MOIANONI, Lodovico
– Nacque intorno al 1530 a Bergamo, dove risiedette, almeno nel secondo Cinquecento, in «piazza Nova».
La sua famiglia, però, è assente tanto nell’elenco di quelle «nobili et antiche» della città quanto nel «sommario» di quelle che godevano di una rendita annua dai mille ducati in su (G. Da Lezze, Descrizione di Bergamo e suo territorio 1596, a cura di V. Marchetti - L. Pagani, Bergamo 1988, pp. 150 s.). Tracce dei Moianoni – un cognome per il quale non è da escludere un’ascendenza toponomastica, in un territorio dove sono attestati Moi, Moia, Moio (cfr. P. Borselli, Dizionario di toponomastica bergamasca …, Firenze 1990, p. 191) – affiorano da atti notarili del Tre-Quattrocento della Valdimagna. A Sotto il Monte le sorelle Maria e Orsola del fu Beltrano Moianoni possedevano un appezzamento di due pertiche ed erano tenute, anche per legato di Giovanni Moianoni, alla distribuzione, ogni tre anni, d’un peso di sale, come risulta da legati e obbligazioni della parrocchiale di S. Giovanni Battista (in Gli atti della visita apostolica di s. Carlo … a Bergamo (1575), a cura di A.G. Roncalli, II, 3, Firenze 1957, p. 239).
In una città quale la Bergamo cinquecentesca, in cui il perseguimento dell’eresia s’avviò nel 1546 col processo a carico del notaio Giorgio Medalago, per inasprirsi sino al 1554, il M. nel 1553 fu accusato dal tribunale inquisitoriale di dubitare della transustanziazione, misconoscere l’autorità pontificia, irridere al celibato ecclesiastico, non riconoscere il sacramento della confessione e pure di essere scettico sull’esistenza del purgatorio.
Non è da escludere che il M. fosse stato suggestionato da Camillo Renato, che comparve a Bergamo a fine agosto del 1552 in occasione della fiera di S. Alessandro. Renato, uomo «di malla natura et pieno di luterane et diaboliche opinioni», nemico della «fede catholica», fu subito fatto arrestare dai rettori Costantino Priuli e Francesco Bernardo, che di lì a poco furono costretti a rilasciarlo in nome dei buoni rapporti tra la Serenissima e i Grigioni, le cui autorità dichiararono che Renato era «cittadino» grigione, «compatriota nostro», a Bergamo «in transito» per i suoi affari. Invece – secondo i rettori – Renato avrebbe fatto un po’ di propaganda alle proprie «false opinioni» (e tra queste quella «che morto il corpo morta sia l’anima» e quella del battesimo impartito all’infante inconsapevole); e nel suo alloggio furono sequestrate «scritture contro la fede».
Durante il processo il M., per evitare la condanna a morte, fu costretto a rinnegare pubblicamente le credenze ereticali addebitategli e ad abiurare nel Palazzo episcopale. Coll’andar degli anni, questo episodio giovanile fu dimenticato o, per lo meno, sembra essere stato allora privo di conseguenze: all’inizio degli anni Settanta, la Cancelleria recepì l’argomentata dimostrazione tecnica del M. sull’erroneità dei dati dei «livellatori» relativamente alla roggia Fossà; successivamente il M., nella sua qualità di ingegnere, propose ai 72 membri del Consiglio maggiore e ai 12 membri del Consiglio degli anziani un’elaborata proposta d’intervento idraulico di respiro.
La proposta – ripresa e vivacizzata a mo’ di discussione tra «Pomponio» e «Aliteo», ossia due suoi eminenti concittadini – uscì a Milano nel 1575 come Dialogo, intitolato il Laberinto … nel quale si narra tutto il successo occorso in merito alla sua proposta alla … comunità di Bergamo in materia di fare un naviglio da Sovere a Bergamo, et fino quasi alla Calonica, con livellatione, viaggio, et conto della spesa che si farà in condurre detto naviglio. Con protesto di havere il beneficio delli 20 per cento, iusta la parte di 30 agosto 1572. Il 16 ott. 1574 presentò il progetto operativo per l’esecuzione del tratto navigabile da Sovere, in val Seriana, a oltre Bergamo, sin nei pressi di Calonico o Canonega o Canonica, oramai nella Ghiara d’Adda, là dove il Brembo sbocca nell’Adda. Il M. argomentava che risultato dell’operazione sarebbero stati l’intensificarsi dei traffici agevolati dal trasporto acqueo, il «beneficio degli edifici da farsi» lungo il nuovo percorso quali i mulini e installazioni manifatturiere utilizzanti la forza idraulica, nonché la destinazione alla produzione agricola di almeno 300.000 pertiche di terra sino allora pressoché sterili e incolte. Incoraggiato da molti gentiluomini, il M. intraprese a misurare e rimisurare il tratto da dove intendeva «fare la testa» sino a Bergamo, non solo pensando al trasporto di uomini e cose, ma anche alla derivazione d’almeno una ventina di canali, coi quali irrigare terreni sino allora improduttivi, persuaso che questi sarebbero divenuti «bonissime possessioni», capaci di produrre 40.000 «some» di grano all’anno, con gran vantaggio dei proprietari e, per quanto attiene ai dazi, della Serenissima.
Il M., che si proclamava latore d’un progetto assolutamente originale, s’affannò a ispezionare, sondare, livellare il percorso – assistito nel «disegno» col minuzioso riporto dei dati a mano a mano acquisiti dal figlio Giovanni Artemio (si deduce dalla presenza di questi che il M. fosse sposato e padre di famiglia) – e a insistere perché fosse finanziata un’ulteriore «livellatione». Questa, affidata a una squadra di periti retribuiti, avrebbe dovuto procedere coi rilevamenti «da luogo a luogo». Ma, a questo punto, l’iniziale consenso al «naviglio» sul quale il M. contava venne meno: rivelandosi già costosi i preliminari per fissare il tracciato, si dubitò dell’effettiva convenienza dell’esecuzione, paventandosi, in ogni caso, spese spropositate per l’attuazione e per la manutenzione.
La negata assunzione delle spese per le indagini preliminari – impostate sì dal M., ma perseguibili sistematicamente soltanto col concorso d’esperti – impedì la presentazione d’un progetto compiuto, dettagliato e persuasivo. Amareggiato, il M. si sentì come «propheta» inascoltato, come grande ingegnere idraulico misconosciuto proprio nell’ingrata «patria sua». La stampa del Laberinto, allora, volle essere un accorato appello indirizzato ai rettori, perché sostenessero la bontà dell’iniziativa in sede di governo, essendo da questo autorizzati a convincere la «comunità». Tuttavia la pubblicazione dell’opera fu accolta da un assordante silenzio, forse anche perché la comparsa della peste concentrò le attenzioni di Palazzo ducale e dei rettori a Bergamo. Pertanto, al finire dell’epidemia, il M. tornò alla carica nel 1577 con un’altra proposta, questa volta meno grandiosa e dispendiosa. Intendeva derivare dal Brembo due canali: uno per irrigare Isola – quella sorta di triangolo circondato dalle acque del Brembo e dell’Adda sino allora scarsamente produttivo – per valorizzarne la produzione granaria; l’altro per introdurre il trasporto «in barca». Questa volta il progetto fu preso in considerazione, ma non attuato. Nel 1593 fu aperta non una via acquea, ma la terrestre «strada nova» – quella che dalla bergamasca porta S. Lorenzo esita a Morbegno –, subito chiamata strada «Priula», dal nome d’Alvise Priuli, il podestà di Bergamo che l’aveva voluta nel 1590-93 avvalendosi di Giovan Giacomo Maffei, un artigiano di Zogno «soprastante» nei lavori. Questi, in seguito, fu autore di «arichordi» coi quali si spinse a prospettare la realizzazione d’un naviglio dall’Adige all’Adda e fu fautore, in un memoriale al Senato del 1604, della realizzabilità d’un canale navigabile tra il Brembo e l’Adige da abbinare alla strada Priula. Non è noto se Maffei avesse letto il Laberinto o fosse informato in merito alla successiva proposta del 1577 del M., ma forse evitò di nominarlo di proposito.
Forse la considerazione accordata alla proposta del 1577 cessò tutto d’un tratto allorché, come annota il pubblico notaio Geminiano de Anteneris de Novellis – smentendo il podestà Giacomo Contarini che, il 25 maggio 1579, aveva riferito in Senato non essersi appurato, nel biennio appena trascorso del suo reggimento bergamasco, il minimo sospetto di eresia – il M. fu costretto, il 26 febbr. 1580, a presentarsi al cospetto del vescovo Girolamo Ragazzoni e dell’inquisitore, il domenicano saluzzese Ludovico Bulla, con l’accusa di essere ricaduto «in easdam» – e pure «in alias» – «hereses» cui, ancora nel 1553, aveva abiurato. Sottoposto a tortura, continuò ostinatamente a negare senza che venissero raccolte sufficienti testimonianze comprovanti le opinioni ereticali imputategli. Sebbene vescovo e inquisitore fossero persuasi che l’abiura del 1553 non fosse stata sincera e che il M. fosse vissuto per decenni nutrendo pervicacemente le proprie convinzioni eterodosse, la mancanza di prove impedì di condannarlo a morte, comminandogli piuttosto il carcere perpetuo, di fatto ammorbidito con gli arresti domiciliari a vita.
È ignoto l’anno della morte del M., forse già collocabile a ridosso della condanna al domicilio coatto.
Fonti e Bibl.: Dublino, Trinity College Library, Mss., 1225, II, c. 118r; Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, XII, Milano 1978, p. 147; D. Calvi, Effemeride sagro-profana di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, II, Milano 1676, p. 590; III, ibid. 1677, p. 395; Vicebibliotecario [G. Locatelli], Progetto di canali a Bergamo …, in Bollettino della Civica Biblioteca di Bergamo, XVIII (1924), pp. 29-32, 76; G. Cozzi, La strada di S. Marco …, in Archivio storico lombardo, s. 8, VII (1957), pp. 114-148; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, Bergamo 1959, ad ind.; Storia … di Bergamo. Il tempo della Serenissima. L’immagine della Bergamasca, Bergamo 1995, ad indicem.