Logica e processi cognitivi
Sarebbe difficile comprendere l'attuale stato dei rapporti tra l. e p. c. senza riferirsi a tre fattori che li hanno influenzati profondamente. Il primo fattore è costituito dall'impronta fortemente anticognitivista impressa alla logica moderna dal suo creatore, G. Frege, secondo cui, mentre scoprire nuove verità è compito delle scienze, compito della logica è individuare le leggi dell'essere vero. Perciò la logica non ha nulla a che fare con i processi cognitivi, e in particolare con quelli attraverso cui si arriva a scoprire nuove verità. La posizione di Frege è stata un po' ammorbidita da alcuni suoi continuatori, come G. Gentzen, secondo cui le regole di inferenza della logica presentano una stretta affinità con il ragionamento effettivo. Ma questo non ha avuto alcuna reale incidenza su un serio approfondimento dei rapporti tra la logica e i processi cognitivi. Perciò la logica moderna è stata segnata dall'impronta anticognitivista di Frege.
Il secondo fattore è costituito dall'analisi di A. Turing del comportamento computazionale dell'uomo, secondo cui questo è determinato in ogni istante dai simboli che osserva e dal suo stato mentale in quell'istante. Le sue operazioni possono essere scomposte in passi atomici semplici, e si può concepire una macchina ideale, la macchina di Turing, che simuli tale comportamento in modo che a ogni stato mentale corrisponda una configurazione della macchina. L'analisi di Turing ha avuto notevole influenza sul modo di concepire i rapporti tra l. e p. c. soprattutto attraverso il funzionalismo di H. Putnam, secondo cui i nostri processi cognitivi sono processi computazionali indipendenti dal supporto materiale che li realizza (Putnam 1975).
Il terzo fattore è costituito dalle indagini della scienza cognitiva sulle capacità inferenziali dell'uomo, che mostrano che la 'logica naturale', cioè la capacità della mente in virtù della quale noi risolviamo i problemi acquisendo così nuova conoscenza, spesso diverge radi-calmente dalla 'logica scientifica', cioè dalla teoria dell'inferenza deduttiva, rappresentata dall'antichità fino a gran parte del 19° sec. dalla logica aristotelica, stoica e scolastica, e, dalla fine del 19° sec. fino agli inizi del 21°, dalla logica matematica di Frege. Tale divergenza è stata oggetto di approfondito studio sperimentale da parte degli scienziati cognitivi, i cui risultati hanno evidenziato i limiti delle capacità inferenziali dell'uomo. È stato affermato che possediamo una competenza logica innata che può essere descritta da regole di inferenza, e che gli errori inferenziali nascono solo dalla difettosa applicazione di tali regole a causa dei nostri limiti biologici, cognitivi e forse anche sociali (Manktelow, Over 1990). Inoltre la nostra competenza logica innata è stata descritta come algoritmica, cioè basata su regole di inferenza meccaniche, e questo modello è stato adottato da un gran numero di teorie che si differenziano tra loro riguardo alla natura di tali regole di inferenza, concepite come formali oppure contenutistiche (Nisbett, Ross 1980). Queste teorie, però, sono state contraddette da ulteriori risultati sperimentali, che hanno evidenziato come la divergenza tra la logica naturale e la logica scientifica non era dovuta alla difettosa applicazione di regole di inferenza meccaniche a causa dei nostri limiti, bensì a un'intrinseca differenza tra le due.
Questi tre fattori hanno influenzato negativamente i rapporti tra l. e p. c., ostacolandone l'indagine. L'approccio anticognitivista di Frege ha portato a ritenere che un'indagine sui rapporti tra l e p. c. sia irrilevante per la logica, in quanto le leggi dell'esser vero sono assolutamente oggettive e perciò non hanno nulla a che vedere con i processi cognitivi. L'analisi di Turing in riferimento al comportamento computazionale dell'uomo ha portato a pensare che i nostri processi cognitivi debbano restringersi ai processi computazionali, distogliendo l'attenzione dai processi non computazionali, e in particolare da quelli euristici, che invece sono importanti per la comprensione dei processi cognitivi. Le indagini della scienza cognitiva sulle capacità inferenziali dell'uomo hanno portato a pensare che la logica non sia una componente necessaria dei processi cognitivi perché essa deve essere algoritmica, cioè basata su regole di inferenza meccaniche, mentre i processi e i metodi attraverso cui arriviamo a risolvere i problemi acquisendo così nuove conoscenze sono di tipo euristico, quindi non riconducibili a regole algoritmiche (Judgement under uncertainty, 1982).
I tre fattori in questione hanno inoltre allontanato la logica dalla realtà. Infatti, ritenere che un'indagine dei rapporti tra l. e p. c. sia irrilevante per la logica ha finito per privarla di molto del suo interesse, riducendola a un insieme di teorie formali astratte, prive di contatto non solo con la realtà cognitiva ma anche con ogni altro genere di realtà. Pensare che i processi cognitivi debbano essere limitati ai processi computazionali è in conflitto con il fatto che gran parte dei nostri processi cognitivi sono di tipo non computazionale. E pensare che la logica debba essere ristretta a una logica algoritmica ha dovuto fare i conti con il fatto che molte regole di inferenza logiche non hanno carattere algoritmico ma sono di tipo euristico.
Tutto ciò ha reso via via più chiara la necessità di una nozione estesa di logica la quale si occupi dei processi cognitivi senza limitarsi ai processi computazionali, includendo come sua parte l'euristica, riconoscendo che quest'ultima si basa su regole fallibili ma non per questo meno rigorose. Il termine euristico viene spesso usato per indicare i processi mentali non algoritmici (Judgement under uncertainty, 1982), ma esso dovrebbe indicare invece qualsiasi strategia inferenziale, adottata consapevolmente o inconsapevolmente. Il mondo ci si presenta come un ammasso disordinato di dati, che sono ambigui e privi di una struttura chiara che possa essere trattata per mezzo di inferenze logiche deduttive corrette. Per sopravvivere, noi dobbiamo ragionare sul nostro ambiente in base a informazione incompleta, frammentaria, entro limiti di tempo molto ristretti e con capacità computazionali limitate. Per quanto i metodi di inferenza algoritmici delle teorie deduttive producano risultati corretti se applicati in modo appropriato, essi sono notoriamente così lenti, e richiedono una tale mole di lavoro cognitivo e tanto spazio di memoria, da non essere adoperabili dall. Il bisogno evolutivo di una rapida accumulazione dell'informazione impone di usare euristiche inferenziali. Probabilmente la rapidità nel raccogliere informazioni è stata, ed è, altrettanto importante per la nostra sopravvivenza che non la precisione dell'informazione che raccogliamo, l'interpretazione che ne diamo e le inferenze che facciamo. Questo spiega perché in generale siamo così inefficienti nel fare computazioni e invece così brillanti nel valutare, per es., le quantità, le distanze, i risultati che sono essenziali per la sopravvivenza. La sostituzione dell'accuratezza con la rapidità è il risultato dell'uso di euristiche nella trattazione dell'informazione e di strategie inferenziali che permettono di scegliere e semplificare questioni entro limiti di tempo e di risorse ragionevoli. Le euristiche inferenziali costituiscono uno strumento essenziale per la sopravvivenza, in quanto consentono di trattare l'informazione assicurando l'economia cognitiva, cioè la capacità di rispondere alle nostre necessità, al mondo e ai limiti dei nostri mezzi cognitivi minimizzando il lavoro cognitivo, ma accumu-lando, direttamente o per inferenza, l'informazione necessaria in modo rapido, anche se spesso a spese dell'accuratezza.
La perdita di accuratezza associata all'euristica viene spesso riassunta nel termine bias, con cui si indica un errore dovuto a una concezione distorta che può pregiudicare i risultati. Esempi tipici di bias associati alle euristiche inferenziali sono: cementare le proprie teorie ingenue con spiegazioni ad hoc e fragili; considerare eventi casuali come significativi; accettare fatti marginali che appoggiano le proprie credenze trascurando invece le prove contrarie; commettere fallacie deduttive evitando di applicare regole deduttive valide. Questi bias sono stati usati per sostenere due conclusioni incompatibili, cioè: a) la logica può essere una componente dei processi cognitivi umani, ma non l'euristica, a causa della natura non algoritmica di quest'ultima, che produce bias; b) l'euristica può essere una componente dei processi cognitivi umani, ma non la logica, perché l'euristica non ammette regole (Evans 1989). Ma sia queste conclusioni sia i loro presupposti sono ingiustificati: noi siamo tanto più logici, da un lato, quanto più euristiche possediamo e quanto più esse sono buone, e, dall'altro lato, quanto meno bias abbiamo e quanto meno essi sono dannosi. Si tratta allora di sforzar-si di ridurre il numero dei bias senza rinunciare all'euristica, e di considerare l'inferenza logica come una componente essenziale dell'euristica, che non si oppone ma anzi contribuisce all'economia cognitiva. Questo implica che l'ambito della logica non deve essere ristretto all'inferenza logica algoritmica (deduttiva).
Sebbene alcuni sostengano che il ragionamento deduttivo costituisce il fondamento del nostro pensiero perché i principi deduttivi stanno alla base di molte nostre capacità cognitive (Rips 1994), questa tesi è in conflitto con il fatto che alla base dei processi cognitivi non possono esserci solo inferenze deduttive, perché queste non estendono la nostra conoscenza. Vi devono essere anche inferenze non deduttive, come, per fare qualche esempio, l'induzione, l'analogia, l'uso della figura, la generalizzazione, la particolarizzazione, la metafora, la metonimia, la definizione, l'ibridazione, la variazione dei dati (Cellucci 2002), perché soltanto esse estendono la conoscenza. Perciò si deve ampliare la nozione di logica in modo da comprendervi il ragionamento non deduttivo, e in particolare questi tipi di inferenze.
L'ambito della logica non deve inoltre essere ristretto ai processi cognitivi in cui interviene il linguaggio, perché le proposizioni non esprimono tutto ciò che vogliamo dire quando le pronunciamo. Parole e frasi ritagliano il mondo molto più grossolanamente di quanto faccia il pensiero e vi sono numerosi concetti per i quali non esistono parole corrispondenti. E cosa ancor più importante, quando percepiamo qualcosa, possiamo avere pensieri il cui contenuto non può essere espresso a parole. In particolare, il contenuto delle nostre percezioni può avere una grana più fine dei contenuti verbali nonché del nostro vocabolario linguistico potenziale, e per questo motivo possiamo rappresentarci visivamente proprietà che non possiamo descrivere verbalmente (Pylyshyn 2003).
Questo non significa che tutto ciò che non è esprimibile verbalmente cada al di fuori della logica, in particolare non significa che al di fuori di essa cadano i contenuti delle nostre percezioni. Per es., spesso la percezione visiva, se rivolta a opportuni diagrammi, permette di trarre inferenze in modo più semplice che non usando le regole di una logica rivolta solo alle espressioni verbali. Ciò risulta particolarmente evidente quando, come nella geometria, ragioniamo intorno a proprietà spaziali. Nella percezione visiva c'è qualcosa che fornisce operazioni logiche non facilmente ottenibili con altre forme di ragionamento. Perciò la percezione visiva, e in generale la percezione, può essere vista come il risultato di un processo intelligente, al pari del pensiero. Si può anzi congetturare che il pensiero si sia evoluto attraverso la percezione, che quest'ultima abbia costituito il collegamento evolutivo tra i processi sensoriali di basso livello che portarono all'individuazione di cam-biamenti ambientali negli organismi filogeneticamente primitivi, e i processi cognitivi ad alto livello.
Che la percezione sia il risultato di un processo intelligente è apparentemente contraddetto dal fatto che la percezione viene avvertita come istantanea invece che come prolungata, come il pensiero; non vi è alcuna consapevolezza che nella percezione intervenga qualche pensiero; la percezione non è influenzata da ciò che sappiamo a livello consapevole. Ma non è così. Infatti la percezione è un processo di soluzione di problemi che si basa sulla formazione di ipotesi per mezzo di inferenze inconsapevoli. Essa è il risultato congiunto del dato dello stimolo sensoriale e di inferenze inconsapevoli provocate dallo stimolo sensoriale. Le inferenze che intervengono nella percezione sono inconsapevoli perché sono processi per lo più automatici, immediati e impliciti piuttosto che espliciti, i quali avvengono troppo velocemente e a un livello troppo basso per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Per es., a livello consapevole noi sappiamo che la luna piena all'orizzonte ha la stessa dimensione di quando è alta nel cielo, ma ciò nonostante essa ci sembra molto più grande di quando è alta nel cielo. Ciò dipende dal fatto che la nostra percezione della grandezza è soggetta alla regola secondo la quale la grandezza percepita è una funzione congiunta dell'angolo visivo e della distanza apparente. Un'applicazione inconsapevole di tale regola fa sì che, poiché la distanza apparente della luna all'orizzonte è molto più piccola della distanza apparente della luna alta nel cielo, la luna ci sembri avere una dimensione così differente in questi due casi, e in generale ci sembri avere una dimensione dipendente dalla sua distanza apparente (Rock 1983).
Che la percezione sia il risultato congiunto del dato dello stimolo sensoriale e di inferenze implica che l'inferenza logica non deve essere ristretta all'inferenza proposizionale, ma deve essere generalizzata in modo da ammettere anche inferenze le cui premesse e la cui conclusione sono costituite da dati come gli stimoli sensoriali. Inoltre, implica che l'inferenza logica non deve essere ristretta all'inferenza consapevole, ma deve includere le inferenze inconsapevoli. Pertanto, una teoria dei processi cognitivi umani non deve rinunciare alla logica e dibattersi nel dilemma: o ammettere che la logica possa essere una componente dei processi cognitivi umani, ma non l'euristica, a causa della natura non algoritmica di quest'ultima, che produce bias; oppure ammettere che l'euristica possa essere una componente dei processi cognitivi umani, ma non la logica, perché l'euristica non ammette regole. Si tratta di un falso dilemma, perché infatti logica ed euristica possono essere entrambe componenti dei processi cognitivi umani, purché si sostituisca un concetto inutilmente ristretto di logica con una nozione estesa che possa includere anche inferenze non deduttive, non proposizionali e inconsapevoli.
Tale nozione estesa di logica ha caratteri essenzialmente differenti da quelli della logica scientifica, a causa di due fattori. Il primo è che la nozione estesa di logica include inferenze non deduttive, le quali hanno caratteri essenzialmente differenti da quelli delle inferenze deduttive. Le principali differenze sono le seguenti: a) mentre nelle inferenze deduttive la conclusione è contenuta implicitamente nelle premesse, quindi si limita a rendere esplicito ciò che è implicito, e perciò tali inferenze non permettono di risolvere problemi, nelle inferenze non deduttive la conclusione contiene qualcosa di es-senzialmente nuovo rispetto alle premesse, e perciò tali inferenze permettono di risolvere problemi; b) mentre le prime non estendono la nostra conoscenza, e perciò non possono servire da strumenti per la sopravvivenza, le seconde estendono la nostra conoscenza, e perciò possono servire da strumenti per la sopravvivenza; c) mentre le prime sono valide, cioè tali che, se le premesse sono vere, anche la conclusione è vera, le seconde non sono valide, quindi, anche se le premesse sono vere, la conclusione può non esserlo e deve essere controllata con-frontandola con l'esperienza; d) mentre le prime sono formali, cioè l'appoggio che le premesse forniscono alla conclusione non dipende dal contenuto dell'inferenza ma solo dalla sua forma, le seconde dipendono dal contenuto; e) mentre le prime sono algoritmiche, cioè la conclusione si ottiene dalle premesse con un procedimento meccanico, le seconde non sono algoritmiche.
Il secondo fattore è che, come si è detto, le inferenze su cui si basano i processi cognitivi sono inferenze generalizzate, le cui premesse e conclusioni non sono costituite da proposizioni quanto piuttosto da dati, e possono essere inferenze inconsapevoli, perché avvengono troppo velocemente e a un livello troppo basso per essere accessibili alla nostra introspezione diretta.
Per quale ragione, pur presentando caratteri essenzialmente differenti dalla logica deduttiva, la logica estesa può render conto dei processi cognitivi, e quindi della nostra logica naturale? Le principali ragioni sono le seguenti. a) Basandosi su inferenze non deduttive che permettono di risolvere problemi, la logica estesa ha un carattere euristico. Questo rende conto del fatto che la nostra logica naturale serve per risolvere problemi. b) Basandosi su regole non deduttive che servono come strumento per la sopravvivenza, la logica estesa ha una funzione biologica. Questo rende conto del fatto che la logica naturale serve anzitutto per risolvere il problema della sopravvivenza, e dunque è il risultato di un adattamento all'ambiente. c) Basandosi su inferenze non deduttive che non sono valide, e quindi sono tali che, anche se le loro premesse sono vere, la conclusione non è necessariamente vera e la sua verità deve essere controllata confrontandola con l'esperienza, la logica estesa è legata all'esperienza.
Questo rende conto anche del fatto che la logica naturale, essendo il risultato di un adattamento all'ambiente, dipende dall'esperienza. d) Basandosi su inferenze non deduttive che non sono formali ma dipendono dal contenuto, la logica estesa dipende dal contenuto. Questo rende conto del fatto che la logica naturale, dipendendo dall'esperienza, dipende dal contenuto. e) Basandosi su inferenze generalizzate le cui premesse e la cui conclusione non sono costituite da proposizioni bensì da dati, la logica estesa è una logica dei dati. Questo rende conto del fatto che la logica naturale, nel caso delle inferenze che intervengono nella percezione, non riguarda relazioni tra proposizioni bensì relazioni tra dati. f) Includendo inferenze inconsapevoli, la logica estesa è una logica non soltanto dei processi consapevoli, ma anche dei processi inconsapevoli.
Questo rende conto del fatto che la logica naturale, nuovamente nel caso, per fare un esempio, delle inferenze che intervengono nella percezione, fa intervenire processi che avvengono troppo velocemente e a un livello troppo basso per essere accessibili alla nostra introspezione diretta. Per tutte queste ragioni la logica estesa si pone come un naturale candidato per trattare la logica naturale, ristabilendo in questo modo quel legame tra l. e p. c. che era stato reciso da Frege.
bibliografia
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