da una crescita della popolazione totale del 10-20%, mentre le regioni meridionali da una diminuzione del 12-14%; le prime, finora le più vecchie d’Italia, diverrebbero, come detto, le meno vecchie, e viceversa per le regioni meridionali; la popolazione in età lavorativa diminuirebbe, nonostante l’immigrazione straniera, di circa 1,1 milioni di persone nel Centro-Nord e di 4,5 nel Mezzogiorno. Il prodotto interno lordo di un determinato territorio, cioè la ricchezza prodotta, non è soltanto il frutto del sistema economico e della sua struttura e organizzazione, ma anche della quantità di persone che sono sul mercato del lavoro – il capitale umano, dal punto di vista quantitativo e qualitativo – e più in generale degli abitanti che in quel territorio consumano beni e servizi. Ebbene, al di là delle capacità degli amministratori locali, con le tendenze in atto si alimenterebbe nelle regioni del Centro-Nord un circolo virtuoso fra economia e demografia, e invece uno vizioso in quelle del Mezzogiorno.
Possibili conseguenze e prospettive delle tendenze demografiche
Le straordinarie modificazioni demografiche, e alcune altre a esse strettamente legate, della popolazione mondiale nella prima metà del 21° sec. possono essere così sintetizzate (Trends and problems of the world population in the XXI century, 2005, in partic. J. Chamie, Scenarious for the development of world population, pp. 69-90): una popolazione mondiale ancora crescente e quindi molto più numerosa; una sua assai maggiore concentrazione nei Paesi in via di sviluppo; un suo declino in molti Paesi sviluppati (mitigato in alcuni casi da consistenti flussi di immigrazione); una fecondità in discesa e, in un numero crescente di casi, durevolmente bassa; una mortalità in discesa anche nelle età molto avanzate, con conseguente aumento e diffusione della ‘grande longevità’; un fortissimo aumento della popolazione in età lavorativa nei Paesi economicamente meno progrediti; popolazioni assai più vecchie (in particolare, ma non solo, nei Paesi sviluppati), con drastico aumento di anziani e vecchi e drastica riduzione di bambini e ragazzi; più frequente e prolungata coesistenza di 3-4 generazioni nelle famiglie e nelle popolazioni; profonde alterazioni (demografiche, economiche, sociali, culturali, psicologiche) derivanti, fra l’altro, dagli squilibri numerici nei rapporti fra le generazioni, in particolare fra nonni e nipoti; una popolazione assai più urbanizzata, accentrata in smisurate megalopoli (soprattutto nel Sud del mondo) o in nebulose urbane diffuse su territori assai vasti (soprattutto nel Nord); incremento delle migrazioni internazionali e assai forte aumento delle diversità etniche nelle popolazioni di arrivo; continui e consistenti progressi delle donne nelle pari opportunità e nell’equità; mutamenti nella composizione e nella struttura della famiglia, che peraltro diventa sempre più fragile e vulnerabile.
Se si guardano le possibili conseguenze attuali e prospettive della rivoluzione demografica in atto e di quella prossima ventura, si possono ritrovare da un lato effetti negativi, peraltro già evocati, derivanti da: carenza di lavoro ‘decente’ e diffusione di larghe sacche di povertà; crisi economiche e/o di welfare; contrapposizioni fra popoli sino all’eventuale insorgenza di guerre, regionali o meno; carenza di acqua e/o di energia, e forse di cibo; diffusione di vecchie e nuove malattie infettive; disastri ambientali.
Ma, dall’altro lato, si possono ritrovare effetti positivi, alcuni dei quali già ricordati nelle pagine precedenti: presa di coscienza del destino comune, con concreto e fruttuoso approccio ai problemi dell’umanità; importanti innovazioni scientifiche e tecnologiche (fra cui, per es., farmaci personalizzati per allungare la vita e migliorarne la qualità, anche attraverso l’utilizzo di robot umanoidi e non); stazionarietà o declino della popolazione mondiale, a partire dalla metà del 21° sec., o forse anche un po’ prima.
Tirando le somme, sono immense le sfide legate alle tendenze demografiche. Nei Paesi economicamente sviluppati va ricercata la capacità di far sopravvivere il sistema produttivo, reggendo all’impatto del proprio ciclo demografico, visto anche in combinazione con quello dei Paesi in via di sviluppo, tenere vivo il sistema di sicurezza sociale, di fronte all’intensissimo invecchiamento della popolazione, e trovare un diverso sistema di assistenza e cura, poiché non sembra più sostenibile in futuro quello basato sulla famiglia, per motivi di alterazione del rapporto fra le generazioni, di modificazioni del quadro nosologico, di durata del periodo di assistenza, della sempre più frequente rottura e ricomposizione delle famiglie, della frequente inadeguatezza, per i grandi vecchi, delle abitazioni nelle quali sono vissuti.
Nei Paesi in via di sviluppo va ricercata la capacità di mantenere e anzi migliorare il sistema produttivo, riuscendo a creare in circa quarant’anni oltre un miliardo di posti di lavoro decente (cioè retribuiti con più di due dollari al giorno), e reggendo quindi all’impatto demografico e ai problemi di competitività che si creeranno fra gli stessi Paesi in via di sviluppo e fra questi e il mondo economicamente sviluppato. Occorre inoltre far nascere dovunque un sistema generalizzato di sicurezza sociale per poter affrontare la straordinaria velocità di invecchiamento delle popolazioni e le difficoltà di crescita economica.
Ma se proprio si volesse sintetizzare al massimo il complesso di queste grandi e difficili stime, si può far riferimento a quattro sole cifre che riguardano la demografia di un futuro compreso fra il 2007 e il 2050 (v. tab. 4). L’incremento atteso della popolazione complessiva – pari a +22 milioni nel Nord del mondo (compresa un’immigrazione di 2-3 milioni di persone l’anno) e a +2498 milioni nel Sud (compresa un’emigrazione di 2-3 milioni di persone l’anno) – è tale da far comprendere che nulla potrà rimanere com’è adesso nei rapporti fra i popoli. E ancora (v. tab. 5): la variazione attesa della popolazione in età lavorativa fra i 15 e i 64 anni (sempre includendo i movimenti migratori), pari a −92 milioni nel Nord del mondo e a +1767 milioni nel Sud, lascia intendere, anche in questo caso, che nulla potrà rimanere com’è adesso nella struttura dei sistemi produttivi e dei flussi migratori.
Bastano queste sole quattro cifre a dare la misura della necessità e dell’urgenza di una nuova visione e di un nuovo governo del mondo.
Considerazioni di lungo e lunghissimo periodo
Le sfide appena enunciate portano per l’appunto a porsi la domanda forse più importante, cioè quale governance si possa e si debba avere, ai vari livelli territoriali, per gestire un futuro così complesso e dinamico. Domanda di grande difficoltà, cui uno studioso dei problemi della popolazione può tentare di dare una risposta partendo in primo luogo dalla necessità di definizione e attuazione di politiche demografiche, che sono incerte e di lunghissimo periodo e quindi quasi sempre non attuabili da governi che durano pochi anni, e in secondo luogo dalle straordinarie differenze territoriali nella crescita demografica, che dovrebbero portare a pressioni migratorie enormi e incontenibili e a mutamenti profondi nelle relazioni fra i popoli.
Guardando alle esperienze passate si può immaginare una strategia di governance articolata su più livelli temporali, di breve, medio e lungo periodo. Un primo livello di breve periodo potrebbe essere quello di riprendere la pratica delle grandi conferenze intergovernative-multilaterali delle Nazioni Unite, una volta che l’organizzazione riacquisti maggiore efficienza e la consapevolezza dell’importanza del suo ruolo. Conferenze certo costose – anche difficili e complesse, per la sempre più radicale contrapposizione fra Paesi ricchi, poco disposti a cedere sulle proprie posizioni di privilegio, Paesi emergenti, che vogliono tentare di raggiungere gli standard di vita dei Paesi ricchi, e Paesi poveri, che inutilmente o quasi tentano di uscire dalla propria condizione di povertà – ma in ogni caso molto utili, sia perché ‘costringono’ i governi a gettare lo sguardo ai problemi di lungo periodo spesso ignorati o trascurati (nel campo della popolazione, ma anche in quello dell’energia e dell’ambiente), sia perché forniscono alle opposizioni e alle opinioni pubbliche dei vari Paesi strumenti di stimolo e di controllo sull’operato dei governi.
Un secondo livello temporale, che può correre in parallelo con il primo, potrebbe consistere nel favorire la creazione e/o il potenziamento di unioni o confederazioni di Stati, possibilmente a dimensione regionale. Si potrebbero, per es., prendere in considerazione delimitazioni territoriali quali sono quelle delle organizzazioni regionali delle Nazioni Unite, e ciò al fine di creare raggruppamenti di popoli che, basandosi su una grande dimensione sia territoriale, sia economica e demografica, siano in grado di non soccombere, nel processo di globalizzazione e nella sua gestione, ai colossi nazionali (attualmente Stati Uniti, Russia, Cina, India) e alle multinazionali giganti che adesso la governano. La costituzione di tali unioni politiche regionali incoraggerebbe al loro interno lo sviluppo economico e sociale di tutte le aree attraverso un’azione politica coordinata e la libera circolazione dei capitali, delle merci e delle persone. La libera circolazione delle persone sarebbe assai positiva in presenza delle pressioni migratorie attuali e di quelle immense che ci si aspetta; e nel contempo la libera circolazione dei capitali potrebbe frenare, in mancanza di un forte principio di solidarietà internazionale, la spinta di alcuni Stati deboli a nazionalizzare i profitti e/o gli investimenti di società e di Stati forti, attuati soprattutto attraverso fondi sovrani.
Sulla strada di costituire unioni politiche a dimensione regionale si ritrovano al momento segnali contrastanti, ma globalmente deboli e non sempre incoraggianti. In America Latina si sta tentando di superare una crisi non irrilevante del MERCOSUR (Mercado Común del Sur), che deriva dall’essere troppo diversi i modelli di sviluppo e di governo dei singoli Paesi; nell’America Settentrionale e Centrale, il NAFTA (North American Free Trade Agreement) è in forte crisi, sia perché non ha favorito abbastanza gli investimenti in Messico, sia perché non ha bloccato l’‘eccesso’ di emigrazione dal Messico; nell’Unione Europea si hanno solo timidi e incerti segnali di ripresa, fra cui positivi sono quelli di una volontà (si spera generalizzata) di collaborazione con il Sud del Mediterraneo; nell’ASEAN (Association of South East-Asian Nations) si segnala una forte crescita degli elementi di collaborazione necessari per fronteggiare Cina e India; nell’Unione africana (UA) la crescita è assai modesta.
Può darsi che una spinta convinta e sicura alla costituzione politica di unioni regionali, anche più vaste di quelle attualmente in costruzione, venga da una lucida, progressiva considerazione e presa d’atto di alcune paure, quali possono essere quelle dell’invasione migratoria, del collasso ecologico, della crisi energetica, della crisi alimentare, di crisi politico-militari regionali; di soccombere, nell’arena della globalizzazione, di fronte alle grandi potenze nazionali e multinazionali, di altre possibili e devastanti forze, anche di natura epidemiologica.
Le tendenze economiche, demografiche, sociali e culturali in atto – che si manifestano nell’aumento degli scambi commerciali, dei flussi finanziari, dei flussi migratori e delle comunicazioni, a partire dalla televisione e poi, anche più pervasivamente, da Internet e dai nuovi cellulari – alimentano un continuo incrociarsi e mescolarsi di culture e religioni, oltre che di popoli, di atteggiamenti e di comportamenti, e cancellano quindi o attenuano, magari con scontri, frontiere millenarie. Per contrastare positivamente la globalizzazione, questa dell’enorme dilatazione e della fortissima riduzione del numero delle entità politico-territoriali sembra essere una delle poche vie di uscita per ‘assorbire’ pressioni demografiche incontenibili e devastanti, perché relative a miliardi di persone, per rimanere appieno dentro l’economia globale e più in generale per stabilire, proprio grazie a queste tendenze, nuove relazioni internazionali al fine di ridurre le iniquità e le grandi disuguaglianze esistenti nel mondo e assicurare un futuro di pace, o forse solo limitare i rischi di tensioni e guerre.
È oggi, o quasi, che per i macrofenomeni si decide che cosa sarà il mondo del 2050, e si prepara quello che sarà nel 2100. È più che mai necessario tentare di prevedere alcuni possibili percorsi delle basilari variabili che influenzeranno i prossimi decenni, analizzare le leggi che regolano tali percorsi e valutarne auspicabilità e compatibilità.
La prima variabile, come si è visto in tab. 4, è costituita dalla grande crescita demografica, che permane e che entro il 2050 porterebbe la Terra a popolarsi di ulteriori 2,5 miliardi di persone, con straordinarie differenze territoriali. Il peso demografico dei Paesi al presente ricchi potrebbe scendere dall’attuale 18,3 al futuro 13,5%, i Paesi emergenti scenderebbero dal 69,6 al 67,5% (corrispondente in cifra assoluta a oltre 1,5 miliardi di persone), e infine la quota dei Paesi poveri salirebbe dal 12,1 al 19,0% (in cifra assoluta circa 1 miliardo). Ma tale crescita demografica si attua anche con il fortissimo aumento della popolazione urbana, che fra il 2005 e il 2030, secondo le proiezioni dell’ONU, dovrebbe crescere di 1,763 miliardi (da 3,150 a 4,913) – di cui 113 milioni nei Paesi sviluppati, 1,327 miliardi nei Paesi emergenti e 321 milioni nei Paesi più poveri – mentre la popolazione rurale dovrebbe scendere da 3,314 a 3,287 miliardi. Una trasformazione demografica-economica-ambientale davvero immensa e straordinaria.
La seconda è la futura, limitata disponibilità, se non vera e propria scarsità, di alcune risorse, a partire dall’acqua e a seguire forse con cibo ed energia. Ma anche, con ogni probabilità, con la scarsità della ‘risorsa tempo’, considerando che l’accelerata trasformazione della popolazione, dell’economia, della società e della tecnologia non concede abbastanza tempo alla politica per ricercare le soluzioni tecnico-politiche e il consenso per attuarle e recuperare lo svantaggio accumulato.
La terza variabile è la tecnologia, i cui progressi e le cui innovazioni, impressionanti per intensità, persistenza e rapidità, creano discontinuità temporali e territoriali, contribuendo con ciò ad aumentare la distanza fra ricchi, dotati di capitali finanziari e umani per sfruttare appieno i progressi, e poveri, affannati in una difficile e debole rincorsa.
In quarto luogo c’è la variabile ambiente, nei cui percorsi vanno accuratamente esaminati i legami fra popolazione e mutamenti climatici a varia scala – globale, regionale, nazionale, locale, delle singole famiglie.
In quinto luogo, variabile fondamentale che lega tutto, e di cui si è detto prima, è la forma di governo, a livello globale e regionale, alla ricerca di nuovi efficienti equilibri fra capacità di governo ed equità e fra democrazia e mercato, equilibri che valgano anche per il livello attualmente nazionale, cioè per una singola collettività e per i singoli individui.
Messo nei termini più essenziali possibili, il problema è se la prosecuzione dello sviluppo economico possa essere sostenibile o no. Se sia peggio la sovrappopolazione o l’eccesso di consumi. Nel caso in cui la risposta al problema fosse la prima, si potrebbe avere una grande tragedia per l’umanità, perché si tratterebbe di estendere a tutti i popoli che si trovano ancora a medio-alta fecondità una politica che li costringa – come, per es., da tempo succede in Cina – a non avere figli o ad averne uno solo, di modo che la fecondità scenda ancora più rapidamente di quanto stia avvenendo; oppure si tratterebbe di avere un arresto alla discesa della mortalità, e magari di rialzarla riducendo per tutti la durata della vita nelle età più avanzate. Parrebbe più conveniente e appropriato ridurre i consumi, impresa straordinariamente difficile e complessa, ma comunque di medio periodo, in attesa che dopo la metà del 21° sec. la popolazione mondiale cominci – com’è del tutto probabile – a declinare grazie all’azione di sue forze endogene. Un declino peraltro che potrebbe forse creare più problemi di quanti ne possa risolvere, se non si saranno costituite le unioni politiche, di cui si è detto, all’interno delle quali compensare le grandi diversità territoriali nell’insorgenza, nella velocità e nell’intensità del declino demografico.
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Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta il 6 luglio 2009.