Logica come scienza del concetto puro
La Logica come scienza del concetto puro (d’ora in poi Logica) esce nel 1909 quale seconda parte della Filosofia come scienza dello spirito, la prima parte essendo costituita dall’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale pubblicata nel 1902 presso l’editore Sandron, ristampata nel 1904 e infine, con la 1a edizione Laterza del 1908, rivista e significativamente modificata per accordarla con la sistemazione concettuale raggiunta nel frattempo. Del 1909 è anche la Filosofia della pratica. Economica ed etica, segnato come terzo libro della quadrilogia, ma compiuto prima della Logica. A chiudere la serie verrà il volume di Teoria e storia della storiografia, pubblicato nel 1915 in edizione tedesca e in italiano nel 1917. Può avere ora il suo dispiegamento l’intuizione originaria dell’unità e intrinsecità cosmica. Su questo dato non ulteriormente deducibile si fonda il concetto della filosofia come storia, pensiero dell’universale nella sua concretezza e dunque adeguazione di conoscenza e realtà: «L’unica realtà (comprendente in sé uomo e natura, solo empiricamente e astrattamente separati), [che] è tutta svolgimento e vita» (Teoria e storia della storiografia, 2007, p. 112).
Ma è il libro della Logica ad assicurare i riferimenti decisivi dell’itinerario all’individuale con cui si identifica la ricerca di Croce. La filosofia è scienza dello spirito, cioè riconoscimento della totalità vivente e onnicomunicante, e il concetto puro è la forma conoscitiva specifica della realtà quale continuum di infinite individuazioni. Il libro si dichiarava, nella sua prima uscita presso Laterza, come «seconda edizione interamente rifatta». Questo – avverte la premessa datata «nov. 1908» – considerando quale 1a edizione la memoria Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro pubblicata negli «Atti dell’Accademia pontaniana» nel 1905. Anche se il volume del 1909 può dirsi 2a edizione solo in senso relativo: «È una seconda edizione del mio pensiero, piuttosto che del mio libro» (Logica, 1996, p. 7).
Se infatti, con la distinzione tra concetti filosofici e pseudoconcetti (astrazioni e generalità empiriche) delle scienze, i Lineamenti avevano fatto il passo fondamentale per quella logica del concreto che ha la sua celebrazione nella Logica, si restava ancora al di qua dell’identificazione di giudizio definitorio e giudizio individuale, con la quale nell’opera del 1909 viene portata a piena coerenza, depurata dei residui formalistici e naturalistici, la risoluzione della filosofia nella conoscenza storica. In una postilla al capitolo intitolato “Identità di filosofia e storia” Croce teneva a rivendicare, pur nei cambiamenti, la continuità della problematica rispetto al proprio esordio filosofico con la memoria del 1893 dove la storia era distinta dalla filosofia e ridotta sotto il concetto generale dell’arte:
Dopo sedici anni, sostengo invece che la storia è filosofia, anzi che storia e filosofia sono la medesima cosa. Le due teorie sono certamente diverse, ma meno assai di quanto sembri all’apparenza, e, a ogni modo, la seconda è svolgimento e perfezionamento della prima. Elle a bien changé sur la route, senza dubbi; ma si è cangiata senza discontinuità e salti (Logica, cit., p. 233).
E ripercorreva le tappe del progresso («lento e faticoso, perché lento e faticoso è stato per gli uomini della mia generazione ripigliare coscienza di quel che sia veramente Filosofia») che attraverso l’Estetica e i Lineamenti di logica lo aveva gradatamente portato a dissolvere il pregiudizio di una filosofia precedente e indipendente rispetto alla realtà concreta. Per cui, alla fine,
dall’accentuazione del carattere di concretezza, che la storia ha rispetto alle scienze empiriche e astratte, sono passato via via ad accentuare il carattere di concretezza della filosofia; e, condotta a termine la critica della duplice astrattezza, le due concretezze (quella che avevo rivendicata dapprima alla storia, e quella che ho rivendicata poi alla filosofia) mi si sono dimostrate, in ultimo, una sola (Logica, cit., pp. 234-35).
La logica è scienza del concetto puro, ossia riconoscimento del modo per cui si conosce la realtà. Il concetto è puro non perché configuri un’universalità vuota, da riempire di contenuti provenienti dall’esterno, ma in quanto forma propria del giudizio di verità, nel quale si risolve interamente ogni acquisizione conoscitiva. Il concetto è universale concreto – formula con cui Croce riprende e riadatta al proprio discorso la tematica hegeliana del pensiero o concetto concreto –, vale a dire categoria o modalità che si manifesta e sussiste unicamente nelle effettive prensioni conoscitive: «L’atto logico universale è insieme pensamento della realtà» (p. 55). È universale, cioè non è esauribile da alcun campo di rappresentazioni, per quanto ampio, ed è concreto, cioè si dà tutto nella realtà puntualmente conosciuta, che è sempre specifica e individuata.
In questo senso Croce può dire che il concetto è tanto trascendente quanto immanente, anzi che appunto «la sua trascendenza […] è insieme immanenza» (p. 54). I termini di scuola sono qui ripresi e riutilizzati per comunicare la propria visione dell’unità cosmica, integralmente spirito, storia, realtà creatrice che pulsa come concentrazione del tutto in sempre nuove individuazioni. Il carattere di trascendenza-immanenza è nella natura del concetto poiché è nella natura stessa della realtà. Ed è questa consustanzialità che fa la verità del concetto, la sua costitutiva adeguazione al reale.
La conoscenza logica non è un sapere di secondo grado, corrispondente a un livello generale sovrastante le rilevazioni particolari, non è una funzione per assemblare i dati empirici raccolti dalla percezione, non è una facoltà certificatrice delle note dei sensi, ma è piena realizzazione di quella che Croce chiama «discesa dell’universale verso l’individuale» (p. 212). Il concetto vive tutto nel «conoscere concreto e vero» (p. 124), e quindi come giudizio individuale:
Ma il giudizio individuale può prendere anche nome assai più noto e familiare, quello di percezione; come la percezione dovrebbe essere detta sinonimicamente giudizio individuale o almeno giudizio percettivo. […] Percepire vale apprendere una cosa come avente tale o tal’altra qualità, e perciò pensarla e giudicarla. Nemmeno la più lieve impressione, l’atto più fuggevole, la cosa più insignificante è da noi percepita se non in quanto è pensata. Donde la dignità suprema del giudizio individuale, che effettua tutta la conoscenza da noi in ogni istante prodotta, e pel quale solamente possediamo il mondo, anzi pel quale solamente un mondo è (Logica, cit., p. 125).
Il discorso ha il suo compimento nella terza sezione della prima parte del libro, intitolata “Identità del concetto puro e del giudizio individuale. La sintesi a priori logica”. Soltanto in astratto si può distinguere il concetto puro o giudizio definitorio dal giudizio individuale. Solo ai fini di una rappresentazione schematica si può scandire secondo una successione scalare il movimento del concetto che, incarnatosi nel linguaggio quale giudizio definitorio, riopera sulle intuizioni, producendo il giudizio individuale o percettivo. E solo per metafora si può qui parlare di applicazione del concetto alle intuizioni: a patto di avere chiaro che «il concetto non si applica all’intuizione, perché non esiste nemmeno per un attimo al di fuori dell’intuizione; e il giudizio è atto primitivo dello spirito, ossia è lo spirito logico stesso» (p. 163). Nonostante la secolare tradizione depositata nell’uso comune, dice Croce, non ha dunque alcun senso in logica (cioè nella realtà) la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, tra verità necessarie e verità contingenti, tra verità a priori e verità a posteriori, tra verità logiche o universali e verità storiche o particolari. Se in una definizione non sembra rinvenibile alcun elemento rappresentativo, vuol dire che si tratta di una definizione resa astratta e indifferente, mera formula verbale disposta a ricevere un estrinseco significato secondo il caso e il libito di chi se ne vuol servire. La definizione, l’unità conoscitiva, non è un acquisto tesaurizzabile sottratto allo scorrere della realtà, ma nasce sopra quel flusso e all’interno di esso, avendo origine sempre in un bisogno determinato, per rispondere a una domanda, per risolvere un problema, per sciogliere un groppo del vivere: domande, problemi, bisogni vitali storicamente condizionati, quindi sempre nuovi e varianti con le situazioni, i soggetti, a rigore i momenti di uno stesso individuo.
Ammessa la condizionalità individuale e storica di ogni pensamento del concetto ossia di ogni definizione […], si deve ammettere altresì che la definizione, la quale contiene la risposta e afferma il concetto, nel fare ciò illumini insieme quella condizionalità individuale e storica, quel gruppo di fatti da cui essa sorge. Lo illumina, ossia lo qualifica per quel che è, lo apprende come soggetto dandogli un predicato, lo g i u d i c a; e, poiché il fatto è sempre individuale, f o r m a u n g i u d i z i o i n d i v i d u a l e; ossia ogni definizione è insieme giudizio individuale (Logica, cit., p. 161).
Se «nella considerazione empirica l’individuo si cangia in qualcosa d’isolato, di ritagliato e di chiuso in sé» e come tale fissabile ed etichettabile in uno pseudoconcetto, «nella realtà l’individuo è la situazione dello spirito universale in un determinato momento» (p. 68).
«La discesa dal concetto puro verso l’intuizione» (p. 153), cioè il pensamento della realtà espresso nel concetto, corrisponde dunque perfettamente al processo per cui si crea continuamente il mondo, per cui il tutto vive in continue individuazioni. Conoscenza ed esistenza, pensiero e mondo, sono della stessa materia, tessuti nella medesima stoffa inconsutile. Piano gnoseologico e piano ontologico, per adoperare le partizioni canoniche, si confermano l’un l’altro, per identificarsi nel concetto logico. La storicità integrale – per la quale Croce tende sempre più a evitare la denominazione di idealismo, avvertita come equivoca, per preferire la definizione di spiritualismo o storicismo assoluto – sviluppa finalmente nella Logica tutte le sue determinazioni.
Questo segna uno spostamento deciso rispetto alla linea filosofica più accreditata e al dilemma gnoseologico che la contraddistingue. Il problema della conoscibilità del reale, con i dubbi sulla possibilità che il pensiero apprenda l’essere e gli interrogativi circa i limiti di tale capacità, è «un caso insigne di problema insussistente», dirà in un testo di dieci anni dopo (Sulla filosofia teologizzante e le sue sopravvivenze, in Nuovi saggi di estetica, 1991, p. 320). In una delle Note di logica apparse su «La Critica» del 1942-43, Croce indicherà l’origine di quel dilemma nel mancato conseguimento di una visione unitaria della realtà una volta venute meno le sicurezze dogmatiche della vecchia metafisica.
Appunto per la fiducia a più riprese scossa, e alla fine caduta, nella metafisica, succede al posto di essa l’idea del problema fondamentale, cioè della relazione del pensiero con l’essere, che ha uno spiccato rilievo, da potersi chiamare per certi rispetti il suo inizio, nel Discorso del metodo di Cartesio, e la sua affermazione piena nella Critica della ragion pura, la quale dié origine, particolarmente presso i neo-kantiani, a una speciale disciplina che prese il nome di epistemologia o di gnoseologia o di teoria della conoscenza (Di nuovo intorno alla «filosofia prima» e al «problema preliminare o fondamentale della filosofia», in Discorsi di varia filosofia, 2° vol., 2011, pp. 327-28).
La progressiva corrosione dei dualismi di soggetto e oggetto, interno ed esterno, spirito e natura, ha ormai mostrato l’esaurirsi di quello che era «anche in passato non veramente un problema filosofico (che vuol dire sempre particolare e individuato), ma un ingorgo di tutti i problemi per effetto dell’ostacolo che a risolverli il pensiero incontrava nelle immaginazioni della varia trascendenza» (p. 330).
Ancora in un breve appunto dello stesso periodo ribadirà così l’assunto essenziale della Logica:
Non si può col pensiero revocare in dubbio il pensiero e trattarlo a mo’ di una cosa che può non esser vera, giacché esso stesso è la verità. (Una “cosa che può non esser vera”, cioè un’asserzione fallace, non è in quanto tale un “pensiero falso”, ma un mero fatto passionale o pratico tra gli altri fatti passionali e pratici). Il pensiero, in questo riguardo, è sempre soggetto e non mai oggetto o cosa. Questo è detto contro la mal fondata ricerca della verità del conoscere e dei limiti del conoscere, che, tra gli altri nomi, prese quello di “Teoria della conoscenza” e di “Gnoseologia” (Il pensiero che non si può pensare, in Discorsi di varia filosofia, cit., p. 537).
Nel superamento dei dualismi – la «varia trascendenza», cioè i residui concettualmente non risolti tanto della vecchia metafisica quanto dell’ossessione gnoseologica che la sostituisce – Croce indicava il risultato del proprio lavoro filosofico.
Presupposto dell’attività logica, che è oggetto della presente trattazione, sono le rappresentazioni o intuizioni. Se l’uomo non rappresentasse cosa alcuna, non penserebbe; se non fosse spirito fantastico, non sarebbe neppur loico (Logica, cit., p. 29).
Questo l’inizio del libro della Logica. «Si suole ammettere – prosegue il testo – che il pensiero rimandi, come a proprio antecedente, alla sensazione», e un altro presupposto, «di frequente introdotto dai logici», è nel linguaggio (Logica, cit., pp. 29-30). Da questi assunti genericamente accolti Croce parte per ridefinirli e reinterpretarli, secondo una procedura pedagogica di sgombero e riassetto concettuale tipica in lui. Alla fine, le nozioni comunemente ricevute torneranno depurate e trasfigurate alla luce dell’elaborazione filosofica. Nell’immediato – si concede – per intendersi si può anche usare il vecchio termine di sensazione: a patto di liberarlo da qualsiasi immagine di una funzione passiva, riflesso di dati meccanicamente ricevuti dal di fuori. Riconosciuta come attività, come forma conoscitiva specifica, la sensazione si rivela allora un sinonimo dei termini, preferibili e meglio determinati, di rappresentazione o intuizione.
Quel che importa, a ogni modo, è ritenere bene in mente che l’attività logica o pensiero sorge sullo spettacolo variopinto delle rappresentazioni, intuizioni o sensazioni che si dicano, mercé le quali a ogni attimo lo spirito conoscitivo elabora in forma teoretica il corso del reale (Logica, cit., p. 30).
Lo stesso chiarimento vale per il linguaggio, da intendere nella sua intera realtà, non ristretto all’articolazione verbale, né identificato con le astrazioni delle classi grammaticali e delle parole del vocabolario o negli elementi apofantici del discorso, ma abbracciante tutte le modalità espressive. Il linguaggio in questo senso è interamente intuizione-espressione, rappresentazione-creazione, cioè l’elemento conoscitivo originario attraverso il quale si attua continuamente la presa della vivente realtà. Proprio attraverso la riflessione sull’estetica (scienza dell’espressione e del linguaggio, appunto) Croce aveva cominciato a porre i fondamenti sui quali può costruire nella Logica l’edificio compiuto della concezione della realtà come storia.
Le esigenze di un accompagnamento pedagogico dalla nozione consuetudinaria al nuovo concetto del primum conoscitivo sono ormai alle spalle quando Croce tanti anni dopo torna su quei temi nelle Note di logica. La prima di quelle note riprende proprio il tema della sensazione, ormai consumato come un mito residuale. Quel «concetto inafferrabile e impensabile» va ricondotto al «mito del dualismo di spirito e natura, d’interno ed esterno, di anima e corpo, e dei rapporti in cui entrerebbero tra loro». L’origine del mito di una «realtà esterna o natura che si dica» sta
nello scambio nel quale incorre così il pensare comune come il teorizzare filosofico tra la costruzione fisico-matematica che proietta nell’esterno meccanizzandola la viva realtà (e ha le sue buone ragioni per far ciò, conforme al proprio suo ufficio), e la verità della poesia e del pensiero (Il mito della sensazione, in Discorsi di varia filosofia, cit., pp. 302, 304).
Vediamo concentrati in quest’ultima frase i passaggi che avevano reso possibile il compimento raggiunto con la Logica: la poesia, l’attività fantastica creatrice di immagini, indispensabile grado conoscitivo; la forma dell’attività pratica, non conoscenza bensì azione, legittimata a ritagliare e fissare la realtà vivente attraverso leggi utilitarie e schemi di permanenza anch’essi necessari alla vita. Il principio della distinzione, nel riconoscere dignità concettuale ad ambedue le forme, permette di ritrovarne il pari valore, la stessa necessità categoriale nel tutto (spirito, storia, vita universale, Dio: termini trasfusi l’un l’altro nella visione crociana). In mancanza di ciò, si ricade nell’alternativa tra l’abbandono mistico e la destituzione di valore di una realtà posta come altra, oggettualità estranea di fronte a un soggetto originariamente vuoto di realtà: tra la rinuncia al pensiero, insomma, e le aporie del dualismo.
Riportando a «un qualcosa di moralmente imperioso» la propria fermezza nel mai transigere sui principi a base della propria concezione, scriverà nel 1941:
Direi che era un moto istintivo di difesa, se non sapessi che quello che in questi casi si chiama istinto, è un pensiero di verità, apparso dapprima come in barlume e che, mentre si viene lentamente svolgendo nel lavorio scientifico, già sta nel centro dell’anima e dirige quel lavoro stesso (Panlogismo, misticismo e distinzione, in Il carattere della filosofia moderna, 1991, p. 246).
Proprio la sua piena esplicazione nel libro della Logica ci aiuta retrospettivamente a vedere quel «pensiero di verità» all’opera, per quanto confusamente, fin dalle prime prove filosofiche di Croce.
Già con la memoria del 1893 sulla Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte – in quella che poteva presentarsi, e forse provvisoriamente comparire allo stesso autore, come una filiazione delle problematiche all’ordine del giorno nelle scuole tedesche circa lo statuto delle scienze del mondo storico rispetto alle scienze della natura – si prepara uno spostamento decisivo dal canone gnoseologico consegnato alla tradizione delle scuole. Sotto un’apparente questione di distribuzione dei territori conoscitivi si comincia a mettere in forse la mappa stessa sulla quale finora sono stati tracciati i confini e legittimati i possessi. Il punto decisivo, qui, non era tanto quello che colpisce nel titolo: la storia spostata dal campo della scienza e ricondotta «sotto il concetto generale dell’arte»; quanto l’assunto che permette tale assimilazione: il concetto dell’arte come conoscenza, come «rappresentazione della realtà» (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Primi saggi, 1919, 19513, p. 15). È il principio della fantasia produttrice di immagini, elemento primo e basilare della compenetrazione-creazione che è la conoscenza effettuale. Questa acquisizione, destinata a rivelarsi dirompente, resta per ora entro un quadro scolastico non superato.
La divisione tra due operazioni conoscitive, come le chiama nella memoria del 1893, quella rivolta alla conoscenza del particolare-concreto (nelle due forme dell’arte e della storia) e quella del generale-astratto (la filosofia-scienza), sembra lasciare impregiudicati i presupposti dualistici (dei metodi o dei contenuti) in cui resta bloccata la ricerca filosofica contemporanea: il che ha potuto far parlare di consonanze, se non addirittura di dipendenze, nei confronti del cosiddetto neokantismo delle scuole tedesche.
In verità, contro quel quadro gnoseologico si muove oscuramente l’esigenza filosofica originaria di Croce: quella di una logica dell’individuale, del vivente, della storia. La distinzione tra le due operazioni conoscitive è solo un puntello per questo. Pure, questo puntello non solo è mantenuto, ma allargato a un’intera impalcatura nell’Estetica, anzi per la precisione già nell’abbozzo del 1900. È qui che compare il ‛sistema’ di Croce. Si tratta di una struttura rigida e meccanica, negli stessi passaggi di implicazione successiva delle forme: il doppio grado teoretico dell’estetica come conoscenza dell’individuale e della logica come conoscenza dell’universale, cui fa riscontro nella pratica il doppio grado dell’utilità e della moralità. Croce ne riconoscerà presto le insufficienze, addebitandole a necessità didascaliche in un intervento al Congresso internazionale di filosofia tenuto a Bologna nel 1911. Così nel brano degli Atti del Congresso, quale Croce stesso terrà a richiamare:
[Croce] da quando, dieci anni fa, scrisse l’Estetica, è andato sempre approfondendo e precisando il suo pensiero, perché lo svolgimento dello spirito gli è apparso non già lineare, come lo esponeva più che per altro per ragioni di perspicuità didascalica nella Estetica, ma circolare: ogni grado dello spirito presuppone, nel loro ordine, tutti gli altri (Pagine sparse, 1919-1920, 19602, 1° vol., p. 334).
Nella Logica si precisa, a proposito del nesso dei distinti, il senso per cui «il simbolo della serie lineare è inadeguato al concetto, al quale meglio conviene il circolo» (p. 80).
Se proprio i suoi limiti renderanno l’esposizione iniziale quella più agevole da recepire e memorizzare, consegnandola alla perpetuazione nella manualistica delle scuole, essi dipendono in verità da intoppi teorici non sciolti, che si trascinano un armamentario concettuale poco adattabile. Croce stesso indicherà le linee del superamento che consente di liberarsi della primitiva struttura. A proposito del concetto di individuale, scrive su «La Critica» nel 1928,
non si teorizza più la poesia come rappresentazione dell’individuale, a contrasto della filosofia che è pensamento dell’universale; perché, posto il concetto dell’universale concreto, la poesia non è senza l’universale (come, da sua parte, la filosofia non è senza l’individuale, essendo sempre storicamente individuata). La si teorizza, dunque, come l’indistinzione d’individuale e universale, che a sua volta il pensiero media, ossia distingue insieme e unifica, convertendo il mondo della fantasia e della poesia nel mondo della filosofia e della storia. Similmente non si teorizza più la sfera delle passioni e delle utilità come quella dell’individualità verso la sfera morale che è dell’universalità, perché né nella prima è assente l’universalità né nella seconda l’individualità; ma la si teorizza come la sfera dell’ingenuità pratica in cui sono indistinti gl’interessi dell’individuale e quelli dell’universale […] (Sul concetto d’«individualità» nella storia della filosofia, in Ultimi saggi, 2012, p. 345).
E insieme giustificava quello stadio arretrato quale gradino di passaggio a un miglior concetto:
Sì, queste e altre cose noi sappiamo, che i vecchi pensatori, vindici della individualità contro l’astratto universale non sapevano e non vedevano, e noi stessi in un primo tempo non vedevamo, e non c’importava vedere, perché à chaque jour suffit sa peine (p. 345).
Che si trattasse di una struttura provvisoria, della quale non poteva soddisfarsi l’esigenza originaria, lo si vede proprio dalla difficoltà di collocarvi la conoscenza storica. Per l’esplicazione piena, realizzata con la Logica del 1909, sono necessari alcuni passaggi, che permettano di svincolarsi dai quadri ricevuti. La separazione di sfera dell’individuale e sfera dell’universale, mentre rende rigido il disegno iniziale delle forme dello spirito, fa sì che proprio la questione da cui Croce era partito, cioè la conoscenza storica, si ripresenti nell’Estetica in una collocazione imbarazzante, a metà strada tra i due territori che le spetterebbe unire. Il sinolo cui si tende resta dissociato nella duplicità di particolare e generale, di livello empirico e livello astratto.
Il passo risolutivo, realizzato con il primo abbozzo della Logica, sarà quello che attribuisce empiria e astrazione non a modalità del conoscere, ma a procedimenti dell’agire: non concetti di verità, ma schemi di operazioni pratiche con le quali si ferma a fini utilitari un mondo che in realtà è tutto un processo creativo di individuazioni, conoscibili solo in quanto tali. Si scioglie così l’associazione ambigua di filosofia e scienza, presente nelle prime due edizioni dell’Estetica e non abbandonata del tutto nemmeno nella 3a edizione malgrado i mutamenti intervenuti. A questo punto la storia, inadeguabile da un universale non distinto dal generale delle scienze, può finalmente riconnettersi alla filosofia: non due modalità, rivolte una all’universale e l’altra all’individuale, dietro le quali ricompare il dualismo delle sostanze (uomo e natura, spiritualità e materia, attività e meccanismo), bensì la conoscenza dell’unica realtà, integralmente storicità o vita.
Nel momento in cui non si riconosce più una forma teoretica dell’universale e una dell’individuale sorge un interrogativo: in che rapporto sono i due livelli conoscitivi, la filosofia-storia e la poesia-linguaggio, ambedue rivolti all’individualità, cioè all’unica realtà (non più distinguibile, neppure per approssimazione evocativa, in sfera noumenica e sfera fenomenica)? Inteso nella sua natura perennemente originaria di creazione poetica – cioè formazione di immagini, non convenzione circa segni o simboli – «il linguaggio […] è la prima presa di possesso della realtà» (Lineamenti di una logica come scienza del concetto puro, in La prima forma della “Estetica” e della “Logica”, a cura di A. Attisani, 1924, p. 143). Di quale realtà, rispetto a quella assunta e manifestata nell’elaborazione logico-storica? Che cosa coglie l’intuizione rispetto al concetto?
Di poco precedente l’inizio della scrittura della Logica, è la relazione tenuta nel settembre 1908 al Congresso internazionale di Heidelberg: L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte. Qui, sul piano dell’estetica, viene realizzato l’altro passaggio decisivo. L’intuizione pura si precisa intuizione lirica, cioè espressione di stati d’animo, come tale producentesi sul piano diretto e concettualmente indifferenziato della presa di realtà: dove l’oggetto non viene dal fondo estraneo di una natura ignota, ma è la stessa vita, la base volitiva, la forma pratica dell’unica realtà; e l’attività estetica è spirito che ritrova lo spirito dandovi voce in immagini, trasformando il sentimento in espressione, creando il campo di rappresentazioni su cui si fonda l’intero processo del conoscere.
Il circolo concettuale si chiude in questo volgere di tempo in cui è composto il libro della Filosofia della pratica e si prepara il libro della Logica. Possono adesso essere abbandonati in piena consapevolezza quei «residui di un certo naturalismo che è piuttosto kantismo» presenti, ricorderà lo stesso Croce, ancora nella prima Estetica (Contributo alla critica di me stesso, 1918, a cura di G. Galasso, 1989, p. 56). Perviene a coerenza la logica della filosofia-storia: riconoscimento della realtà vivente, che non sta come oggetto davanti all’io, non è un dato esterno al quale si applichi l’osservatore, ma è l’intera realtà, «la realtà onnipresente», «il fatto dei fatti» (Logica, cit., p. 195), di cui il pensiero è partecipabile in quanto sua modalità.
Questo fondamento categoriale, questa intrinsecità non è della sola forma logica. Il nesso di universale e individuale vale ugualmente per le altre forme, attraverso le quali tutte si afferma continuamente quel processo di puntualità viventi che è la realtà. Non è pensabile niente che sia non valore, niente che stia fuori di questo processo di forme e dunque fuori della realtà, la quale è interamente valore, spiritualità, attività, forma di forme. Vi è un campo di prodotti che non appartengono alla forma logica, che non sono conoscenze e non sono valutabili con il criterio della verità, senza per questo poter essere denunciati quali falsità né moralmente riprovati. Non si tratta di concetti falsi, di pensieri errati (quando si pensa, in quanto effettivamente si pensa, si è sempre sul terreno della verità), ma di formazioni che hanno in apparenza lo stesso carattere di generalità del concetto: finzioni concettuali, pseudoconcetti. Sono costruzioni non da rifiutare o da correggere, ma da distinguere riconoscendo anche in esse la necessità di «produzioni spirituali, che concorrono e giovano alla vita dello spirito» (p. 39). Dei concetti manca qui il carattere, la struttura delle categorie del giudizio, cioè onnirappresentatività e concretezza.
Gli pseudoconcetti sono empirici o astratti: hanno come contenuto un gruppo di rappresentazioni più o meno grande ma sempre limitato, quindi sono privi di universalità; oppure sono universali, ma vuoti di rappresentazioni, come i concetti della geometria e della fisica. Non si tratta di concetti errati contro cui, dice Croce, indire una guerra di sterminio. Nemmeno però sono da intendere quali abbozzi di concetti, verità parziali e insufficienti, tappe di approssimazione alla conoscenza piena, «giacché per pensare con rigore, bisogna rituffarsi nell’onda delle rappresentazioni, e pensare sulla realtà immediata, sgombrando le interposte finzioni concettuali» (p. 45). Queste sono «eterogenee alla logica», e stanno con il concetto (il concetto vero e proprio, detto anche concetto puro per rimarcarne la distinzione dallo pseudoconcetto) in una «relazione, che non è d’identità, e nemmeno di contrarietà, ma di semplice diversità» (p. 50). Si tratta insomma non di formazioni teoretiche, non di portati conoscitivi più o meno conseguiti, bensì di azioni pratiche, che hanno la propria razionalità e traggono la loro piena legittimazione dalla forma economica dell’attività vitale.
La teorizzazione di queste che sono anch’esse modalità spirituali è introdotta nel cap. 2 della Logica intitolato “Il concetto e gli pseudoconcetti”. Con essa si spiana il terreno per l’impianto del concetto come universale concreto, vale a dire per la conoscenza storica come tutta la conoscenza rispetto alle generalizzazioni, astrazioni, regole, leggi delle scienze (naturali, biologiche, sociali: settori tutti ritagliati per ragioni utilitarie nell’unica realtà). La distinzione è chiara, anche se la resistenza a comprendere l’unità della realtà in quanto integrale storicità lascerà occasione al motivo, di tanto in tanto ancora rivisitato nei trivi della pubblicistica, di un Croce avverso alla scienza e degli ostacoli che dal suo ‛idealismo’ sarebbero venuti al sapere scientifico. La querelle era sorta presto. Nell’Avvertenza all’edizione successiva della Logica nel 1917, Croce sentirà necessario rimarcare:
Il distacco che vi si compie della filosofia dalla scienza non è distacco da ciò che nella scienza è verace conoscere, ossia dagli elementi storici reali della scienza, ma solo dalla forma schematica, nella quale questi elementi vengono compressi, mutilati e alterati; e perciò è, nel tempo stesso, un ricongiungimento con quanto vi ha di vivo, di concreto e di progressivo nelle cosiddette scienze. E se alla distruzione di qualcosa vi si mira, ciò non è chiaramente altro che la filosofia astratta e antistorica; e per questo rispetto, ossia sempre che come vera filosofia si ponga la filosofia astratta, questa Logica dovrebbe, caso mai, considerarsi, piuttosto che liquidazione della scienza, liquidazione della filosofia (Logica, cit., pp. 8-9).
Croce parte infatti dall’insofferenza verso una pratica corporativa che finisce sempre per portare alla «restaurazione della Metafisica, con le sue pretese di ripensare il già pensato mercé una forma o un concetto suo particolare» (p. 9). Il proposito è rimettere in circolo «la vita della filosofia», rimuovendo gli impedimenti di formule e sistemi bloccati (p. 11), e così liberare il pensiero di verità che è in tutti, a tutti i livelli di complessità e in qualunque campo si eserciti, dall’ipoteca di una supposta funzione qualitativamente superiore e altra rispetto al pensiero comune. Di questa grande operazione liberatoria proprio la teorica degli pseudoconcetti è uno strumento essenziale.
Non negli acquisti di verità, ma quali procedure e apparati stabilizzati in cui gli acquisti effettivi – prodotti in permanenza nell’effettiva prensione che è sempre e unicamente conoscenza storica – vengono organizzati in schemi di regolarità e di permanenza, le scienze sono costruzioni economiche: non si tratta qui di conoscenza, bensì di azione, non di concetti, ma di pseudoconcetti, vale a dire formazioni tenute ferme dallo spirito pratico ai fini della memorizzazione e comunicazione. In quanto tali, gli ambiti di pertinenza e i confini delle diverse scienze non hanno corrispondenza oggettiva, non derivano alcuna necessità dalla struttura del reale, ma si presentano tracciabili e moltiplicabili secondo occorrenza. Questo vale per le scienze della natura come per le scienze della società: designazioni anche queste di campi non esistenti o esistenti solo per arbitrio, cioè partizioni dell’unica realtà statuite per atti di volontà.
La distinta attribuzione categoriale è anche la garanzia che il concetto puro, il pensiero di verità, non venga deviato in un ruolo improprio, assoggettato a compiti strumentali e subalterni nell’officina dei saperi. Si chiude perciò una volta per tutte con la questione della gerarchia delle scienze e della relativa legittimazione della filosofia. Positivismo e neokantismo – le due figure, per Croce sostanzialmente coincidenti, del «recente periodo di barbarie filosofica […], dal quale a fatica siamo usciti» (p. 63) – vedono così svuotate di senso le loro problematiche.
La portata del discorso va però ben al di là di una polemica verso indirizzi nei cui portatori Croce vede, nel migliore dei casi, solo degli epigoni. Il tono suasivo dell’esposizione non deve far perdere di vista la radicalità della ridislocazione che, proprio attraverso la teoria degli pseudoconcetti, viene fatta della questione stessa della natura della logica quale funzione veritativa.
Nell’assoluto del concetto, nella manifestazione-realizzazione del tutto che è l’universale concreto, dove l’essenza involge l’esistenza, si bruciano tutte le forme particolari (le essenze che non sono esistenza e le esistenze che non sono essenza). Al comparire della verità, svaniscono le entità che si fingevano reali (enumerazioni delle categorie, classificazioni dei giudizi, figure del sillogismo, formule della definizione).
Il concetto dà l’essenza alle cose, e, nel concetto, l’essenza involge l’esistenza. […] Al concetto, che è il perfettissimo, non può mancare la perfezione dell’esistenza senza che esso manchi a sé medesimo. Sembrerebbe tuttavia che la definizione, sebbene affermi l’essenza e l’esistenza insieme, e quindi la realtà del concetto, sia forma vuota e giudizio tautologico, per l’avvertenza già fatta che in ogni definizione il soggetto e il predicato sono il medesimo. Certamente, la definizione è tautologica; ma di una tautologia sublime, affatto diversa dalla vacuità che si suole condannare con quella parola. La tautologia della definizione significa che il concetto è pari solamente a sé stesso e non può essere risoluto in altro o spiegato da altro. Nella definizione, la verità incessu patet; e, se la Dea non si rivela con la semplice presenza, invano il sacerdote tenterà di schiarirla al volgo, contaminandola con ciò che è a lei inferiore, con le cose sensibili, che sono sue manifestazioni particolari (Logica, cit., pp. 100-01).
Il pensiero non può essere dedotto o giustificato da altro da sé, ma è causa sui, verità cui non si può obbligare a piegare la testa con la forza di una dimostrazione:
Chi aspetta, dunque, una dimostrazione costrittiva dell’esistenza del concetto puro, aspetta invano. Da nostra parte non possiamo dargli se non quello che gli stiamo dando: un discorso, rivolto a rimuovere le difficoltà e a mostrare come per mezzo del concetto puro si rischiarino i problemi tutti, concernenti la vita dello spirito, e senza di esso non s’intenda più nulla (Logica, cit., p. 60).
Uno il reale, uno il concetto come forma logica: non si dà una molteplicità dei concetti e dei principi logici, così come non hanno corrispondenza di realtà gli elenchi di categorie offerti, con varia enumerazione, dalla tradizione. Le effettive categorie non sono quelle della logica formalistica o verbalistica, come Croce la chiama, che opera con pseudoconcetti, per classificazioni empiriche e figure grammaticali; ma sono le stesse modalità della realtà, le quali possono essere rappresentate nella quaternità delle forme dello spirito soltanto simbolicamente: non sono infatti collocabili una accanto all’altra come in una serie numerica, ma stanno eternamente distinte in inseparabile unità. La relazione dei distinti nell’unità fa di questa una realtà concreta, un’unità vivente, escludendo che possa essere concepita come «unità vuota, priva di organismo, un tutto senza parti, un semplice di là dalle rappresentazioni, e perciò ineffabile; onde si ritorna per altra via al misticismo» (pp. 74-75).
In quanto concreto, al concetto, come nella realtà, non manca alcuna determinazione. Esso è insieme universale, particolare, singolare:
Universalità non significa altro se non che il concetto distinto è tutt’insieme il concetto unico, del quale è distinzione, e che dalle sue distinzioni è costituito; particolarità, che il concetto distinto è in una determinata relazione con un altro concetto distinto; e singolarità, che esso, in questa particolarità e in quella universalità, è insieme sé stesso. […] In ogni concetto c’è tutto il concetto, e perciò gli altri concetti tutti; ma esso è, pur tuttavia, quel determinato concetto (Logica, cit., p. 79).
Nel concetto si risolve interamente il sillogismo, inteso non come insieme di formule regolatrici del ragionamento, ma identificabile con lo stesso giudizio e quindi assumente le forme degli infiniti giudizi. Se il concetto non è pensabile fuori dalle sue relazioni con gli altri concetti, la connessione dei concetti, ossia il sillogizzare, non è un atto logico successivo e più complesso, ma è lo stesso pensare, che ha in sé e non in una dimostrazione aggiunta la propria giustificazione.
Cadono quindi fuori dalla logica, cioè dall’effettivo pensamento della realtà, le classificazioni e serie delle logiche scolastiche, prive della compiutezza del concetto. Così è della formula definitoria per subordinazione e coordinazione, usata nei concetti empirici, che manca del momento dell’universalità, proprio dei concetti puri, mentre ha solo i due momenti della particolarità e della singolarità,
i soli due che si dicono del genere e della specie; ed essa si fa, secondo comanda la regoletta, pel genere prossimo e per la differenza specifica. Suo ufficio è infatti ricordare, e non già pensare e intendere, una determinata formazione empirica; il che si consegue con l’assegnarle il posto mercé l’indicazione di ciò che le sta sopra e di ciò che le sta a lato (Logica, cit., p. 82).
E così è dell’intero apparato di definizioni e norme della logica empirica, ampliabile e suddivisibile a piacimento; regole tutte che servono, quando servono, purché non pretendano di varcare i confini di una semplice descrittiva e tecnica del catalogare e del disputare:
Come la Rettorica e la Grammatica, innocue ed utili in quanto comodi aggruppamenti e comode terminologie, diventano inutili e nocive quando si gonfiano a scienze di valori assoluti, e sono allora contrastate e
negate dall’Estetica, del pari la Logica empirica o verbalistica falsifica sé stessa quando presume di assegnare le leggi del pensiero, il concetto del concetto, la forma logica; in luogo della quale poi in effetti non dà se non le forme verbali empiricamente o grammaticalmente determinate, e si attiene all’estrinseco, e perciò è formalistica: denominazione, dunque, peggiorativa, che indica per qual ragione e sotto qual aspetto questa Logica è da noi rifiutata (Logica, cit., pp. 112-13).
È un riportare la filosofia all’essenziale, sgravandola dai compiti pratici che storicamente le si sono commisti, e dunque dalle strutture di comando, pedagogiche e normative, della comunicazione sociale: sciogliendola, si potrebbe dire, dalle società particolari e dalle gerarchie da cui queste sono costituite e mantenute, per riaprirla al rapporto con la vera società, la società universale che è il tutto vivente e comunicante. La liberazione della filosofia è il ripristino nella sua pienezza di quella coscienza del legame con il cosmo che è religione, la religione senza residui mitologici e senza rinunce della ragione. Non suona enfatica, in quest’ordine di concetti, l’affermazione:
Pensare, ossia cercare e conseguire il vero, è insieme conferire all’avanzamento e all’innalzamento dell’uomo e del mondo tutto: è un negarsi e superarsi in quanto individuo singolo, e servire Dio (p. 57).
La restituzione della purezza concettuale non è una contrazione, anzi è la massima espansione del campo della filosofia, che da riserva corporativa torna a mostrarsi affare di ognuno, identica con la stessa attività del pensare. L’espunzione delle logiche o pseudologiche empiriche dalla sfera conoscitiva, se assicura l’assolutezza del concetto rispetto a schermature e obbligazioni pratiche, consente di ritrovare quelle formazioni su un altro piano, il piano della comunicazione e conservazione istituzionale, quindi delle tecniche atte ad agevolare le intese e disciplinare le relazioni sociali. Sono formule che hanno avuto una funzione educativa e delle quali ci si può ancora servire quando si provino utili:
Ai giorni nostri, codeste pedanterie sillogistiche sono sparite; ma […] troppo spesso, disprezzando la formoletta, si è trascorso a disprezzare la correttezza medesima del ragionamento. Cosicché si è stati costretti talvolta a consigliare un bagno fortificante di scolastica (Logica, cit., p. 107).
E conviene sapersi valere all’occasione dell’«esercizio del disputare in forma, la logica scholastica utens», strumento che ha mostrato i suoi vantaggi nella cultura occidentale e del quale si si è lamentata la mancanza in altre culture (p. 108). Il tema dell’utilità della logica scolastica, che qui sembra trascorrere come un semplice accenno compensativo, è destinato a tornare con nuovo rilievo, insieme con i concetti di letteratura e di retorica, in un’epoca successiva, quando accanto all’impeto fluidificante e liberatorio dell’ispirazione originaria verrà in primo piano nell’opera di Croce la preoccupazione per le modalità equilibratrici della civiltà.
Con la logica delle forme distinte si compie dunque una grande operazione di spossessamento e reimpossessamento. La filosofia non respinge mai la realtà ma la riconosce qualificandola, donde «la soddisfazione, propria di ogni detto di verità, di riconciliare con la realtà delle cose» (p. 10). Niente di più estraneo alla visione crociana, insomma, di quella tematica dell’autentico e dell’inautentico così ossessionante per gli intellettuali del Novecento. La realtà è tutta autentica, cioè effettuale; e la critica, vale a dire il filosofare in atto, non è distruzione, ma ordinamento, non disconoscimento ma ridisposizione. Tale recupero di realtà senza riserve lo si vede nella parte terza: “Le forme degli errori e la ricerca della verità”. Se il pensiero come tale è verità, quindi dovrebbe snaturarsi per pensare il falso, sul piano teoretico l’errore non sussiste come qualcosa di positivo, «non è pensiero ma privazione di pensiero ossia negatività», dunque momento della sintesi dialettica, non esistente fuori dal movimento della sintesi. Come risolvere allora l’antinomia tra l’inconcepibilità dell’errore come esistente e l’impossibilità di negare l’esistenza di determinati errori? Appunto passando dall’opposizione, interna alla sintesi dialettica (vero-falso, positivo-negativo), alla distinzione. «Quell’errore che ha esistenza, non è errore e negatività, ma qualcosa di positivo, un prodotto dello spirito» (p. 276): non della forma teoretica dello spirito, ma di quella pratica; vale a dire, non è errore teoretico, ma atto pratico.
In effetti, colui che commette un errore non ha nessun potere di torcere o snaturare o inquinare la verità, che è il suo pensiero stesso, il pensiero che opera in lui come in tutti, e anzi, non appena egli tocca il pensiero, ne è toccato: pensa e non erra. Egli ha solamente il potere pratico di passare dal pensiero al f a r e; e un fare e non già un pensare è l’aprire la bocca o l’emettere suoni ai quali non corrisponda un pensiero, o, che è lo stesso, non corrisponda un pensiero che abbia valore, precisione, coerenza, verità (Logica, cit., pp. 276-77).
È atto pratico, che in questa sfera non è errore, ma risponde a un’utilità, e in tal senso ha la sua «particolare ma piena razionalità». Si apre qui la tensione che spinge all’insoddisfazione e al superamento del particolare economico, come «razionale inferiore», nella superiore razionalità morale per cui ci si ricongiunge all’universale della verità (pp. 277-78).
Procede così il dramma creativo che è il circolo vitale, per il quale Croce può rimandare alla trattazione fatta nella Filosofia della pratica e passare, negli ultimi capitoli della Logica, a una rassegna delle forme dell’errore variamente mescolate e confuse con le forme del conoscere e del sapere, discernendo l’origine e così spiegando la necessità delle «forme possibili di errori, le forme logiche dell’illogico» (p. 318). Nella fenomenologia dell’errore trovano il loro posto le distorsioni e le conseguenti aporie proprie degli errori filosofici: empirismo, filosofismo, mitologismo, dualismo, scetticismo, misticismo; designazioni tutte attraverso le quali vengono specificate ed esemplificate le figure già messe in fuga nel capitolo iniziale dall’affermazione del concetto puro.
Quell’affermazione è il filo conduttore di un riepilogo volto a ritrovare nella tradizione filosofica i precedenti, più o meno germinali, della concezione ora dispiegata. Si tratta in Croce di un procedimento costante, dove convergono senso della continuità storica – «l’uomo ha sempre pensato il vero, e colui che non sa scorgere la verità nel passato è da dubitare che possegga quella del presente, della quale, nel suo orgoglioso isolamento, si tiene sicuro» (p. 409) – e opportunità della trasmissione didascalica. Una esemplare applicazione di questo procedimento è nell’ultima parte della Logica, intitolata “Sguardi storici”: non un’appendice scolastica, ma un’ulteriore messa a punto attraverso una rassegna che dai Greci, soprattutto Aristotele (la Metafisica, piuttosto che l’Organon), arriva al «nuovo concetto del concetto, promosso dallo Hegel». Con Georg Wilhelm Friedrich Hegel, lasciate cadere del tutto le spoglie della logica formalistica,
le forme del pensiero sono ormai le forme stesse del reale […]. Ciò vale dire che il pensiero domina totalmente la realtà, perché non è aggiunta estrinseca o mezzo interposto, ma è la realtà stessa, che si fa pensiero perché è pensiero (p. 403).
Resta ferma la critica al sistema, già definita nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel (1907):
Il difetto dello Hegel nella teoria della storia deriva dal difetto stesso che è in tutta la sua filosofia, di un non superato dualismo e di una persistente trascendenza; donde, nei rispetti della storia, l’idea di una soprastoria o “Filosofia della storia”, duplicato e sostituto della storia effettiva (p. 389).
Con Hegel, il confronto proseguirà intenso. Per Immanuel Kant, il riconoscimento si concentra sul concetto di sintesi a priori. Nella sintesi a priori c’è il presentimento della nuova logica, dell’universale concreto, anche se Kant non se ne avvide:
Scoprendo la sintesi a priori, il Kant aveva messo la mano sopra un concetto profondamente romantico; ma l’esecuzione ne fu poi classicistica e intellettualistica. La sintesi è la realtà palpitante che si fa e si conosce nel farsi: la filosofia kantiana s’irrigidisce da capo nei concetti delle scienze, ed è una filosofia in cui il senso della vita, della fantasia, dell’individualità, della storia manca, quasi altrettanto che nei grandi sistemi dell’età cartesiana (Logica, cit., p. 366).
Si tratta in verità di un recupero assai condizionale. La formula kantiana viene rifunzionalizzata in senso ben diverso, per non dire reinventata, riferita com’è in Croce non alla conoscenza del mondo fenomenico, ma al processo di individuazione quale si realizza in tutte le forme dello spirito e per l’intera realtà. Comunque, il nuovo terreno della filosofia è stato da Kant anticipato, ma non riconosciuto:
La nuova filosofia fu quella dei tre grandi postkantiani, il Fichte, lo Schelling e lo Hegel […]. Tutti e tre sono kantiani, ma tutti e tre (e segnatamente i due ultimi) non sono unicamente kantiani. Essi mettono in opera motivi che il Kant ignorava o timidamente adoperava, e in particolare la tradizione mistica e le nuove tendenze del pensiero estetico e storico; onde superano l’età del Kant, l’astrattismo e l’intellettualismo, si ricongiungono idealmente a Vico (il piccolo Vico tedesco fu lo Hamann), e inaugurano il secolo decimonono (Logica, cit., p. 367).
Il libro sulla filosofia di Giambattista Vico è di poco successivo alla Logica. Nel recupero della anomalia vichiana Croce potrà rappresentare anche la propria diversità rispetto a tutta una linea della filosofia moderna. Si conferma anche così ciò che è evidente già nella Logica: la peculiarietà di un rapporto con la tradizione sempre tenuto saldo culturalmente, e insieme orientato teoricamente in piena autonomia.
C. Antoni, Commento a Croce, Venezia 1955, 19642.
A. Bausola, Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano 1965, 19672.
G. Sasso, Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975.
M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Firenze 1989, Napoli 19982.
M. Maggi, La logica di Croce, in Id., La logica di Croce e altri scritti, Napoli 1994, pp. 13-42.
G. Sasso, Filosofia e idealismo, 1° vol., Benedetto Croce, Napoli 1994.
M. Maggi, La fondazione della conoscenza nella filosofia di Croce, in Id., Archetipi del Novecento. Filosofia della prassi e filosofia della realtà, Napoli 2011, pp. 75-102.