Dolce, Lodovico
Allo scrittore veneziano (1508-1568) probabilmente si deve la felice trovata editoriale, per cui nel titolo dell'opera di D. l'aggettivo divina, incorniciato per maggior spicco nel frontispizio, fu premesso a Comedia nell'edizione curata per l'appunto dal Dolce e pubblicata a Venezia dal Giolito nel 1555 (1554 nell'explicit).
Divino era stato proclamato più volte il poeta sul frontespizio di precedenti stampe veneziane (1512, 1520, 1529, 1536). Ma già in quella del 1529 il frontespizio figurato presentava il ritratto del divino poeta nella sorprendente compagnia, non soltanto degli antichi Virgilio Orazio Lucrezio e Terenzio e dei moderni Petrarca e Boccaccio, ma anche di due autori allora vivi, aretini entrambi, l'unico Bernardo Accolti al suo tramonto, e quel Pietro Aretino, da poco giunto a Venezia, che di lì a poco sarebbe stato per antonomasia chiamato divino. Giova credere che il Dolce, grande amico dell'Aretino, esitasse a ridecorare D. con quello stesso titolo e preferisse con abile e legittima variante applicarlo all'opera. Stranamente l'edizione del 1555 non fu più ristampata dal Giolito. Ma a distanza, nel 1569 e nel 1578, fu riprodotta tal quale da un altro stampatore veneziano, Domenico Farri. Queste ristampe non sarebbero bastate a raccomandare il nuovo titolo escogitato dal Dolce; ma accadde che nel 1595 esso fosse ripreso dagli Accademici della Crusca nella loro edizione, e poiché questa, dopo la parentesi del Seicento, fu giustamente considerata fondamentale dagli editori del primo Settecento, restauratori del culto di D., anche il titolo riemerse e piacque e indi innanzi, con poche eccezioni, diventò normale. Resta che nella seconda metà del Settecento, per motivi che non è qui il caso d'indagare ma che s'inquadrano nel recupero, venuto allora di moda, della tradizione letteraria cinquecentesca, non soltanto il titolo, ma l'edizione stessa della Commedia curata dal Dolce riemerse e piacque e fu riprodotta da un autorevole studioso, P.A. Serassi.
Di fatto bisogna riconoscere al Dolce, mediocrissimo autore ma abile, oltreché infaticabile, imprenditore e manipolatore di prodotti letterari, il merito di aver escogitato una presentazione nuova, attraente e, prescindendo dall'esecuzione, irreprensibile dell'opera di Dante. Amico dell'Aretino e ammiratore dell'Ariosto, il Dolce subito avvertì che la stagione del petrarchismo e della dittatura del Bembo volgeva al suo termine e che di conseguenza, nella seconda metà del secolo, anche fuori Firenze, studiosi e lettori, sazi o comunque non contenti del solo Petrarca, sarebbero tornati a Dante. Perché, come egli scrisse dedicando la sua edizione a Coriolano Martirano, vescovo e alto funzionario del governo spagnolo a Napoli (e la dedica stessa è indicativa del mutamento in corso nella cultura e nella società italiana), " se quei poeti... i quali insieme col diletto hanno congionto l'utile, sono degni di somma lode, senza dubbio devrà essere anteposto Dante a ciascun altro che insino a qui abbia sudato ne' bellissimi campi de la poesia toscana. E benché nella prima fronte si dimostri privo di quella vaghezza che contengono molti altri poemi, è poi tanto più ricco di dottrina e di maestà; simile a quelle dipinture che sono più nobili per artificio di disegno che per politezza di colori ". Le preferenze del Dolce, grande amico di Tiziano, erano sempre state ed erano per la politezza dei colori, ma egli si rendeva conto del peso crescente che sull'età sua aveva il mito di Michelangelo e probabilmente sapeva che i difensori di D. a Firenze avevano insistito sul raffronto fra l'antico poeta e il moderno artista. Il Dolce anche si rese conto che il testo di D. non poteva più essere offerto senza commento, come nelle stampe aldine dell'età rivolta, e che però non poteva essere gravato di un commento sovrabbondante. Tale era quello, fondamentale ma ormai invecchiato, del Landino. Tale anche era quello, recente, del mediocre e sgarbato Vellutello.
Pertanto il Dolce escogitò un'illustrazione tripartita, leggerissima: breve nota riassuntiva del contenuto all'inizio e altrettanto breve nota dichiarativa dell'allegoria alla fine di ogni canto; nei margini del testo minime postille, richiamate e riassunte in due indici dei vocaboli e delle cose. Era uno schema bene architettato, ma che nell'esecuzione richiedeva sicurezza e precisione pari alla leggerezza del tocco. Proprio quel che al Dolce mancava. Onde, così nel testo come nella ragnatela delle note, fanno bella mostra errori enormi e in buon numero, che non giova più rilevare. Come le sue opere, le stesse fortunatissime Osservazioni, dimostrano, e come le inoppugnabili critiche inflittegli dai contemporanei confermano, egli era disarmato nell'uso della grammatica, nonché della filologia. Restano e valgono, in età generalmente disarmata di fronte all'arduo testo di D., le buone intenzioni. Notevole fra queste la promessa iniziale, incredibile e vana, di una revisione del testo sulla base di " uno esemplare frascritto dal proprio scritto di mano del figliuolo di Dante, havuto dal dottissimo giovane m. Battista Amalteo ". Meglio questo immaginario, allettante esemplare della tradizione veneto-friulana della Commedia che i generici riferimenti a non identificabili antichi esemplari addotti da altri in quell'età. In fatto di trovate editoriali, il Dolce era maestro.
Bibl. - La D. C., a c. di C. Witte, Berlino 1862, XVII; M. Barbi, Della fortuna di D., Pisa 1890, 119-120; S. Bongi, Annali di G. Giolito, Roma 1890, I 475-476; O. Zenatti, La D.C. e il Divino Poeta, Bologna 1895; P. Rajna, L'epiteto Divina dato alla Commedia di D., in " Bull. " XXII (1915) 107-115 (suppone giustamente che il Dolce ricavasse l'idea piuttosto dal Cesano del Tolomei che non dal Boccaccio, ma perde di vista il nocciolo della questione: non l'epiteto importa, ma il titolo sul frontespizio del libro).