CASTELVETRO, Lodovico
Nato a Modena, probabilmente nel 1505, da Iacopo e da Bartolommea della Porta, studiò legge a Bologna, Ferrara, Padova, e sì addottorò a Siena, dove si diede anche a studî letterarî e dove fece rappresentare, nel 1531, la sua commedia Gli ingannati. Fu qualche tempo a Roma presso Giovanni Maria della Porta, suo zio materno, ambasciatore del duca di Urbino. Tornato a Modena, fu nominato lettore di diritto in quello Studio (1532), e là ebbe la sua dimora, facendo però frequenti viaggi a Piacenza (1538), a Roma (1540), a Venezia, a Padova, a Firenze, a Ferrara e altrove (1551-53).
Critico acuto, ma talvolta cavilloso e litigioso, fu lui che iniziò nel 1553 la famosa polemica col Caro (v.), criticando la canzone di questo Venite all'ombra de' gran gigli d'oro. Forse le accuse del Caro, che nell'apologia lo chiamava "empio, nemico di Dio e degli uomini", contribuirono ad aggravare la sua condizione, quando ripresasi, nel 1557, l'inquisizione contro Filippo Valentini, dottore e nobile modenese, anch'egli fu compreso, insieme con altri, nell'esame, e presentendo prossima la pubblicazione della scomunica, fuggì insieme col Valentini, mentre altri confessava o era trattenuto in carcere. Condannato in contumacia e scomunicato, nel 1560 si lasciò persuadere a presentarsi a Roma, ma, avendo capito che lo avrebbero condannato, fuggì dal convento di S. Maria in Via, dove era ospitato, mentre il tribunale dell'Inquisizione lo condannava, come eretico impenitente, "a tutte le censure e pene inflitte dalle sacre costituzioni e alla confisca dei beni" (26 novembre 1560). Da Chiavenna, dove s'era ricoverato, chiese invano nel 1561 a Pio IV di potersi scolpare dinnanzi al concilio di Trento; onde, perduta ogni speranza di conciliazione con la Chiesa, vagò all'estero, a Ginevra (1564-66), a Lione (1567), dove perdé gran parte di un'opera, "volume molto grande", in cui erano trattate "tutte le parti della grammatica e della lingua volgare"; poi di nuovo a Chiavenna; e di là andò a Vienna, dove dedicò la traduzione ed esposizione della Poetica di Aristotele all'imperatore Massimiliano (1570). Tornato a Chiavenna, vi morì il 21 febbraio 1571.
Il C. fu uomo dottissimo; di lui ci rimangono: un commento alle Rime del Petrarca, l'Esaminatione sopra la Retorica ad Erennio, la Sposizione di XXIX canti della "Commedia", buone poesie latine, qualche rima italiana. Insieme con l'amico G. M. Barbieri, volse in italiano poeti provenzali. L'originalità del suo pensiero si rivela specialmente nel commento alla Poetica, e in ciò che ci resta di quel volume "molto grande" di grammatica, perduto a Lione nel 1567; cioè nella Giunta fatta al Ragionamento degli articoli et de' verbi di Messer Pietro Bembo, pubblicata anonima in Modena già dal 1563. Nel 1549 B. Varchi aveva ripubblicato le Prose del Bembo e il C. rivide, censurò, compì tutta l'opera. Ciò che ci resta (altre giunte si pubblicarono postume a Basilea nel 1572) ci fa rimpiangere il perduto. La Giunta del C. svolge per la prima volta, nella grammatica normativa, l'elemento propriamente storico. Mentre il Bembo aveva spiegato l'uso storico della lingua, il C. studiò lo svolgimento delle forme dal latino. Meno coerente fu nella questione della lingua italiana, perché in fondo egli era d'accordo con quelli con cui era in polemica per altro motivo, col Bembo, col Caro, col Marchi, consentendo nel concetto della fiorentinità della lingua.
Bibl.: T. Sandonnini, L. C. e la sua famiglia, Bologna 1882; G. Cavazzuti, L. C., Modena 1903; A. Fusco, La Poetica di L. C., Napoli 1904; H. B Charlton, C.'s theory of poetry, Manchester 1913 (cfr. Giorn. stor. d. lett. ital., LXIV, p. 412); G. Bertoni, G. M. Barbieri e L. C., in Giorn. stor. della lett. italiana, XLVI, p. 83 segg.; C. Trabalza, Storia della gramm. italiana, Milano 1908, pp. 165-188 e passim.