LOGICA DEONTICA
La nascita della l. d. nella sua forma attuale si fa risalire a un articolo di G.H. von Wright del 1951, in cui per la prima volta si analizzava l'affinità strutturale tra le nozioni deontiche (obbligatorio, permesso, vietato, facoltativo) e le nozioni modali corrispondenti (necessario, possibile, impossibile, contingente). La l. d. si presenta quindi come un ramo della logica modale (v. in questa Appendice) con caratteristiche proprie, evidenziate anche dall'uso di una simbologia particolare (O per ''obbligatorio'' in luogo di η, P per ''permesso'' in luogo di ◇). Il modo più semplice di caratterizzare questa logica sta nel dire che si tratta di una logica modale in cui l'assioma modale Op ( p è rimpiazzato dal più debole Op ⊃ Pp (tutto ciò che è obbligatorio è permesso), e in alcuni casi surrogato da O(Op ⊃ p). I mondi possibili possono essere visti come mondi deonticamente perfetti (mondi cioè in cui gli agenti si comportano in conformità a un codice morale vigente). L'esclusione di Op ⊃ p dipende dal fatto che il mondo attuale non è un mondo deonticamente perfetto: Op ⊃ p equivale infatti a p ⊃ Pp, cioè all'affermazione che tutto ciò che accade è permesso dal codice morale vigente.
La costruzione delle l. d. come sistemi formali ha dato origine a una serie di paradossi la cui discussione rappresenta un capitolo ancora aperto in questo settore della ricerca logica. Il primo dei paradossi da ricordare in ordine di tempo è il cosiddetto paradosso di Ross: la presenza all'interno di un calcolo deontico del teorema Op ⊃ O(p ⋁ q) rende lecite inferenze come quella da ''imbuca la lettera'' a ''imbuca la lettera o bruciala''. Altri paradossi nascono dalla relazione di ''impegno etico'' (committment), una volta che questa si ritenga formalizzata da O(p ⊃ q). Si ha infatti, in virtù del teorema ∼Pp ⊃ O(p ⊃ q), che il commettere qualcosa di vietato impegna eticamente a commettere qualsiasi cosa. Per ovviare a questo paradosso sono nati sistemi di l. d. ''diadici'', ossia i cui operatori primitivi sono O(p/c) e P(p/c) (è obbligatorio/permesso p nelle condizioni c; G.H. von Wright).
Nuovi paradossi nascono se s'introducono per definizione gli operatori deontici in un linguaggio contenente una costante Q (assiomatizzata semplicemente da ἄ Q) con il significato di ''non si verifica niente che sia soggetto a sanzione'': Op può essere allora definito come ( (Q ⊃ p) oppure ( (∼p ⊃ ∼Q): l'omissione di p implica logicamente una sanzione. Questo approccio riduzionistico alla l. d., dovuto essenzialmente ad A.R. Anderson (1958), è andato incontro all'obiezione che esso sembra postulare una relazione logica tra enunciati fattuali ed enunciati valutativi violando la cosiddetta ''legge di Hume''. Per di più esso dà origine a un paradosso notato da A.N. Prior: dato che aiutare la vittima di un furto implica l'esistenza di un furto, ne segue, poiché un furto implica necessariamente una sanzione, che anche aiutare la vittima di un furto implica necessariamente una sanzione (paradosso del buon Samaritano).
I paradossi deontici hanno il merito di evidenziare la forzatura insita nel fatto che gli operatori deontici sono operatori proposizionali, mentre ciò che è obbligatorio, permesso, ecc. non è una proposizione ma un'azione o un tipo di azione. Il problema di sapere che cosa è un'azione e come va resa formalmente è lungi dall'essere chiaro. Von Wright ha introdotto per primo la forma pTq a indicare la trasformazione dello stato di cose p nello stato di cose q, e gli operatori d ed f per ''provocare'' o ''impedire'' trasformazioni, stipulando poi che gli operatori deontici O e P si applicano a questi d-f enunciati. Secondo R.M. Hare e la sua scuola invece gli operatori deontici si applicano a enunciati non indicativi ma imperativi, avallando quindi l'idea che imperativi ed enunciati deontici siano oggetti logicamente diversi (la controversia su questo punto è nata ai tempi del neopositivismo delle origini, che considerava imperativi ed enunciati deontici sullo stesso piano in quanto egualmente privi di significato empirico, non diversamente dalle esclamazioni). La scelta di considerare gli enunciati deontici alla stregua di particolari enunciati indicativi lascia comunque aperto il problema di sapere se gli operatori deontici debbano essere primitivi o derivati. S. Halldèn, per es., ha sviluppato (1957) un sistema in cui l'operatore primitivo è ''è meglio p che q'', e tale che ''si deve fare p'' è definito come ''è meglio p che non-p''. In tal modo la l. d. risulta un ramo della logica della preferenza.
La possibilità di formare enunciati contenenti operatori deontici iterati come OOp, OPp, ecc. è pure stata al centro di diverse discussioni. Se alcuni hanno negato la legittimità dell'iterazione (R. Barcan), il punto di vista che sembra oggi dominante è invece quello di chi difende l'iterabilità in quanto essenziale per distinguere obblighi relativi a diversi livelli della gerarchia normativa (O. Becker, P. Lorenzen). Lo studio degli aspetti logici degli ordinamenti normativi con i connessi problemi posti dalla presenza di lacune e di antinomie, inaugurato soprattutto da C. Alchourrón ed E. Bulygin, è un punto d'incontro tra logici e teorici del diritto e, al giorno d'oggi, un terreno di sviluppo progressivo per la l. d. stessa.
Bibl.: G.H. von Wright, Norm and action, Londra 1963; G. Kalinowski, Introduction à la logique juridique, Parigi 1965 (trad. it., Milano 1971); A.R. Anderson, The formal analysis of normative systems, in The logic of decision and action, a cura di N. Rescher, Pittsburgh 1967; G.H. von Wright, An essay in deontic logic and the general theory of action, Amsterdam 1968; Logica deontica e semantica, a cura di G. Di Bernardo, Bologna 1977; L. Åqvist, An introduction to deontic logic and the theory of normative system, Napoli 1985.