Lodovico Bianchini
A chi voglia ricostruire il clima culturale esistente nel Napoletano della prima metà dell’Ottocento, premessa indispensabile per poter comprendere la natura del processo di «modernizzazione» all’epoca faticosamente avviato, le posizioni di Lodovico Bianchini, in veste vuoi di storico, vuoi di economista, possono riuscire oltremodo utili. Non che di quel processo egli sia stato alfiere, essendosi al contrario mosso da conservatore attento a evitare possibili scivolate verso forme, diceva, di «esaggerata democrazia» (Ms. II G 6, c. 15r), ma è proprio il suo conservatorismo a giovare: è infatti la migliore testimonianza di quanto difficile fu abbandonare il vecchio per abbracciare il nuovo.
Lodovico Bianchini, figlio di Domenico e di Margherita Sciullo, vide la luce a Napoli l’11 agosto del 1803, e a Napoli si spense il 10 giugno del 1871. Agli studi giuridici affiancò vaste e approfondite letture dirette ad appagare curiosità di carattere storico ed economico, curiosità che si tradurranno in stimolo ad affrontare, e non nelle sue sole opere maggiori, tematiche che sono appunto di storia e di economia.
Convinto che gli studi dovessero servire la pratica, Bianchini riscosse, grazie al moderatismo che lo ispirava, l’interessata pur se cauta attenzione della Corte e dei circoli filoborbonici, assai sospettosi nei confronti di chi chiedeva riforme e auspicava liberalizzazioni. E dunque pronti, se del caso, a cautelarsi, e a volte in modo assai spiccio, come ebbe modo di sperimentare, per es., il ‘mazziniano’ Giuseppe Ricciardi, direttore di un importante periodico, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti», equivalente napoletano della fiorentina «Antologia», rimosso, arrestato e poi esiliato. Ed è significativo che, a succedergli, per un triennio, fu proprio il conservatore Bianchini.
Nessuna meraviglia, quindi, che si sia guardato a lui come a persona da coinvolgere nella gestione della cosa pubblica e che molteplici siano stati gli incarichi di crescente rilievo affidatigli (venne chiamato, da ultimo, a reggere il ministero dell’Interno) nel corso degli anni. Certo, fu la moderata visione politica di cui Bianchini era portatore a renderlo ben accetto, ma l’ammirazione suscitata fra i contemporanei dalle sue opere – ammirazione tradottasi in riconoscimenti che numerosi gli vennero da accademie e istituti di cultura, italiani e stranieri – non mancò di contribuire a renderlo, per chi aveva, a vario titolo, responsabilità di governo, una risorsa da non mandar perduta.
La scomparsa, nel 1859, del re Ferdinando II, che lo aveva insignito, appena trentenne, dell’Ordine cavalleresco di Francesco I, segnerà però l’inizio della sua parabola discendente, essendo egli stato, già dal nuovo monarca, messo garbatamente da parte. E più ancora si troverà emarginato con la fine del Regno non avendo fatto nulla, da borbonico convinto qual era, per ingraziarsi i nuovi padroni: una scelta dignitosa, e invero niente affatto consueta in tempi di rivolgimenti, che torna per ciò stesso a suo onore.
Di Bianchini si vuole qui delineare brevemente la figura di storico, e soprattutto quella di economista, per più versi dritto e rovescio della stessa medaglia, ponendo in luce i criteri che lo guidarono nelle sue ricerche. Intendiamo in particolare soffermarci, nel vagliare i risultati, su due giudizi nei quali è possibile imbattersi: che egli inclini, in veste di storico, al cronachismo e manifesti, in veste di economista, «allergia» alla teoria. Che sia, insomma, uno storico non intento a dare sufficiente voce ai «fatti», per ciò stesso condannati a restare sovente pallidi testimoni di scialbe cronache, e un economista convinto che pressoché a nulla serva teorizzare, essendo l’esperienza, da lui definita il «miglior raziocinio» (Principii del credito pubblico, 1827, 18312, p. 11), guida sicura a chi voglia ben intendere per ben operare. Vediamo, allora, se e quanto fondati siano siffatti giudizi.
Per sapere chi siamo, è stato tante volte detto, per conoscere insomma il presente, bisogna sapere chi siamo stati. Bianchini doveva esserne ben consapevole se dedicò tante energie a occuparsi del passato, ma attribuendo alle cose passate il compito di far luce alle future. Perché questo, in veste di storico, sostanzialmente fece: le sue meditazioni sulle vicende politiche e finanziarie del Regno di Napoli (Della storia delle finanze del Regno di Napoli: libri sette, 1834-1835) e sull’andamento della vita economica in Sicilia (Della storia economico-civile di Sicilia, 1841) non hanno forse questo scopo? E non vanno forse nella stessa direzione, in via mediata o immediata, tante altre sue ricerche? Quelle, per esemplificare, in cui affronta il problema dell’assetto da dare al debito pubblico (Principii del credito pubblico, 1827) e analizza l’influenza esercitata dalla pubblica amministrazione sulle industrie nazionali e sulla circolazione delle ricchezze (Dell’influenza della pubblica amministrazione sulle industrie nazionali e sulla circolazione delle ricchezze, 1828), quelle in cui si occupa dello stato delle ferriere e dell’opportunità di istituire porti franchi nel Regno (Sullo stato delle ferriere del Regno di Napoli, 1834), quelle in cui si sofferma sulla regolamentazione della proprietà delle opere letterarie (Brevi osservazioni sulla quistione come assicurare ai loro autori la proprietà delle opere letterarie, in «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti», 1837, 16, 31) e sulle riforme doganali in Germania e in Gran Bretagna (Dell’Associazione doganale alemanna dalla sua origine fino al presente, 1843; Della riforma doganale della Gran Brettagna dal 1842 al 1846, 1846). E via discorrendo.
I criteri che ispiravano Bianchini quando indossava la veste dello storico? Imparzialità nell’analisi dei fatti e coerenza nella formulazione dei giudizi espressi. E dal momento che l’obiettivo perseguito era quello di comprendere l’ieri per poter agire sull’oggi in vista del domani, non avrebbe avuto molto senso continuare a lasciare eccessivo spazio alle grandi figure che dominavano la scena di tanti libri di storia, in cui ci si dedicava pressoché esclusivamente a raccontare, se mai in maniera romanzata, vicende di re e di imperatori, di principi e di condottieri, di uomini di Stato e di personalità di governo, alle cui decisioni erano assoggettate moltitudini prive d’ogni ruolo nello sviluppo degli avvenimenti storici: vicende buone più per colpire l’immaginazione, pensava Bianchini, che per aiutare a stabilire un rapporto di tipo per così dire ‘attivo’ con il passato.
Di qui la sua insofferenza per siffatte storie, assai ben testimoniata da un passo nel quale confessava di non
vedere quale utilità trarre si potesse dalla storia quando lasciar si dovessero nell’oblio le vicende ch’ebbero i sistemi di politica, di amministrazione e di legislazione, l’uso che fecero i popoli della ricchezza, qual si fosse l’entrata pubblica, come l’avesse il Sovrano distribuita a spese a vantaggio o danno dell’universale, quali fatti vi avessero dato cagione perché i popoli vivessero industriosi o poveri, e da ultimo come l’amministrazione pubblica avesse ingenerato cangiamenti politici. Le quali cose (concludeva) costituiscono la vera vita civile delle nazioni e possono somministrare esempi alle future generazioni per seguire il bene o per fuggire il male (Della storia delle finanze del Regno di Napoli, cit., 18392, pp. 18-19).
Bianchini puntava pertanto a rivendicare con forza l’importanza degli aspetti economici che condizionano la vita delle nazioni e dei loro abitanti. E l’accento da lui posto sull’importanza di siffatte tematiche, e più ancora gli sforzi compiuti per farle oggetto d’esame in scritti numerosi, pur se non tutti di pari respiro, ha indotto a cucire su Bianchini l’etichetta di storico economico ante litteram. E in molti di quei suoi scritti si è voluto infatti scorgere una vera e propria «esaltazione della storia economica», e tratto «originale e interessante» dell’opera sua è stato ritenuto l’accento posto sugli aspetti storici della vita economica e sociale (De Rosa 1971, p. XVII): quelli che sono stati appunto a lungo, prima cioè che quasi ogni storico ne riconoscesse l’importanza e se ne facesse in varia misura carico, esclusiva riserva di caccia dello storico economico.
È dunque Bianchini, su questo terreno, un precursore? Il termine è di quelli da impiegare con cautela, potendo esso condurre, in virtù di spesso semplicistiche e sovente non giustificabili trasposizioni, alla formulazione di conclusioni forzate. Ma in questo caso può forse trovare accoglimento. Se infatti è indubbio che egli giudicava severamente il «trasandare tutto ciò che concerne il governo dello Stato» e riteneva che fosse di scarsa utilità, se non addirittura inutile, «leggere numerose carte ove descritte sieno le armi di un guerriero, le forme del suo cavallo, la maniera che armeggiava, il numero de’ feriti in una rivoltura, le feste che si fecero per celebrare nozze principesche, la strada per la quale passò un capitano vittorioso» (Della storia delle finanze, cit., 1° vol., 1834, pp. 22-23), la sua altrettanto indubbia consapevolezza del peso che le istituzioni e i fatti economici esercitano nel contesto storico e la conseguente costante attenzione a essi rivolta in molteplici suoi scritti rendono comprensibile che lo si sia voluto prospettare come cultore, sia pure «inconsapevole», di una disciplina che non era ancora nata, né era prossima alla nascita: la storia economica, la quale, una volta venuta alla luce, avrebbe con orgoglio rivendicato i propri meriti.
Che a Bianchini spetti l’appellativo di economista non è invero scontato, essendo stato esso a volte, se non negato, concesso con riserva: vi è chi non ha mancato di osservare che egli fu storico, più che economista, non almeno «nel vero senso della parola», per non essere andato «alla ricerca di verità teoriche» (Villani 1968, p. 209). Giudizio, questo, che pensiamo vada rivisto e reso, se non altro, più sfumato. Il fatto è che Bianchini fu sì storico, e il titolo di cultore di storia non gli può venir certo disconosciuto, ma nella veste da lui con orgoglio rivendicata di «scrittore di economiche materie» (Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, 1855, p. XI) fu anche attento, sia pure con riserva, agli aspetti teorici della disciplina, aspetti che intrigavano non poco economisti intenti a offrire, a volte con sussiego, le loro «verità».
È significativo, per es., che in un’opera nella quale, come si vide, proclamava la «sperienza» superiore al ragionamento, invitando altresì a non abbandonarsi a troppe «congetture e sottigliezze» (Principii del credito pubblico, cit., 18312, p. 11), egli rivendichi di aver «supplito e dichiarato molti principii e teoriche che mancano o sono confuse in libri di questo genere» (p. IV). Ed è del pari significativo che, pur guardando con sospetto chi si reputava pago di «vaga[re] in conghietture» e di rincorrere «nude ed astratte verità» (Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, cit., p. 26), egli non rinunci a misurarsi ripetutamente con dette verità: con le verità teoriche degli economisti. Che è poi quello che fa, in ogni epoca, la maggior parte degli studiosi intenti a occuparsi di teoria, a pochi essendo dato di «accrescere», per così dire, l’edificio della conoscenza, d’ogni conoscenza: dunque, anche di quella economica.
Le «verità» degli economisti con cui si misurava? Si consideri, per esemplificare, il modo di porsi di Bianchini nei riguardi del pensiero di Jean-Baptiste Say, eminente rappresentante di un’«ortodossia» rifiutata, all’epoca, solo da pochi «eretici», pur se a volte autorevoli, come Thomas Robert Malthus o Karl Marx, ma accolta senza riserve, anche se all’insegna di diversità di approcci teorici tutt’altro che marginali, dalla maggior parte della professione. Constateremo, atteggiamento niente affatto consono a uno studioso ritenuto del tutto «allergico» al momento teorico, che sono le «astruse» posizioni teoriche di Say a richiamare, e in non piccola misura, la sua attenzione, posizioni da lui discusse in dettaglio e con manifesto interesse, anche se accompagnato da un qual certo fastidio per quella che definiva un’analisi «spinta a metafisica astrazione» (Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati: parte storica e di preliminari dottrine, 1843, seconda ed. riveduta e accresciuta 1857, p. 479).
Non veniva forse da Bianchini diligentemente annotato l’«ufficio passeggiero» attribuito da Say alla moneta, per averla considerata, chiariva, «un semplice intermedio, un mezzo [di pagamento]» (p. 450)? E non registrava egli forse coscienziosamente le conseguenze che da una simile ipotesi discendevano? Dopo che ciascuno, scriveva, «ha venduto ciò che ha prodotto, e comprato quel che vuole consumare, si rinviene che sempre si son pagati prodotti con prodotti» (p. 443). La moneta dunque «non contava», per usare il linguaggio dell’economista d’oggi: non esercitava cioè alcuna influenza sulle variabili reali del sistema. Enunciato teorico rilevantissimo, questo, e tutt’altro che privo di conseguenze sul terreno della politica economica, ma di cui Bianchini non coglieva pienamente il senso. Senza che glielo si possa però ascrivere a colpa: a meno di non pretendere che gli dovesse essere familiare il concetto di «neutralità» della moneta.
Colpisce, invece, la mancata consapevolezza delle conseguenze derivanti dall’aver fatto Say della moneta «soltanto un mezzo [di scambio]» (p. 450). Anche perché avanzava in materia un’osservazione assai acuta, pur senza saper trarre poi da essa le conclusioni a cui avrebbe dovuto in via del tutto naturale condurre:
la fallacia di circoscrivere l’ufficio della moneta ad essere soltanto mezzo per avvicinare i cambi deriva a creder mio dal confondere alcune operazioni che possono aver luogo nel suo corso e che sono prossime, con quelle che sono o possono essere più remote, cioè del cambio di essa moneta con altri generi; quindi (concludeva) avvicinando gli estremi si è voluto supporre che in ogni caso la permutazione avviene tra merce e merce (Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, cit., p. 232).
E sembra, in queste sue parole, di sentir quasi l’eco, verrebbe fatto di dire, delle critiche nelle quali ci si può imbattere ai giorni nostri: a Say, è stato, per es., osservato, è mancata «l’idée, à laquelle tiennent tant les modernes, de diviser le temps pendant lequel se déroulent les phénomènes en périodes et de s’attacher successivement a chacune de ces périodes»; e così, «retenant une durée indéfinie de temps» (J. Marchal, J. Lecaillon, Théorie des flux monétaires, 1967, p. 34), egli ha finito con il ridurre la moneta a un semplice intermediario degli scambi e a ipotizzare quindi un regime sostanzialmente analogo, nel suo funzionamento, a quello di baratto.
Non che Bianchini ignorasse l’esistenza di un’altra rilevante funzione propria della moneta, quella cioè di riserva di valore. Ne riconosceva anzi l’importanza, sviluppando però argomentazioni tutt’altro che fatte per condurre lontano. Ed egli, infatti, si chiedeva: «è la moneta soltanto un mezzo [di scambio]?», ma soltanto per osservare subito dopo, alquanto scandalizzato:
se ciò fosse vero, allora ne seguirebbe l’assurdo che all’uffizio di moneta si potrebbe destinare qualsiasi obbietto senza valore, mentre se i rappresentanti della moneta hanno valore è per l’idea di poterli scambiare quando si crede opportuno colla moneta di effettivo metallo che rappresentano.
Concludeva perciò soddisfatto, l’osservazione sembrandogli decisiva:
niuno vorrà al certo sostenere che la moneta di prezioso metallo mentre adempie all’uffizio di veicolo ne’ cambi perde il valor proprio, come prodotto, come merce che ha valore (Della scienza del ben vivere sociale, cit., 18572, p. 450).
Ancora. A Bianchini non sfuggiva la famosa «legge degli sbocchi» di Say («l’offerta crea da sé la propria domanda» o, se si preferisce, «ogni produzione genera una domanda di importo equivalente»), che tanta parte ha nella storia del pensiero economico: la registrava, invero, con pari sollecitudine, ma gliene sfuggiva totalmente il significato. Da essa, egli si limiterà infatti a dire, discendono due conseguenze: «che in ogni Stato più sono numerosi i produttori e le produzioni moltiplicate, più gli sfoghi sono facili, variati e vasti»; «che ciascuno è interessato alla prosperità di tutti, e che la prosperità di un genere d’industria è favorevole a quella di tutti gli altri» (Della scienza del ben vivere sociale, cit., 18572, p. 443). Questo il banalissimo commento di una legge che era e resta centrale nelle «elucubrazioni» degli economisti.
E che Bianchini, autore di numerosi scritti d’economia, non brillasse quando discorreva di teoria è cosa che trova piena conferma nel riportato banale «dialogo» da lui intrecciato con Say: ma la pochezza del suo dire, in veste di teorico, non nasce da disinteresse per la teoria, pur se escludeva che la si potesse trasformare in piattaforma sulla quale erigere un’autonoma disciplina, una disciplina che faceva, dell’interesse che muove i singoli a operare, la molla dell’intero sistema economico. E tanto ciò è vero, che egli eloquentemente asserisce: quella economica è sì scienza «di materiali interessi, ma considera l’interesse [...] regolato da scopo morale» (p. 33), uno scopo, va da sé, necessario a temperare egoismi dai quali nulla di buono poteva a suo avviso discendere: non è detto, sosteneva infatti, «che il privato interesse, nel fare il proprio vantaggio, procura anche quello degli altri, avegnacché per isventura spesso succede l’opposto, e pel fine esclusivo del proprio comodo si distruggono talora finanche le speranze dell’avvenire» (p. 312).
Era dunque alla costruzione di «una scienza che positivamente al bene sociale intend[esse]» (p. XI) che bisognava puntare. Quel bene andava faticosamente perseguito, non affidato al miracolistico operare di un libero mercato che avrebbe consentito, senza negative conseguenze, anzi con vantaggio generalizzato, di «lasciar fare e di lasciar passare». Ma «col dire soverchiamente ‘lasciate fare, lasciate passare’ – scriveva – si vorrebbero mettere i governi o nell’intera inazione a riguardo della pubblica economia, o appena farli intervenire solo allorché trattasi d’impedire il male. Ma (egli si chiedeva), quando i mali sono avvenuti e si accumulano, sono sempre i governi [...] nella favorevole posizione di curarli, o non sono essi stessi tratti dal vortice del loro cumulo che tutto ravvolge e confonde?» (Principî della scienza del ben vivere sociale, cit., p. 7).
E la risposta gli sembrava scontata: «in sì tristi casi – affermava – per lo più si adottano transazioni, rimedi palliativi, ed allora o il male non è positivamente impedito, o più forte si radica» (p. 7).
Non c’era però motivo di lasciare incancrenire le cose: «è insito a’ governi – osservava infatti – il potere non solo d’impedire il male, ma di procurare il bene» (p. 7). L’iniziativa individuale non escludeva perciò forme di interventismo statale: erano anzi proprio i governi a dover creare le premesse e a dover vigilare perché quell’iniziativa potesse trovar modo di svolgersi al meglio. Di qui l’esigenza – diceva – di promuovere forme di «ingerenza» rivolte, grazie ad acconce misure di politica economica, a «utile fine» (p. 7). Una politica economica di cui si discettava, però, non solo senza un’adeguata comprensione dei condizionamenti sociali e politici che impacciavano l’azione dello Stato, che pure si sarebbe voluto strumento di ammodernamento e fattore di progresso, ma anche senza un altrettanto adeguato confronto con un apparato teorico in crescita che finiva, a vario titolo, con il condizionarla.
Non era un confronto che a Bianchini potesse riuscire agevole. Il fatto è che l’economia era sì cresciuta, ma non nella direzione da lui auspicata: l’economia politica di chi faceva professione di liberismo ed esaltava gli automatismi di mercato (quella insomma degli Smith, dei Ricardo, dei Say) poco o niente aveva infatti in comune con l’economia civile di coloro che avevano coltivato – era segnatamente il caso di Genovesi – una scienza normativa all’insegna di un dirigismo illuminato. La qual cosa, spiacendo ai molti che, nel Napoletano, ancora a lui e alla tradizione del suo insegnamento si richiamavano – Bianchini era fra costoro – ingenerava dubbi e determinava forme di non celato distacco.
E le dispute nelle quali, a dispetto di una comune piattaforma, i cultori di tale disciplina attivamente si impegnavano, soprattutto in Francia e in Inghilterra, venivano infatti guardate con perplessità che sconfinavano nel sospetto. C’era ancora da fidarsene?
L’interrogativo albergava anche nell’animo di Bianchini: gli sembrava, invero, che il pullulare di scuole – «la italiana, la francese, l’inglese, l’alemanna, la spagnuola» – e i non rari contrasti al loro interno, stessero lì a testimoniare che si era in presenza, egli diceva, di «una scienza imperfetta, mancante in gran parte di fondamento». Di qui la sua sconsolata conclusione:
se nelle altre scienze tutto ciò che si oppone al vero è falso, egualmente in economia la verità non può essere che una; laonde lo ammettere e il vagare tra tante contraddittorie opinioni cagiona che, ove alcuna non riesca di universal consentimento, sicché l’opposta proposizione sarebbe falsa, non potrà mai dirsi di essersi fermata la scienza dell’economia (Principî della scienza del ben vivere sociale, cit., p. 22).
Occorreva, dunque, far qualcosa, ché al perseguimento di quell’«universal consentimento», egli pensava, non si poteva certo rinunciare. E allora, suggeriva Bianchini,
togliamo da ciò che si addimanda economia politica la parte fallace e sostituiamole quel che è vero e che può essere nella natura delle cose e nell’andamento sociale, spogliandola di quello che è immaginario o impossibile a realizzarsi, e noi la renderemo in tal modo più utile (p. 25).
Più utile perché più vicina al «vero». Un compito, questo, che egli cercava di condurre diligentemente a buon fine privilegiando il concreto all’immaginario: accentuando, insomma, gli aspetti «pratici» della disciplina a scapito di quelli teorici.
Ma è tempo di trarre qualche conclusione dalle cose dette sin qui che possono aiutare forse a capire perché il tradizionalista Bianchini, a chi ne ha ripercorso l’itinerario di storico e di economista, sia apparso spesso un revenant: il fantasma, a dispetto dei numerosi riconoscimenti che ebbe in vita, in Italia e all’estero, di un mondo scomparso o in via di sparizione. Era infatti scomparsa l’economia praticata dalla cosiddetta Scuola italiana, così ben rappresentata da Genovesi, quella che egli avrebbe voluto restituire a nuova vita, e si avviava a sparire, sacrificato all’Italia unita, il più vasto e antico Regno della penisola, quello di cui vagheggiava, da risoluto filoborbonico, di poter contrastare il dissolvimento attraverso interventi capaci di risolverne, senza traumatici sconvolgimenti, le contraddizioni.
E se il proposito di unificare la penisola, nel Napoletano da pochi spiriti eletti condiviso, suscitava in Bianchini reazioni tutto sommato analoghe a quelle così ben interpretate dal suo re, da Francesco II – «io non so che cosa significhi indipendenza italiana; io conosco solo l’indipendenza napoletana» (B. Croce, Storia del Regno di Napoli, 1925-19585, p. 273) –, l’idea che ci si potesse e ci si dovesse anzi ormai riconoscere in un’economia pressoché agli antipodi, per analiticità di propositi e per impegno teorico, di quella praticata da Genovesi e dalla sua scuola, lo trovava niente affatto consenziente. E non perché avesse da opporle una più solida e più fruttuosa costruzione, ma perché non gli riusciva di cogliere, a dispetto della sua buona conoscenza della letteratura corrente, il significato profondo e gli sviluppi significativi della svolta impressa da Smith e dai suoi epigoni alla scienza economica.
E come avrebbe potuto coglierla, se erano soprattutto i «nudi fatti» e non le «pure teorie» ad attrarlo? E per giunta i fatti di casa sua, i fatti di un Paese geograficamente periferico ed economicamente arretrato, un Paese per ciò stesso poco atto a fornire stimoli utili alla costruzione di una scienza economica che non fosse, come da lui non a caso auspicato, mera «scienza di governo», una scienza (diceva) che «al ben vivere della società debbe intendere» (Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, seconda ed. riveduta e accresciuta, 1857, p. XVI) e dalla quale trarre quindi conoscenze a vario titolo utili alla sua azione di persona coinvolta, sin da giovane, nell’amministrazione della cosa pubblica.
Si ripeteva, insomma, l’infruttuosa esperienza già fatta dai più immediati epigoni di Genovesi: da coloro che erano stati cioè paghi di occuparsi di fedecommessi e di catasti, di contratti alla voce e di manifatture dell’olio, di affari della regia Sila e di problemi della regia dogana di Foggia. Esperienza, questa, di cui si sarebbe dovuto certo far tesoro, ma che a Bianchini sembra non aver nulla insegnato.
Edizione critica di B. Cantalupo, Breve cenno della scienza del benessere sociale: da servire di base allo studio del diritto pubblico, Napoli 1825.
Principii del credito pubblico, Napoli 1827, 18312.
Dell’influenza della pubblica amministrazione sulle industrie nazionali e sulla circolazione delle ricchezze, Napoli 1828.
De’ reati che nuocciono alle industrie, alla circolazione delle ricchezze ed al cambio delle produzioni, Napoli 1830.
Sullo stato delle ferriere del Regno di Napoli, Napoli 1834.
Sul progetto di un porto franco a Nisita e di un lazzaretto da peste a Miseno: alquante considerazioni, Napoli 1834.
Della storia delle finanze del Regno di Napoli: libri sette, Napoli 1834-35 (Palermo 18392; Napoli 18593).
Sulle quistioni che riguardano lo stabilimento di raffinare straniero zucchero nel reame delle Due Sicilie, Napoli 1835.
Se la conversione delle rendite del debito pubblico nel Regno di Napoli sia giusta ed utile, Napoli 1836.
Brevi osservazioni sulla quistione come assicurare ai loro autori la proprietà delle opere letterarie, in «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti», 1837, 16, fasc. 31.
Della storia economico-civile di Sicilia, da far seguito alla Storia delle finanze di Napoli del medesimo autore, libri due, Napoli 1841.
Della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati: parte storica e di preliminari dottrine, Palermo 1843 (seconda ed. riveduta e accresciuta, Napoli 1857).
Dell’Associazione doganale alemanna dalla sua origine fino al presente, Discorso, Palermo 1843.
Della riforma doganale della Gran Brettagna dal 1842 al 1846, Palermo 1846.
Principî della scienza del ben vivere sociale e della economia pubblica e degli stati, Napoli 1855.
Prolusione pronunziata nel 3 dic. 1859 dalla cattedra di commercio e di economia pubblica nella regia Università degli Studi di Napoli, Napoli 1859.
Sulla questione se giovi agl’individui, alle famiglie ed agli stati la grande ovvero la piccola proprietà, in Atti della R. Accademia delle Scienze di Napoli, Napoli 1861.
Nove anni del Regno di Napoli, edizione critica a cura di A. Esposito, Padova 1996.
Fonti non a stampa:
Un fondo, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, contiene (fra l’altro) una nota autobiografica (Ms. XXI-33), due manoscritti di carattere storico riuniti in corposi volumi e intitolati I principali avvenimenti politici e diplomatici degli stati di Europa dal finire del secolo XVIII in poi e Un periodo della storia del Reame delle Due Sicilie dal 1830 al 1859 (Ms. II G 3-4 e 5-7), nonché il testo delle sue Lezioni di economica politica (Ms. II G 1-2), che sostanzialmente nulla aggiungono a quanto da lui già sostenuto nelle opere a stampa di economia.
F. Minolfi, Biografia del cav. Lodovico Bianchini, Capolago 1840.
F. Minolfi, Notizie contemporanee su Lodovico Bianchini, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti», 1846, 8.
G. Cely-Colajanni, Intorno la vita e le opere del commendatore Ludovico Bianchini, Napoli 1856.
C. Magliano, Sul feretro del cavaliere di gran croce Ludovico Bianchini, parole lette dall’avvocato Carlo Magliano nel giorno 12 giugno 1871, Napoli 1871.
F. Del Giudice, Necrologio, in Atti del Real Istituto d’incoraggiamento alle scienze naturali, economiche e tecnologiche, Napoli, 1872, 2a serie, t. IX.
F. Ferrara, Esame storico-critico di economisti e dottrine economiche del sec. XVIII e prima metà del XIX. Raccolta delle prefazioni dettate dal prof. Francesco Ferrara alla 1a e 2a serie della Biblioteca degli economisti, 1° vol., parte prima, Torino 1888; 2° vol., parte seconda, Torino 1891.
G. Ricca-Salerno, Storia delle dottrine finanziarie in Italia, Palermo 1896.
T. Martello, Ludovico Bianchini, in Id., L’economia politica e la odierna crisi del darwinismo, Bari 1912.
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P. Villani, Bianchini Lodovico, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 10° vol., Roma 1968, ad vocem.
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F. Brancato, Introduzione a L. Bianchini, Della storia economico-civile di Sicilia, Napoli 1971.
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