Lo sviluppo mercantile
"[...] Le merci scorrono per quella nobile città come l'acqua dalle sorgenti [...] da ogni luogo giungono merci e mercanti, che comperano le merci che preferiscono e le fanno portare al loro paese" (1). Le parole del cronista veneziano Martin da Canal tratteggiano una realtà sempre più vera a partire dalla metà del secolo XII. D'altronde, proprio nel secolo XII il progresso dell'economia occidentale conosceva un'ulteriore accelerazione grazie alle crociate (2). Il fiorente entroterra dell'Italia settentrionale, i cui ambiziosi comuni erano i principali acquirenti delle merci, esportava esso stesso i prodotti delle proprie manifatture tessili restando per altro verso dipendente dall'importazione di derrate alimentari e di cotone. E sull'onda dell'incremento demografico si registrava la parallela dilatazione della domanda. Una generale crescita dell'economia occidentale, insomma, che si accompagnava a un altrettanto ragguardevole sviluppo nell'Impero bizantino sotto Manuele I. È in questo contesto che Venezia assunse progressivamente una funzione di mediazione che ne aumentò rapidamente l'importanza commerciale.
L'espansione dei traffici si rifletteva anche sulla società veneziana, coinvolgendo un numero sempre maggiore di persone interessate ai viaggi commerciali. Per far solo qualche esempio fra i tanti, gli Ziani e i Mastropiero, famiglie dogali del tardo secolo XII, fondarono le proprie fortune sull'attività mercantile (3); e i Morosini, i Michiel, i Badoer, come pure altre antiche grandi famiglie appartenenti al ceto dirigente, parteciparono attivamente al commercio marittimo (4). L'emporio realtino attirava continuamente nuovi gruppi familiari, richiamando a Venezia molte casate provenienti dai centri minori del Dogado (5). Non solo, era un effetto d'attrazione a vasto raggio: i nomi di alcuni mercanti ne ricordano la provenienza dalla terraferma, dalla Romagna, dalle Marche o dall'Istria. Segnale, questo, di una espansione delle correnti del traffico veneziano che trova ulteriore riscontro nella quantità crescente di contratti di credito registrati.
L'inizio delle crociate segnò per Venezia l'avvento di nuovi concorrenti e il contemporaneo arretramento di città di antica consuetudine mercantile. Se dunque Pisa e Genova, che godevano di una posizione favorevole nel panorama urbano dell'Italia settentrionale e centrale, divennero serie avversarie, furono soprattutto gli empori meridionali di Bari e Amalfi a perdere via via la loro funzione. Nel contempo le linee del commercio veneziano andavano inoltrandosi ancor più profondamente in quelle aree mediterranee orientali già tradizionalmente frequentate - dall'Adriatico all'Impero bizantino, ai principati crociati, all'Egitto -, mentre il Mediterraneo occidentale continuava a restar fuori dall'orizzonte degli interessi marciani.
Fondamento essenziale di ogni successo nel traffico mediterraneo era la pace dinanzi alle proprie porte. Questa la ragione per cui, intorno alla metà del secolo XII, Venezia iniziò ad allargare sistematicamente la propria sfera d'influenza nell'Adriatico. Nel 1141 la città di Fano, nelle Marche, dovette far atto di sottomissione in cambio della promessa di aiuto militare fino alla linea ideale tracciata fra i porti di Ancona e di Ragusa (6). Venezia cominciava a dilatare il proprio predominio ben oltre i confini ducali, né quello di Fano come si comprese di lì a poco era destinato a rimanere un caso isolato. Nel 1145 anche Pola e Capodistria dovettero concludere accordi del medesimo tenore. A Pola, dove addirittura un rappresentante permanente del doge avrebbe d'ora in poi dimorato in un palazzo in vista del porto, dovevano essere rispettate le disposizioni ducali sul commercio dei grani: una esplicita indicazione del movente economico che guidò quell'azione. Altrettanto chiaramente, sulla falsariga del trattato con Fano, erano stati definiti i termini dell'intervento armato veneziano: scoppiata in Istria una rivolta antiveneziana, Domenico Morosini, figlio del doge, fu così in grado di assoggettare, fra il 1150 e il 1152, Pola stessa, Rovigno, Parenzo, Cittanova e Umago (7). Oltreché l'imposizione dell'alleanza militare, a Venezia premeva - e soprattutto - la garanzia dell'esenzione doganale per i propri commerci. Nello stesso periodo s'intensificava infatti la presa veneziana sulla Dalmazia, ciò che assicurava la continuità della rotta lungo la costa orientale dell'Adriatico e che pure consentiva una nuova fioritura dello scambio interadriatico: per Venezia come per i comuni dell'Italia settentrionale, i generi alimentari provenienti dall'Istria e dalle Marche crebbero d'importanza.
Da allora Venezia fu la potenza-guida dell'Adriatico, solo temporaneamente ostacolata nel secolo XII da Ancona. Per quanto nel 1152 fosse stata stipulata un'alleanza che sanciva la reciproca libertà di commercio, le relazioni peggiorarono quando Ancona si legò a Manuele I, e nel 1173 i Veneziani giocarono un ruolo di primo piano nell'assedio di quella città. Anche Ragusa, sulla costa dalmata, venne conquistata e tenuta per qualche tempo. L'Adriatico era effettivamente diventato il "golfo di Venezia", come scrisse per la prima volta, verso la metà del secolo XII, un geografo arabo (8) Testimonianza eloquente della supremazia adriatica veneziana è la concessione fatta a Capodistria di diventare una tappa del sale, l'unica autorizzata fra Grado e Pola. Ma l'accordo del 1182 stabiliva altresì che le importazioni di sale eccedenti il fabbisogno della città si sarebbero effettuate previo assenso ducale, cosicché, a fini di sorveglianza sul traffico di quella merce e di salvaguardia sulla spartizione degli utili, Venezia avrebbe tenuto una galera nelle acque istriane. Quanto poi alle merci dell'entroterra avviate al porto di Capodistria, quest'ultima e Venezia ne avrebbero lucrato rispettivamente un terzo del gettito d'imposta, mentre il restante terzo sarebbe andato per porzioni al vescovo, al conte e al margravio allo scopo di garantire la sicurezza delle vie di comunicazione terrestri. In una parola, da questo periodo in poi il commercio istriano fu completamente sotto il controllo veneziano (9).
Quando, dopo lunghi scontri, furono riallacciate le trattative fra Venezia e il Regno di Sicilia nel tardo periodo del re Ruggero II, si pervenne infine sotto il di lui successore Guglielmo I a un trattato fra le parti che aprì una fase nuova nelle relazioni commerciali con il Mezzogiorno d'Italia (10). Mercanti veneziani s'incontrano regolarmente in quelle contrade a partire dalla metà degli anni Cinquanta del secolo XII, e anzi il costante incremento del volume degli scambi con San Marco durante gli anni Sessanta indurrà un radicale mutamento dei rapporti economici del Regno con le altre città marinare. Assurta Venezia a principale interlocutore commerciale dei Normanni, era lungo le rotte adriatiche che quelli instradavano ora derrate alimentari dal Meridione ai comuni dell'Italia settentrionale. Voce più cospicua dell'esportazione alimentare era certamente il grano, ma le navi imbarcavano anche cotone destinato alla prospera industria tessile lombarda. Se inizialmente furono le Puglie, grazie alla propizia collocazione geografica, a occupare il posto preminente in questa corrente di traffici, vennero progressivamente affiancate durante gli anni Settanta dalla Calabria, da Palermo e soprattutto da Messina. Per quest'ultimo scalo transitava infatti il percorso verso la Terrasanta e l'Egitto che, in concomitanza con la chiusura della via marittima lungo l'Adriatico orientale e Creta a causa dei ripetuti incidenti con Manuele I, salì al rango di maggior rotta commerciale veneziana. Nel 1175 un trattato venne a sanzionare la preponderanza di Venezia nell'ambito del commercio con il Sud. Il Normanno vi s'impegnava espressamente a non importunare il tenimentum veneziano di Ragusa e del suo entroterra, parimenti riconoscendo l'Adriatico quale zona d'influenza marciana; inoltre i mercanti di Venezia avrebbero d'ora innanzi goduto di tariffe doganali ridotte alla metà del tasso in uso nel Regno, e ogni veneziano della piena tutela giuridica a riparo di qualsivoglia atto di violenza avesse a subire (11). Dati questi presupposti - e ben lo dimostrano i contratti commerciali coevi -, lo scambio veneziano con l'Italia meridionale continuò a svilupparsi vivacemente, per ridimensionarsi solo dopo che furono ripristinate condizioni favorevoli a Venezia nei territori dell'Impero bizantino.
In effetti, era al di là di Otranto che cominciava il vero commercio veneziano a lunga gittata, caratterizzato rispetto a quello interadriatico per l'organizzazione delle "mude", convogli di battelli che navigando di conserva battevano la stessa rotta più volte all'anno. E che all'epoca dell'imperatore Manuele I le mude veneziane preferissero le destinazioni bizantine, lo testimonia chiaramente la Historia ducum (12). Bisognoso dell'aiuto di Venezia in funzione antinormanna, nel 1147 Manuele ne aveva ratificato integralmente i precedenti privilegi commerciali, ancor più assecondandone gli interessi l'anno seguente con l'ampliamento del quartiere veneziano nella capitale: ai tre moli di attracco se ne aggiunse un quarto e vennero ingrandite le aree residenziali. Un documento dell'anno 1150 ci rende noto che un legato ducale - nel caso il futuro doge Sebastiano Ziani - rappresentava il potere marciano a Costantinopoli, rendendo inoltre giustizia nell'ambito della locale comunità veneziana. Già delegate ai patriarchi di Grado fin dal 1107 le entrate fiscali derivate dalla stima dei tonnellaggi e degli ingombri dei carichi, il rinnovato privilegio completava la lista delle piazze aperte al libero commercio veneziano con Creta e Cipro, fino ad allora escluse.
In virtù della conferma dei privilegi, i traffici veneziani nell'Impero bizantino conobbero due decenni di floridezza. Numerosi mercanti si trasferivano nella capitale imperiale, dove il loro quartiere era di gran lunga il maggiore della città. Ma anche quelli di Dyrrhachion (Durazzo), Corinto, Tebe, Tessalonica e Halmyros (Almira) non dovevano essere poca cosa. E i vantaggi fiscali totale franchigia dalle imposte in numerose città, rispetto al 4 per cento pagato in dogana dai Pisani e al 10 per cento pagato dai Genovesi - furono decisivi per la supremazia veneziana nel commercio di Romània. Non solo i mercanti della Serenissima trasportavano merci fra la madrepatria e l'Impero bizantino, ma fungevano pure da mediatori negli scambi fra Costantinopoli, la Terrasanta e persino Alessandria; attivi inoltre nel traffico egeo, imbarcavano in Grecia derrate alimentari destinate sia alla capitale, sia a Rialto. Una rete di frequentazioni commerciali dalla quale si può ben comprendere come gli interessi economici di Venezia si appuntassero prevalentemente su Costantinopoli e sulla penisola balcanica piuttosto che sulle sponde dell'Asia Minore, ancorché solo per l'area del mar Nero non risultino nel secolo XII tracce certe di iniziative veneziane. La preponderanza della Serenissima nel commercio bizantino non convogliava certo la simpatia della popolazione locale sui suoi mercanti, né mancano veementi deplorazioni e dure prese di posizione presso i cronisti greci. Del resto, la popolarità delle comunità mercantili occidentali era ancor più minata dai reiterati scontri che le opponevano l'una all'altra.
Con il 1168 si concluse un ventennio durante il quale le relazioni commerciali erano trascorse pacificamente. Insorgenti complicazioni politiche indussero il doge Vitale II Michiel a richiamare in patria tutti i Veneziani residenti nei territori dell'Impero. Ma le amichevoli disposizioni successivamente manifestate in apparenza da Manuele convinsero Venezia, nell'estate del 1170, a togliere il blocco economico. Particolarmente numerosi i Veneziani tornarono in Romània con la muda d'autunno. Senonché, in tutta segretezza, Manuele aveva predisposto delle truppe con le quali il 12 marzo 1171 fece prigionieri tutti i sudditi marciani che gli riuscì di trovare sul suolo imperiale (13). Soltanto pochi riuscirono a sfuggire alla cattura, per lo più abbandonando sul posto ogni loro avere. D'un sol colpo la tradizionale supremazia mercantile veneziana era stata estirpata da Bisanzio, anche se i dati inizialmente forniti dai cronisti vanno presi con cautela. Oltre 20.000 Veneziani rientrati dall'Impero è di sicuro valutazione eccessiva, ma certamente furono alcune migliaia coloro che dovettero subire l'azione xenofoba dell'imperatore. Venezia subì perdite gigantesche. Lo stato non riusciva a far fronte ai debiti, e anzi, a quanto consta dai documenti commerciali, ci volle oltre un decennio prima che fossero ripianati. Per un lungo periodo la presenza dei Veneziani nella Romània divenne impossibile, malgrado che già verso la fine del regno di Manuele si muovessero i primi passi in direzione di un riavvicinamento peraltro ancora di là da venire. Se dunque nulla cambiò nelle relazioni commerciali, ciò paradossalmente rappresentò una fortuna per Venezia: nel 1182, sotto Andronico, successore di Manuele, i Bizantini misero in atto un altro colpo di mano contro i mercanti delle città marinare italiane, che, fra omicidi e saccheggi, furono cacciati dai loro quartieri. Eppure, dinanzi al nuovo attacco Venezia tenne una condotta stranamente defilata. L'episodio nemmeno viene menzionato nelle cronache contemporanee, né la Repubblica reclamò il risarcimento dei danni. Se a tutto questo si assomma il silenzio delle fonti commerciali, allora la conclusione è una sola: nel 1182 i Veneziani non erano ancora tornati a Costantinopoli. È pur vero che sussistono gli indizi della presenza di taluni sudditi marciani in Grecia, ma ufficialmente la pace non era ancora stata conclusa.
Le perdite lamentate da Pisani e Genovesi - questi ultimi da soli denunciavano danni per 227.000 iperperi - andavano a tutto vantaggio dei Veneziani, che già nel 1183 si trovavano di nuovo a Costantinopoli dove, l'anno seguente, è segnalato l'affitto di un fondo nel loro antico quartiere. Nondimeno, quando Andronico venne rovesciato, continuava a protrarsi l'attesa di un trattato che regolarizzasse i rapporti veneto-bizantini. Fu il suo successore, Isacco Angelo, a stipulare finalmente nel 1187 la pace con Venezia, documento nel quale la parte politica occupa lo spazio maggiore (14). Sul piano economico, ai Veneziani venne concessa la restituzione di tutti i diritti acquisiti dal 1082 in poi. E Bisanzio promise inoltre il rimborso di tutte le perdite causate da Manuele nel 1171; ma la commissione insediata per vagliare tal contenzioso dovette evidentemente incontrare delle difficoltà se nel 1189 l'imperatore emanò una crisobolla che prevedeva il pagamento rateale di una somma forfettaria. Effettivamente, nei documenti veneziani si fa menzione di un "catasticum comunis", in cui erano elencate le rivendicazioni avanzate dai mercati. Inoltre, come era stato loro promesso in precedenza, i Veneziani ricevettero a Costantinopoli il quartiere già appartenuto a Tedeschi e Franchi, riportante una rendita annua di 50 iperperi. Con la normalizzazione dei rapporti politici e diplomatici anche i traffici ripresero. Ma il ritorno delle altre nazioni commerciali portò con sé, negli anni Novanta, il riacutizzarsi di tensioni all'origine di ripetute esplosioni di violenza.
Quanto all'assetto amministrativo, la colonia veneziana venne nuovamente sottoposta all'autorità dei legati che, coadiuvati da iudices, assolvevano anche la funzione giudiziaria; per le questioni finanziarie si valevano poi della collaborazione di un procurator super redditibus Venetie in Costantinopoli. Le prerogative dell'autoamministrazione veneziana si erano ampliate, e altrettanto irrobustito risultò il commercio dal nuovo privilegio accordato a Venezia nel 1198 da Alessio III Angelo (15). Già da tempo esistente di fatto in tutto l'Impero, l'esenzione fiscale venne ora compiutamente sancita: il privilegio elencava minuziosamente tutte le località potenzialmente interessate dai traffici marittimi e terrestri veneziani. Di più, consolidava la certezza del diritto per i sudditi serenissimi e riconosceva esplicitamente la competenza dei legati della comunità in qualità di giudici. Ma gli effetti di questi benefizi non poterono pienamente esplicarsi giacché, appena sei anni più tardi, il doge Enrico Dandolo entrava da vincitore in Costantinopoli alla testa della crociata.
Nel secondo cinquantennio del secolo XII, Venezia intratteneva stretti legami commerciali anche con i principati crociati (16). Poiché tuttavia non si era più occupata di questi stati dopo l'impresa della flotta del doge Domenico Michiel, alla base delle relazioni restavano i privilegi della prima metà del secolo. I possedimenti veneziani nel Regno di Gerusalemme consistevano in un terzo della città di Tiro, in un quartiere a San Giovanni d'Acri - con chiesa, strada, piazza di mercato, stabilimento termale, forno e mulino -, e in un quartiere ad Haifa. Per il resto, le premesse poste dai privilegi non sembrano essersi realizzate, e pure il numero dei Veneziani residenti nel Regno fu sempre limitato. Nei suoi quartieri Venezia deteneva diritti giurisdizionali e finanziari che, comunque, non vennero ampliati. D'altronde, soddisfatta la pretesa di poter godere delle prerogative di una piazza commerciale, nell'anno 1191 i Veneziani si limitarono a farsene confermare la validità da parte di Corrado di Monferrato (17). In ogni modo le notizie sull'amministrazione delle colonie di Venezia nel Levante cristiano rivestono un interesse affatto particolare. Furono dapprima le chiese, soprattutto San Marco di Tiro, a prendere il rilievo maggiore. E proprio a San Marco di Tiro furono appaltati nel 1165 i proventi del Comunis Venetiarum: le entrate del porto, delle porte di accesso, delle piazze, delle terme e dei fondachi, dei mulini, dei forni, del peso e del volume dei carichi, così come il gettito dell'imposta prelevata sull'industria del vetro. E anche a San Giovanni d'Acri fu intorno alla chiesa che si resse in principio l'amministrazione veneziana; ma già poco più tardi vi si menzionava per la prima volta un vicecomes, quale tutore dei diritti di Venezia. Tutto lascia invece ritenere che il piccolo punto di appoggio a Tripoli avesse scarsa rilevanza. Quanto al Principato di Antiochia, il privilegio del 1143 costituiva il fondamento delle prerogative riservate a Venezia, peraltro successivamente accresciute. Ai Veneziani, che già in precedenza dovevano essere giudicati secondo il proprio diritto, venne accordato nel 1153 un tribunale autonomo. Rinnovato nel 1167, nell'anno 1183 il privilegio venne poi cassato (18). E però, a quanto pare, Venezia non reagì a questa misura: era Bisanzio, una volta ancora, a catalizzarne le attenzioni.
Questa relativa indifferenza politica non significa comunque che il traffico con gli stati crociati non avesse importanza. Genova e - soprattutto - Pisa erano sicuramente più attive di Venezia in Terrasanta, ma anche la città lagunare vi manteneva forti interessi, primo fra tutti il trasporto di pellegrini e di combattenti (19). In merito, tuttavia, scarseggiano le indicazioni delle fonti, poiché questo genere di impresa commerciale non richiedeva finanziamenti sul mercato dei capitali. Considerata la sua posizione geografica, è chiaro che da Venezia s'imbarcavano soltanto passeggeri provenienti dall'Italia, dalla Germania, dall'Ungheria e da altri paesi del Nord, mentre gli affari con i Francesi, che rappresentavano la clientela maggioritaria, erano appannaggio delle città marinare della costa tirrenica. A lato del trasporto passeggeri, il trasporto merci aveva un ruolo minore. Certo, le spezie e i medicamenti d'Oriente scorrevano anche per il golfo Persico o la Persia in direzione di Baghdad, e di qui agli scali del Levante cristiano; ma, a quel che risulta, nel secolo XII si trattava di casi sporadici. Piuttosto, va considerato che gli stessi principati crociati offrivano merci proprie. Si pensi al cotone, materia prima per la manifattura tessile dell'Italia settentrionale; e poi, a prodotti della tessitura quali le pezze di lino grezzo e le stoffe di lino. Tanto Antiochia che Tiro erano centri di produzione di tessuti pregiati: il privilegio veneziano del 1153 ad Antiochia cita appunto le stoffe di seta che vi venivano esportate. Non solo, anche le industrie del vetro e della ceramica potevano trovare uno sbocco in Occidente. E si pensi infine allo zucchero della regione di Tiro. Dopo che il commercio fra Venezia e la Terrasanta era stato, a partire dal 1171, specialmente intenso, dovette inevitabilmente subire il contraccolpo della caduta di Gerusalemme. Venezia si concentrò nuovamente su Costantinopoli e ancor più sull'Egitto che, terminale delle mercanzie orientali, era allora in piena ascesa economica.
Nel traffico delle spezie e dei medicamenti, assai richiesti dal mercato occidentale, si era verificata nel secolo XII un'inversione di tendenza. Diminuita sempre più d'importanza la via che dall'Asia raggiungeva Costantinopoli discendendo il Don e il mar Nero; fortemente ostacolati dai Selgiuchidi da un lato e dai crociati dall'altro i viaggi sulla direttrice di Hormuz, Teheran, Tabriz e Trebisonda, come pure sulle linee meridionali del commercio arabo che, toccata Baghdad, si dipartivano verso il Mediterraneo e il mar Nero, si registrò per conseguenza un duraturo incremento del flusso sulla rotta verso il Settentrione che dall'India al mar Rosso, dopo un breve tratto via terra, risaliva il Nilo fino al delta. Fu questo a diventare il tragitto privilegiato delle spezie. Centro di raccolta e di vendita agli Occidentali dei prodotti d'Oriente, Alessandria era ormai il "mercato pubblico dei due mondi", come la chiama Guglielmo di Tiro (20); un rapporto di viaggio datato al 1175 favoleggia di 50.000 monete d'oro che sarebbero quotidianamente affluite nelle casse della locale dogana. E al primo posto fra gli operatori sulla piazza alessandrina, il viaggiatore ebreo Beniamino di Tudela colloca i Veneziani. Fin dagli anni Venti del secolo XII è possibile osservare un costante incremento dei viaggi regolari di Venezia, ulteriormente intensificati dopo che dal 1171 gli empori dell'Impero bizantino furono preclusi al commercio serenissimo; non è dunque un caso che la prima notizia di un fondaco veneziano ad Alessandria risalga al 1173. Le merci che Venezia conduceva in Europa con linee regolari erano principalmente il pepe, all'epoca prodotto di prima necessità, e altre spezie. Ma anche l'allume egiziano aveva parte non trascurabile nelle importazioni, stante la domanda dell'industria tessile che, dopo averlo lavorato ulteriormente, lo impiegava nei procedimenti di tintura. Seconda città dell'Egitto per importanza commerciale era Damietta.
Riguardo alle esportazioni, non furono pochi i problemi che i mercanti veneziani si trovarono a dover affrontare (21). È che l'Egitto aveva innanzitutto bisogno di metalli, di manufatti metallici e di legname. Tutti materiali la cui destinazione era in primo luogo bellica, anche se poi l'Egitto riesportava ragguardevoli quantitativi di rame occidentale in India. La Chiesa soprattutto, a difesa dei principati crociati di Terrasanta dall'incombente minaccia egiziana, non era disposta ad avallare traffici tanto potenzialmente pericolosi, frapponendovi ogni sorta di divieto e anzi, a partire dal pontificato di Alessandro III, minacciando di fulminare la scomunica su coloro i quali avessero rifornito gli Arabi di armi, legname o navi. Ciò nonostante, il commercio veneziano non si arrestò neppure durante le giornate fatidiche della caduta di Gerusalemme. Del resto un documento di papa Innocenzo III, datato 3 dicembre 1198, mostra come la Chiesa stessa fosse disposta a giungere a un accomodamento: agli inviati di Venezia, che gli avevano fatto presente quali e quanti danni avrebbe causato all'economia della Serenissima il ventilato blocco generale del commercio con l'Egitto, il pontefice rispondeva che, per risparmiare alla Repubblica inconvenienti di tale portata, gli affari con Alessandria potevano continuare, con l'esclusione naturalmente dei prodotti strategici quali ferro, chiodame, armi, cordame, catrame, gomene, galee e altri tipi di navi.
Parallela al progresso del commercio marittimo procedette la dilatazione degli orizzonti commerciali di Venezia in Occidente. I mercati di assorbimento delle merci veneziane erano soprattutto i comuni dell'Italia settentrionale, in fase di espansione, e la Germania, mentre la Francia e l'Inghilterra seguitavano a rimanere sullo sfondo. Rialto era diventata una delle maggiori piazze commerciali d'Europa. Così Martin da Canal descrive l'età del doge Domenico Morosini (1148-1156): "e i Veneziani andavano per mare di qua e di là, e oltremare e in ogni dove, e comperavano le merci e le portavano a Venezia da ogni luogo. E le venivano a comprare direttamente Tedeschi e Bavari, Francesi e Longobardi, Toscani e Ungheresi, e tutte le genti che vivono del commercio, e le portavano al loro paese" (22).
A perturbare queste fiorenti relazioni commerciali, intervenne la lotta fra Federico Barbarossa e i comuni dell'Italia settentrionale. La posizione della Repubblica, dalla parte delle città, non poteva non aver conseguenze sugli scambi con la Germania, che si normalizzarono solo con la pace di Venezia del 1177. L'imperatore allargò anzi a tutto il territorio dell'Impero i privilegi doganali emanati dai sovrani del Regno italico in favore di Venezia. E poco dopo incaricò il patriarca di Aquileia di contrarre per suo conto un mutuo a Rialto. Da allora cessano le notizie di rapporti reciproci, per riprendere soltanto con la terza crociata, quando il Barbarossa, per garantire il finanziamento della spedizione, si indirizzò a Rialto, affidando il compito di appianare in loco ogni eventuale problema a un certo "Bernardus hospes noster". Questi, chiamato da altre fonti "Bernardus Teotonicus", si era stabilito a Rialto come mercante di metalli preziosi (23). Membro del seguito del patriarca di Aquileia e con parentele in Friuli, veniva da una famiglia ministeriale della regione di Monaco di Baviera. Il patrimonio di Bernardus era ingente, come mostra il suo testamento del 1213: oltre ai proventi di affari generali e ai crediti nei confronti del comune, occorre ricordare i numerosi prestiti erogati a principi germanici. Un mercante e banchiere in grande stile, dunque, che va a buon diritto collocato agli inizi di una nuova fase di sviluppo delle relazioni economiche. In un periodo di forte espansione dell'industria estrattiva, la scoperta di giacimenti di metalli nobili - dapprima, intorno al 1170, nei pressi di Freiberg, in Sassonia, quindi in Boemia, in Ungheria e nei Carpazi - venne a colmare un'endemica penuria dell'Occidente medievale. Si rendevano così disponibili i mezzi per acquistare in Levante maggiori quantitativi di spezie, di farmaci e di tessuti pregiati. E di quest'epoca nuova segnata dal commercio di metallo prezioso, che avrebbe preso un ruolo centrale nelle relazioni fra Venezia e i vicini del Nord, il primo messaggero fu appunto Bernardus.
Nell'Italia settentrionale Venezia aveva interessi molteplici (24). La secolare necessità di accedere all'entroterra circostante per approvvigionarsi di generi alimentari reggeva anche nel secolo XII il tenore delle relazioni economiche del comune. In Friuli e nei territori soggetti al patriarca di Aquileia un trattato garantiva ai sudditi di San Marco, nell'anno 1200, il diritto di libero mercato; e con Treviso era stato stipulato nel 1198 un accordo che sottometteva ogni disputa giuridica fra Veneziani e Trevisani a una rigida normativa. Meno pacifiche le relazioni con Padova, contro la quale Venezia aveva ingaggiato nel 1144 una guerra cruenta. Ma se nel Padovano era la proprietà fondiaria veneziana, spesso fonte di dissidi, al centro dei rapporti fra i confinanti, nei trattati con Verona il tema dominante era il commercio. Nel secolo XII i vincoli fra le due città erano stretti, data la posizione di Verona, a un tempo arbitra della navigazione sull'Adige e tappa sul cammino terrestre alla volta della Lombardia o della Germania: un patto siglato nel 1175, della durata di ventinove anni, regolamentava le procedure giuridiche in casi di controversia e limitava il reciproco diritto di confisca. Nel 1192, poi, Si pervenne a un nuovo trattato: Verona prometteva di concedere a chiunque (sia ai propri cittadini, quindi, che agli stranieri), in futuro, l'accesso alla via di Venezia e assumeva l'impegno di garantire la sicurezza sull'Adige, fino a Cavarzere; non sarebbero stati frapposti ostacoli al commercio né intraprese iniziative suscettibili di recare disturbo ai diritti finanziari del doge. I dazi rimasero quelli fissati nel 1107, ad eccezione della tassa veneziana sul sale e del ripatico. L'anno seguente un'intesa complementare in materia di rapporti giuridici completò l'insieme degli accordi.
La Lombardia, con i suoi importanti comuni, rappresentava un primario mercato di sbocco ed era a sua volta, grazie alla florida industria cotoniera che vi si stava sviluppando, esportatrice di manufatti tessili che godevano di buon credito sulle piazze del Levante. Chiave del commercio padano era Ferrara, in grado di bloccare il Po quale principale arteria di traffico. Fu quindi un grande successo, anche per Venezia, l'obbligo imposto nel 1177 dalla Lega lombarda a Ferrara, di mantenere sempre aperta la via fluviale. Successivamente, nel 1191, il grande trattato fra le due città venne a sanzionare le reciproche assicurazioni giuridiche: un modello per la lunga serie di accordi che la Serenissima avrebbe in seguito stipulato in Italia. Nondimeno, fin dal 1173 Venezia aveva concluso in Lombardia uno dei primi trattati sulla limitazione del diritto di confisca. Per il resto, il sistema dei patti con i comuni italiani si strutturò solo nel secolo XIII. E poiché i documenti commerciali veneziani del secolo XII riguardano soprattutto i traffici marittimi, non è possibile ricostruire più precisamente il quadro del commercio in terraferma.
Intorno alla figura del mercante medievale del secolo XII il dibattito è stato vivace, con Venezia assunta a paradigma (25). Fuoco della discussione è la separazione fra il socius stans e il socius procertans, fra il datore e il percettore del credito, in una parola fra il creditore e il debitore, nei contratti dell'epoca. Mentre la storiografia più antica vi voleva scorgere la contrapposizione fra il capitalista e l'imprenditore, anche se, in parte, il capitalista veniva identificato nel proprietario terriero, studi più recenti hanno messo in luce come le carte attestino una stessa cerchia di attori, alla volta su questa o quella sponda contrattuale. In effetti i contratti di credito servivano interessi diversi. Stando a una critica storica ormai datata, accadeva senz'altro che un veneziano finanziasse il viaggio di un mercante, senza affrontare egli stesso la spedizione. Semmai questa differenziazione va posta su di un piano generazionale piuttosto che interfamiliare: è che il mercante veneziano iniziava l'intrapresa da giovane per poi, raggiunta la maturità, mettersi a riposo ovvero volgersi alla carriera nella politica comunale. Il sistema del credito funzionava dunque di preferenza all'interno della parentela. Inoltre, se il mercante poteva lavorare in proprio mettendo a frutto un capitale altrui, anche considerevole, nulla gli impediva di prestare a terzi il proprio denaro. In tal modo si riduceva il rischio di perdita completa che l'andar per mare pur sempre comportava. Strumento flessibile all'incontro di interessi svariati, il contratto di credito ci accosta ai protagonisti dell'avventura del commercio marittimo veneziano. Salta subito all'occhio che, rispetto al secolo XI, l'ambito mercantile si era allargato, coinvolgendo persino vedove e chierici. E le rendite commerciali - ci sono note cifre intorno al 40-50, in taluni casi addirittura 100 per cento di guadagno per una spedizione - innalzavano a far parte del ceto dirigente famiglie nuove. Soprattutto gli Ziani - che con Sebastiano e Pietro diedero a Venezia due dogi - seppero accumulare una ricchezza gigantesca. Una fortuna ottenuta, ed è dato pienamente riscontrabile, con l'esercizio della mercatura: d'altro canto, a confronto con i redditi provenienti dall'agricoltura o dalle saline, appare subito chiaro che solo il commercio era capace di convogliare un flusso di ricchezza tanto imponente da attirare pure le attenzioni delle famiglie antiche, che vi si impegnarono per stare al passo con quelle che solo allora iniziavano la propria scalata sociale.
Tre gruppi sono individuabili fra gli agenti del traffico marittimo nel secolo XII, per quanto ogni singolo attore potesse collocarsi al contempo in più d'un gruppo (26). Il mercante puro e semplice (mercator) raccoglieva denaro a Rialto o nei porti di approdo con mezzi propri, noleggiava una porzione della stiva di una nave e accompagnava le proprie merci. Procurare il nolo era affare del nauclerus che, sovente detentore di una quota di proprietà del battello, era incaricato del comando di bordo e della navigazione. Venivano infine i padroni veri e propri della nave: di regola più individui associati che, al pari del nauclerus, esercitavano anch'essi usualmente la mercatura, ma dotati di capitale sufficiente per compartecipare, appunto, a una nave. Il legno mercantile veneziano del secolo XII - generalmente non si trattava di una galera - era una nave a vela con due alberi a vele latine; piuttosto piccola, poteva stivare, nel migliore dei casi, intorno alle 20 tonnellate di carico. All'incirca ogni sei anni doveva essere sostituita.
Sulla formazione professionale del mercante in questo periodo non possediamo alcuna informazione, dato che non si sono conservati libri commerciali. Di norma, comunque, sapeva scrivere, come indicano le firme apposte sui contratti, e sbrigarsela con le lingue straniere: sappiamo di un caso in cui, addirittura, alcuni documenti greci vengono citati per esteso. E doveva cavarsela anche con i pesi, le misure e le monete correnti nel bacino del Mediterraneo.
Rispetto all'epoca precomunale le carte contrattuali non denunciano cambiamenti tecnici, quanto piuttosto una differente frequenza nell'applicazione delle varie forme di credito. L'antica "colleganza", che prevedeva l'erogazione di due terzi del capitale da parte del mutuante contro il restante terzo conferito dallo stesso mutuatario, nella seconda metà del secolo XII si fa sempre più rara. Ora, in linea di massima, era il socius stans a mettere a disposizione il capitale per intero, ciò che semplificava le operazioni di conteggio nelle operazioni più complesse. Motivo, questo, che portò il prestitum maris a diventare la forma di credito maggiormente diffusa. Ma oltre a ciò, il mondo commerciale veneziano manifestava altre evoluzioni affatto nuove. Accanto al mercante viaggiatore, già nel secolo XII era comparsa la figura del "fattore", colui cioè che per conto di un grande operatore ne sbrigava gli affari dietro pagamento.
Quando si esaminino le rotte commerciali battute dai Veneziani durante il secolo XII, si constaterà facilmente che esse differiscono alquanto da quelle seguite nel secolo successivo (27). Nell'Adriatico i viaggi si svolgevano tanto lungo la costa orientale e la Dalmazia, quanto lungo la sponda italiana. Più gradito ai marinai era il primo percorso, nettamente più sicuro: acque profonde e porti naturali limitavano le insidie, mentre i piatti e sabbiosi litorali occidentali e soprattutto la mancanza di ripari adeguati costituivano a tutti gli effetti degli ostacoli alla navigazione. Ma, poiché dopo il 1171 il territorio bizantino divenne inaccessibile ai Veneziani, fu giocoforza ripiegare sul tragitto italiano, che consentiva peraltro di proseguire verso la Sicilia e, da lì, passare nel Mediterraneo per mettere la prua alla vòlta dell'Egitto, ma anche di San Giovanni d'Acri e Tiro, o ancora - seppure meno frequentate - di Tripoli e Antiochia. Anche per la rotta dalmata si giungeva, nel secolo XII, in Terrasanta, dopo aver toccato Rodi, doppiato le isole e disceso la costa dell'Asia Minore. Era certamente questo il viaggio preferito, non già quello di Creta che, destinato in futuro a prendere un'importanza pressoché esclusiva, per il momento rappresentava appena un'eccezione. Quanto alla rotta verso Costantinopoli, anch'essa sovente passava per Rodi e l'Asia Minore; meno impiegata la circumnavigazione della Grecia, assurta in seguito a via principale per la capitale bizantina fors'anche perché, diventate Creta e Negroponte possedimenti veneziani, questi due scali offrivano una protezione particolare.
Tutte le grandi rotte fra Rialto e le piazze commerciali nel Mediterraneo orientale venivano praticate regolarmente dai convogli di Venezia: era il problema della sicurezza a richiedere che, appena fosse possibile, si navigasse di conserva e sotto scorta (28). Le fonti citano dunque la "mudua pascae Resurrectionis Domini", la "mudua aestatis" (o "Sancti Petri"), la "mudua mensis augusti" e la "mudua hiberni" che, al di là delle rispettive denominazioni, possono essere raggruppate in base alle scadenze di partenza, in primavera e in agosto-settembre. Resta comunque che il sistema delle mude, inteso come ben organizzata sequenza di viaggi compiuti dalle galere dello stato quale la conobbe il tardo Medioevo, nel secolo XII era ancora in fase nascente. A quanto pare vi partecipavano svariati tipi di navi, per solito di proprietà privata; inoltre, sulle stesse tratte commerciali dell'Impero bizantino, della Terrasanta e dell'Egitto vengono spesso segnalate singole navi o convogli più piccoli, né mancano viaggi fra le province bizantine e Costantinopoli. Fattori tutti che consigliano prudenza nell'applicare al secolo XII i concetti di "navigazione di linea" e di "navigazione libera" così come sono stati elaborati da Gino Luzzatto per periodi successivi.
Nel commercio terrestre con l'Occidente i Veneziani compaiono sempre più sporadicamente: se li si incontra in diverse occasioni alle fiere della Champagne, non si hanno notizie di una loro eventuale presenza in Germania; i contratti commerciali li dicono attivi pressoché esclusivamente nell'immediato entroterra fino alla Lombardia. Fatto è che Venezia andava progressivamente concentrando i propri interessi sul mare, lasciando ai mercanti forestieri il compito di inoltrare le merci alle destinazioni occidentali.
Descrivere i beni posti in vendita a Rialto incontra limiti oggettivi nelle fonti (29). Le carte contrattuali, che quasi sempre ragguagliano sulle somme di denaro movimentate, solo eccezionalmente descrivono anche la merce. In Levante Venezia acquistava spezie, pepe soprattutto, medicamenti e coloranti: prodotti che per lo più giungevano sul mercato mediterraneo dall'Asia attraverso scambi intermedi; e la cui domanda, indotta dalla trasformazione delle abitudini al consumo in seguito alle crociate e dallo slancio dell'industria tessile occidentale, andava dilatandosi. Ma dal secolo XII ci pervengono soprattutto informazioni sui traffici che passavano per l'Egitto, mentre scarseggiano a proposito del commercio in transito per gli stati crociati. Bene voluttuario, anche lo zucchero veniva condotto dai paesi arabi e dalla Terrasanta.
Quanto al settore tessile, i flussi erano più complessi. Materie prime e prodotti finiti scorrevano sia dal Levante all'Occidente che in senso inverso. Le stoffe pregiate - tali i tessuti di seta - arrivavano a Venezia dall'Egitto, dalla Terrasanta e dall'Impero bizantino. Inoltre, i principati crociati, l'Egitto e il Regno di Sicilia esportavano, sempre a Venezia, cotone destinato al Settentrione italiano. L'allume, materia prima essenziale per la tintura, approdava a Rialto proveniente da Alessandria. A sua volta, la nascente industria cotoniera dell'Italia del Nord inviava nel Vicino Oriente manufatti finiti, cui si aggiungevano le stoffe di Fiandra, assai richieste.
Ampio spazio acquisirono nell'ambito del commercio nel Mediterraneo i generi alimentari. Poiché quel mare ne consentiva il trasporto (o, per meglio dire, il trasporto su vasta scala) questo settore di scambio prese ovunque piede. Nell'area adriatica Venezia era interessata al traffico con le Marche, donde venivano olio, vino, grano, carne, fichi e formaggi. Il Regno di Sicilia era un importante fornitore di grano per i comuni padani; e dalla Grecia, la cui esportazione si fondava principalmente sulle derrate alimentari, giungevano olio d'oliva, vino e formaggi. Non solo i Veneziani partecipavano a questo commercio in veste di importatori, ma fungevano pure da vettori su commissione per conto terzi.
Oltre ai tessuti, le merci occidentali più appetite erano i metalli e il legname. Richieste soprattutto in Egitto, sullo scambio con quel paese gravava l'esplicita proibizione a trattare tal sorta di articoli, anche se poi si riusciva in qualche modo ad aggirare tal divieto. Tanto Costantinopoli quanto Alessandria erano porti d'arrivo del rame; e ingenti quantitativi dovettero esservi sbarcati, stante la lettera degli statuti marittimi che prescrivevano l'utilizzo di metallo grezzo in funzione di zavorra. Anche l'argento occidentale giungeva in Oriente, e specialmente in Egitto, giacché nei paesi d'origine era quel materiale a fungere da valore di scambio per le spezie dell'Asia. Della merce umana abbiamo naturalmente poche notizie. È però certa, nonostante la reticenza delle fonti, l'esistenza di un mercato schiavistico. Altro buon affare per Venezia era il trasporto dei pellegrini diretti ai luoghi santi.
Che nel secolo XII le merci imbarcate venissero di norma trasportate a collettame era un risultato dell'organizzazione del commercio. Ogni nave portava a bordo diversi mercanti, ognuno dei quali aveva noleggiato una quota della stiva. Ogni volta, per motivi di sicurezza, veniva caricata della zavorra, al cui proposito gli statuti marittimi sono particolarmente chiari: piombo, ferro, ottone e rame, i tipici prodotti occidentali impiegati allo scopo, e vetro grezzo, smeriglio, pigmenti, vetriolo e allume quelli orientali. Di una nave originariamente diretta a Costantinopoli nel 1182, ma costretta dalla presente contingenza politica a prender terra ad Alessandria, conosciamo i dati relativi al carico: in tutto 78 "milliaria" fra olio, rame, lino, armi, sapone, mandorle, uva passa, grano e olive (30).
È possibile seguire l'andamento complessivo del commercio veneziano nella seconda metà del secolo XII facendo riferimento alla figura di Romano Mairano. Per Venezia, dove all'epoca non si tenevano registri degli atti notarili - diversamente da Genova, sulla cui economia disponiamo di informazioni precise proprio grazie a tali raccolte -, i duecento documenti riguardanti l'attività di questo mercante rappresentano una fonte assolutamente eccezionale, tramandataci per un caso fortunato: l'ultima rappresentante della famiglia Mairano era infatti monaca presso il convento di San Zaccaria, nel cui archivio le carte di Romano trovarono sicura custodia (31). Come molti altri mercanti contemporanei, anch'egli era un homo novus. La sua famiglia s'incontra per la prima volta in una serie di oltre trecento nomi, desunti dalle carte redatte nel 1222 da Domenico Michiel e riguardanti Bari. Il nostro Mairano non ricoprì mai alcun ufficio nell'ambito del comune, né le due donne che sposò in vita sua venivano da famiglie del patriziato; e pure i suoi affari appaiono, nei primi anni, estremamente modesti. Ben si adatta a questo quadro la dote recatagli dalla prima moglie: non altro che suppellettili d'uso domestico. In breve, Romano apparteneva a quella generazione di mercanti entrati nel grande commercio del Levante anni dopo gli Ziani e i Mastropiero; e mentre questi avevano accumulato delle fortune collocandosi nel novero delle case più doviziose e perfino sedendo nei più alti consessi pubblici, ai nuovi venuti non furono risparmiati periodi di estrema difficoltà, dai fatti di Costantinopoli nel 1171 alla caduta di Gerusalemme nel 1187, con i disordini che ne seguirono.
Già nel 1150 Romano Mairano aveva ricevuto un prestito, che restituì, senza tuttavia che noi si sappia alcunché di più preciso in ordine agli affari da lui conclusi. Dopo essersi sposato nel 1152, per molti anni trasferì le proprie attività a Costantinopoli, al pari di tanti Veneziani. Assieme al fratello Samuele commerciava con la Grecia e sulle coste dell'Asia Minore, ricavandone utili alquanto magri. Evidentemente era fuori dal flusso ben più lucroso che scorreva fra Costantinopoli e Venezia. Ma che Romano considerasse la capitale bizantina quale sede della propria impresa lo dimostrano due fatti: da un lato l'acquisto di terreni, dall'altro la trasgressione dell'ordine impartito nel 1158 a tutti i Veneziani di rimpatriare per partecipare alla guerra contro Zara. Romano fu bensì condannato a una pena pecuniaria, ma restò a Costantinopoli.
Dal 1161 il tenore dei suoi affari prese a mutare. Passati dieci anni, Mairano aveva probabilmente accumulato un capitale sufficiente per iniziare il commercio a più lunga gittata: viaggi verso la Terrasanta, dapprima, presto seguiti da spedizioni ad Alessandria. Erano iniziative che richiedevano investimenti maggiori rispetto ai piccoli traffici precedenti; ed effettivamente gli importi delle sue operazioni finanziarie - lievitarono considerevolmente. Ora Mairano faceva affari in grande stile - come stanno a indicare le 50.000 libbre di ferro spedite ai templari - fra Costantinopoli, il Levante latino e Alessandria, dai quali dovette ricavare cospicui guadagni se nell'anno 1163 la sua attività cambiò radicalmente. Tornato dunque a Venezia, acquistò una nave propria, ciò che lo mise in grado di condurre un commercio di maggiori dimensioni. Fino alla morte Romano viaggiò con la sua nave, regolarmente rimpiazzata ogni cinque-sei anni da una nuova. Certamente era anch'egli, come nella maggior parte dei casi a Venezia, un comproprietario, giacché all'epoca il naviglio mercantile veneziano apparteneva di regola a dei consorzi. A partire dal 1163 Mairano non cercò più finanziamenti mediante contratti di "colleganza" per rivolgersi esclusivamente al prestito marittimo.
E i suoi affari si dilatarono ulteriormente. Nel 1167 armò una seconda nave, per andare da Costantinopoli in Egitto. Gli otto prestiti che gli furono erogati danno un'idea piuttosto chiara dei tassi di rendimento del tempo (32).
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Questo, che era uno dei maggiori affari finora avviati da Romano, si risolse in un lusinghiero successo: già nella primavera del 1168 aveva potuto rimborsare tutte le somme di cui andava debitore. E di nuovo - come nel 1163 - tornò a Venezia per dare inizio a un'altra grande operazione. Le tensioni con l'imperatore bizantino avevano raggiunto il culmine, tant'è che il doge ordinò a tutti i Veneziani di rientrare. A quel che sembra Mairano speculò sulla prospettiva che queste difficoltà si sarebbero in un modo o nell'altro risolte. Nell'ottobre del 1169 prese quindi in concessione per sei anni dal patriarca di Grado tutti gli edifici, le bilance e i pesi e le misure per l'olio, il vino e il miele di pertinenza di quel prelato a Costantinopoli. In cambio avrebbe inviato annualmente a Venezia 500 lire veronesi con la muda di primavera. Romano aveva dunque assunto il monopolio dei pesi e delle misure dei Veneziani nella capitale imperiale, assai lucrativo se solo i viaggi fossero stati nuovamente permessi; e Mairano evidentemente ci contava, poiché accese degli altri prestiti. In effetti, la muda autunnale del 1170 venne autorizzata cosicché egli si recò a Costantinopoli insieme a molti mercanti. Ma il colpo di mano dell'imperatore Manuele, nel marzo del 1171, parve significare la rovina anche per Mairano, che riuscì tuttavia a salvare la Maiorando, probabilmente la più grande fra le navi veneziane che frequentassero allora le acque bizantine; e molti concittadini gli dovettero la vita. I suoi debiti erano però giganteschi; giunto a scadenza il contratto di concessione che lo vedeva esposto nei confronti del patriarca Enrico Dandolo, uno zio del conquistatore di Costantinopoli, poté evitare la rovina solo ottenendo una dilazione del termine di pagamento. Gli ci vollero comunque dodici anni per riuscire a saldare tutti i creditori (33).
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Fu questa per il Mairano una congiuntura negativa, protrattasi finché le gravi conseguenze della sua catastrofica situazione finanziaria non furono superate. La via per Costantinopoli era sbarrata e per l'approvvigionamento delle merci d'Oriente Venezia si rivolgeva a un altro mercato. Già nel 1173 troviamo perciò Mairano impegnato sulla rotta di Alessandria; e fino al 1177 i suoi viaggi fra Venezia, Alessandria e la Terrasanta furono regolari. Si comprende esaminando questa fase che Mairano operava anche su commissione della ricca famiglia Ziani. Trattando quantitativi ingenti di pepe e di allume, fu così. in grado di pagare man mano i debiti residui. E non appena siglato, nel 1175, l'accordo fra Venezia e i Normanni sul commercio meridionale, Mairano comparve a Messina.
Negli anni 1177-1178 Romano diede prova, una volta di più, della propria audacia. Assieme ad altri allestì una spedizione nel Mediterraneo occidentale, a Ceuta, allora scalo completamente eccentrico rispetto agli orizzonti della navigazione veneziana. Personalmente si limitò al finanziamento del viaggio, chiudendo l'affare nel 1179. In seguito, per undici anni praticò esclusivamente commerci con l'Egitto e la Terrasanta. E alla conclusione della sua attività, intorno al 1190, riassaporò le responsabilità del nauclerus in un viaggio diretto a Costantinopoli, là dove la sua carriera aveva avuto inizio. Ma, come sempre, erano state le condizioni politiche generali - in questo caso i contraccolpi della caduta di Gerusalemme e della terza crociata - a indurlo a cambiare abitudini. Fu questo il suo ultimo viaggio: d'ora innanzi sarebbe stato il figlio Giovanni a condurre gli affari di famiglia.
Le avventure di Romano Mairano mostrano in tutta evidenza quanto l'andamento dei traffici dipendesse dalle contingenze politiche. Fra il 1150 e il 1168 egli compì una continua ascesa, da piccolo mercante a mercante internazionale e armatore; poi, l'attacco di Manuele contro i Veneziani e le vicende di Terrasanta frapposero ostacoli consistenti allo svolgimento dei suoi affari. Ma giammai gli vennero meno il gusto e il coraggio imprenditoriali, come dimostrano la speculazione sbagliata sulla soluzione della crisi di Costantinopoli del 1169-1170, i viaggi ad Alessandria dopo il 1171 e la prima spedizione commerciale veneziana sulla via di Gibilterra. La sua famiglia non riuscì tuttavia a realizzare la propria promozione sociale e finì per estinguersi poco dopo la morte di Romano. Le informazioni disponibili intorno alla mercatura veneziana mostrano comunque che il caso di Mairano non fu un'eccezione. Nel secolo XII i mercanti di Venezia avevano ampliato la loro sfera di interessi e aperto nuovi mercati. Nel secolo XIII si sarebbe trattato di conquistare e rendere politicamente sicuri punti d'appoggio e colonie commerciali.
Traduzione di Maurizio Martinelli
2. Letteratura generale: Wilhelm von Heyd, Histoire du commerce du Levant au moyen âge, I, Leipzig 1885, pp. 131 ss.; Adolf Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum Ende der Kreuzzüge, München-Berlin 1906; Gino Luzzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 16-34.
3. Gino Luzzatto, Les activités économiques du Patriciat vénitien, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 129 ss. (pp. 125-165); Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tübingen 1988.
4. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, pp. 23 ss. Esempi riportati in Raimondo Morozzo Della Rocca - Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, Torino 1940; Idd., Nuovi documenti del commercio veneto dei sec. XI-XIII, Venezia 1953.
5. Reinhard Heynen, Zar Entstehung des Kapitalismus in Venedig, Stuttgart-Berlin 1905, pp. 88 ss.
6. Gino Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., II, 1906, pp. 45 ss., nrr. 2 ss. (pp. 5-91).
7. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero, 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, passim.
8. Walter Lenel, Die Entstehung der Vorherrschaft Venedigs an der Adria. Mit Beitrgen zur Verfassungsgeschichte, Strassburg 1897; Roberto Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953.
9. Walter Lenel, Venezianisch-istrische Studien, Strassburg 1911, pp. 195 ss., n. 6.
10. David Abulafia, The Two Italies. Economic Relations between the Norman Kingdom of Sicily and the Northern Communes, Cambridge 1977, pp. 85 ss.
11. Gottlieb L.Fr. Tafel - Georg M. Thomas, Urkunden zur älteren Handels- und Staatsgeschichte der Republik Venedig, I, Wien 1856, pp. 172-175, nrr. 65 e 66; D. Abulafia, The Two Italies, pp. 141 ss.
12. Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p. 78; Ralph Johannes Lilie, Handel und Politik zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, pp. 2 ss.; Franz Dölger, Regesten der Kaiserurkunden des oströmischen Reiches, II, München 1925, nrr. 1365 e 1373 = G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, pp. 107-124, nrr. 49-51.
13. F. Dölger, Regesten, nr. 1500.
14. Ibid., nrr. 1576-1578; G.L.Fr. Tafel- G.M. Thomas, Urkunden, pp. 195-203, nr. 72; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 24 ss. Sul trattato del 1189: F. Dölger, Regesten, nr. 1590; G.L.Fr. Tafel- G.M. Thomas, Urkunden, pp. 206-211, nr. 74.
15. F. Dolger, Regesten, nr. 1647; G.L.Fr. Tafel- G.M. Thomas, Urkunden, pp. 246-278, nr. 85; R.-J. Lilie, Handel und Politik, pp. 41 ss.
16. Jonathan Riley-Smith, Government in Latin Syria and the Commercial Privileges of Foreign Merchants, in Relations between East and West in the Middle Ages, a cura di Derek Baker, Edinburgh 1973, pp. 109-132; Joshua Prawer, I Veneziani e le colonie veneziane nel Regno Latino di Gerusalemme, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 625-656; Steven Runciman, L'intervento di Venezia dalla prima alla terza crociata, in AA.VV., Storia della civiltà veneziana, I, Dalle origini al secolo di Marco Polo, Firenze 19792, pp. 231-240.
17. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, pp. 212-215, nr. 76 = Reinhold Röhricht, Regesta regni Hierosolymitani, I, Innsbruck 1893, nr. 705.
18. G.L.Fr. Tafel - G.M. Thomas, Urkunden, pp. 133-135, nr. 55 (R. Röhricht, Regesta, nr. 282); ibid., pp. 148-150, nr. 61 (R. Röhricht, Regesta, nr. 434); ibid., pp. 175-177, nr. 68 (R. Röhricht, Regesta, nr. 632).
19. Marie-Louise Favreau, Zur Pilgerfahrt des Grafen Rudolf von Pfullendorf. Ein unbeachteter Originalbrief aus dem Jahre 1180, "Zeitschrift für Geschichte des Oberrheins", 123, 1975, pp. 31-45.
20. Guillaume De Tyr, Chronique XIX, 27, a cura di Robert B.C. Huygens, II, in Corpus Christianorum, 63A, Turnholt 1936, p. 903; A. Schaube, Handelsgeschichte, pp. 145 ss.; Subhi Y. Labib, Handelsgeschichte Ägyptens im Spätmittelalter, 1171-1517, Wiesbaden 1965, pp. 22 Ss.
21. G.L.Fr. Tafel- G.M. Thomas, Urkunden, pp. 234 s., nr. 82.; A. Schaube, Handelsgeschichte, p. 145.
22. M. da Canal, Les estoires de Venise, pp. 38 s.; G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 134 ss.
23. Wolfgang Von Stromer, Bernardus Teotonicus e i rapporti commerciali tra la Germania meridionale e Venezia prima della istituzione del Fondaco dei Tedeschi, Venezia 1978.
24. G. Rösch, Venezia e l'Impero, pp. 159 ss.
25. Werner Sombart, Il capitalismo moderno, Torino 1967; R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus; André E. Sayous, Le rôle du capital dans la vie locale e le commerce extérieur de Venise entre 1050 et 1150, "Revue Belge de Philologie et d'Histoire", 13, 1934, pp. 657-696; Gino Luzzatto, Capitale e lavoro nel commercio veneziano dei secoli XI e XIII, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 89-116; I. Fees, Reichtum und Macht.
26. R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus, pp. 68 s.
27. G. Luzzatto, Capitale e lavoro, pp. 95 ss.; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 243 ss.
28. R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus, pp. 73 s.; Gino Luzzatto, Navigazione di linea e navigazione libera nelle grandi città marinare del Medio Evo, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 53-57 (pp. 53-79).
29. G. Luzzatto, Capitale e lavoro, pp. 95 ss.; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 264 ss.
30. R. Morozzo Della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, I, pp. 326 s., nr. 331.
31. R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus, pp. 86 ss.; G. Luzzatto, Capitale e lavoro, pp. 109 ss. I documenti sono stampati in R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio. Sul Mairano v. anche Jadran Ferluga, Veneziani fuori Venezia, nel I volume, Origini-Età ducale, di questa stessa opera, pp. 710 s. (pp. 693-722).
32. R. Morozzo della Rocca - A. Lombardo, Documenti del commercio, I, nrr. 183, 187, 188, 189, 190, 193, 194, 196, 201 e 203; R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus, p. 90; G. Luzzatto, Capitale e lavoro, pp. 110 s., cita una somma totale errata.
33. R. Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus, p. 107.