MORTARA, Lodovico
– Nacque a Mantova il 16 aprile 1855 da una famiglia benestante. Il padre, Marco (Mordekai), uomo di vasta e profonda cultura, era il rabbino maggiore della Comunità israelitica di Mantova, motivo per cui Mortara fu spesso denominato «il figlio del rabbino»; la madre, Sara Benedetta Castelfranco, era molto più giovane del padre; la coppia ebbe anche un altro figlio e due figlie.
Il giovane Mortara visse in un’atmosfera familiare caratterizzata da grande armonia, ma anche da uno stile di vita improntato alla rigorosa osservanza di riti e pratiche religiose. Nella sua autobiografia chiarisce di aver avuto un primo periodo di intensa religiosità che, fra il quindicesimo e il sedicesimo anno, si trasformò in una forma di agnosticismo (ma non di scetticismo), accompagnata dalla convinzione che «l’onestà e la rettitudine sono dettate dalla intelligenza e non dal così detto timor di Dio» (1933, p. 44). Tali convinzioni, accolte con rispetto dal padre, gli procurarono incomprensioni con la Comunità israelita, soprattutto quella di Mantova.
Dotato di vivace intelligenza, percorse rapidamente i primi gradi dell’istruzione e, a soli 11 anni, ottenne l’ammissione alla quinta classe ginnasiale; seguì poi i corsi regolari del liceo.
Nell’autobiografia ricorda che la sua formazione intellettuale e morale fu guidata da due maestri: innanzitutto il padre, che fu il principale suo istruttore ed educatore e lo introdusse nel suo studio, nobilitato da una ricca biblioteca; nel periodo liceale il professore di filosofia Roberto Ardigò, il quale, a metà del primo anno del corso, smise l’abito talare e successivamente fu professore di storia della filosofia all’Università di Padova e massimo esponente del positivismo italiano.
Si iscrisse poi all’Università di Mantova e nel 1874, a 19 anni, conseguì la laurea in giurisprudenza, discutendo una tesi di procedura civile che ottenne la dignità di stampa ma non fu mai pubblicata. Iniziò, quindi, a esercitare la professione di avvocato nella sua città e diede alle stampe i primi suoi lavori su argomenti di procedura civile. Nel 1882, su suggerimento di Enrico Ferri, allora professore di diritto penale a Bologna, da autodidatta presentò la domanda e ottenne la libera docenza in procedura civile e ordinamento giudiziario presso l’Università di Bologna.
Nel 1883 sposò Clelia Vivanti, che fu per 28 anni compagna amorosa e consigliera intelligente. Ebbero cinque figli, due maschi e tre femmine: il primogenito Giorgio (1885) divenne statistico ed economista di fama internazionale; la quarta, Nella, fu docente di fisica sperimentale.
Nel 1885 pubblicò la monografia Lo Stato moderno e la giustizia, destinata a essere riedita dopo oltre un secolo. Luigi Mattirolo, all’epoca il maggior civilprocessualista italiano, lo esortò a partecipare ai concorsi universitari. Mortara seguì il consiglio e, nel 1886, risultò vincitore di due concorsi a cattedra per procedura civile e ordinamento giudiziario: come ordinario presso l’Università di Catania e straordinario presso l’Università di Pisa, per la quale optò e nella quale fu nominato ordinario il 18 marzo 1888. La facoltà giuridica pisana gli conferì anche l’insegnamento prima di diritto amministrativo e scienza dell’amministrazione e poi di diritto costituzionale. Nel 1898 venne chiamato all’Università di Napoli, sempre sulla cattedra di procedura civile e ordinamento giudiziario. Nel 1901 fondò l’Università popolare di Napoli e ne assunse la presidenza.
All’inizio del XX secolo Mortara, che aveva già al suo attivo la pubblicazione di numerose opere di largo successo, era ormai considerato il massimo esponente della civilprocessualistica italiana. Alla sua scuola si erano formati due studiosi di non comune levatura: Carlo Lessona, che fu il suo successore nella cattedra pisana, e Federico Cammeo, che divenne un illustre amministrativista. Tuttavia, presentate le dimissioni dall’Università di Napoli, nel 1903 Mortara decise di entrare in magistratura, dove rimase per 21 anni, quasi tutti in Cassazione.
Il passaggio di Mortara dalla cattedra universitaria allo scranno di magistrato è stato oggetto di diverse interpretazioni. Già Piero Calamandrei (1937, p. 159) sottolineva la singolarità di tale decisione, che Salvatore Satta (1968, p. 15) ha collegato all’avvento di Giuseppe Chiovenda e del suo ‘germanesimo’ e, quindi, al distacco fra la vecchia procedura e il nuovo diritto processuale. Franco Cipriani (1990, pp. 770; 1991, p. 84) però nota un’incongruenza di date: quando Mortara lasciò la cattedra Chiovenda era appena trentenne e soltanto straordinario all’Università di Parma; la sua celebre prolusione su L’azione nel sistema dei diritti fu pronunciata il 3 febbraio 1903 e i suoi Principii di diritto processuale civile furono pubblicati in un’edizione parziale solo nel 1906. Parlare di ‘germanesimo’ nel 1902 è dunque prematuro e Cipriani sposta la vicenda dal piano scientifico a quello – meno esaltante – dell’accademia. Le dimissioni di Mortara rappresenterebbero la reazione alla chiusura nei suoi confronti della facoltà giuridica di Roma: essendosi nel 1899 resa vacante la cattedra di procedura civile per il passaggio di Enrico Galluppi al Consiglio di Stato, al fine di evitare l’apertura del concorso per la sua copertura, fu chiesto e ottenuto, nel 1901, il comando di Vincenzo Simoncelli, ordinario di diritto civile a Pavia, che l’anno successivo divenne ordinario di procedura civile a Roma. Secondo Nicola Picardi (1998, p. 84; 2003, pp. 357 ss.), è più corretto storicizzare il problema e valutare l’episodio alla luce delle opinioni dell’epoca, quando i passaggi dalla cattedra alla magistratura erano piuttosto frequenti (anche nel campo dei processualisti: basti ricordare le scelte di Luigi Borsari, Matteo Pescatore e Giuseppe Saredo, nonché di Galluppi), rivestivano carattere premiale e, inoltre, potevano eventualmente aprire prospettive politiche. Per Mortara vi era anche l’ulteriore vantaggio di entrare in Cassazione a 47 anni, in un’epoca in cui l’età media dei consiglieri era di 60 anni, con la prospettiva, quindi, di coprire per un lungo periodo le cariche di procuratore generale e di primo presidente, ciò che puntualmente si verificò, anche se per un periodo ridotto.
Dal 1903 al 1905 fu consigliere di Cassazione; dal 1905 al 1907 fu procuratore generale a Cagliari e primo presidente ad Ancona; all’inizio del 1908 tornò in Cassazione come avvocato generale a Roma, nel 1909 fu nominato procuratore generale a Palermo, nel 1911 a Firenze e nel 1912 a Roma; dal 1915 al 1923 fu primo presidente della Cassazione romana.
Il contributo di Mortara in magistratura fu indubbiamente rilevante. Basti ricordare la sua relazione quale procuratore generale di Roma per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 1912 sul tema La giustizia nello Stato democratico, nella quale affermò con forza l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario. Fu inoltre artefice e ispiratore dell’evoluzione della giurisprudenza nel primo quarto del XX secolo. Particolare notorietà ebbero la sentenza della Corte di Appello di Ancona del 1906, che sanciva il diritto delle donne all’iscrizione nelle liste elettorali, e le sentenze della Cassazione del 1922 sulla legittimità dei decreti legge.
Significative furono anche le sue esperienze politiche. Nel 1880 entrò a far parte della Società democratica, raggruppamento politico progressista che seguiva l’indirizzo di Giuseppe Zanardelli, deputato della Sinistra e ministro dell’Interno: una manifestazione di indipendenza stigmatizzata dagli ebrei mantovani, per lo più iscritti all’Associazione costituzionale, che rappresentava la Destra parlamentare e fin dal 1867 monopolizzava l’amministrazione del Comune e della Provincia. Alle elezioni Mortara fu eletto consigliere comunale e, successivamente, fu primo eletto nella Giunta, ma gli mancarono solo i tre voti dei consiglieri ebrei. Dopo il matrimonio si dimise da assessore e, anche su consiglio della moglie, rinunciò a ogni aspirazione alla politica locale. All’inizio del Novecento ebbe nuove occasioni di coinvolgimento nella politica ma stavolta sul piano nazionale. A parte l’esperienza come capo di gabinetto del ministro guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando, nel 1907, fu nominato il 26 gennaio 1910 senatore del Regno e in quella funzione svolse importanti interventi, come il discorso del 1912 sul nuovo codice di procedura penale (tuttora in vigore nello Stato della Città del Vaticano), di cui era stato il principale artefice e che era basato sul principio, all’epoca modernissimo, della presunzione d’innocenza dell’imputato. Alla fine della prima guerra mondiale Orlando lo chiamò a presiedere la Commissione reale sulle violazioni dei diritti delle genti commessi dal nemico (commissione progenitrice dei tribunali di Norimberga e di Tokyo). Valido suo coadiutore, quale segretario, fu Alberto Asquini. Per l’opera svolta in tale commissione, a Mortara fu conferita la nomina a ministro di Stato.
Gli incarichi politicamente più rilevanti gli giunsero con il primo e il secondo governo di Francesco Saverio Nitti, che era stato suo collega all’Università di Napoli ed era rimasto suo grande amico. Dal 1919 al 1920 Mortara dovette sospendere le funzioni di primo presidente della Cassazione per assumere quelle di ministro di Grazia, giustizia e culti. La circostanza che ministro dei Culti, a Roma, fosse il «figlio del rabbino» non poteva non suscitare delle riserve. Ma due sue scelte fugarono ogni perplessità: il primo provvedimento adottato fu il decreto per l’aumento delle congrue parrocchiali e con un successivo provvedimento sciolse d’autorità il Consiglio direttivo della Cheilà di Firenze, che aveva sperperato i denari dei suoi contribuenti per pubblicare il giornale Comune ebraico. Altre sue iniziative ebbero ancor più vasta risonanza, come la legge 1176 del 1919, che affrancò le donne dall’autorizzazione maritale; ma il contributo più importante di Mortara come ministro è indubbiamente rappresentato dall’articolato disegno di legge sulla riforma giudiziaria, con ampia relazione. Il documento – integralmente pubblicato da Mortara sulla rivista Giurisprudenza Italiana (1920, pp. 1 ss.) – è stato definito un progetto impossibile (F. Genovese, L. M. guardasigilli e il “progetto” impossibile (ovvero l’utopia italiana di una magistratura di estrazione non “burocratica”), in Le carte e la storia, X, 2004, pp. 191-200). Quando, nel 1920, Nitti, che era anche ministro dell’Interno, dovette recarsi all’estero per le conferenze internazionali postbelliche insieme con Tommaso Tittoni, ministro degli Affari esteri, a Mortara fu conferito l’incarico della vicepresidenza del Consiglio nonché l’interim dei ministeri dell’Interno e degli Esteri.
La sua esperienza di governo fu limitata nel tempo ma molto intensa e legata alle vicende politiche di Nitti. Il 29 ottobre 1920, alla proposta dello stesso Nitti di tornare a più alti impegni politici (probabilmente la presidenza del Consiglio dei ministri) Mortara oppose un netto rifiuto: «grazie, ma è cosa impossibile … non ho e non ho mai avuto la passione del potere politico, anzi ora sento la più viva ripugnanza persino all’idea di ritornare … ministro della Giustizia» (Genovese, 2004, pp. 193 s.).
Fu collocato a riposo nel 1923 a opera del governo Mussolini in anticipo rispetto al R.D. 1978 del 1921 con il quale il governo Bonomi aveva portato da 75 a 70 anni l’età per il pensionamento dei magistrati.
Con l’avvento del fascismo il conflitto fra Mortara e Mussolini era inevitabile, non solo perché Mortara era stato il vice di Nitti (Cipriani, 2004, p. 294), ma soprattutto perché alla fine del 1922 si era assunto, come presidente ed estensore, tutta la responsabilità di due coraggiose sentenze: l’una delle Sezioni Unite, l’altra della 1ª Sezione penale (Picardi, 2003, pp. 367 ss.). Le Sezioni Unite avevano stabilito che i decreti legge, con i quali era solito legiferare il governo, erano in sé atti arbitrari, eccedenti la sfera del potere esecutivo e che l’autorità giudiziaria aveva il potere di accertare se il governo avesse presentato o meno il decreto al Parlamento per la conversione in legge e se, nella specie, ricorresse comunque il requisito dell’urgenza. La 1ª Sezione penale dedusse da tali principi che le sanzioni fissate dai predetti decreti legge non avrebbero potuto essere applicate se il decreto non fosse stato convalidato dal Parlamento. Mortara si era, però, espresso – anche da ultimo (1917, p. 58; 1920, art. 8) – per l’unificazione delle Cassazioni regionali. In questo caso il governo fascista, con R.D. 601/1923, fece proprio tale orientamento e provvide alla soppressione delle Cassazioni regionali, trasformando la Cassazione di Roma in Cassazione del Regno. Con R.D. 1028/1923 sulla dispensa dal servizio di magistrati inabili o incapaci, venne peraltro previsto, all’art. 3, che il Consiglio dei ministri potesse allontanare dal 1° novembre 1923 i vertici delle cinque Cassazioni regionali. In applicazione di tale norma, Mortara – personaggio autorevole ma scomodo – fu collocato in pensione.
Tornò a esercitare, con grande prestigio, l’avvocatura e continuò a dirigere la rivista Giurisprudenza Italiana, ruolo che aveva assunto dal 1892 e che costituì uno dei principali interessi della sua vita intellettuale.
Morì a Roma il 31 dicembre 1936. Volle essere sepolto nel cimitero israelitico di Mantova, accanto ai genitori e alla moglie, e non volle essere commemorato dal Senato del regime fascista.
Mortara non ha avuto né studi in onore né studi in memoria e la sua opera sembrava destinata all’oblio, quando, a oltre 30 anni dalla sua morte, nel 1968, Salvatore Satta ha avuto il merito di riaprire la ‘grande pagina’ del «figlio del rabbino», a cui nel 1997 l’Accademia nazionale dei Lincei ha consacrato una ‘giornata lincea’.
Opere: oltre a quelle citate si segnalano: Il processo sommario, Mantova 1879; Alcune questioni di diritto e procedura civile, ibid. 1884; Lo Stato moderno e la giustizia, Torino 1885 (rist., con prefazione di A. Pizzorusso, Napoli 1992); Sui progetti di riforma dei procedimenti civili, Mantova 1886; La lotta per l’eguaglianza. Prolusione al corso di diritto costituzionale fatto per incarico nell’Università di Pisa (1889), in Quaderni fiorentini, XIX (1890), pp. 145-162 (alle pp. 121-143 una completa bibliografia di Mortara); Natura e appellabilità del provvedimento di omologazione del concordato, Città di Castello 1890; La riforma del procedimento sommario.Relazione al III Congresso giuridico nazionale … Firenze, Firenze 1891; Un pericolo sociale: la decadenza della magistratura in Italia, in Riforma sociale, II (1894), pp. 617 ss.; Appello - Appello civile, in Digesto italiano, III (1890), 2, pp. 380 ss.; Principi di procedura civile, Firenze 1895, 1905, 1930 (con il titolo Istituzioni di procedura civile), 1937; Istituzioni di ordinamento giudiziario (1890), Firenze 1896, 1906; Manuale della procedura civile, I-II, Torino 1898, 1929; Per la istituzione di un Tribunale supremo dei conflitti di giurisdizione. Prolusione al corso di procedura civile nella R. Università di Napoli (1898), in Il Filangeri, 1899, pp. 1 ss.; Commentario del Codice e delle leggi di procedura civile, Milano 1899-1909, 1923; La sovranità civile della scienza (Discorso), Napoli 1901; Le piccole espropriazioni, Milano 1901; Per la riforma dei procedimenti di esecuzione forzata, Napoli 1901; Della nullità delle donazioni e delle disposizioni testamentarie a favore delle corporazioni religiose soppresse, per mezzo d’interposte persone, Torino 1908; La giustizia nello Stato democratico. Relazione del P.G. per l’inaugurazione dell’anno giudiziario della Cassazione, Roma 1912 (anche in Lo Stato moderno e la giustizia, ristampa 1992 cit., pp. 157 ss.); Sul nuovo Codice di procedura penale, Roma 1912 (discorso al Senato); Dell’esercizio delle azioni commerciali e della loro durata (1884), 4a ed. in collab. con G. Azzariti, Torino 1914, 6a ed. ibid. 1933; Intorno ai problemi dell’ordinamento giudiziario, in Giurisprudenza italiana,1917, vol. 4, pp. 58 ss.; Per la riforma giudiziaria. Relazione e disegno di legge, ibid., 1920, vol. 4, pp. 1 ss.; Spiegazione pratica del Codice di procedura penale (in collab. con U. Aloisi), Torino 1922; Breve commento alle nuove disposizioni sulla competenza civile dei pretori e conciliatori e il procedimento di ingiunzione, Torino 1923; Per il nuovo Codice di procedura civile: riflessioni e proposte, Torino 1923; Pagine autobiografiche (1933), in S. Satta, Quaderni del diritto e del processo civile, I, Padova 1969, pp. 34-65.
Fonti e Bibl.: P. Calamandrei, L. M., in Rivista di diritto civile, 1937, n. 39, pp. 466 s. (e in Id., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, X, Napoli 1985, pp. 156-160); G. Mortara, Appunti biografici su L. M. (1955), in Quaderni fiorentini, XIX (1990), pp. 112 ss.; S. Satta, Attualità di L. M., in Giurisprudenza italiana, 1968, vol. 4, pp. 65 ss. (e in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, pp. 459 ss.); G. Tarello, Chiovenda, Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 35 s.; F. Cipriani, Le dimissioni del prof. M. e i «germanisti» del preside Scialoia, in Rivista di diritto processuale, XLV (1990), pp. 770 ss.; Id., Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano 1991, pp. 84 ss.; Id., Ideologie e modelli del processo civile. Saggi, Napoli 1997, pp. 239 ss.; N. Picardi, L. M., magistrato, in Giustizia civile, XLVIII (1998), pp. 1594 ss.; Accademia nazionale dei Lincei, Giornata lincea in ricordo di L. M. … Roma, 17 aprile 1997, Roma 1998 (introduzione di V. Denti e relazioni, fra le altre, di G. Conso, M. e il processo penale, pp. 77 ss.; E. Fazzalari, L. M. nella cultura processualistica italiana, pp. 9 ss.; A. Montesano, Rapporti e conflitti tra giurisdizione civile e potere legislativo ed esecutivo nel primo volume del commentario di L. M. e in dottrina e sentenze di ieri e di oggi, pp. 27 ss.; V. Colesanti, M. e le riforme processuali. La prima fase (1901-1912), pp. 49 ss.; M. Taruffo, L. M. e il progetto di riforma del codice di procedura civile(1923), pp. 65 ss.; oltre alle relazioni di Cipriani e Picardi pubblicate rispettivamente anche in Ideologie e modelli … cit. e in L. M., magistrato … cit.); N. Picardi, L. M. nel centenario del suo giuramento in Cassazione, in Rivista di diritto processuale, LVIII (2003), pp. 354 ss.; F. Cipriani, L. M. nel centenario del giuramento in Cassazione, ibid., LIX (2004), pp. 279 ss.; Id., L. M. e il silenzio delle parti, in Giusto processo civile, 2006, pp. 223 ss.; Id., Un ondivago Calamandrei, qui fra Lessona e M. sulla Cassazione unificata a Roma, e in prospettiva su quant’altro …: uno «strano» allievo poiché senza «osservanza»?, in Rivista di procedura civile, 2008, pp. 1319 ss.