Castelvetro, Lodovico
, Il letterato modenese (n. nel 1505 circa, m. a Chiavenna nel 1571) è autore d'inedite chiose all'Inferno nei margini di un incunabolo della Commedia (Venezia 1497; esemplare di Modena, Bibl. Estense, a.k. I 13) e di una Sposizione dei canti I-XXIX, sempre dell'Inferno, edita da G. Franciosi (Modena 1886), di su un manoscritto del collegio S. Carlo di Modena, ora nella Bibl. Estense. Le chiose, recentemente illustrate (R.C. Melzi), sembrano anteriori a ogni altra opera del Castelvetro. Già rappresentano uno sforzo critico eccezionale in quell'età per il testo di D., ma restano esercizio di lettura personale e privata, e nei riferimenti alle Prose del Bembo mostrano che il C. ancora di lì partiva senza l'impegno polemico caratteristico delle opere sue mature. La Sposizione per contro segna il punto di arrivo dell'attività critica del C.: probabilmente fu stesa negli ultimi mesi della sua vita, nell'esilio di Chiavenna, e fu interrotta ai primi versi del canto XXIX dell'Inferno dalla morte (febbraio 1571). Certo fu stesa in condizioni difficili, senza che alla maturità del pensiero e alla formidabile memoria si aggiungesse la disponibilità di libri indispensabili per un tal lavoro. Di qui, in opera lasciata in tronco, il difetto che per tutto si avverte di un discorso che al testo si sovrappone e contrappone piuttosto che accompagnarlo fedelmente. Pur così, la Sposizione rende impressionante e ancora oggi valida testimonianza di un'interpretazione della Commedia tutta intesa a chiarirne la lettera e a discuterne razionalmente la struttura. La discussione, condotta con metodo inquisitorio, prevale sulla dichiarazione e finisce col nascondere le sue premesse filologiche e critiche. Per queste, bisogna far capo alle opere pubblicate dal C. stesso, in ispecie alla Giunta fatta al ragionamento degli articoli e de' verbi di m. P. Bembo (1563) e alla Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta (1570), e alle due pubblicate subito dopo la sua morte, cioè la Correttione d'alcune cose del dialogo delle lingue di B. Varchi (1572) e Le rime del Petrarca brevemente sposte (1582). Qui, cominciando proprio dal commento petrarchesco, subito risulta evidente la straordinaria conoscenza che il C. ebbe degli antichi testi toscani e delle opere di D. in ispecie, non soltanto della Commedia e degli antichi commenti ad essa, ma anche della Vita Nuova, delle Rime e del Convivio. Era conoscenza linguistica, della grammatica e del lessico, che consentiva al C., esperto di più lingue, antiche e moderne, di riconoscere, attraverso la comparazione di luoghi paralleli, l'uso letterario, in verso e in prosa, di singole parole e costrutti. Notevole in ispecie il riconoscimento delle riprese petrarchesche dal linguaggio di D., già indicate nella Ragione d'alcune cose segnate nella canzone d'Annibal Caro (21 V - 22), e largamente illustrate nel commento al Petrarca. Con ciò il C. apriva una sottile ma netta e irreparabile frattura nel sistema linguistico-letterario che il Bembo aveva fondato e imposto, respingendo D. nel passato e introducendo senza riserve il Petrarca nel presente.
Il sistema era senza dubbio impari ormai alle esigenze e ambizioni dell'età nuova, ma ancora era, nei suoi limiti, saldo e generalmente riverito. Né altri, all'infuori del C., era in grado di scardinarlo con le armi di una superiore filologia e di un impavido, intransigente rigore critico. Sordo alla grande poesia, all'epopea e alla tragedia, di cui egli pure riconosceva e a suo modo perseguiva il richiamo, il C. era però impaziente della piccola e facile poesia: di quella che, a torto o a ragione, più spesso a torto, gli pareva tale. Pregiandosi di essere puro critico e del resto vivendo per sua vocazione e per la forza degli eventi ai margini, piuttosto dentro che fuori, della riforma protestante, egli mirava a una letteratura fondata sull'esercizio della ragione critica, sul rispetto della verità e della verosimiglianza, sull'impegno religioso e morale. Non stupisce che con tutte le sue pecche, il " poema epopeico " di D., " narratore civile e filosofico " (Poetica, 274 V; Sposizione, 281), gli apparisse, contro il giudizio del Bembo, superiore a ogni opera moderna, a quella del Petrarca in ispecie, e solo paragonabile ai modelli omerici. Onde, nella Poetica (91), il passo fondamentale in cui questo giudizio e paragone, destinato a grande fortuna, è chiaramente enunciato: " E sí come Homero spetialmente è per questa cosa da sopraporre a Virgilio, cosí Dante dee essere sopraposto al Petrarca, havendo impiegato quelli lo stile in poema grande e magnifico e nel quale chiaramente apparerebbono gli errori se ci fossero, e questi in poema piccolo e modesto ". Non soltanto dal C., ma anzi tutto e principalmente da lui, dipende il ritorno a D., caratteristico del Tasso e dell'età sua.
Bibl. - R. Scrivano, Il razionalismo critico di L.C., in " Rassegna lett. ital. " LXIII (1959) 2; E. Raimondi, Gli scrupoli di un filologo: L.C. e il Petrarca, in "Studi Petrarcheschi" V (1962) 131-210; R.C. Melzi, Castelvetro's Annotations to the Inferno, The Hague - Parigi 1966; E. Bigi, La tradizione esegetica della Commedia nel Cinquecento, in " Atti del convegno di studi su aspetti e problemi della critica dantesca ", Roma 1967, 42-45.