Il salto compiuto da Lodovico Barassi nel 1901 dall’esegesi delle norme locatizie al contratto di lavoro non passa inosservato, anche perché il fallimento della via legislativa attribuisce alla prima monografia civilistica ad ambientazione giuslavoristica il significato di un surrogato dottrinale, utile come traccia per le riforme. La scoperta di Barassi come ‘fondatore’ del diritto del lavoro risale, tuttavia, alle prime indagini sulle contraddizioni di un sistema di protezione sociale fondato sulla figura del lavoratore subordinato: si sviluppano così letture critiche sui limiti di partenza dell’esperienza giuslavoristica italiana, ma anche linee interpretative che individuano una matrice liberale nella lettura delle origini (Castelvetri 1994), molto discusse tra i giuslavoristi-storici e criticate dalla storiografia giuridica più vicina ai temi del diritto del lavoro. Il recupero storiografico si è concluso con il convegno milanese del 2001 (v. La nascita del diritto del lavoro, 2003).
Lodovico (o Ludovico) Barassi nacque a Milano il 3 ottobre 1873. Nel 1895 si laureò in giurisprudenza a Pavia con una tesi sulla Teoria della ratifica del contratto annullabile, destinata a diventare tre anni dopo la sua prima pubblicazione. Seguì un triennio di perfezionamento all’Università di Berlino e l’ottenimento, nel 1899, della libera docenza. Nel gennaio del 1900 Barassi venne nominato professore straordinario di diritto civile a Perugia.
Nel 1901 la pubblicazione de Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano lo collocò immediatamente come iniziatore del discorso civilistico sul tema, tanto che egli entrò a far parte della commissione per la riforma del contratto di lavoro e dei contratti agrari, istituita nello stesso anno.
Dal 1903 al 1917 insegnò a Genova. In quegli anni, che coincidono con il periodo di preparazione della seconda edizione (2 voll., 1915-1917) de Il contratto di lavoro, egli offrì contributi che lo consacrarono come civilista di rango: dalla voce Mezzadria per l’Enciclopedia giuridica italiana (1903) alla traduzione annotata (4 voll., 1907-1909) dell'ottava edizione (4 voll., hrsg. K. Crome, 1894-1895) dell'Handbuch des französischen Civilrechts (prima ed., in 2 voll., 1808) di Karl S. Zacharie von Lingenthal.
Nel 1917 venne chiamato a Pavia, dove insegnò prima introduzione alle scienze giuridiche e istituzioni di diritto civile, e poi, dal 1920 al 1924, diritto civile.
Nel 1924 si trasferì all’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, fondata tre anni prima da padre Agostino Gemelli, dove partecipò attivamente allo sviluppo della facoltà di Giurisprudenza. Nel primo anno tenne il corso persino di istituzioni di diritto penale. Dal 1928 al 1943 (anno del collocamento a riposo) insegnò anche il diritto del lavoro, secondo le sue varie denominazioni, sino a quella finale di diritto corporativo e diritto del lavoro. Dal 1932 al 1940 fu docente di diritto corporativo e per un anno (1936-37) anche di diritto civile presso il Regio istituto superiore di economia e commercio di Venezia.
Nel periodo fascista fu autore di una vasta produzione, in cui collegò la dimensione civilistica con quella corporativa nella costruzione del diritto del lavoro.
La preparazione del nuovo codice civile lo vide coinvolto, non solo come portavoce dell’Università cattolica, nelle osservazioni sul primo libro del progetto (1937), ma soprattutto, come membro della commissione per la riforma del codice, nella redazione del progetto preliminare del Libro delle cose e dei diritti reali (1940).
Dal 1943 sino alla morte, sopraggiunta a Milano il 6 febbraio 1961, Barassi continuò a partecipare alle iniziative dell’ateneo milanese, e soprattutto a mantenersi attivo come studioso. Nel 1954, in due volumi, uscì Previdenza sociale e lavoratore subordinato, «il suo canto del cigno» (Barbero, in Studi in memoria di Ludovico Barassi, 1966, p. XV). Nel 1957 pubblicò la seconda edizione, in tre volumi, de Il diritto del lavoro (prima ed., in 2 voll., 1935-1936).
Dall’itinerario scientifico emerge un civilista a tutto tondo come vocazione e varietà di interessi – dai diritti reali e le obbligazioni al diritto di famiglia –, che ha coltivato costantemente il diritto del lavoro come derivazione moderna del diritto civile. Non sorprende il fatto che Barassi sia stato maestro di civilisti come Domenico Barbero e Mario Rotondi e che non abbia lasciato allievi diretti in ambito giuslavoristico.
Il programma de Il contratto di lavoro è anticipato nel saggio del 1899 Sui limiti di una codificazione del contratto di lavoro. Qui Barassi è mosso dalla preoccupazione di frenare l’ondata socializzante, onde evitare che il diritto anneghi nella sociologia, perché gli appare «assurda l’affermazione di qualche moderno sociologo, per cui il contratto di lavoro sarebbe sorto nell’attuale ordinamento industriale» (p. III). Non vi è lo slancio verso categorie giuridiche nuove, ma la necessità di arginare l’ingerenza del legislatore.
Quello che economisti e sociologi ormai diffusamente chiamano contratto di lavoro è e dev'essere identico a quello che era duemila anni prima. Barassi separa così una parte «immutabile» (Cazzetta 1988, p. 165), quella dello scambio di volontà, da una accessoria e contingente, che si presta all’integrazione eteronoma, in cui l’intervento legislativo non è soltanto ammissibile ma persino doveroso, laddove si tratta di tratteggiare il contesto ambientale del lavoro industriale in una sfera che vede lo Stato come interlocutore dell’industria. Per quanto concerne la struttura obbligatoria, tutto deve rimanere inalterato: il contratto di lavoro si riduce a un libero scambio di prestazioni, senza che nessun principio di tutela possa alterare la fisiologia dell’incontro di volontà.
Barassi avverte la necessità di aggiornare la locazione delle opere allo scenario industriale, ma l’aggiornamento non passa attraverso la contemplazione ammirata o sgomenta dello scandaloso spettacolo della contrattazione collettiva. Il recupero di elementi di solidarietà avviene guardando al passato, al rapporto di benevolenza che legava padroni e sottoposti nel regime corporativo.
Nel riferimento alla benevolenza si può leggere certo un richiamo implicito all'enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII, considerando che l’orizzonte cattolico attraversa l’intero percorso scientifico di Barassi. Tuttavia, il contatto con la dottrina sociale della Chiesa si ferma alla prognosi sui mali del sistema liberale: non è raccolto l’invito forte di Leone XIII all’associazionismo, all’aggregazione dei lavoratori come primo momento della costruzione di una società neocorporativa.
Nella monografia del 1901, già nel titolo appare evidente il distacco dal timbro esegetico: una categoria economico-sociologica come il contratto di lavoro viene ricostruita nell’ambito di un diritto positivo che esiste nella misura in cui è elaborato dal giurista. Un giurista di sicura fisionomia pandettistica, che va alla scoperta del diritto nascosto nei cumuli di sapienza giuridica e che è scientifico in quanto sottratto a ogni ipotesi di produzione politica, poiché lascia al legislatore il compito di regolare tutto ciò che circonda il contratto di lavoro.
L’imponente volume ruota intorno all’alternativa lavoro subordinato-lavoro autonomo, orecchiata nel dibattito legislativo e dottrinale, non solo italiano, riscritta intorno alla trama storica che dall'imperatore Giustiniano arriva a Napoleone Bonaparte, forzando le categorie romanistiche in modo tale da aprirle alla revisione del quadro concettuale del Code napoleonico, alla base del codice unitario italiano. Il merito di Barassi è dunque quello di aver adoperato categorie che ormai erano nell’aria, nella natura dell’organizzazione capitalistica del lavoro industriale, per la costruzione di un sistema concettuale compiuto, «sciogliendo uno dei desiderata della scienza civilistica» (Rocco 1911, p. 399).
Barassi muta l’interpretazione corrente delle norme del codice civile. Il rapporto di lavoro veniva interpretato nell’ambito di una fattualità densa di significati giuridici, che vedeva l’assoluta centralità dell’art. 1570 c.c. nella definizione generale del contratto di locazione delle opere, come contratto di scambio (retribuzione-prestazione), nell’ambito dell’ampio genere locatizio, e la marginalità assoluta dell’art. 1627, avente a oggetto le specie di locazione di opere, tra cui quella di chi obbliga la propria opera all’altrui servizio. Anche a livello giurisprudenziale, la vera distinzione praticata era tra il lavoro libero, che abbracciava le alte professionalità e le prestazioni del più umile lavoratore salariato, e il lavoro servile riconducibile al genere della locatio operarum ex art. 1627, 1° co., evocato per lo più come espediente concettuale di nessuna valenza pratica.
Quando la questione degli infortuni aveva già trovato una soluzione legislativa (nel 1898), Barassi inverte i termini normativi, relegando l’art. 1570 nell’ambito classificatorio e rivalutando la portata dell’art. 1627, creando il collegamento tra locatio operarum e lavoro dipendente e tra locatio operis e lavoro autonomo.
Barassi, da vero «civilista-romanista» (Grossi 2008, p. 697), modifica il futuro del contratto di lavoro industriale creandogli un passato, cucendogli addosso un vestito storico che non aveva. Il primo completo studio sul contratto di lavoro contribuirà così a creare la leggenda di un codice civile del 1865 che regola la materia del lavoro attraverso la dicotomia locatio operis e locatio operarum.
Il senso dell’alternativa esisteva soltanto negli schemi teorici della tradizione romanistica, evocata come possibile chiave di volta della questione infortunistica, come schema di un intervento legislativo volto a riconoscere la natura contrattuale della responsabilità fondata sul rischio professionale ricadente su chi organizza il lavoro, utilizzando la passività di chi offre solo energie fisiche. A differenza di Isidoro Modica (Costruzione giuridica del contratto di lavoro. Tema proposto per il IV Congresso giuridico nazionale, «Il circolo giuridico», 1897, p. 217 e segg.) o di Guido Fusinato (Gli infortuni sul lavoro e il diritto civile, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1887, 2, poi in Scritti giuridici, 2° vol., 1921, pp. 59-89), Barassi considera la dicotomia romanistica come parte integrante del sistema civilistico vigente e non come uno schema concettuale di una più o meno futuribile riforma.
La distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato è destinata a identificare il destinatario del soggetto meritevole di tutela eteronoma in quanto inserito in un contesto lavorativo creato e diretto dal soggetto datoriale. La nozione di subordinazione servirà a delineare una linea di confine formale della protezione sociale, «suscettibile di mille usi, appropriabile dai gruppi forti, anche più e meglio che non da quelli deboli» (Giugni 1977, p. 349).
L’area del diritto del lavoro viene così configurata sulla base di una fotografia che oggettivizza il rapporto. Barassi aggira l’offesa al principio di libertà rappresentata dall’applicazione delle norme di tutela: norme che non possono non essere inderogabili in quanto destinate a una fattualità tipizzata sottratta a ogni margine di qualificazione, una volta accertato l’elemento della direzione.
È il rapporto che determina il contratto e non viceversa. Ogni volta bisogna analizzare il contegno delle parti perché vi possono essere, sia a livello di umili mansioni sia di grandi professionalità, prestazioni ricadenti in un regime oppure nell’altro in relazione alla fattualità concreta, in ragione dell’indirizzo che il committente dà all’utilizzo della prestazione.
I rischi di contraddizioni in un sistema sociale fondato su un criterio formale appaiono già nella riflessione di Barassi. Una riflessione non concepita per costruire un moderno specialismo scientifico, né tantomeno per dare una risposta ai tanti interrogativi giuridici posti dalla questione sociale, già registrati nella nota prolusione da Luigi Tartufari (Del contratto di lavoro nell’odierno movimento sociale e legislativo, letta il 5 novembre 1893 nell'Università di Macerata), perché l’orizzonte teorico di un civilista «liberale e conservatore» (Gaeta 1997, pp. 522-24) è costituito dalla continuità da riaffermare con l’originalità dogmatica imposta dal tempo presente. Il termine conservatore va riferito non tanto ai contenuti espressi, ma alla rimozione della questione della contrattualità collettiva come forma del ‘sociale’. In mezzo a tanti neosociologi e postesegeti, Barassi pone le basi scientifiche del contratto di lavoro non come maestro di nuova disciplina, ma come il continuatore di una tradizione, con l’animo del «colonizzatore» (Romagnoli 1995, p. 57) più che del pioniere.
Nella seconda edizione de Il contratto di lavoro (che esce, come detto, tra il 1915 e il 1917) colpisce la conferma dell’impianto dell’introduzione alla prima edizione, «quasi che i primi quindici anni (e che anni) del secolo siano trascorsi immobili» (Grossi 2001, p. 124).
Vi è una parte dedicata al contratto collettivo che appare tuttavia come un’integrazione imposta dai tempi, «quasi un dover di cronaca» (Vano 1986, p.147) che non ne scalfisce la ricostruzione. Legata a un fatto giuridico essenzialmente individualistico, la legittimazione del contratto collettivo è agganciata a un principio associativo individuato nella presenza di rappresentanze operaie nel Consiglio superiore del lavoro, senza alcun tentativo di comprensione dogmatica del fenomeno sociale, che oltretutto ricalca la ricostruzione del giovane Alberto Galizia, il quale già aveva tematizzato (nella sua tesi di laurea, Il contratto collettivo di lavoro, 1907, rist. 2000) intorno all’elemento associativo come fondamento della nuova contrattualità. Sia pure con questi limiti, l’analisi di Barassi sul contratto collettivo rimane il primo contributo monografico, se si esclude appunto la tesi di Galizia.
Non vi è nessun spostamento sostanziale di concetti e contenuti nella direzione del rapporto, come forse sarebbe stato possibile valorizzando l’interazione contratto individuale-contratti collettivi attraverso il filtro della giurisprudenza, ma il perfezionamento del sistema di integrazione eterenoma del contratto che continua a rimanere centrale.
Nella pionieristica stagione del diritto del lavoro, i possibili interlocutori di Barassi sono Enrico Redenti e Giuseppe Messina, brillanti ma occasionali interpreti del diritto ‘nuovo’: il primo, come sistematore della giurisprudenza dei probiviri, individua la nozione di rapporto di servizio distinta dal «mero contratto» (Il contratto di lavoro nella giurisprudenza dei probiviri, «Rivista di diritto commerciale», 1905, pp. 358 e segg.); il secondo capace di dare, come tecnico del Consiglio superiore del lavoro, un primo inquadramento dogmatico alla contrattazione collettiva.
L’unico vero dialogo è con Francesco Carnelutti, che allo schema della subordinazione contrappone quello del lavoro come compravendita, cercando di coniugare la fattualità dello scambio con la prospettiva di una schietta contrapposizione di interessi a livello collettivo (Studi sulle energie come oggetto di rapporti giuridici, «Rivista di diritto commerciale», 1913, pp. 384-93). Carnelutti intuisce che dietro la locazione di opere non vi è il moderno contratto di lavoro ma molto di più: la soluzione istituzionale alla crisi dello Stato liberale. Di questa contrapposizione rimangono tuttavia solo stizzite repliche di Barassi intorno al concetto romanistico di locatio (Il contratto di lavoro, cit., 2a ed., 1° vol., 1915, pp. 487, 549).
Nel 1920, quando ormai la crisi di sistema ha spazzato via l’ordine liberale che rappresentava lo sfondo dell’impostazione di inizio secolo, Barassi affronta la questione dell’autonomia collettiva, con argomenti del tutto inediti.
L’estro dogmatico è tutto rivolto alla ricerca di sanzioni per il rispetto degli accordi collettivi, arrivando a concepire soluzioni giuridiche fuori dalle categorie del diritto contrattuale individualistico. Le ragioni dell’autonomia individuale cedono il passo a quelle dell’ordine pubblico. Quanto prima rimaneva tra le righe, ora viene dichiarato: l’orrore per il caos prodotto da coalizioni litigiose e inconcludenti. Un caos da riordinare, perché queste coalizioni hanno guadagnato il centro della scena, sono penetrate nelle categorie giuridiche al punto tale che non è più possibile ignorarle. Ogni forzatura è considerata legittima pur di preservare la contrattualità del lavoro. Il ‘mezzo’ finisce per prevalere sul ‘fine’: soltanto attraverso l’intervento pubblico è possibile mantenere la concezione del contratto tra libere volontà, liberate dagli esiti incerti del disordinato negoziato sociale. Il contratto di lavoro rimane così il presupposto civilistico di una materia da riordinare tra pubblico e privato.
La concezione dogmatica è costretta a seguire l’epilogo della transizione politica. Nel 1928, Barassi, come consigliere del governo italiano, partecipa alla Conferenza internazionale del lavoro a Ginevra sul tema della libertà sindacale. Ormai siamo già dentro un’altra storia, quella del Barassi civilista-corporativista.
Teoria della ratifica del contratto annullabile, Milano 1898.
Sui limiti di una codificazione del contratto di lavoro, «Il Filangieri», 1899, pp. III-XVII.
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Manuale del diritto civile francese di Zachariae von Lingenthal, rimaneggiato da Carlo Crome, traduzione con note del prog. Ludovico Barassi, 4 voll., MIlano 1907-1909.
Contro la violazione dei concordati collettivi, in Ministero dell’Agricoltura, Direzione generale dell'agricoltura, Due relazioni al Comitato tecnico dell’agricoltura, 1a parte, Firenze 1920.
Lezioni di diritto sindacale, Milano 1929.
Appunti critici sul progetto del I libro del codice civile, in Osservazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università cattolica del S. Cuore intorno al progetto di riforma del I libro del codice civile, Milano 1932.
Il possesso, Milano 1932.
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Il diritto del lavoro, 2 voll., Milano 1935-1936; 3 voll., Milano 19572.
La successione legittima, Milano 1937.
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