LOCA SOLACIORUM
"Beato colui che ora può cacciare con il falcone sui campi di Puglia! […] / alcuni vanno alle fonti, gli altri cavalcano guardando il paesaggio ‒ questa gioia mi è tolta ‒ quelli caracollano accanto alle dame […] / io non caccio all'arco con i cani, io non uccello con i falconi, né posso correre dietro alla volpe; neanche mi si vede inseguire cervi e cerve, e nessuno mi può rimproverare di portare corone di rose […] / neanche mi si può attendere dove cresce il verde trifoglio, né cercare nei giardini accanto alle belle giovani […] / io fluttuo sul mare".
Il poeta Tannhäuser, 'crociato suo malgrado' al seguito di Federico II (1228), rimpiange, fra i disagi della navigazione, le gioie che si è lasciato alle spalle, abban-donando la bella terra di Puglia (Martellotti, 1981). Cullati dalle note del suo canto è agevole figurarci, nella cornice del paesaggio pugliese, l'animazione delle cacce imperiali, le cavalcate di cavalieri e dame nella ridente pianura tra fonti e corsi d'acqua, le soste festose nelle domus solaciorum, le ore soavi trascorse in giardini profumati di rose, gli incontri galanti in angoli discreti, laddove cresce più verde il trifoglio. È la visione gioiosa della natura riflessa dalle pagine del De arte venandi cum avibus (v.): ruscelli e stagni pescosi, dove gli uccelli acquatici si affollano in cerca di cibo; specchi d'acqua bordati di fiori (si pensi al falconiere che, gettate le vesti, attraversa a nuoto acque limpide increspate dal vento); anatre e gru che solcano l'aria tersa, in formazione di volo; falconieri che incedono a cavallo sui prati. È la stessa gioia di vivere e la stessa grazia che ci rimandano la letteratura cavalleresca e l'arte di corte (Calò Mariani, 1983 e 1984).
L'amenità dei luoghi. Federico II esprime ripetutamente la sua predilezione a proposito del Regno di Sicilia, trovando accenti di vibrante tenerezza: il Regno è il giardino di delizie (regni nostro pomerio) nella foresta selvaggia; il porto sicuro nel mare tempestoso dell'Impero; la pupilla dei suoi occhi. A sentire fra Salimbene de Adam, egli giunge a dichiarazioni anche più spinte, quando osa paragonare il suo Regno alla Terra promessa.
È lo stesso Federico a indicare in quali luoghi amasse sostare con maggiore frequenza e diletto: "Cum solatiis nostris Capitanatae provinciam frequentius visitemus et magis quam in aliis regni nostri moram sepius trahimus ibidem" (Historia diplomatica, V, p. 827). Che il cuore degli Svevi battesse in questo lembo della Puglia lo dichiara Enzo, prigioniero a Bologna, nel suo canto struggente: "Va canzonetta mia […] e vanne in Puglia piana, la magna Capitana, là dov'è lo mio core nott'e dia" (Panvini, 1962, pp. 215-217).
All'alternarsi fra pianura e montagna dei soggiorni invernali ed estivi fa cenno Giovanni Villani: "Questi [Federico] fece molte notabili cose al suo tempo […] e fece il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia in Puglia, e fece il parco della caccia presso a Gravina e a Melfi alla montagna. Il verno stava a Foggia, e la state alla montagna alla caccia e diletto" (Cronica, 1823, II, pp. 6-7). Manfredi eredita gli stessi gusti e gli stessi ritmi. Malaspina parla di Lagopesole, ove il giovane Svevo era solito recarsi in estate per godere dell'amena frescura delle sorgenti, della bellezza dei boschi ricchi di selvaggina: "Regione ipsa [Sicilia] dispo-sta […] Rex Manfredus ad consueta solacia Lacus Pensilis, quae copiosa venationis abilitas, originalium fontium amoena frigiditas et placidi situs nemorosa temperies grata reddunt, aestate succedente revertitur" (Saba Malaspina, 1868, p. 209). Jamsilla ricorda Palazzo S. Gervasio ‒ "locum amenum et venationibus delectabilem" ‒ dove Manfredi si rifugia dopo la fatica e la calura sofferte nel combattere contro le truppe pontificie (Niccolò Jamsilla, 1868, II, pp. 192-193).
In Sicilia Federico ampliò la rete dei loca solaciorum, fondò o restaurò residenze, intervenne sul paesaggio, modificandolo e modellandolo. Sulla stessa linea delle scelte normanne, costruì laghi artificiali e peschiere, curò parchi, giardini e selve (Bresc, 1989). Dall'età normanna le riserve create a Palermo, Partinico, Bagheria, Carini, Godrano erano destinate alla caccia dei sovrani. Il piverium di Lentini forse già nell'Alto Medioevo costituiva una peschiera chiusa da dighe. Presso Augusta, in una pianura verdeggiante, lambita dal mare e percorsa da fiumi torrentizi, Federico fece costruire una diga e un lago artificiale per la pesca, dando origine al vivaio di S. Cusmano. A un chilometro da S. Cusmano sorsero le domus Cantare, laddove scorre l'omonimo fiume. Domus, vivarium, corsi d'acqua e paesaggio, integrandosi armonicamente, riproducono le delizie dei sollazzi palermitani. Se si amplia la prospettiva, i palazzi di Siracusa, della Targia, di Cantara, laghi artificiali e riserve, peschiere, vigne e frutteti, castelli e città di nuova fondazione paiono comporsi come parti coerenti di un disegno territoriale.
Fuori della Sicilia, i loca solaciorum s'infittiscono nella Puglia settentrionale e nella contigua Basilicata. A proposito della dimora di caccia di S. Agapito, Niccolò Jamsilla (1868, II, p. 142) annota: "[…] similes domus per similes Apuliae partes, et maxime in Capitanata, per praedictum Imperatorem constructae fuerant in venantium solatiis". Esse appaiono disposte con densità nelle zone pianeggianti della Capitanata, solcate da corsi d'acqua, allora ricche di praterie, acquitrini e selve; oppure si raccolgono intorno a Melfi, nella zona boscosa del Vulture (Calò Mariani, Utilità e diletto, 1992). Federico esibisce tali luoghi come attributo del suo potere e della sua magnificenza. Mentre risiede in Capitanata, il 1o aprile 1240 scrive da Orta ai giustizieri del Regno affinché "quosdam de militibus Mediolanensibus quos captivos habemus faciamus ad nostram vocari presentiam, quibus domos nostras et loca solatiorum nostrorum ostendi volemus" (Historia diplomatica, V, pp. 872-875).
Recenti ricerche sono state dedicate alle dimore e alle riserve di caccia di Federico II in Campania (Sciara, 2000). In Terra Beneventana, a sud di Apice (contrada Cubante), è stato identificato il palazzo di Federico II, collegato a una grande riserva di caccia. Benché rimaneggiato e in parte ridotto in rovina, mostra ancora la forma quadrangolare con corte interna e torri angolari (28,60 x 27,60 m). Nell'impostazione richiama Palazzo S. Gervasio e la residenza di Belvedere, presso Marano (Napoli). A quest'ultima faceva da cornice la riserva del Gualdo di Napoli (De Blasiis, 1915). L'edificio (32,80 x 38,40 m) d'impianto svevo (perimetro rettangolare con corte centrale) fu consolidato in età protoangioina (tra il 1275 e il 1277), con l'aggiunta di torri angolari e mediane (Pistilli, 1997).
Nelle residenze sveve il gusto per il panorama traspare dai toponimi (il nome di Belvedere ricorre in più luoghi dalla Campania alla Sicilia) e, in qualche caso, dalla sistemazione degli appartamenti in funzione della bella veduta. Nel 1240, a proposito dell'opera di riparazione richiesta per le domus del Cantara, Federico, scrivendo a Maiore di Plancatone, cita una "salam cum miniano quod respicit mare versus Augustam" (Carcani, 1786, p. 308). Nel castello di Gravina, per godere della vista del lago e della selva, un lungo ballatoio esterno, sospeso su mensole lapidee, correva al primo piano in corrispondenza dell'appartamento imperiale. In rapporto privilegiato con il paesaggio doveva porsi il castello di Belvedere ‒ sito inter Precinam et Sanctum Nicandrum ‒ che Federico, stando a una testimonianza risalente agli anni di Carlo II, edificò con le pietre provenienti dalla città di S. Severo, distrutta nel 1230 (Corsi, 1989).
Durante l'avventuroso viaggio da Venosa a Lucera, dove Manfredi (1255) con pochi fedeli si recava a chiedere rinforzi ai saraceni per muovere contro le truppe pontificie accampate tra Foggia e Lucera, Niccolò Jamsilla descrive la sosta notturna del drappello nella casa di caccia di S. Agapito. A guidare Manfredi nella notte piovosa era Adenulfo Pardo, magister venationum di Federico II, grazie alla cui esperienza dei luoghi cavalieri e cavalli poterono trovar rifugio. "In quel luogo vi era una di quelle case che l'Imperatore aveva fatte costruire per il divertimento della caccia, la quale casa, biancheggiando alquanto nelle tenebre della notte, si lasciò vedere da lontano" (Niccolò Jamsilla, 1868, II, pp. 141-142).
L'Incoronata (presso Foggia, in una zona ancora oggi boscosa) e Apricena erano tra le residenze di caccia più frequentate dall'imperatore. A Lucera, oltre il sontuoso palazzo-torre a tre piani, dominante sulla città e sul territorio, erano le domus della masseria regia e il serraglio.
A Ponte Albanito, sulla riva sinistra del Cervaro, prossimo al tracciato della Via Traiana, un edificio in rovina a pianta quadrangolare, con aggettanti torri angolari quadrate (che una iscrizione su un concio erratico rimanderebbe al 1300), rivela l'impianto di una domus imperiale, la domus Pontis Albaneti, riportata nello Statutum de reparatione castrorum (v.). Dal lieve poggio su cui sorge, l'occhio spazia sul paesaggio che si distende dalla valle di Bovino alla costa.
Nelle domus sorte prope Salpas (Salpi) e nel castrum di Tressanti (forse anche nella domus Girofalci) Federico faceva allevare e addestrare i suoi falconi. A Salpi il complesso comprendeva un palatium, varie domus (S. Maria a Mare, S. Maria de Salinis, Trinità), una scuderia. Facevano da suggestiva cornice la defensa e il lago pescoso. L'area corrispondeva a una delle zone umide più importanti del Mezzogiorno, ove ancora oggi vengono a svernare numerose specie di uccelli. Il palatium fu costruito "super muros et tenimentum Ecclesie Sancti Cosme et Damiani situm in terra et pertinentiis Salparum", come attesta il tardivo lamento che il vescovo del luogo rivolge a Carlo I d'Angiò nel 1275 (CodiceDiplomaticoBarlettano, s.l. [ma Fasano] 1988, II, 13, p. 15). Un frammento di bifora, dissotterrato casualmente (e poi scomparso), potrebbe appartenere alla dimora imperiale: la lunetta, con tre cerchi intersecantisi entro un clipeo, incavato per accogliere una decorazione musiva, rinvia chiaramente alle bifore di Castel del Monte.
Le residenze extraurbane, destinate al tempo dell'ozio e della festa, non vanno immaginate isolate, bensì accompagnate da altre costruzioni (edifici rustici, torri, scuderie, talvolta cinte murarie e fossato) e inserite nella cornice di parchi e giardini, in prossimità di defensae e riviere, in diretto rapporto con le masserie (v. Masserie regie). Le costruzioni erano varie per dimensioni, per impianto e per livello estetico (Haseloff, 1992; Calò Mariani, Archeologia, 1992). Le più raffinate erano decorate di pitture, rivestite di marmi, ornate di statue e reperti antichi, illuminate da vetrate policrome, con fontane e congegni (automata). Si può ritenere che almeno alcune di esse furono opera dei conversi cistercensi che Federico aveva reclutato ad costruenda castra et domicilia (v. Castelli, Regno di Sicilia, architettura). È verosimile che alle notate consonanze con i sollazzi siciliani si accompagnassero suggestioni tratte dall'architettura residenziale d'ambito crociato.
"Aquarum delicie". Nel parco reale di Palermo, fra giardini ombrosi e acque cristalline, i normanni elevarono edifici e padiglioni destinati all'ozio e alla festa, superbi di mosaici, fontane e specchi d'acqua. Le "aquarum delicie" di cui parla Romualdo Salernitano, attraverso armoniose modulazioni, costituiscono carattere costante nelle dimore regie del Regno meridionale (Calò Mariani, Utilità e diletto, 1992). Federico fanciullo trasse diletto dalla profumata frescura dei giardini di delizie e praticò la caccia nel parco reale, il 'paradiso' di memoria persiana, realizzato dal suo avo nella conca palermitana. In questi luoghi assimilò un sentimento della natura nutrito di suggestioni orientali, già negli anni della giovinezza venato da una pungente curiosità scientifica.
Dai paesaggi lacustri e fluviali agli specchi d'acqua artificiali e alle peschiere, dalle fontane che sgorgavano nei giardini ai meravigliosi congegni idraulici (automata), l'acqua era presente nelle residenze federiciane, a perpetuare il mito del paradiso. In prossimità di un lago sorgevano le domus di Salpi, i castelli di Gravina e Lagopesole. A una peschiera era collegato il palazzo foggiano; in pantano era sorto l'insediamento di S. Lorenzo. Ancora oggi l'area tra il Gargano e la foce dell'Ofanto costituisce una zona umida di valore internazionale, frequentatissima area di svernamento degli uccelli acquatici. Fu questo il mondo pullulante di vita che Federico amò frequentare nelle cacce d'inverno e di primavera; in questi luoghi scelse di costruire le sue case di caccia e coltivò le sue ricerche sulla natura. Qui si svolsero gli esperimenti che accompagnarono l'annosa stesura del De arte venandi cum avibus e furono ritratte dal vero le immagini di uccelli in posa e in volo che ne corredavano il testo (Calò Mariani, 2001). Giochi d'acqua ravvivavano i giardini e il suono delle fontane allietava residenze e castelli. Manca ogni indizio circa il luogo dove Federico conservava il meraviglioso albero di argento dorato, con uccellini cinguettanti fra i rami che stormivano al soffiar del vento. Si sa invece che Ruggero II ne aveva uno a Palermo, nella Zisa. L'uno e l'altro non dovevano differire da quello 'piantato' al centro di una fontana, nel Palazzo dell'Albero, una delle meraviglie esibite nelle residenze del califfo di Bagdad, oggetto di stupefatta ammirazione (917).
La più fresca memoria delle "aquarum delicie" che caratterizzarono le residenze normanne e sveve sembra trascorrere nelle pagine del De agricultura (opus ruralium commodorum) di Piero de' Crescenzi. Il mondo gioioso dei sollazzi rivive nelle descrizioni dei giardini allietati da fontane e da peschiere; a proposito dei giardini d'erbe piccole, si legge: "se sarà possibile si faccia discendere nel mezzo di detto verziere una fontana chiarissima, la cui bellezza adduca diletto e giocondità". Anche nei "giardini dei Re e degli altri ricchi Signori" domina la fontana, con i rivi che da essa si dipartono (Trattato, 1784; Federico II. Immagine e potere, 1995).
Sul finire del Duecento Roberto d'Artois, che certamente conobbe e ammirò gli splendori dei sollazzi dei re normanni e svevi, trasse dal Regno meridionale i modelli per le meraviglie e le curiosità meccaniche che fece realizzare nei giardini del castello di Hesdin. Un ruolo centrale nell'attuazione del progetto ebbe un cavaliere pugliese, Renaud Coignet di Barletta, onnipresente alla corte di Artois (Calò Mariani, 1984).
"Il parco dell'uccellagione al Pantano di Foggia". A tre miglia da Foggia la residenza extraurbana di S. Lorenzo in Pantano ‒ indicata come domus pantani (o vivarii) Sancti Laurentii ‒ emulava la sontuosità dei sollazzi siciliani. Vi si dispiegavano infatti le stesse attrattive: il parco recintato da un muro, con animali in libertà per la caccia del sovrano; il vivarium alimentato da un aqueductus; il palatium, verosimilmente prossimo allo specchio d'acqua, le domus sparse nel verde, per il riposo e gli svaghi dell'imperatore e della corte. Le domus del Pantano, che Jamsilla (1868, II, p. 189) definisce valde pulchras, subirono gravi danni nel 1255 a opera delle truppe pontificie in marcia contro Manfredi. Nel corso della campagna di restauri promossa da Carlo I nei castelli e nelle case di caccia di fondazione sveva esse furono oggetto di particolari attenzioni: nel 1269 furono dotate di cento porte e di cento finestre e accanto fu edificata una cappella gotica con vetrate policrome. Ancora durante il regno di Roberto d'Angiò, la bellezza del luogo, la vegetazione e la selvaggina copiose continuarono a costituire una forte attrazione. A un giardino rallegrato da acque vive fa pensare la "concam unam marmoream sistentem in palacio Pantani" che il sovrano angioino fece rimuovere e trasferire a Napoli nel 1317.
"Il parco della caccia presso a Gravina e a Melfi alla montagna". A Gravina le splendide rovine del castello federiciano dominano da un'altura la città e la campagna circostante: un compatto parallelepipedo (58,60 x 29,20 m) con le pareti tessute di conci di mazzaro, l'ingresso monumentale a oriente, un tempo sovrastato da una torre (Calò Mariani, 1994; Benedettelli, 1999). Nel lato occidentale era l'appartamento imperiale, con vista sul lago. Sui lati lunghi erano addossate modeste costruzioni, destinate ai servizi. Oltre lo specchio lacustre e "il parco della caccia", la foresta ammantava le colline di Guardialto. All'eleganza di una dimora regale concepita in aperta relazione con il paesaggio, l'edificio fondeva i caratteri del castrum, dal quale derivava alcuni dispositivi di difesa (lungo il lato rivolto alla città sono visibili le basi di tre semitorri rettangolari). Entrati nel compatto perimetro del cortile, ancora oggi si impone come suggestivo fondale quel che resta del palatium, alto due piani, con un ammezzato: nella parete di fondo sono visibili le imposte degli archi trasversali che sostenevano le coperture, i caminetti, le finestre a tutto sesto. Esso si affacciava sul cortile con un elegante portico su pilastri sovrastato da una loggia (cf. le ali residenziali nei castelli di Trani e di Bari). Qui sono riemersi i boccioli di grandi capitelli in calcare ‒ prossimi ai capitelli di Castel del Monte ‒ forse relativi ai sostegni del pianterreno. L'approvvigionamento idrico era assicurato da una vasta cisterna a due navate, con volte a botte su pilastri, situata al di sotto del cortile. Grazie a una testimonianza scritta conosciamo l'assetto del castello in età angioina. Al 1309 risale l'atto per la legalizzazione della nomina del nuovo castellano, cui veniva affidata "custodiam castri et foreste terre Gravine". A mo' di inventario vi sono elencati: le sale al pianterreno con camini, una stalla, la cucina, il forno; al primo piano, la dimora signorile con bifore decorate, una sala (forse nell'ammezzato) "que dicitur falconeria"; la torre sulla porta principale, con la chiesa dedicata a S. Caterina, illuminata da due bifore. "Extra claustrum castri" erano stalle e case, delle quali una presso la vigna (Nardone, 1934).
Collegato al turrito castello di fondazione normanna, un altro parco si estendeva intorno a Melfi. Nel vasto paesaggio selvoso, edifici minori dovevano consentire confortevoli soste durante le cacce imperiali. A 10 km a nord-ovest della città assolveva certo a questo scopo la piccola domus di Cisterna: un edificio quadrato (13 m di lato) entro una cinta quadrangolare (33 m circa di lato), simile nell'impianto alla domus di Monteserico (Sciara, 1997).
"Solacia Lacus Pensilis". Costruito su un'altura del Vulture, tra le valli del Bradano e del Basento, il castello domina la strada che da Melfi va a Potenza (v. Lagopesole). Il massiccio parallelepipedo allungato (96 x 58 m) trasmette ancora oggi un messaggio di forza e di potenza, qualificando estesamente il paesaggio. Ma la cornice naturale è mutata, scomparsi le distese di foreste e il lago pescoso. Chiuso all'esterno da una compatta cortina a bugne con rinforzi angolari a guisa di torri, all'interno è suddiviso in due cortili: a nord quello maggiore, occupato su tre lati da costruzioni a due piani con funzione residenziale; a sud la corte minore, nella quale si erge il severo volume del donjon quadrangolare. L'ingresso, enfatizzato da due avancorpi simmetrici, si apre a ovest.
In asse con l'androne d'accesso è il portale della cappella, bordato da un lieve motivo a zig-zag. Qui, tra la chiesa e l'ingresso, corre la parete, aggiunta in età angioina, a dividere i due cortili. Secondo una recente proposta (Kappel, 2000), la particolare struttura della cappella a nave unica con abside inscritta rispecchia soluzioni adottate sulla fine del XII sec. in ambito crociato (nel Krak dei Cavalieri o a Marqab). Testimonianze storiche indiscutibili parlano di un insediamento presvevo: sappiamo che Ruggero II vi si rifugiò nel 1128 e nel 1129. Nel 1137, in occasione dell'incontro tra l'imperatore Lotario III e Innocenzo II, i convenuti furono alloggiati in tende. Doveva certo trattarsi di una costruzione difensiva; Cadei (1999) ha pensato a ragione a "una cinta rifugio".
L'esplorazione archeologica, nell'area del cortile minore, ha rivelato preesistenze di età normanna; l'elevato del castello conserva l'assetto svevo (da porre a cavallo fra gli anni di Federico e di Manfredi), rimasto incompiuto in alcune parti, al quale si sovrapposero le aggiunte angioine. Ancora svevo è il donjon, il cui unico accesso, a 8 m di quota, introduce in un elegante vano voltato a crociera, collocato sopra una cisterna. All'esterno, come unico ornamento, sporgono due mensole figurate: una testa maschile, con orecchie faunesche e corona, e una femminile di straordinaria bellezza, tra le più alte prove della scultura sveva.
Il cantiere federiciano si può pensare avviato intorno al 1242, quando Lagopesole entrò a far parte del demanio. Il castello assunse la prevalente funzione di fastosa residenza estiva: le carte sveve e angioine lo citeranno come domus e palatium. Saba Malaspina parla di Manfredi che era solito recarsi in estate a Lagopesole per godere dell'amena frescura delle sorgenti e della bellezza dei boschi, ricchi di selvaggina. Anche Carlo I fu conquistato dall'amenità del luogo: riaprì l'appartamento reale e vi risiedette numerose estati fino al 1280. Al mondo della caccia e alla natura del luogo s'ispirano alcune mensole scolpite nei saloni della residenza: cerri frondosi con orsi e cinghiali, piante cariche di frutti (gelsi, fichi, viti), uccelli beccanti fra i rami. Vi scorre la stessa freschezza naturale che si avverte nelle chiavi di volta e nei capitelli di Castel del Monte. Giardini di pietra che ripropongono piante 'viste' nei giardini e nei verzieri della corte, comparabili per vitalità ed eleganza alle sculture della Sainte-Chapelle, di Notre-Dame di Parigi, di Reims e in terra germanica a quelle di Bamberga e di Marburgo. Si può pensare a maestri oltremontani giunti nel Mezzogiorno al seguito di Federico II, dopo il viaggio in Germania (1235).
I materiali riemersi dagli scavi gettano ulteriore luce sul pregio ornamentale della costruzione e sul fasto della vita quotidiana a corte: decorazioni scultoree, tessere di mosaico, ceramiche di lusso. Di particolare interesse è un leone marmoreo frammentario ‒ proveniente da un sarcofago antico ‒ che reca i segni evidenti del reimpiego.
Fra le attrattive di Palazzo S. Gervasio, al confine tra Basilicata e Puglia, altra residenza estiva frequentata da Manfredi, erano i boschi ricchi di selvaggina e l'allevamento dei cavalli della Corona; la costruzione, in posizione dominante rispetto al paesaggio, pur rimaneggiata, conserva i volumi originari e buona parte della struttura a quattro ali, con cortile interno e torri angolari.
La casa del falco e il serraglio. Le scene miniate nel De arte venandi cum avibus illustrano architetture intorno alle quali giovani falconieri si affaccendano, prendendosi cura dei nobili volatili. Sono le dimore apprestate per l'allevamento e l'addestramento dei falconi, concepite secondo il modello dei palazzi. Ciò doveva apparire del tutto normale nella sfera delle corti medievali. Nel racconto che Marco Polo fa delle cacce primaverili del Kublai Kan in Manciuria si parla con ammirazione dei sontuosi padiglioni destinati ad alloggiare i nobili rapaci. Si può affermare che Federico, sulla linea del rapporto gerarchico aquila = imperatore, falconi = nobili, facesse costruire per l'allevamento e l'addomesticamento dei falconi abitazioni nelle quali erano trasferite l'eleganza e la tipologia delle dimore signorili (Calò Mariani, Archeologia, 1992).
La caccia, manifestazione simbolica del potere e affermazione della sovranità dell'uomo sulla natura, era il diletto reale per eccellenza. I sovrani ommayyadi e abbasidi ripresero il costume sasanide di allestire parchi per la caccia in prossimità delle loro residenze e raccogliere animali rari nei loro serragli. Anche in Occidente, a cominciare da Carlomagno, le residenze dei sovrani destinate al tempo della pace e al diletto comprendevano il palatium, la riserva di caccia e il 'giardino zoologico'. Le testimonianze scritte celebrano la magnificenza delle opere promosse da Federico Barbarossa, Enrico II Plantageneto, Filippo Augusto, i normanni di Sicilia (Hauck, 1963). Nell'ampia sfera del simbolismo del potere è lo stesso Federico a includere l'esibizione del serraglio, in cui raccolse animali esotici e rari. Presso Lucera era un 'giardino zoologico' affidato alle cure di esperti saraceni, fra i quali sono ricordati i leoparderii.
Fonti e Bibl.: Trattato della Agricoltura di Piero de' Crescenzi traslatato nella favella fiorentina, Bologna 1784; C. Carcani, Constitutiones Regum Regni utriusque Siciliae, mandante Friderico imperatore, Neapoli 1786; Cronicadi Giovanni Villani a miglior lezione ridotta, I-VIII, Firenze 1823; Historia diplomatica Friderici secundi, V; Niccolò Jamsilla, De rebus gestis Friderici II imperatoris, in Cronisti e scrittori sincroni napoletani, a cura di G. Del Re, II, Napoli 1868, pp. 142, 192-193; Saba Malaspina, Rerum Sicularum historia (1250-1285), ibid., p. 209; Romualdo Salernitano, Chronicon, in R.I.S.2, VII, 1, a cura di C.A. Garufi, 1909-1935. G. Fortunato, Il castello di Lagopesole, in Notizie storiche della Valle di Vitalba, V, Trani 1902 (poi in Id., Scelta di pagine storiche, Firenze 1951, pp. 73-112); G. De Blasiis, Un castello svevo angioino nel gualdo di Napoli, "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", n. ser., 1, 1915, pp. 101-179; D. 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