Logica, matematica, evoluzione biologica
L’influenza della tradizione antievoluzionista
Nei primi anni del nuovo secolo si è imposta all’attenzione una questione che nel Novecento era stata non solo tralasciata ma addirittura negata: quella dei rapporti tra logica, matematica ed evoluzione biologica. Tale situazione era stata determinata soprattutto a causa dell’influenza esercitata da Gottlob Frege (1848-1925), secondo il quale «ai nostri giorni in cui la concezione evoluzionistica trionfa nelle scienze» si suppone che «un’inferenza che oggi è corretta» non «sarà ancora corretta tra millenni», una tesi, questa, che farebbe «confusione tra le leggi dell’inferenza effettiva e quelle dell’inferenza corretta». Le leggi «matematiche o logiche», infatti, «non possono cambiare», perché «devono contenere tutte le condizioni pertinenti e quindi devono essere valide indipendentemente dal tempo e dal luogo». Per questo motivo, ritenere che possano cambiare è «in contraddizione con il senso della parola ‘vero’, che esclude ogni riferimento al soggetto conoscente» (Nachgelassene Schriften, 1969, pp. 4-5).
Un esempio del permanere dell’influenza di Frege fino alla fine del Novecento è dato dal pensiero di Thomas Nagel, il quale ha sostenuto: «Io non posso avere alcuna giustificazione a fidarmi di una capacità di ragionamento che ho come conseguenza della selezione naturale» se non ho «una base indipendente» per farlo, perché, in mancanza di una tale base, «l’ipotesi evoluzionista costituisce una minaccia piuttosto che una rassicurazione» (The last word, 1997, p. 135). In realtà «nulla può scalzare il pensiero che 2+2=4» perché tale proposizione «fa parte dell’impalcatura di tutto ciò che possiamo pensare su noi stessi» (p. 59).
Il riduzionismo radicale di Cooper
Un netto cambiamento di atteggiamento circa i rapporti tra logica, matematica ed evoluzione biologica si è avuto nei primi anni del nuovo secolo, come si vede da due posizioni che si sono affermate in tale periodo. La prima posizione è quella di William S. Cooper, secondo il quale «la logica è riducibile alla teoria dell’evoluzione», nel senso che «i sistemi di logica comunemente accettati sono branche della biologia evoluzionista» (Cooper 2001, p. 2). Le leggi logiche «emergono naturalmente come corollari delle leggi dell’evoluzione»; perciò non hanno uno statuto separato da quest’ultima, ma «devono la loro stessa esistenza a processi evolutivi, loro fonte e provenienza» (p. 5). Dunque «non vi è alcuna distinzione categoriale netta tra le verità logiche e le verità biologiche» (p. 13).
La riduzione dei sistemi di logica comunemente accettati alla biologia evoluzionista ha luogo, secondo Cooper, attraverso quattro stadi, ciascuno dei quali è immediatamente riducibile a quello precedente. Il primo stadio è costituito dalle strategie di sopravvivenza degli organismi, che Cooper chiama «strategie delle storie di vita» (p. 33). Tali strategie sono riducibili direttamente alla teoria dell’evoluzione. Il secondo stadio è costituito dalla logica delle decisioni. Essa è riducibile alle strategie delle storie di vita perché consiste in un «corpo di principi e tecniche per descrivere come un agente idealmente razionale potrebbe operare scelte tra alternative disponibili, in modo autoconsistente o ‘coerente’» (p. 43). Tali principi e tecniche sono riducibili alle strategie delle storie di vita, perché sono una naturale estensione delle strategie di sopravvivenza degli organismi all’ambito dei comportamenti di scelta. Il terzo stadio è costituito dalla logica induttiva. Essa è riducibile alla logica delle decisioni perché gli assiomi di Leonard Savage per tale logica «danno luogo a una teoria della probabilità personale», e quindi «vi è almeno una teoria classica della probabilità» che «è essenzialmente riducibile alla teoria dell’evoluzione»; di conseguenza la logica induttiva è riducibile alla logica delle decisioni se «la teoria della probabilità viene considerata come una formalizzazione adeguata del ragionamento induttivo» (Cooper 2001, p. 89). Il quarto stadio infine è costituito dalla logica deduttiva. Essa è riducibile alla logica induttiva perché «per un organismo che segue una strategia evoluzionisticamente stabile, una proposizione che è logicamente implicata da certe proposizioni-premessa può essere vista come un evento la cui probabilità nello stato di credenza dell’organismo deve essere vicina a uno, se le probabilità di tutti gli eventi-premessa sono vicini a uno» (p. 107).
La riducibilità della logica alla teoria dell’evoluzione implica che la logica non è una disciplina basata «su principi sovrani per i quali non si richiede alcuna conferma empirica», ma è «una teoria empirica ordinaria» (p. 191). Il suo oggetto è costituito da «una certa classe di astrazioni concernenti conseguenze comportamentali predicibili di fenomeni evoluzionistici» (p. 192). Perciò la logica non è assoluta, ma è relativa a particolari processi evoluzionistici.
Inoltre, secondo Cooper, non solo la logica è riducibile alla teoria dell’evoluzione, ma anche la matematica è riducibile a tale teoria, perché «virtualmente tutta la matematica ordinaria può essere derivata da pochi assiomi e regole di inferenze relativamente semplici quali quelli dei Principia Mathematica» (p. 128). Ma, «se la matematica si riduce alla logica», dalla riducibilità della logica alla teoria dell’evoluzione segue che «anche la matematica deve essere riducibile evoluzionisticamente», quindi anche «la conoscenza matematica può essere vista come un’estensione di processi evoluzionistici internalizzati» (p. 135).
L’intuizionismo logico di Hanna
La seconda posizione è quella di Robert Hanna, secondo cui tutti gli animali razionali posseggono «la facoltà logica», cioè una «facoltà cognitiva che è innatamente configurata per rappresentare la logica ed è il mezzo con cui si costruiscono tutti i sistemi logici reali e tutti quelli possibili». La facoltà logica «è una facoltà mentale» ed «è innata nel doppio senso che è una parte intrinseca della mente di un animale razionale ed è anche universalmente incorporata negli umani maturi, sani, pienamente dotati», ma «non è limitata agli umani», perché «sembra perfettamente concepibile, e quindi logicamente possibile, che possano esistere logici marziani, e forse anche animali logici appartenenti ad altre specie terrestri» (Hanna 2006, p. 25).
La facoltà logica contiene innatamente la «protologica», cioè «un insieme universale non rivedibile e a priori unico di principi e concetti logici» (pp. 201-02). Tale insieme costituisce il nucleo minimo di regole logiche che ogni animale razionale deve rispettare, e sta alla base di ogni ragionamento deduttivo, anche se dà luogo a sviluppi differenti in animali razionali differenti, perché «la logica del pensiero può differire tra gli individui» di una stessa specie così come «tra specie differenti» (p. 109). Inoltre, la protologica è usata «per la costruzione di ogni sistema logico, reale o possibile» (pp. 43-44), ed è usata da logici differenti per costruire sistemi logici differenti, sebbene costituisca il nucleo comune a tutti i sistemi logici così costruiti.
Buoni candidati per appartenere alla protologica sono, per Hanna, «almeno i quattro principi metalogici seguenti, insieme ai concetti logici impliciti in essi: 1) il principio debole di validità: un argomento è valido se è impossibile che tutte le sue premesse siano vere e la sua conclusione falsa; 2) il principio debole di non contraddizione: non tutti gli enunciati sono veri e falsi; 3) il principio debole di verità logica: un enunciato è logicamente vero se risulta vero rispetto a ogni possibile reinterpretazione delle sue costanti non logiche; 4) il principio debole di trasferimento dalla verità logica alla dimostrazione valida: una dimostrazione da un insieme di premesse a una conclusione è valida se il condizionale classico corrispondente del suo argomento sottostante è logicamente vero. Ciascuno di tali principi è una versione debole di un principio basilare della logica classica» (p. 45).
La ragione per cui, secondo Hanna, tali principi metalogici sono buoni candidati per appartenere alla protologica è che «anche se ogni variante estesa o deviante della logica classica aggiunge o sottrae qualcosa a essa, nessun sistema logico può respingere assolutamente tutta la logica classica e tuttavia rimanere una logica»; così la protologica «cattura un ‘nucleo’ classico minimo che viene conservato in ogni sistema classico o non classico» (pp. 45-46). Questo permette di conciliare l’unità della logica con la pluralità di sistemi logici distinti dalla logica classica o elementare.
Ma su che cosa si basa la nostra conoscenza dei principi della protologica? Secondo Hanna, essa si basa sull’intuizione: «una capacità di intuizione logica appartiene intrinsecamente alla facoltà logica e perciò è incorporata» nella «logica del pensiero» (p. 168). L’intuizione non è uno stato mentale ma «un atto mentale», è «a priori», «comprende il contenuto», è «chiara e distinta», ci dà «una verità necessaria», «è autorevole», cioè «intrinsecamente costringente», è «cognitivamente indispensabile». L’intuizione, però, può essere «fallibile, cioè è sempre possibile che un’intuizione sia sbagliata» (pp. 171-72).
Matematica naturale e matematica artificiale
Per valutare le posizioni di Cooper e di Hanna è necessario mettere in evidenza alcuni fatti e stabilire alcune distinzioni.
All’origine del netto cambiamento di atteggiamento circa i rapporti tra logica, matematica ed evoluzione biologica che si è avuto nei primi anni del nuovo secolo, stanno alcune scoperte effettuate negli ultimi tre decenni del Novecento, le quali hanno mostrato che gli esseri umani, e in generale tutti gli organismi, hanno certe capacità matematiche innate.
Per es., i neonati di tre o quattro giorni di vita hanno un senso innato del numero perché sanno distinguere gli insiemi di due oggetti dagli insiemi di tre oggetti, sia che questi vengano presentati loro attraverso stimoli visivi oppure attraverso stimoli uditivi. I bambini di quattro mesi sanno eseguire, in modo innato e inconsapevole, semplici addizioni e sottrazioni come 1+1=2; 2+1=3; 2‒1=1. Un tale senso innato del numero è presente non solo nella specie umana ma anche in molte altre specie animali, per es. nei topi, in vari tipi di uccelli, nei leoni, nei cani, nelle scimmie, negli scimpanzé.
Ma le capacità matematiche innate degli organismi non si limitano al senso del numero. Per es., se, stando su una spiaggia in riva al mare con un cane, si lancia diagonalmente in acqua una palla da tennis, il cane non si tufferà immediatamente in mare nuotando per tutto il percorso fino alla palla, ma correrà per un tratto sulla battigia e solo allora si tufferà in mare nuotando fino alla palla. Questo dipende dal fatto che, poiché la velocità con cui un cane corre sulla battigia è superiore a quella con cui nuota, il cane sceglierà di tuffarsi in mare in un punto che minimizza il tempo necessario per raggiungere la palla. Tale punto può essere stabilito per mezzo del calcolo infinitesimale, e il punto scelto dal cane si avvicina molto a quello così calcolato (Pennings 2003). Significa forse che i cani conoscono il calcolo infinitesimale? Naturalmente no. I cani sono capaci di scegliere il punto ottimale per tuffarsi grazie alla selezione naturale, che dà una capacità di sopravvivenza maggiore a quegli organismi che hanno migliori capacità di giudizio. Perciò il calcolo richiesto per determinare il punto ottimale per tuffarsi non è effettuato dal cane, ma è stato effettuato dalla Natura attraverso la selezione naturale. È grazie a essa che i cani sono capaci di risolvere questo problema da calcolo infinitesimale.
I cani sono capaci di risolvere problemi da calcolo infinitesimale anche più complessi. Per es., se lanciamo in aria un frisbee e osserviamo come un cane corre per cercare di afferrarlo al volo quando ricade giù, vediamo che il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee. Questo esempio è più complesso del precedente perché, per prevedere dove cadrà il frisbee e nello stesso tempo determinare la direzione in cui il cane deve correre per afferrarlo al volo, occorre tener conto simultaneamente della velocità del frisbee e della velocità del cane. La ragione per cui il cane non corre in linea retta ma percorre un arco che termina nel punto in cui cade il frisbee, è che si muove in modo che la traiettoria del frisbee gli appaia come una linea retta (Shaffer, Krauchunas et al. 2004). Il cane riesce a fare questo grazie a una complessa matematica che l’evoluzione ha incorporato nel suo sistema visivo e motorio, la quale lo porta a muoversi in un modo che gli permetta di mantenere il frisbee fisso nel proprio campo visivo. Di nuovo, è in virtù dell’evoluzione che il cane è in grado di risolvere tale problema più complesso da calcolo infinitesimale.
In generale, in varie specie animali sono presenti capacità matematiche innate riguardanti non solo il senso del numero ma anche il senso dello spazio, della grandezza, della forma, dell’ordine (Devlin 2000, 2005; Lakoff, Núñez 2000). La presenza di tali capacità innate dipende dal fatto che chiaramente esse hanno una funzione biologica, servono per la sopravvivenza degli organismi e sono un risultato dell’evoluzione biologica, che le ha selezionate e incorporate negli organismi. Riguardo al senso del numero, già Stanislas Dehaene aveva affermato che la nostra aritmetica è un ‘adattamento’: «alla nostra scala il mondo è fatto per lo più di oggetti separabili che si combinano in insiemi secondo la familiare equazione 1+1=2. È per questa ragione che l’evoluzione ha ancorato tale regola nei nostri geni. Forse la nostra aritmetica sarebbe stata radicalmente differente se, come i cherubini, ci fossimo evoluti nei cieli dove una nuvola più un’altra nuvola fanno ancora una nuvola» (The number sense, 1997, p. 249).
Il fatto che capacità matematiche innate siano presenti in varie specie animali implica che la matematica non è un prodotto esclusivo della specie umana in una fase molto recente del suo sviluppo, ma affonda le sue radici in capacità che sono un prodotto dell’evoluzione biologica. La selezione naturale ha sviluppato gli organismi in modo che essi siano in grado di effettuare certe operazioni matematiche, incorporando una certa quantità di matematica in diversi caratteri della loro struttura biologica, quali la locomozione e la visione, che richiedono una sofisticata matematica incorporata. Tali operazioni matematiche sono essenziali per sfuggire ai pericoli, cercare cibo, trovare partner per la riproduzione.
Si può distinguere, perciò, la ‘matematica naturale’, cioè la matematica basata sulle capacità matematiche innate presenti negli organismi come risultato dell’evoluzione biologica, dalla ‘matematica artificiale’, cioè la matematica come disciplina quale è stata sviluppata a partire dai Babilonesi e dagli Egiziani (la matematica artificiale è denominata matematica astratta in Devlin 2005, p. 249, ma la denominazione matematica artificiale sembra più opportuna qui perché sottolinea che si tratta di una matematica che non è un prodotto naturale, non essendo un risultato diretto dell’evoluzione biologica, ma una creazione umana).
Tuttavia la matematica naturale, per quanto possa anche essere abbastanza sofisticata, è necessariamente limitata perché l’evoluzione biologica è molto lenta. Al contrario, la matematica artificiale si è sviluppata in un modo relativamente veloce negli ultimi cinquemila anni. Questo dipende dal fatto che essa è un risultato dell’evoluzione culturale, che è relativamente veloce. Perciò la matematica artificiale non è riducibile alla matematica naturale.
Matematica e logica
La matematica naturale si fonda sulla logica naturale, cioè su quella naturale capacità di risolvere i problemi posseduta da tutti gli organismi, che è un prodotto dell’evoluzione biologica. Invece la matematica artificiale si fonda sulla logica artificiale, cioè su quell’insieme di tecniche inventate dagli esseri umani per risolvere i problemi, che è un prodotto dell’evoluzione culturale.
A differenza della distinzione tra matematica naturale e matematica artificiale, quella tra logica naturale e logica artificiale non è nuova. Essa venne stabilita nel 16° sec., per es., da Pietro Ramo, ed era ancora ben presente due secoli dopo quando Immanuel Kant la riprese nelle sue lezioni di logica. In quel periodo, però, la logica artificiale era limitata all’inferenza deduttiva. Ma la logica artificiale non può essere limitata a quest’ultima, perché l’inferenza deduttiva non costituisce un modello appropriato per descrivere il ragionamento umano (Evans 2002). Perciò la logica artificiale deve includere anche inferenze non deduttive, che svolgono un ruolo essenziale in molte tecniche usate dagli organismi per risolvere problemi.
Anche la logica naturale richiede inferenze non deduttive, perché i processi attraverso i quali gli organismi risolvono i problemi legati alle loro necessità vitali fanno uso in modo essenziale di tali inferenze. Per es., i nostri antenati cacciatori risolsero il problema della loro sopravvivenza formulando ipotesi sulla posizione delle prede mediante inferenze non deduttive a partire dagli indizi forniti da erba calpestata, rami spezzati, e così via. Inoltre, la logica naturale richiede non solo inferenze non deduttive ma anche inferenze non proposizionali, cioè inferenze le cui premesse e conclusioni non sono costituite da proposizioni bensì da dati di tipo qualsiasi. E richiede inferenze inconsapevoli, cioè inferenze in cui il passaggio dalle premesse alla conclusione non avviene in modo consapevole: per es., inferenze non proposizionali inconsapevoli stanno alla base della visione, e in generale della percezione (Cellucci 2008a).
Poiché la logica naturale e la logica artificiale si basano su due diversi tipi di evoluzione – l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale – esse sono distinte; ma questo non significa che siano opposte: infatti, anche la logica artificiale si fonda, in ultima analisi, su capacità degli organismi che sono un risultato dell’evoluzione biologica.
Logica e ragione
Lo scopo principale della logica naturale è formulare ipotesi sull’ambiente al fine della sopravvivenza. Questo implica che vi è una stretta relazione tra la logica e la ricerca di mezzi per la sopravvivenza, e che, poiché in generale tutti gli organismi ricercano la propria sopravvivenza, la logica naturale non appartiene solo agli esseri umani ma a tutti gli organismi. Al contrario, la logica è stata vista tradizionalmente come l’organo della ragione intesa come una facoltà superiore appartenente solo agli esseri umani, la quale permette loro di superare i limiti della struttura biologica, limiti entro cui invece rimangono costretti gli animali non umani e le piante.
Ma la ragione non è questo; è invece la capacità di scegliere i mezzi adatti al fine di raggiungere uno scopo. Come ha osservato Bertrand Russell, ‘ragione’ «significa la scelta del giusto mezzo per un fine che si desidera conseguire» (Human society in ethics and politics, 1954, p. 8). Perciò nulla è razionale in sé, ma lo è solo relativamente a un dato fine. Ora, poiché il fine primario di tutti gli organismi è la sopravvivenza, la scelta di mezzi adatti per raggiungere tale fine può essere vista come un’espressione della facoltà di ragione, che perciò non appartiene solo agli esseri umani. Si potrebbe pensare che il concetto di ragione possa essere reso meno relativo asserendo che razionale, ossia conforme alla ragione, è ciò che è conforme alla natura umana. Tuttavia questo non risolve il problema di stabilire che cos’è la ragione; semplicemente lo rimanda al problema di stabilire che cos’è la natura umana.
Ora, la natura umana è il risultato di due fattori, ossia l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale. Nello stabilire che cos’è la natura umana, l’evoluzione biologica occupa un posto importante, perché la nostra struttura biologica ha un peso essenziale nel determinare che cosa siamo. Tale affermazione è fieramente avversata da chi, come Martin Heidegger, nega che «l’essenza dell’uomo consista nell’essere un organismo animale», dichiarando che «l’aberrazione del biologismo» consiste nel considerare il corpo dell’uomo come quello di «un organismo animale», e che «il fatto che la fisiologia e la biochimica possano indagare scientificamente sull’uomo come organismo, non prova che l’essenza dell’uomo stia in questo ‘organico’, cioè nel corpo spiegato scientificamente» (Gesamtausgabe, 9° vol., 1975, p. 324).
Ma si tratta di un’opposizione ingiustificata. La struttura biologica ha davvero un peso essenziale nel determinare che cosa siamo. Per es., i gemelli monozigoti, separati dalla nascita e allevati in ambienti differenti e senza alcuna possibilità di comunicare tra loro, presentano tratti della personalità molto simili, si assomigliano sotto numerosi aspetti del comportamento e assumono punti di vista simili sulle questioni più disparate (Pinker 2002).
Secondo quanti negano che la struttura biologica abbia un peso essenziale nel determinare che cosa siamo, i comportamenti degli esseri umani non sono ampiamente governati da funzioni biologiche comuni a tutti i membri della specie; non esisterebbe una base biologica dei comportamenti più importanti, e questi sarebbero invece un risultato dell’evoluzione culturale. Ma la tesi che i comportamenti più importanti degli esseri umani sono un risultato dell’evoluzione culturale non è in contrasto con quella che la struttura biologica ha un peso essenziale nel determinare che cosa siamo, perché la stessa evoluzione culturale si sviluppa sulla base dell’evoluzione biologica. Essa dipende dai circuiti neurali di cui l’evoluzione biologica ci ha dotati, è un prodotto della struttura biologica e perciò è strettamente legata a essa. Separarla dall’evoluzione biologica significa ignorare qual è il soggetto dell’evoluzione culturale: un organismo biologico che è il risultato dell’evoluzione biologica.
Poiché l’evoluzione biologica e l’evoluzione culturale sono ciò che determina la natura umana, esse costituiscono i termini relativi con cui commisurare la razionalità. Si noti, termini relativi. Non vi è nulla di necessario nell’evoluzione biologica né nell’evoluzione culturale. In particolare, l’evoluzione biologica non opera in base a un disegno: di fatto è andata così, ma sarebbe potuta andare diversamente. Perciò, se razionale è ciò che è conforme alla natura umana, non vi è nulla di assoluto nella razionalità. Razionalità è un termine relativo al carattere contingente della natura umana, che è il risultato contingente dell’evoluzione biologica e dell’evoluzione culturale.
Considerare la logica come l’organo della ragione, intesa come una facoltà superiore appartenente solo agli esseri umani che permette loro di superare i limiti della loro struttura biologica, significa fraintendere la natura della ragione. La logica può essere detta sì l’organo della ragione, ma di una ragione intesa non come una tale facoltà superiore, bensì come la capacità di scegliere i mezzi adatti per raggiungere uno scopo, a cominciare da quello della sopravvivenza, e perciò come appartenente a tutti gli organismi. La logica naturale è l’organo della ragione innanzitutto in quanto fornisce agli organismi i mezzi adatti per raggiungere lo scopo della sopravvivenza.
Logica ed evoluzione
Il fatto che la logica naturale non appartenga solo agli esseri umani ma a tutti gli organismi non significa che gli organismi non umani scelgano mezzi adeguati ai loro fini in base a conoscenze logiche apprese. Anche molti esseri umani scelgono i mezzi adatti per raggiungere i loro scopi, a cominciare da quello della sopravvivenza, non in base a conoscenze logiche apprese: adoperano mezzi logici come l’induzione, il rapporto causa-effetto, il principio di identità – in generale effettuano inferenze senza aver mai seguito un corso di logica, né hanno bisogno di aver meditato le pagine di David Hume sulla causalità per evitare di scottarsi le dita con il fuoco. Sono in grado di adoperare mezzi logici semplicemente perché l’evoluzione biologica li ha progettati per farlo. Non solo l’evoluzione biologica li ha progettati per usare mezzi logici, ma la logica naturale, oltre a essere uno strumento per la sopravvivenza, è essa stessa un risultato della selezione naturale. Il sistema di logica naturale che abbiamo ereditato è tale da accrescere in media le possibilità di sopravvivenza e riproduzione nell’ambiente in cui si sono evoluti i nostri più lontani antenati. Dunque, la prima e più profonda origine della ragione e della logica sta nella selezione naturale, che ha dotato gli esseri umani di quelle capacità che hanno consentito loro di sopravvivere.
L’importanza della ragione e della logica deriva dal fatto che il mondo muta continuamente e irregolarmente, e perciò pone agli organismi la necessità di adattarsi a sempre nuove situazioni. Per affrontarle, superando le difficoltà risultanti, gli organismi hanno bisogno della capacità di ragionare e della logica, che li aiutano a far fronte a queste difficoltà accrescendo il proprio valore adattativo complessivo. La logica utile a tale scopo non è soltanto la logica naturale, ma anche quella artificiale, sebbene una logica artificiale intesa non in modo restrittivo, come comprendente solo inferenze deduttive proposizionali, bensì in modo estensivo, come comprendente anche inferenze non deduttive e non proposizionali. L’evoluzione biologica ha incorporato negli organismi tutta una serie di informazioni concernenti il loro passato evolutivo nonché forme di comportamento adatte, attraverso le quali li ha predisposti ad affrontare situazioni simili a quelle che si sono già presentate nel loro passato evolutivo, e li ha predisposti ad affrontarle in modo per così dire automatico, cioè senza che il singolo organismo debba reinventare i mezzi per farlo. Per questo è sufficente la logica naturale. Ma, poiché il mondo cambia continuamente e irregolarmente, esso presenta situazioni dissimili da quelle che si erano già presentate nel passato evolutivo degli organismi, e, per affrontarle, in generale non bastano i mezzi predisposti dall’evoluzione biologica, occorrono nuovi mezzi. Trovarli è compito della logica artificiale, una logica che, come quella naturale, comprenda inferenze non deduttive e non proposizionali, ma che vada essenzialmente al di là della logica naturale, includendo forme di inferenze più forti. In questo modo essa può integrare e potenziare il lavoro dell’evoluzione biologica.
Naturalmente, che la logica artificiale debba andare essenzialmente al di là della logica naturale non significa che essa sia in contrasto con quest’ultima e, quindi, con l’evoluzione biologica. Essendo un prodotto della mente umana e perciò legata alle architetture cognitive e ai modi di pensiero della mente umana, la stessa logica artificiale dipende dall’evoluzione biologica e anche le sue leggi ne dipendono, se non direttamente, almeno indirettamente. La logica artificiale tuttavia non è riducibile direttamente all’evoluzione biologica: al contrario, è un mezzo che, andando al di là di essa, può integrare e potenziare l’evoluzione biologica (Cellucci 2008a).
Soluzione di problemi e dimostrazione assiomatica
La matematica naturale si fonda sulla logica naturale, mentre quella artificiale sulla logica artificiale. In particolare, ciascuna di queste due forme si basa sulla forma corrispondente della logica su una questione centrale: il modo in cui la matematica risolve i problemi.
Nel Novecento tale modo è stato identificato con il metodo assiomatico. Il compito di risolvere un problema matematico è stato identificato con quello di darne una dimostrazione, e la nozione di dimostrazione è stata identificata con quella di dimostrazione assiomatica, cioè di deduzione di proposizioni da assiomi che si suppongono veri in un qualche senso di ‘vero’. Una dimostrazione parte dagli assiomi e discende alla proposizione dimostrata; il suo scopo è quello di dare una fondazione e giustificazione di tale proposizione. Anche questo metodo si deve all’influenza di Frege, che, separando nettamente il ‘contesto della scoperta’ dal ‘contesto della giustificazione’, limita l’ambito della logica al contesto della giustificazione relegando il contesto della scoperta nell’ambito della mera psicologia individuale, assegna il processo della soluzione di problemi al contesto della giustificazione, fa consistere tale processo nella dimostrazione e identifica quest’ultima con la dimostrazione assiomatica. Tutto ciò si riassume nella tesi di Frege: ogni soluzione di un problema matematico consiste nel dare una dimostrazione, dove ogni dimostrazione consiste in una dimostrazione assiomatica.
Ma la tesi di Frege è inadeguata. Per es., supponiamo di voler risolvere un problema di teoria dei numeri e di voler trovare assiomi per risolverlo. In base al primo teorema di incompletezza di Kurt Gödel, non vi è alcuna garanzia che tali assiomi siano gli assiomi dell’aritmetica di Giuseppe Peano; perciò si deve essere pronti a usare, per risolvere il problema, assiomi relativi ad altri campi della matematica. Si pensi, per es., al problema di Pierre de Fermat, se esistano numeri naturali x, y, z tali che xn+yn=zn per n>2. Tale problema concerne i numeri naturali ma, come vedremo, è stato risolto da Kenneth Ribet usando un’ipotesi, dovuta a Yukata Taniyama e Goto Shimura, che concerne curve ellittiche sui numeri razionali. Non solo non vi è alcuna garanzia che bastino gli assiomi dell’aritmetica di Peano, ma addirittura, di nuovo in base al primo teorema di incompletezza di Gödel, non vi è alcuna garanzia che per risolvere il problema bastino gli assiomi attualmente noti di qualche branca della matematica. Consideriamo, per es., la tesi di Gödel secondo cui potrebbero essere necessari nuovi assiomi dell’infinito per risolvere problemi di teoria dei numeri. Perciò la soluzione di un problema non può essere relegata, come pretende la tesi di Frege, in un sistema assiomatico dato, ma richiede la ricerca di ipotesi in uno spazio aperto, non predeterminato.
Soluzione di problemi e dimostrazione analitica
In alternativa a quanto è stato fatto nel Novecento, il modo in cui la matematica artificiale risolve i problemi dovrà essere identificato con il metodo analitico. Questo è il metodo in base al quale, per risolvere un problema, si cerca un’ipotesi sufficiente per la sua soluzione. L’ipotesi si ottiene dal problema, ed eventualmente da altri dati, mediante un’inferenza non deduttiva: induttiva, analogica ecc. Ma l’ipotesi non deve essere soltanto una condizione sufficiente per la soluzione del problema, deve anche essere plausibile, cioè compatibile con i dati esistenti, nel senso che, confrontando gli argomenti a favore e gli argomenti contro l’ipotesi sulla base dei dati esistenti, gli argomenti a favore prevalgono su quelli contro. L’ipotesi è a sua volta un problema che deve essere risolto, e viene risolto nello stesso modo, si cerca cioè un’altra ipotesi che è una condizione sufficiente per risolvere il problema posto dall’ipotesi precedente, si ottiene da esso, ed eventualmente da altri dati, mediante un’inferenza non deduttiva, e deve essere plausibile. E così via all’infinito. La soluzione di un problema è dunque un processo potenzialmente infinito. Durante questo processo la formulazione del problema può essere modificata in certa misura per renderla più precisa, o può anche essere cambiata radicalmente con l’emergere di nuovi dati. Perciò lo sviluppo della formulazione del problema e lo sviluppo della soluzione del problema possono procedere in parallelo.
Il metodo analitico è un metodo sia di scoperta sia di giustificazione. Infatti, le inferenze non deduttive mediante le quali si ottengono le ipotesi possono dare conclusioni differenti a partire dalle stesse ipotesi. Per scegliere un’ipotesi opportuna tra le diverse conclusioni, si devono valutare attentamente gli argomenti a favore e gli argomenti contro ciascuna di esse sulla base dei dati esistenti. Tale valutazione è un processo di giustificazione, perciò la giustificazione fa parte della scoperta (Cellucci 2002, 2008a).
In termini del metodo analitico si può formulare la nozione di dimostrazione analitica (Cellucci 2008b). Una dimostrazione analitica è una derivazione non deduttiva di ipotesi plausibili da problemi. Essa parte da un problema dato e sale a ipotesi plausibili. Il suo scopo è scoprire ipotesi plausibili capaci di dare una soluzione del problema. Un esempio recente di dimostrazione analitica riguarda il problema di Fermat già menzionato. Ribet lo ha risolto mostrando che l’ipotesi di Taniyama e Shimura, «ogni curva ellittica sui numeri razionali è una forma modulare», è una condizione sufficiente per la sua soluzione. Poi Andrew John Wyles e Richard Taylor hanno risolto il problema posto dall’ipotesi di Taniyama e Shimura mostrando che una certa altra ipotesi è una condizione sufficiente per la sua soluzione. E così via.
Si può continuare ad affermare che il risolvere un problema matematico può essere identificato con il darne una dimostrazione. Ma la nozione di dimostrazione non deve essere più identificata con quella di dimostrazione assiomatica, cioè di deduzione logica a partire da un insieme di assiomi dati, bensì con quella di dimostrazione analitica, cioè di derivazione non deduttiva di ipotesi plausibili da problemi. Infatti, la nozione di dimostrazione assiomatica non è sostenibile a causa del primo teorema di incompletezza di Gödel.
Matematica e attività umane
Si è detto che la logica è l’organo della ragione. Ne segue che anche la matematica, essendo basata sulla logica, sia naturale sia artificiale, è un organo della ragione.Wilbur Dyre Hart afferma che, poiché la dimostrazione di Euclide dell’infinità dei numeri primi «non fa riferimento a creature viventi, sarebbero esistiti infiniti numeri primi anche se la vita non si fosse mai sviluppata. Perciò gli oggetti richiesti dal suo teorema non possono essere mentali» (The philosophy of mathematics, 1996, p. 3). Ma questa affermazione è ingiustificata, perché la dimostrazione di Euclide fa uso di concetti introdotti da esseri umani, per es. del concetto di numero primo che fu introdotto nella matematica pregreca in relazione ad attività matematiche concrete, come quella di dividere razioni di pane tra gli operai. Perciò, se la vita non si fosse mai sviluppata, i concetti usati da Euclide nella sua dimostrazione non sarebbero stati mai formati, in particolare non vi sarebbe stato un concetto di numero primo. Si potrebbe obiettare che dire che, se la vita non si fosse mai sviluppata, non vi sarebbe stato un concetto di numero primo, non fornisce alcuna informazione sulla relazione tra tale concetto e i numeri primi. Il problema è quale relazione vi sia tra i concetti umani e gli oggetti matematici. Tale problema è un problema filosofico fondamentale, che richiede una speciale indagine.
Tuttavia, se si interpreta la matematica in termini di evoluzione biologica ed evoluzione culturale, gli oggetti matematici non sono enti dotati di un’esistenza autonoma: sono invece prodotti culturali. Più precisamente, essi sono ipotesi introdotte dagli esseri umani per risolvere problemi matematici. Per es., un numero primo è l’ipotesi di un numero intero maggiore di uno i cui unici divisori positivi sono sé stesso e l’unità. Ciò si accorda con l’affermazione di Platone secondo cui «coloro che si occupano di geometria, aritmetica e scienze simili», per risolvere problemi «pongono come ipotesi il dispari, il pari, le figure geometriche, i tre tipi di angolo, e le altre cose di questo genere che sono rilevanti per ciascuna disciplina» (Repubblica, VI 510 c 2-5). Ciascuna di queste ipotesi è un problema che deve essere risolto, e viene risolto introducendo altre ipotesi, contrariamente a quanto fanno i matematici che praticano il metodo assiomatico, i quali «non ritengono di doverne dare alcun conto ulteriore né a sé stessi né agli altri», ma semplicemente «ne fanno i loro punti di partenza e traggono conseguenze da esse» (VI 510 c 6-d 2).
Tutto questo implica l’esistenza di due diversi tipi di ipotesi: a) quelle, come l’ipotesi di Taniyama e Shimura, che sono costituite da giudizi, e b) quelle, come l’ipotesi dei numeri primi, che risultano, invece, costituite da oggetti.
Dimostrazione ed evoluzione
Come abbiamo visto, la nozione di dimostrazione assiomatica viene concepita come avente lo scopo di fornire una fondazione e una giustificazione della proposizione dimostrata. Ma essa non riesce a raggiungere tale scopo perché, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, è impossibile dimostrare con mezzi affidabili che gli assiomi da cui parte una dimostrazione assiomatica sono veri, neppure nel senso debole che sono coerenti. Perciò non si può dire in alcun modo che una dimostrazione assiomatica fornisca una fondazione e giustificazione della proposizione dimostrata.
La nozione di dimostrazione analitica, invece, non si propone lo scopo di dare una fondazione e giustificazione della proposizione dimostrata; essa è una continuazione delle strategie risultanti dalla selezione naturale, mediante le quali tutti gli organismi risolvono i loro problemi più basilari a cominciare da quello della sopravvivenza (Cellucci 2008a, 2008b). Ernst Mach afferma che, anche se «apparentemente la scienza si è sviluppata come il ramo collaterale più superfluo dello sviluppo biologico e della civiltà», oggi «non possiamo più mettere in dubbio che essa sia diventata il fattore biologicamente e culturalmente più propizio. La scienza si è assunta il compito di sostituire all’adattamento che procedeva a tastoni, inconsapevole, un adattamento più rapido, chiaramente consapevole, metodico» (Erkenntnis und Irrtum, 1905, ed. 1968, p. 462). Dunque la scienza è un artefatto culturale avente un ruolo biologico. Ma allora anche la matematica artificiale è un artefatto culturale avente un ruolo biologico, perché la scienza moderna è intrinsecamente matematica. Essa ha tratto origine da una svolta filosofica, la decisione di Galileo Galilei di sostituire la tesi aristotelica che la scienza debba «specolando tentar di penetrar l’essenza vera e intrinseca delle sustanze naturali», con quella che essa debba accontentarsi «di venir in notizia d’alcune loro affezioni», cioè di conoscere alcune loro proprietà, come «il luogo, il moto, la figura, la grandezza» (Opere, 5° vol., 1968, p. 187). Tali proprietà hanno un carattere quantitativo e perciò sono di tipo matematico, a differenza delle essenze che sono oggetto della scienza aristotelica, le quali hanno un carattere qualitativo e quindi sono di tipo non matematico. Per tale ragione la scienza moderna è intrinsecamente matematica, mentre la scienza aristotelica era intrinsecamente non matematica.
Poiché la scienza moderna è intrinsecamente matematica ed è un artefatto culturale avente un ruolo biologico, anche la matematica artificiale, essendo una componente intrinseca della scienza moderna, è un artefatto culturale avente un ruolo biologico. La matematica artificiale ha pertanto un ruolo biologico come la matematica naturale, cioè la matematica incorporata negli organismi, sebbene più indiretto di quest’ultima. La matematica artificiale è un artefatto culturale avente un ruolo biologico grosso modo nello stesso senso in cui gli attrezzi fabbricati da animali non umani sono artefatti culturali aventi un ruolo biologico. Come, per es., i corvi della Nuova Caledonia fabbricano una grande varietà di attrezzi mediante i quali sviluppano tecniche che li aiutano a risolvere il problema della loro sopravvivenza (Hunt, Gray 2006), così gli esseri umani fabbricano dimostrazioni mediante le quali sviluppano tecniche che li aiutano a risolvere il problema della loro sopravvivenza. Sebbene vi siano ovvie differenze tra le dimostrazioni e gli attrezzi fabbricati dagli animali non umani, considerare le dimostrazioni come aventi un ruolo biologico aiuta a dare un senso al fenomeno della dimostrazione. Tale fenomeno è infatti incomprensibile se si intende «dimostrazione» come «dimostrazione assiomatica», cioè come mezzo per giustificare proposizioni deducendole da assiomi che comunque, per il secondo teorema di incompletezza di Gödel, non possono essere giustificati in modo assoluto. Diventa comprensibile solo se si intende «dimostrazione» come «dimostrazione analitica», cioè come mezzo per scoprire ipotesi plausibili capaci di dare soluzioni a problemi che rispondono a necessità, anche basilari, degli esseri umani.
Ha osservato Gian-Carlo Rota che, «di tutte le fughe dalla realtà, la matematica è quella meglio riuscita» perché tutte le altre fughe, «il sesso, le droghe, gli hobby, o quant’altro», sono «effimere al confronto», e parla di «senso di trionfo del matematico quando costringe il mondo a obbedire alle leggi create liberamente dalla sua immaginazione» (Indiscrete thoughts, 1997, p. 90).
Ma difficilmente questa osservazione può apparire corretta. La matematica non può essere considerata una fuga dalla realtà perché risponde a necessità, anche basilari, degli esseri umani; i matematici non costringono il mondo a obbedire alle leggi create liberamente dalla loro immaginazione perché tali leggi sono il solo modo in cui essi rendono comprensibile a sé stessi il mondo – e il funzionamento del mondo non dipende dai matematici. Inoltre, le loro creazioni non sono assolutamente libere, perché sono un prodotto della loro struttura biologica e perciò dipendono da essa.
Dimostrazione, insegnamento e apprendimento
Che la nozione di dimostrazione assiomatica sia inadeguata non vuol dire tuttavia che essa sia inutile. Il suo utilizzo principale rimane quello originariamente teorizzato da Aristotele nei Secondi analitici, cioè l’insegnamento e l’apprendimento. Questo è stato l’uso principale della nozione di dimostrazione assiomatica fin dall’inizio, come peraltro appare dagli Elementi di Euclide, che intendevano essere un manuale «per l’insegnamento elementare», in cui Euclide «non incluse tutte quelle cose che avrebbe potuto raccogliervi ma solo quelle che potevano servire da elementi» (Proclo, Commento al I libro degli Elementi di Euclide, 69.6-9).
L’uso di Euclide della dimostrazione assiomatica negli Elementi non significa che questa fosse la nozione di dimostrazione che veniva adoperata da Euclide nel corso del suo lavoro di ricerca. Un conto è scrivere un manuale, un altro è fare ricerca matematica. I manuali si scrivono quando la ricerca si è conclusa, perciò essi non sono il fine della ricerca, ne sono piuttosto la fine. La nozione di dimostrazione usata da Euclide nel suo lavoro di ricerca deve essere ricercata invece in altre sue opere, nelle quali, come sottolinea Pappo, egli «procede per analisi e sintesi» (Pappo, Collectio mathematica, I, 634.10-11). Vale a dire, in base al metodo analitico.
Sebbene, come si è detto in precedenza, il principale uso della dimostrazione assiomatica rimanga l’insegnamento e l’apprendimento, risulta possibile comunque avanzare riserve anche riguardo a tale uso. Per fare un esempio, René Descartes non adopera la nozione di dimostrazione assiomatica nella sua Géométrie (1637), ma usa invece il metodo analitico. Nel Seicento tale pratica era così diffusa che Isaac Newton diceva: «I matematici dell’ultima epoca hanno molto migliorato l’analisi, ma si fermano lì e pensano di aver risolto un problema quando lo hanno risolto» per mezzo di essa, cioè del metodo analitico, «e così il metodo della sintesi», cioè il metodo assiomatico, «viene quasi messo da parte» (MS Add. 3968, f. 101). Per loro questo «stile di scrittura sintetico è meno attraente, o perché può sembrare troppo prolisso» oppure «perché è meno rivelatore del modo della scoperta» (The mathematical papers, 8° vol., 1967-81, p. 451). Il riferimento di Newton al fatto che il metodo assiomatico sia meno rivelatore del modo della scoperta spiega la riserva di Descartes su tale metodo, che le dimostrazioni assiomatiche sembrano «scoperte più spesso per caso che per arte», per cui usandole «ci disabituiamo dall’uso della ragione stessa» (R. Descartes, Œuvres, 10° vol., 1996, p. 375). Certamente, il metodo assiomatico consente dimostrazioni più compatte, ma nasconde come sono state scoperte, e tutto ciò può avere effetti negativi sia sull’insegnamento sia sull’apprendimento.
Limiti delle posizioni di Cooper e Hanna
Alla luce dei fatti messi in evidenza e delle distinzioni stabilite sopra, appare chiaro che le posizioni di Cooper e Hanna sui rapporti tra logica, matematica ed evoluzione biologica presentano seri limiti.
Secondo Cooper, tutta la logica e tutta la matematica sono riducibili alla teoria dell’evoluzione. Ma questa tesi non è sostenibile in quanto la logica derivante direttamente dall’evoluzione biologica, cioè la logica naturale, non è sufficiente per le situazioni sempre nuove poste da un mondo che muta continuamente e irregolarmente. Come abbiamo visto, in precedenza, per affrontare tali situazioni occorre una logica artificiale che disponga di mezzi più potenti di quelli derivanti direttamente dall’evoluzione biologica, una logica che è un prodotto dell’evoluzione culturale. Analogamente, non appare plausibile che tutta la matematica sia riducibile alla teoria dell’evoluzione, perché a questa è riducibile solo la matematica naturale, che è molto limitata. La matematica artificiale, invece, è molto più ampia ed è un prodotto dell’evoluzione culturale.
Inoltre, Cooper riduce i sistemi di logica comunemente accettati alla teoria dell’evoluzione attraverso quattro stadi, ma la sua riduzione non è giustificata. In particolare, non lo è la riduzione del terzo stadio, la logica induttiva, al secondo, la logica delle decisioni, perché essa si basa sull’assunzione che la logica induttiva sia riducibile al calcolo delle probabilità. Tale assunzione è ingiustificata perché contrasta con il fatto che ipotesi ottenute mediante l’induzione possono essere plausibili, cioè compatibili con i dati esistenti, pur avendo probabilità molto piccola o addirittura zero. Perciò non vi è alcuna stretta relazione tra induzione e probabilità (Cellucci 2008a). Di conseguenza non è giustificata neppure la riduzione del quarto stadio, la logica deduttiva, al terzo stadio, perché si basa sull’argomento che una proposizione logicamente implicata da certe proposizioni-premessa può essere vista come un evento la cui probabilità deve essere vicina a uno se le probabilità di tutti gli eventi-premessa sono vicini a uno. Data l’irriducibilità dell’induzione alla probabilità, tale argomento riduce la logica deduttiva alla probabilità, non all’induzione.
Parimenti ingiustificata è la riduzione di Cooper della matematica artificiale alla teoria dell’evoluzione basata sui Principia mathematica (1910, 1912-13) di Russell e Whitehead. Infatti i Principia mathematica riducono la matematica artificiale non alla logica ma alla logica più certi principi che sono essenzialmente non logici e che, contrariamente a quanto afferma Cooper, non hanno «un contenuto empirico» (Cooper 2001, p. 128). In effetti, per il primo teorema di incompletezza di Gödel, la matematica artificiale non è riducibile alla logica.
Per quanto riguarda Hanna, egli afferma che gli esseri umani hanno una protologica innata che è sufficiente per la costruzione, l’analisi e la valutazione di ogni sistema logico. Ma ciò non è sostenibile perché la protologica, essendo innata, è un risultato dell’evoluzione biologica e perciò appartiene alla logica naturale, la quale è insufficiente per i compiti sempre nuovi che gli organismi devono affrontare. Inoltre, la protologica deve essere, da un lato, estremamente debole perché i suoi principi devono permettere di costruire tutti i sistemi logici che sono stati creati, alcuni dei quali sono incompatibili tra loro; e, dall’altro, deve essere estremamente forte, di nuovo perché i suoi principi devono permettere di costruire tutti i sistemi logici che sono stati creati, alcuni dei quali sono molto potenti. Questi due requisiti sono incompatibili tra loro.
Per di più Hanna fonda la conoscenza dei principi della protologica sull’intuizione logica. Ma questo equivale a spiegare obscurum per obscurius. Non solo è incongruo attribuire all’intuizione logica, come fa Hanna, proprietà come quelle di essere a un tempo autorevole e fallibile, perché tali proprietà sono incompatibili tra loro; ma, soprattutto, è intrinsecamente debole fondare l’intera costruzione sull’assunzione dell’esistenza di una facoltà, l’intuizione logica, di cui Hanna non dà, né si può dare, alcuna prova psicologica o biologica.
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