LOGICA
. Il termine di "logica" λογικὴ τέχνη, ἀρετή "arte abilità logica": oppure τὸ λογικόν, sottinteso μέρος τῆς ϕιλοσοϕίας "la sezione logica della filosofia") entrò nell'uso specialmente con lo stoicismo, che con esso designò la parte della filosofia concernente le forme del pensiero e dell'espressione; λόγος, per i Greci, valeva infatti tanto "ragionamento n quanto "discorso", e in rapporto con questi due significati la "logica" si distinse per gli stoici in "dialettica" e "retorica". Il termine comprese così tanto la gnoseologia (v.) o dottrina della conoscenza, teoria dei modi in cui il pensiero potesse attingere obiettivamente il reale, quanto quella scienza che più propriamente esso denominò nei casi in cui, specialmente nell'età moderna, la gnoseologia se ne distaccò per assumere più indipendente fisionomia, e cioè la dottrina delle forme in cui si moveva, ragionando, il pensiero, a prescindere dalla natura, oggettiva o soggettiva, del suo contenuto. Tale dottrina era stata, allora, grandiosamente elaborata da Aristotele; ma come questi non le aveva dato propriamente il nome di "logica" (che adottarono invece più tardi i peripatetici suoi seguaci) e aveva preferito di chiamarla "analitica" (ἀναλυτικά o ἀναλυτικὴ τέχνη, ricerca analitica delle forme del ragionamento), così i problemi a cui essa rispondeva non avevano la loro genesi soltanto nel sistema aristotelico, bensì si erano venuti formando durante tutta l'evoluzione del precedente pensiero greco. E si può dire che per nessuna scienza filosofica come per la logica il pensiero greco, sia nella sua fase di elaborazione prearistotelica, sia in quella aristotelica di sistemazione, abbia avuto importanza cosi dominante per tutto il pensiero posteriore, che in tale campo ebbe sempre di fronte agli occhi, o come ideale da seguire o come difficoltà da superare, rinchiudendola e isolandola nei suoi limiti, il modello classico. Greca è, nella sua prima radice, tutta la logica della tradizione occidentale con la quale d'altronde non interferiscono le isolate teorizzazioni logiche che si ebbero in Oriente: onde la necessità che anche in questo breve schizzo di storia della logica sia riservato all'età antica, specie alla fase prearistotelica della creazione dei problemi, uno spazio maggiore di quanto a prima vista potrebbe sembrare necessario.
L'età classica. - Prima d'assumere l'aspetto formale di una determinazione dei modi legittimi di ragionamento, il problema logico fu pei Greci, più in generale, quello del modo vero di pensare la realtà: concezione del reale e concezione del pensiero ad esso corrispondente, ontologia e logica, nacquero perciò e rimasero a lungo essenzialmente congiunte e confuse insieme. Già il problema del principio universale delle cose poneva di fronte ai primi "fisiologi" l'antitesi di una verità relativa del molteplice e della superiore verità della sua prima radice; ma il contrasto si presentò in tutta la sua crudezza quando il massimo pensatore della scuola eleatica, Parmenide, negò completamente valore di verità al primo termine dell'antitesi per attribuirlo totalmente al secondo. Alla radice del suo pensiero era l'osservazione che ogni giudizio circa il reale ogni affermazione dell'essere delle cose singole, in quanto asseriva che alcunché era alcunché e quindi non era altro, determinava l'essere col non-essere, mescolava il non-essere all'essere: e non potendo il non-essere esistere alla pari dell'essere, per l'evidente contraddizione che ne sarebbe risultata rispetto alla sua stessa natura di non ente, forza era concludere che dal punto di vista della verità nulla esisteva al di fuori del puro ente (τὸ ἐόν), mentre dal punto di vista della fallace opinione gli si aggiungeva il principio negativo del non-essere a generare l'apparenza del mondo molteplice. Ontologizzato nell'unica e assoluta realtà dell'"ente", l'"è" della predicazione respingeva nella sfera del negativo e del falso l'infinito mondo degli ὀνόματα, delle denominazioni particolari, suoi soggetti e predicati possibili. Al pensiero greco si presentava così d'un tratto, collegato a una soluzione negativa il cui superamento doveva costituire uno dei temi più importanti di tutto lo sviluppo costruttivo della logica classica, il problema dell'essere che si affermava nel giudizio, nel suo rapporto con ciò di cui si affermava e con quello che se ne affermava: due termini che esso intanto, nella sua logica invadenza, assorbiva e annullava in sé totalmente.
Ma non meno importante per l'evoluzione della logica classica era poi l'altro motivo, che pure si veniva determinando in seno all'eleatismo, in quanto esso fu tratto dalla sua naturale esigenza ontologica a concepire il suo ente come concretamente reale, e quindi a investirlo di un certo numero di predicati, che non erano meno contraddittorî rispetto al primitivo punto di partenza, per il fatto che si presentavano per lo più in forma negativa, piuttosto come esclusioni di opposte qualità che come qualità positive (non molteplice, non diviso, non generato, non perituro, ecc.). Di questi predicati parmenidei, lo scolaro Zenone sviluppò specialmente quello dell'unità, onde l'ὄν assumeva anche quell'aspetto di ἓν, che poi rimase, nella tradizione posteriore, tipico dell'eleatismo; ma le sue abilissime riduzioni all'assurdo dell'opposta concezione del molteplice furono in realtà così poco utili allo sviluppo della filosofia eleatica, che fornirono anzi le armi (come si vede, per es., in Gorgia e in Platone) ai suoi stessi dissolutori. Ben più importante, invece, per l'influsso ulteriore, quel predicato dell'eternità, della costanza ininterrotta e inalterata nella serie temporale, che Melisso (traducendo, insieme, nell'idea dell'infinita estensione spaziale del tempo, dell'ἀεί, il motivo parmenideo del presente assoluto, νῦν) giunse a considerare così essenziale e costitutivo della realtà del reale, da far dipendere la irrealtà delle apparenze molteplici appunto dalla mancanza di quell'attributo, posseduto il quale esse sarebbero state vere nello stesso grado dell'unico ente. Da Melisso i Greci appresero così a scorgere il vero nell'eterno, a pretendere dal reale che non mutasse giammai. Per l'eleatismo di Parmenide, la verità era dell'unico ente che non contraddicesse al suo puro essere con l'essere di predicati particolari; per l'eleatismo di Melisso, la verità sarebbe stata anche di altre singole realtà, quando queste avessero saputo serbare, come l'unico ente, le proprie determinazioni inalterate in eterno.
Alla grande esperienza eleatica si opponeva, d'altronde, la non meno grande esperienza eraclitea. Della quale, per incerto che resti, in tanti particolari, il pensiero dell'Oscuro di Efeso, chiaro è il sostanziale significato, anche dal punto di vista dell'influsso che essa esercitò sul pensiero posteriore. All'unità dell'ente, scevra di predicati che contraddicessero alla purezza del suo essere e quindi negatrice del molteplice e del vario, essa opponeva l'unità risultante dall'antitesi tra le cose diverse, ciascuna delle quali non avrebbe potuto essere sé stessa se non si fosse distinta dalle altre, se no avesse contrastato a quelle che più propriamente le si opponevano in un'eterna guerra madre delle infinite differenze del mondo. All'ideale dell'immota eternità, garante della verità dell'unico ente e di qualsiasi altro reale l'avesse posseduta, essa opponeva lo spettacolo dell'eterno divenire, fiume perenne in cui non era dato tuffarsi più d'una volta e da cui nasceva l'alterna vicenda delle opposte determinazioni, viventi ciascuna la morte dell'altra. Guardando al reale sul piano del suo immediato apparire, Eraclito ne affermava la contrastante varietà e il divenire perenne, con ragioni non meno forti di quelle che spingevano gli Eleati, dal punto di vista della non contraddittorietà dell'essere e del carattere eterno e immutabile della sua verità, a negargli affatto quegli stessi attributi.
Quest'antitesi di concezioni fu di tale importanza per tutto lo sviluppo del pensiero logico classico e dell'ontologia e metafisica che esteriormente lo manifestò, da conformarlo addirittura come serie ricorrente di tentativi di sua conciliazione, su piano sempre diverso e superiore. Nella loro schietta unilateralità, né l'eleatismo né l'eraclitismo potevano vivere: se il primo si volgeva contro sé stesso negl'ironici capovolgimenti che Gorgia esercitava su Zenone e più tardi Platone sugli eleatizzanti Megarici, l'altro finiva per dissolversi nelle stesse estreme formulazioni del maestro eracliteo di Platone, Cratilo, che in nome dell'assoluta mobilità del divenire fiume in cui non era dato tuffarsi non solo due volte ma neppure una sola, negava che si potesse fermare dinnanzi al pensiero l'attimo fuggente anche solo per nominarlo con la parola, e quindi si limitava, secondo il motto aristotelico, a fare cenno col dito. Così, già il pluralismo, che con Empedocle, Anassagora e Democrito concluse il periodo naturalistico della filosofia antica, cercò di conciliare essere e divenire attribuendo l'uno ai molteplici elementi primi della realtà e l'altro alle sempre nuove sintesi che se ne generavano: dove, come si vede, il motivo eleatico non era quello parmenideo dell'univocità non contraddittoria dell'essere né quello zenoniano della sua unità, ma bensì quello melissiano dell'inalterabile costanza di determinazioni propria di ogni realtà che fosse tale; e il motivo eracliteo era, in corrispondenza, solo in parte quello della diversità e della genesi dai contrarî, e più universalmente quello dell'eterno divenire del mondo. Anche qui, d'altronde, la verità più profonda restava quella eleatica dei rizomi, delle omeomerie, degli atomi; rispetto alla quale doveva risultare sempre più o meno svalutata in funzione delle sue stesse divergenze, la derivante verità dell'empirico. Donde la distinzione che in Democrito finì per staccare una verità propriamente oggettiva, corrispondente a quell'immutabile realtà eleatica, dalla verità soggettiva costituita dalle divergenti forme e dell'empirico: distinzione che anticipava così quella lockiana delle qualità primarie dalle qualità secondarie. La differenza della realtà immediata rispetto al suo assoluto principio tornava così ad essere respinta, se anche in modo nuovo, nel seno dell'irreale: sotto l'aspetto della soggettività, il diveniente molteplice eracliteo era ancora una volta rigettato dall'immobilità eleatica nell'illusoria sfera dell'opinione. Di qui la vena di scetticismo gnoseologico, che logicamente permeò il sistema democriteo.
La situazione invece si capovolse quando l'altro grande abderita, Protagora, trasferì audacemente la radice del reale in quella stessa soggettività che per l'oggettivismo era solo il suo specchio deformante. Considerato l'uomo come misura di tutte le cose, l'essere e il non essere della realtà serbava significato solo se risolto nel suo presentarsi o non presentarsi nell'esperienza. Sorgeva così un nuovo eraclitismo, che, integrando l'antica idea di un divenire oggettivo con quella di un parallelo divenire delle realtà senzienti, scorgeva poi la concreta realtà di entrambi tali processi in quella loro sintesi, che momento per momento si effettuava nella puntuale e irripetibile esperienza conoscitiva. Al relativismo eracliteo, derivante la realtà di ogni cosa dalla relazione che la stringeva formalmente o geneticamente con le altre, si sostituiva un relativismo più radicale, che non teneva conto soltanto della relazione del conosciuto col conosciuto ma anche di quella del conosciuto col conoscente. E se un divenire obiettivo doveva a rigore (come accadeva in Cratilo) risultare inafferrabile a un pensiero che dal di fuori avesse voluto coglierlo e fermarlo in una sua determinazione, nel divenire protagoreo, di cui la stessa attività conoscitiva era elemento, la realtà si costituiva e manifestava tutta attimo per attimo, nella concretezza di quel tempo presente che non aveva spazio per chi l'avesse riguardato dall'esterno, ma era spazio illimitato per chi vi si fosse trovato dentro. Di qui la concezione protagorea della totale verità di ogni conoscenza, a cui non si opponeva termine obiettivo che avesse mai potuto giudicarla falsa, e che quindi era perfettamente identica a tutte le altre quanto a valore gnoseologico, mentre da esse poteva distinguersi, graduandosi in una gerarchia, quanto al valore pratico onde essa più o meno giovava all'operare dell'uomo. Ma questa logica protagorea, che forniva la base a tutte le concezioni della sofistica, poteva a sua volta capovolgersi quando, più che all'attualità conoscitiva in cui momento per momento si risolvevano i due processi genetici delle realtà soggettiva e oggettiva, si fosse pensato che questa presupposta ed ignota realtà oggettiva appariva in essa eternamente alterata: secondo l'osservazione che più tardi costitui il fondamento del pensiero scettico e che già in questo periodo dové influire su quella corrente della sofistica giunta a invertire il protagoreo πάντα ἀληϑῆ in un πάντα ψευδῆ, l'idea della totale verità in quella del totale errore, forse anche (almeno per Seniade di Corinto) col concorso di reminiscenze eleatiche. Così anche nel seno della sofistica ricorreva, a determinare la crisi del nuovo eraclitismo soggettivo, l'esigenza eleatica dell'irriducibile obiettività del vero.
Ma se questo rinnovato urto del motivo eleatico contro il motivo eracliteo importava una conclusione negativa e scettica, nella loro conciliazione positiva, pure sullo stesso piano soggettivistico, consisté il grande contributo che allo sviluppo del problema logico fu arrecato da Socrate. Quell'immutabilità eterna dell'oggettivo che, fermata da Parmenide come irriducibile attributo dell'ente, era stata particolarmente designata da Melisso, e accolta dai pluralisti, come carattere costitutivo della verità in ogni sua possibile determinazione, fu nuovamente salvata da Socrate nel seno di quella medesima esperienza soggettiva in cui la sofistica, fidente o scettica circa il sapere che ne risultava, aveva additato la radice della sua dissoluzione. Nel pensiero degli uomini vivevano infatti quelle verità quei concetti, intorno a cui essi avrebbero potuto mettersi pienamente d'accordo quando, superando le opinioni superficiali e discordi, illusoria maschera dell'ignoranza, le avessero, attraverso il catartico esercizio del dubbio, del sapere di non sapere, scoperte e definite nella loro più genuina natura. Determinati obiettivamente i concetti del buono, del bello, del giusto, e così via, si sarebbero posseduti criterî stabili per giudicare universalmente di tutte quelle particolari realtà che avessero, o meno, meritato tali attributi; e d'altronde a quelle determinazioni universali si poteva giungere solo attraverso un faticoso esame che, partendo dai casi particolari, ne astraesse i caratteri sempre più generali, fino a scoprire quelli che fossero stati validi per la totalità dei casi. Questa l'opera, per la quale Socrate fu lodato da Aristotele come inventore "dei ragionamenti induttivi e del definire universalmente", e più genericamente passò nella tradizione come "scopritore del concetto": il che non è da intendere nel senso di una riflessa concezione che Socrate elaborasse, ma solo in quello dell'aspetto che di fronte alla consapevolezza dei logici posteriori assunse il suo concreto modo di ricerca e interrogazione interiore. Alle opinioni e ai concetti Socrate durò tutta la vita a domandare cosa fossero, ma non domandò mai propriamente a sé stesso che cosa fosse quel suo domandare cosa fossero.
Tanto è vero che di fronte al suo immediato τί ἐοτιν rinacquero in folla tutte quelle difficoltà che erano implicite nel suo motivo eleatico. Considerato l'ἐστίν dal punto di vista strettamente parmenideo, esso doveva naturalmente ricondurre all'idea della contraddittorietà intrinseca di ogni particolare concetto e predicato, essere scevro di non essere potendo trovarsi solo nel puro e unico ente, in cui l'ἐστίν dissolveva in sé ogni molteplicità di determinazioni. Così un sofista, Licofrone, per scansare queste difficoltà esiziali per ogni sorta di giudizio, di definizione, di argomentazione, evitava addirittura di fare uso del verbo εἷναι, e lo sostituiva con verbi in cui esso fosse implicitamente contenuto: caratteristico esempio dell'efficacia che, ancora in questo tempo, serbava l'ontologizzazione eleatica di quella parola. Ma le difficoltà 1ion mancavano neppure quando all'ἐστιν, ristretto all'affermazione del particolare contenuto di pensiero, veniva attribuita la funzione di sancire col sigillo della realtà, e cioè dell'immutabilità eterna rispetto a sé stessa la singola determinazione ideale (nel quale criterio del resto, caduto l'eleatismo pamenideo, permaneva l'eleatismo melissiano). E tale funzione aveva particolare importanza in quanto si opponeva ai giuochi di prestigio in cui, sul piano logico, era venuta degenerando l'ultima sofistica, o eristica, degli Eutidemo e dei Dionisodoro, ironicamente eternati da Platone nel dialogo intitolato al primo di essi. Considerando tutte le esperienze conoscitive come eguali in fatto di verità e diverse solo in fatto di valore pratico, il grande Protagora si era in realtà messo al disopra di ogni gnoseologia; ma la concezione logico-retorica, sua e di altri grandi sofisti, della possibilità di rovesciare con l'oratoria la sorte delle cause "rendendo vittoriose le ragioni perdenti", aveva indotto i più tardi epigoni a trasformare questa abilità oratoria in un giuoco verbale, onde, esposta una definizione o dimostrazione, gliene seguisse subito un'altra di valore opposto. Δισσὸς λόγος, "ragionamento duplice", che in tanto aveva sale in quanto presupponeva l'esigenza di una verità non equivoca ma univoca, rispetto a cui esso sapesse di divertente paradosso: e che di riflesso faceva avvertire il bisogno di determinazioni di pensiero le quali, permanendo eterne nella loro verità, non rischiassero di riuscire, rispetto a loro stesse, un momento identiche e un momento non identiche. Si affermava così, nell'esigenza socratica della stabile definizione dei concetti, quel che poi fu formulato come principio d'identità (A = A), e che era, come si vedrà, diverso dal principio aristotelico di contraddizione nello stesso modo in cui lo era, evidentemente, da quello eleatico dell'assoluta negazione del non essere di fronte all'assoluta asserzione dell'essere.
D'altronde, un'identità di tal genere (la quale in sé era semplicemente unità di una determinazione concettuale e come identità si presentava soltanto nell'estrinseca riflessione che, opponendosi all'idea della variabilità di quella determinazione, ne comparasse gli aspetti in diversi momenti del tempo e li constatasse identici) come poteva conciliarsi con la concreta attività logica di Socrate, che non solo quando riportava, giudicando, casi particolari sotto concetti universali, ma anche quando, definendo questi stessi concetti, costituiva propriamente equazioni di soggetti e predicati - non perdeva il tempo in tautologie predicando l'identico dell'identico, ma col "legame" dell'ἐσῖν connetteva, comunque, il diverso? A molti tra i socratici non apparve chiara la varietà di principî e di problemi che si celava sotto quel motivo dell'identità, e più conseguente sembrò attenersi alla sua astratta forma verbale negando perciò la possibilità di qualsiasi giudizio in cui il predicato non fosse stato lo stesso che il soggetto. Sostanziale negazione della possibilità del giudicare, che si comprende come prendesse piede tra i più eleatizzanti dei socratici, i megarici, indotti a tale conclusione non solo dalla generica eredità eleatica, ma anche dall'esigenza, parmenideo-zenoniana, di dimostrare l'insostenibilità di ogni predicazione particolare rispetto all'affermazione dell'unico ente. Ma in tale conclusione si accompagnarono a questi eleatici della socratica anche quelli - i cinici - che della socratica potrebbero dirsi gli eraclitei, o gli eracliteo-protagorei, in quanto, potenziando il richiamo socratico alla conoscenza di sé in una riduzione di ogni valore a quello dell'individuale esperienza pensante, finirono con lo svalutare di fronte ad essa anche ogni determinato possesso di conoscenza. Dal dispregio cinico per la scienza a paragone dell'ideale pratico dell'indifferenza e della libertà fu infatti principalmente ispirata la dottrina di Antistene, che all'idea della legittimità dei soli giudizî identici e alla conseguente negazione dell'utilità di ogni logica diede la formulazione più nota.
Chi riprese tutti questi problemi e, distinguendoli e ordinandoli nelle gerarchie di un sistema, costruì il telaio in cui più tardi poté impostare i suoi tessuti Aristotele, fu il grande scolaro di Socrate, Platone. Rivisse in lui, anzitutto, l'ormai tradizionale esigenza di conciliazione del motivo eracliteo e del motivo eleatico, nella grandiosa distinzione di un empirico mondo del divenire da un assoluto mondo della verità, in cui permanevano eterni i tipi ideali che, intervenendo nelle cose o agendo su esse come modelli da raggiungere, le traevano a loro immagine e somiglianza. E anche qui il criterio logico-metafisico della verità degli enti ideali restò quello che aveva propriamente formulato l'eleatismo di Melisso: ché, se Platone affisò a lungo lo sguardo sugli aspri problemi del "venerando e formidabile" Parmenide, adoperò anche le più sottili ironie circa gli effetti negativi che all'eleatismo derivavano dall'esasperazione unitaria di Zenone e dei suoi seguaci megarici, e considerò l'"essere" delle sue idee (che, eleaticamente, era insieme "esser vero" ed "esser reale") come coincidente con quel perdurare nelle proprie determinazioni in cui Melisso aveva additato il segno della realtà. Così, definito in funzione dell'eterna sua costanza formale (ἀεὶ αὐτὸ ἑαυτῷ κατὰ ταὐτὰ, μένον, ὡσαύτων ἔχον) l'eidos platonico si costituì proprio come metafisica ipostasi di quell'originario principio di identità, di cui s'è osservato come nascesse l'esigenza in rapporto ai giuochi logici della più tarda sofistica e ai motivi eleatici che vi si contrapponevano. Ma, identico (ταὐτόν) rispetto a sé stesso, ciascun εἷδος era poi "altro" (ἕτερον) rispetto a tutti i rimanenti; e mentre nella sua identità si concentrava il suo essere, nella sua alterità si esprimeva quel non essere, onde esso, differenziandosi dalle altre determinazioni ideali, non era alcuna di esse. In tal modo l'identità platonica trasformava profondamente l'identità parmenidea, risolvendo la sua astratta antitesi dell'essere e del non essere (nella quale il primo termine era assolutamente reale e il secondo assolutamente irreale) nel binomio dell'identico e del diverso, del positivo e determinato contenuto di pensiero e di ciò che nella sua determinazione non era contenuto, e che d'altronde, col suo stesso porsi come limite, la rendeva possibile. Di qui la concezione platonica della dialettica come scienza dei rapporti d'identità e d'alterità onde ogni idea, costituendosi nella propria unitaria determinazione e differenziandosi perciò da tutte le altre, occupava il suo posto nel sistema della realtà ideale. Concezione di grande importanza, perché, se fino allora "dialettica" era stata, secondo il valore etimologico della parola, solo un'arte del discutere e del costruire argomentazioni e dilemmi onde sconfiggere, anche illusoriamente, l'avversario, da allora in poi essa, investendo i problemi dell'essere e del non essere, dell'identità e dell'alterità, e cioè in complesso del valore che l'elemento della negatività, della diversità, dell'opposizione, aveva per la stessa determinazione positiva del vero, cominciò ad assumere quella fisionomia peculiare, che fini poi per contrapporla alla stessa logica.
D'altronde, se in tal modo soddisfaceva, contro l'indeterminismo ontologico di Parmenide, l'esigenza della determinazione particolare degli enti, e, contro il protagoreo fluire delle apparenze, quella della loro verità obiettiva e quindi eguale a sé stessa in eterno, il platonismo eliminava poi le negazioni megariche e ciniche della possibilità dei giudizî non identici riferendo la diversità fra soggetto e predicato, che in quelle negazioni appariva illegittima, alla stessa diversità ontologica che distingueva la realtà delle cose da quella delle idee. La mera identità dominava infatti nel regno di queste ultime, in quanto ciascuna di esse era identica a sé; ma vi dominava, appunto perciò, come garanzia di eterna costanza formale e non già come regola per la formulazione di giudizî, che sarebbero in tal modo riusciti meramente tautologici. Il giudizio reale, in cui il particolare soggetto s'illuminava alla luce di un universale predicato, aveva luogo bensì quando si fosse sussunta una realtà empirica sotto una sua determinazione ideale: riflettendo nel nesso predicativo quello stesso legame metafisico onde la realtà dell'idea costituiva la più profonda essenza della realtà della cosa, sia che esso fosse pensato come vera e propria "presenza" dell'ideale ncl reale implicante una "partecipazione" di questo a quello, sia che apparisse come semplice rapporto di "somiglianza", collegante i tipi ideali alle realtà che li toglievano a modello. Così la dottrina platonica del giudizio risultava saldamente connaturata alla sua metafisica, questa essendosi a sua volta così conformata per rispondere alla stessa esigenza di giustificazione del pensiero giudicante. D'altra parte, il nesso che in tale senso legava le due sfere della realtà veniva a ripetersi anche nel solo regno dell'assoluto, quando si fosse trattato di giudicare dell'essenza di ciascuna delle idee: poiché ciò non poteva farsi se non riportandola al suo posto nel complesso del sistema, e cioè rilevando quali determinazioni ideali, dalle più vaste alle più ristrette, le fossero state inerenti, mercé un discendente processo analitico che Platone teorizzò come metodo della "divisione" (διαίρεσις) dicotomica o tricotomica, e che presupponeva la concezione del regno ideale come gerarchia di concetti procedente dall'unità di quello supremo, di estensione massima e comprensione minima, verso la progressiva molteplicità degl'inferiori, di estensione scemante e comprensione crescente. Di qui il concetto di un'inerenza delle idee alle idee, di una "partecipazione" e "comunanza" degli enti (κοινωνία τῶν γενῶν), che dal punto di vista logico non si distingueva da quella che legava le idee alle cose, e al pari di essa poteva quindi autorizzare alle sintesi predicative. Così, dopo i giudizî ìn cui il soggetto veniva sussunto sotto il predicato, trovavano giustificazione anche i giudizî definitorî, in cui il predicato si adeguava al soggetto. Armonicamente, la sistemazione platonica risolveva e collocava al loro luogo tutti i problemi logici che il pensiero precedente era venuto ponendo.
E Aristotele, di fatto, non fece che approfondirla e arricchirla straordinariamente di particolari, mantenendone immutate tutte le linee maestre. La critica platonica dell'assoluto e univoco ente parmenideo fu accolta e proseguita in un'analisi implacabile, che, col motto πολλαχῶς λέγεται τὸ ὄν ("in molti sensi si dice che una cosa è"), chiarì la molteplicità dei significati che di volta in volta poteva assumere la predicazione dell'essere: e ciò, se fece passare in ombra quella dialettica di cui Platone aveva scorto per primo la più profonda natura e che agli occhi di Aristotele tornò invece ad assumere il più antico aspetto di arte delle argomentazioni capziose o soltanto probabili, servì a liberare le particolari dottrine logiche da ogni immediata preoccupazione metafisica. Il concetto dell'immutabile natura dell'idea, identica a sé nella serie del tempo, si continuò in quello più universale della necessaria determinazione che ogni realtà doveva tenere salda di fronte al pensiero, almeno per il tempo in cui avesse dovuto essere oggetto di quel pensiero: col che l'eraclitismo protagoreo era definitivamente sconfitto. E ne nacque l'aristotelico principio d'identità, che più propriamente dovrebbe dirsi principio di determinazione, nell'idea dell'identità, e nell'ibrida formulazione che il principio stesso subì quando fu espresso come "A è A", essendo implicito un elemento predicativo, e cioè una dualità di termini, che a quel principio era in realtà affatto estraneo e derivava dalla più tarda sua contaminazione con l'altro principio, presiedente all'attività giudicante e designato appunto in funzione di quella "contraddizione" che neì giudizî esso doveva evitare. Quel primo principio presentava infatti rispetto a quest'ultimo la stessa differenza onde la concezione platonica dell'identità unitaria di ciascuna idea si distingueva da quella del giudizio come connessione logica riflettente la relazione metafisica della cosa all'idea o dell'idea inferiore all'idea superiore; e allo stesso modo dell'altro acquistava nella trascrizione aristotelica una maggiore indipendenza quanto al motivo logico rispetto al suo corrispondente metafisico, in forza della più semplice ed universale concezione del giudizio come sintesi, affermativa o negativa, di concetti (σύνϑεσις o συμπλοκὴ νοημάτων) a cui esso presiedeva escludendo la contemporanea verita delle sintesi affermativa e negativa degli stessi termini (posto "A è B", è tolto "A non è B", e viceversa) e insieme la possibilità di evitare quell'alternativa ("A o è o non è B"): giusta il cosiddetto "principio del terzo, o del medio, escluso", che appare come secondo e indipendente principio logico di Aristotele quando si ritenga primo, secondo la goffa contaminazione medievale, il "principio d'identità e non contraddizione" nella formula "A è A e quindi A non è non-A", mentre si risolve del tutto nel principio di contraddizione quando questo sia genuinamente inteso, e quindi distinto da quello di determinazione, o di unitaria identità. 'Αρχὴ τῆς ἀντιϕάσεως, del resto, fu chiamato dagli antichi commentatori di Aristotele il principium contradictionis proprio in quanto l'ἀντίϕασις, la contradictio, era per lui l'antitetico binomio di un' affermazione (κατάϕασις) e di una negazione (ἀπόϕασις) di eguali termini: con un nome, quindi, che valeva "principio dell'antitesi del giudizio affermativo al giudizio negativo", e chiaramente designava la sua relazione col problema del giudizio come sintesi di noemi, e non già con quello della determinazione obiettiva dei noemi singoli.
Volendo, del resto, usar nomi più schiettamente aristotelici, si dovrebbe piuttosto parlare di principio noetico e di principio dianoetico: ché quella distinzione di forme logiche trovava appoggio anche nella precisa corrispondenza onde essa faceva corpo, nel sistema di Aristotele, con una distinzione di attività conoscitive, e cioè con quella per cui la conoscenza noetica dell'intelletto (νοῦς), appercezione unitaria dell'essenza" (νόησις ἀδιαίρετος ἡ νοοῦσα τὸ τί ἦν εἶναι) differiva dalla conoscenza dianoetica del pensiero discorsivo (διάνοια), che i singoli contenuti noetici componeva e disponeva nei giudizî e nelle argomentazioni. E come il principio di determinazione aveva valore di fondamento rispetto a quello di Contraddizione, cosi dalla conoscenza noetica discendeva la conoscenza dianoetica: con un rapporto gerarchico che già era delineato, del resto, anche nel sistema platonico, per quanto i termini di νόησις e di διάνοια vi fossero adoperati in senso simile ma non identico a quello che poi attribuì loro Aristotele. Ma, se tale superiorità del pensiero noetico si manifestava sotto molti aspetti, e anzitutto in quanto esso era concepito come specchio peculiare della verità nella sua piena e assoluta esistenza, e quindi come forma dell'autocoscienza divina, νόησις νοήσεως, e come fonte di tutte quelle prime nozioni che alle sintesi e deduzioni dianoetiche dovevano poi servire di fondamento, al meccanismo della conoscenza dianoetica, in cui vastamente si attuava il lavoro del pensiero umano nel suo sforzo di acquistare conoscenza e di risalire così verso la divina ed immota totalità del sapere, doveva poi rivolgersi il più particolare interesse di Aristotele. Di qui la grande analisi, che delle forme del pensiero dianoetico egli diede negli scritti più tardi raggruppati nell'Organo, cioè "strumento della conoscenza": dei quali le Categorie trattano dei più vasti concetti sotto cui possono essere sussunti gl'infiniti predicati del reale, il De interpretatione delle forme del giudizio, gli Analitici dei modi dell'argomentazione, deduttiva e induttiva, e della definizione, e i Topici degli elementi o "luoghi comuni" logici che si scoprono impliciti nelle argomentazioni correnti e non propriamente costruite secondo le norme poi consacrate negli Analitici. E fu appunto la grande costruzione della sillogistica (v.), attuata in quest'opera, quella che permise ad Aristotele di vantarsi iniziatore di una nuova scienza e di esercitare un influsso incomparabile su tutto l'ulteriore sviluppo della logica.
Anche questa costruzione si basava, peraltro, su fondamenti già impliciti, nella sostanza, nel sistema platonico: ché la relazione costitutiva del sillogismo aristotelico, più tardi espressa nella formula nota notae nota rei e secondo la quale un concetto compreso in un altro era compreso anche in qualsiasi altro concetto in cui fosse stato compreso il secondo, era di fatto già posta nella sistemazione gerarchica delle idee a seconda della loro estensione scemante e comprensione crescente. Aristotele chiarì la relazione nella sua nudità logica, lasciando da parte ogni presupposto metafisico, e definì il sillogismo come argomentazione nella quale, posti tre termini, e premesso un certo nesso predicativo tra il primo e il secondo e tra il secondo e il terzo, si deduceva un analogo nesso tra il primo e il terzo. Di qui l'importanza del termine medio, che doveva trovarsi in entrambe le premesse e che, assente nella conclusione, costituiva in realtà la forza logica che in essa connetteva i due termini estremi. I varî tipi dei sillogismi si distinguevano in primo luogo in tre grandi "figure" (σχήματα), a seconda che il termine medio fosse stato soggetto nella prima (o "maggiore") e predicato nella seconda (o "minore") premessa, o predicato in entrambe, o soggetto in entrambe; in ciascuna figura, poi, potevano costituirsi moltissimi modi, alternando ai luoghi delle premesse proposizioni affermative o negative, universali o particolari (e cioè colleganti, affermativamente o negativamente, il predicato con la totale estensione del soggetto, o soltanto con una sua parte). Ma della folla di modi, che così potevano configurarsi, la grande maggioranza non ammetteva poi conclusione legittima: compito degli Analitici era perciò quello di discernere i modi validi (quattro per ciascuna delle due prime figure e sei per la terza) e di mostrare come tale validità derivasse dalla loro capacità di risoluzione - mercè le norme di conversione delle premesse - nel primo modo della prima figura, nel quale premesse e conclusione erano tutte affermative universali.
Come si vede, quindi, nel campo della sillogistica aristotelica avevano ragion d'essere solo quei veri e proprî giudizî, che collegavano in una sintesi dianoetica due distinti noemi: mentre non avevano luogo quei giudizî di esistenza, che Aristotele aveva pur teoreticamente segnalati e che dianoetici erano soltanto nell'apparenza esteriore, perché in essi non si affermava di fatto che l'esistenza o l'inesistenza di un noema singolo. E non vi avevano luogo proprio in forza dello schietto carattere formale della logica aristotelica, che prescindendo dal valore di realtà o irrealtà oggettiva delle premesse si occupava soltanto delle conseguenze che ne discendevano per il semplice fatto che esse fossero state presupposte, e nella quale quindi le asserzioni o negazioni della reale esistenza dei termini non potevano esercitare alcuna efficacia sulla deduzione logica, interamente e solamente condizionata dai rapporti di comprensione e di estensione che tra quei termini vigevano o non vigevano (e l'essere, come poi Kant formulò ma come in fondo già sapeva l'antieleatico Aristotele, non era nota di concetto). Il che, del resto, risultava palese anche nella netta inversione di valore che il criterio noetico della verità subiva quand'era trasferito sul piano dianoetico: dove infatti esso, che nella sua sfera appariva come garanzia suprema del vero, in quanto appercezione unitaria onde l'intelletto s'adeguava all'intelligibile avvertendone così l'esistenza, diveniva affatto inutile, in forza del principio onde la possibilità del vero e del falso apparteneva solo alle sintesi dei giudizî, i singoli noemi restando incapaci di ricevere alcuno di quei due attributi. Conferma, cioè, del fatto che la verità dianoetica era nella sua interna costituzione verità di collegamento logico, e non già verità di obiettiva esistenza. Ma Aristotele, pure avendo posto a fondamento della sua costruzione questo specifico carattere formale, non fu sempre fedele alla limitazione di cui esso implicava l'obbligo; e soprattutto le fu infedele nella grandiosa elaborazione della dottrina dei cosiddetti sillogismi modali, e cioè composti non solamente di semplici asserzioni e negazioni di nessi dianoetici, ma anche, o soltanto, di asserzioni e negazioni della possibilità o della necessità di tali nessi. Tali valori di necessità e di possibilità non avevano infatti ragion d'essere su un piano a cui la considerazione della maggiore o minore realtà o probabilità obiettiva delle premesse era del tutto estranea, appunto perché esse vi valevano soltanto come premesse, e cioè come presupposizioni, vere o false o probabili o innegabili che in sé fossero; e o si trasferivano, quindi, immutati nella conclusione, presentando la sillogistica modale come mera ripetizione della sillogistica semplice, o l'appesantivano di complicazioni che una più attenta analisi avrebbe dimostrate inutili perché tutto ciò che in queste nuove forme di apodissi modale aveva reale efficacia logica si risolveva per intero nelle leggi dell'apodittica semplice.
Ma se a tale confusione Aristotele non sfuggì in questa sola e secondaria, parte della sua opera, essa si estese invece vastamente nell'età postaristotelica, fino a costituire uno dei principali motivi che ridussero la logica degli Analitici alla barbarica logica medievale. I postaristotelici, in realtà, erano a ciò predisposti per lo stesso carattere della loro gnoseologia, orientata non tanto verso il problema dell'intrinseca costituzione del pensato quanto verso quello della corrispondenza del pensato al reale. Schematizzando, si potrebbe dire che la dottrina greca della conoscenza fu fino ad Aristotele soprattutto logica, e dopo di lui soprattutto gnoseologica: giacché, mentre in quel primo periodo la capacità del pensiero ad attingere il reale fu in genere presupposta e l'indagine si riferì principalmente alle necessarie forme di tale pensiero, che venivano quindi ad essere anche forme della realtà, nel secondo periodo, messa in questione quell'attitudine, il problema del criterio della verità e cioè quello della distinzione fra le conoscenze che corrispondevano all'oggetto e quelle che non gli corrispondevano, venne i primo piano e soverchiò, nel campo della dottrina della conoscenza ogni altra questione. Così lo stoicismo, che al problema del criterio della verità diede, con l'idea della "rappresentazione catalettica" generante l'"assenso", la risposta più caratteristica, fu insieme quello che maggiormente s'industriò di arricchire la logica aristotelica delle nuove distinzioni di verità e falsità che fomiavano oggetto del problema del criterio. L'avviamento era stato dato, del resto, dai primi peripatetici, e cioè dagli scolari di Aristotele, Teofrasto ed Eudemo, i quali, partiti da quelle stesse qualificazioni modali che nel sistema del maestro avevano determinato una complicata aberrazione, costruirono la dottrina dei sillogismi ipotetici e disgiuntivi, e cioè delle argomentazioni che, premesso ciò che derivava dall'ipotetica verità o falsità d'una tesi, e presupposta la necessaria alternativa di due verità o falsità, applicavano nel fatto tale constatazione (per es.: se è vero A, è vero B, ma è vero A, quindi è vero B; o è vero A, o è vero B, ma è vero A, quindi non è vero B, ecc.). Sillogismi che non sillogizzavano nulla, perché - salvo il caso che in concreto si fossero presentati in modo da potersi ridurre a tipi della sillogistica semplice - non fornivano che amplificazioni tautologiche di constatazioni di fatto, annuncianti la necessaria connessione o incompatibilità di due verità obiettive. Gli stoici elevarono a sistema questi tentativi dei primi peripatetici, con risultati che, tradizionalmente irrisi, vorrebbero ora, coerentemente, rimettere in onore quegli storici e teorici della moderna logistica, che partecipano, fra le altre, anche di siffatta confusione mentale.
Questa mescolanza del motivo esistenziale proprio della gnoseologia col motivo formale che era venuto costituendo la logica fino alla sua sistemazione aristotelica, si manifestava del resto anche in quelle filosofie che non accettavano la concezione stoica del criterio della verità, e anzi affettavano disinteresse per quel problema. L'epicureismo rifiutava l'esame della corrispondenza del pensiero al reale, empiristicamente pago di quella soggettiva certezza della sensazione, da cui sorgeva il piacere e il dolore, supremo metro delle cose, e di cui i concetti, le idee, gli universali, tanto studiati da Platone e da Aristotele, non erano che "prolessi" o anticipazioni mnemoniche. Ma in quella stessa adesione empiristica al contenuto del senso era, più ancora che nello stoicismo, la volontà di attenersi al certo, alla saldezza del dato; e, analogamente, alle dottrine della logica formale veniva attribuito (pur nel loro rifiuto, e forse proprio come motivo determinante del rifiuto) un carattere esistenziale, che tradiva una confusione del tutto simile a quella osservata. Tipicamente appariva questo nella famosa negazione del principio del terzo escluso, considerato infatti (in connessione con un assai interessante e problematico capitolo del De interpretatione, in cui lo stesso Aristotele appariva preso dalle difficoltà della cosa) come tale che avesse costretto ogni evento futuro ad accadere e non accadere, e quindi necessitato il corso delle cose e negato quell'indeterminismo così importante per l'ideale epicureo della libertà; dove l'alternativa puramente formale del principio di non contraddizione o terzo escluso, asserente che se un evento fosse accaduto con una data qualificazione non avrebbe potuto nello stesso atto accadere senza di essa, si trasformava in un'alternativa di carattere esistenziale, affermante che l'evento avrebbe dovuto, o meno, realizzarsi con quella data qualificazione, e quindi escludente la possibilità del caso opposto.
Più rigorosi di tutti, gli scettici negarono l'utilità dell'apodittica aristotelica, chiarendo come il sillogismo fosse un "logo diallelo", un "ragionamento reciproco", in cui si ricavava dalle premesse quel che nelle premesse si era già dovuto presupporre. Per dedurre che, tutti gli uomini essendo mortali e Socrate essendo uomo, Socrate era mortale, bisognava prima conoscere anche questa verità particolare, perché altrimenti non si sarebbe potuta presupporre l'universalità senza eccezioni della premessa maggiore. La deduzione cioè, osservavano gli scettici, si appoggiava a un'antecedente induzione, e insieme con questa si chiudeva in un circolo vizioso. Critica che a rigore non vinceva Aristotele, il quale, pur avendo speso tanta cura anche nel teorizzare il processo induttivo del ragionamento, risalente dal particolare all'universale, non aveva d'altronde mai pensato che le "protasi immediate", onde discendeva l'apodissi, fossero fornite dall'induzione, e ne aveva invece assegnata la conoscenza a quell'unitaria appercezione noetica, che si riconnetteva (attraverso le poi tanto dibattute dottrine dell'intelletto attivo e passivo) allo stesso pensiero divino e rispetto alla quale il processo induttivo poteva valere tutt'al più come avviamento propedeutico. Ma in ogni modo tale critica metteva esattamente in chiaro il carattere puramente analitico di quell'apodittica, e mostrava una volta per sempre come la massima creazione logica dell'antichità non potesse mai servire come strumento per la conquista di nuovo sapere, ma solo come mezzo per riconoscere quali conoscenze fossero state implicite in altre già date.
Il Medioevo e l'età moderna. - Così lo scetticismo, che, mostrando sul piano della gnoseologia come l'oggettività del reale non avrebbe mai potuto essere raggiunta o controllata dalla soggettività del pensiero senza pericolo di eguale soggettivazione, fissava il limite negativo del pensiero antico di fronte all'inversione soggettivistica con cui poi fu detto che Agostino abbia inaugurato il pensiero moderno, concludeva anche sul piano della logica quel grandioso processo storico che, culminato nella costruzione aristotelica, doveva poi esercitare tanto influsso sulla tradizione posteriore. Ma si trattava, appunto, più di tradizione e d'influsso che di reale sviluppo storico; e ciò non solo per tutta quella logica medievale, della quale è noto come si affannasse a ripetere e complicare e contaminare delle più varie confusioni la logica aristotelica, ma anche per quella logica più recente, generata in un momento di distrazione dal grande Leibniz e ancor oggi vigoreggiante in taluni paesi col nome di "logistica", la cui tradizione è per convenienza teorica e didascalica da ricollegare a quella medievale e da tener separata da quella della logica più veramente moderna, che, divergendo dall'indirizzo aristotelico e trovando se mai qualche antecedente nella dialettica platonica, aveva i suoi incunaboli nel kantismo e veniva in massimo fiore nell'idealismo postkantiano.
Questo influsso dell'aristotelismo divenne a poco a poco così predominante, da soverchiare anche gli altri pur notevoli motivi che con esso facevano intrinsecamente contrasto. Vigorosamente rappresentato, nel sec. II d. C., dal medico Galeno, a cui la tradizione ascrive l'aggiunta della quarta figura del sillogismo e l'odierna logistica l'onore di avere per primo vagheggiato l'ideale di una logica ordine geometrico demonstrata, esso penetrò vittoriosamente nello stesso neoplatonismo con l'opera dei commentatori di Aristotele, tra i quali emergeva la figura di Alessandro di Afrodisia. Così, i rinnovatori del platonismo da una parte riprendevano (specialmente con Plotino e con Proclo) i problemi dell'antica dialettica, e, pur mescolandoli sincretisticamente con altri e discordanti motivi (tra cui prevaleva quello di un eleatismo inteso come mistico punto di partenza) li trasmettevano al Medioevo e inserivano nel suo sviluppo speculativo un principio antitetico a quello dell'aristotelismo e d'altra parte si facevano, proprio in forza del loro intento di costituire, con molto calore d'affetto e pari bonarietà teorica, il fronte unico della cultura classica e di ovviare così al suo declino rispetto a quella cristiana, primi garanti del trapasso dell'aristotelismo antieleatico e antiplatonico e antimistico, al pensiero medievale. Di un neoplatonico latino, Boezio, furono infatti le compilazioni a cui il Medioevo attinse le sue conoscenze di logica, per tutto il periodo in cui non gli furono direttamente note le opere aristoteliche. Più tardi, con Psello, si aggiunse l'influsso della tradizione bizantina, divenuta poi di dominio comune nell'Occidente con la traduzione che del suo manuale fece, nelle famose Summulae, Pietro Ispano (poi papa Giovanni XXI), se non è vera la più recente opinione che, contro tale tesi del Prantl, sostiene quella dell'indipendenza delle Summulae dallo scritto bizantino. Solo attraverso l'opera dei commentatori arabi la logica aristotelica tornò ad esercitare influsso diretto, che divenne poi pieno nell'età delle traduzioni, culminata con la grande opera di commento di Alberto Magno e con quella di sistemazione di Tommaso d'Aquino.
Ma questo processo di crescente aristotelismo, se non era di semplice adeguazione alla logica dell'Organo e anzi s'industriava sovente di ampliarne e particolareggiarne le dottrine, non accresceva poi la costruzione aristotelica di alcun reale significato speculativo. Di tutti i problemi teorici che propriamente stavano alla base delle dottrine aristoteliche del concetto, del giudizio e del sillogismo, e che così vivamente si erano venuti delineando nel periodo di preparazione prearistotelica, nessuno fu avvertito e affrontato dal pensiero medievale, che pure su quelle dottrine tanto si affaticò: esso le considerò come di fondamento indiscusso, e suscettibili di essere arricchite e perfezionate nel particolare, ma non riprese in esame negli elementi costitutivi. Si può quindi, nel complesso, dire che dell'enorme lavoro speso dai pensatori medievali intorno alla logica fu per lo sviluppo storico della logica stessa privo, o poverissimo, d'importanza tutto quello che si riferì propriamente ai problemi della sillogistica classica e alle dottrine ad esso attinenti. Più interessanti invece le controversie che, pur non concernendo direttamente la logica nel suo aspetto formale, avevano relazione con i suoi più remoti presupposti logico-metafisici, e indirettamente contribuivano quindi a preparare anche la critica di tale concezione: come, per es., quella che si agitò intorno al problema del cosiddetto principium individuationis (cioè del principio che, nel processo discendente dall'universale al particolare, giungesse a costituire l'individualità in cui si concludeva quel processo), che ebbe nell'idea dell'haecceitas di Duns Scoto la sua formulazione più caratteristica. E come, più ancora, la celebre contesa degli universali, nella quale vennero a fronte, e variamente si contaminarono, le due tipiche tendenze del pensiero medievale, quella platonica e quella aristotelica, o meglio quella che, obbedendo all'oggettivismo platonico reso immanente da Aristotele, sosteneva la reale esistenza degli universali inerenti agl'individui ("realismo", capeggiato da Guglielmo di Champeaux) e quella che, proseguendo il motivo di riduzione alla sfera logica dei rapporti d'implicazione oggettiva delle entità ideali, in fondo già latente nell'aristotelismo, vedeva negli universali dei semplici concetti mentali o addirittura delle denominazioni, flatus vocis ("concettualismo" di Abelardo, "nominalismo" di Roscellino, con le infinite varietà e mescolanze che derivarono da questi tre tipi fondamentali).
In tale controversia infatti veniva affermandosi sempre più chiaramente la tendenza a riabbassare, comunque, verso la sfera umana tutto quel quadro di valori ideali in cui la logica tesseva le sue tele, togliendo cosi a poco a poco alla sillogistica la principale ragione che la sorreggeva nel sistema aristotelico, in cui l'apodissi dianoetica appariva come attività mediatrice tra le verità noetiche e l'esperienza terrena. E ciò si fece manifesto specialmente nell'occamismo che facendo trionfare quella tendenza con la sua concezione terministica collaborava alla dissoluzione della scolastica non meno che con gli altri suoi motivi critici e scettici. Respinta l'idea d'un sistema oggettivo e in sé trascendente di verità universali, cadeva anche l'importanza dell'apodissi sillogistica, pregiata dal Medioevo, appunto perché rispondeva alla sua idea della verità come costituita dall'eterno in eterno, e possesso di una divina sapienza da cui dovesse discendere all'intelletto umano prima per rivelazione e poi per deduzione: idea che il pensiero medievale, dopo averla ereditata da quello antico, salvo la soprastruttura teologica, professò, come già l'aveva professata questo, senza eccezioni, anche nei teorici che più sembrarono divergerne (quale, il bizzarro Raimondo Lullo, che, se aggiunse ai suoi trattati di logica tradizionale un'Ars magna in cui sognò di costruire il sistema universale dei concetti e di fornire così il concreto strumento non solo per la deduzione ma anche per l'invenzione delle verità, poté farlo appunto in quanto presupponeva l'esistenza reale e data di un simile sistema).
D'altra parte, se la concezione medievale della realtà si mostrava da questo punto di vista così connaturata ai presupposti capitali della logica classica, neppure mancavano in essa elementi che la ponessero invece in pieno contrasto con quella. Se infatti la concezione classica della verità e della logica quadrava perfettamente con la sua idea della divinità come perfezione attuata e puro sapere, immune di potenza e d'amore, essa si accordava anche con la concezione teologica medievale in ciò che questa attingeva da quella aristotelica, ma le era incompatibile per quel che in essa era di più nuovo e cristiano, e cioè per l'idea della divinità come amore, azione e potenza. L'urto fra la teologia greca dell'intelligenza e la teologia cristiana della volontà, che costituì il dramma della concezione medievale di Dio, intenta a conciliare quei due termini (secondo l'immortale espressione dantesca, della "luce eterna", che grecamente "sola in sé side e sé sola intende" e cristianamente "ama ed arride") si rifletté nella sfera logica come contrasto fra l'idea di un sistema assoluto di verità e di rapporti razionali e quella di un'onnipotenza divina che non poteva aver limite neanche in tale immutabile sistema. Di qui l'intrinseca, e non di rado esplicita, ostilità di tutto il volontarismo medievale, culminante in Duns Scoto, per la concezione sillogistica e apodittica della conoscenza, più volentieri sostituita con quella di un'illuminazione mistica, che meglio poteva apparire adeguata alla forma in cui di volta in volta il divino volere, nella sua assoluta e quindi imperscrutabile libertà, costituiva il mondo delle verità e dei valori nelle loro logiche relazioni. Più decisa fra tutte fu, nel sec. XI, la tesi di Pier Damiani, il quale negò che l'onnipotenza divina potesse essere limitata anche dal puro principio di non contraddizione, la cui validità andava ristretta alla sola inopia naturae: trasferendo così sul piano volontaristico il contrasto tra l'infinità del supremo e la finità del contingente (affermato nell'antichità soprattutto dal neoplatonismo, che pur tanto influsso esercitava su questa corrente del pensiero medievale) e dando formulazione tipica a quell'antinomia di teologia e logica, o meglio di teologia cristiana e logica-teologia greca, che permeò tutta l'età di mezzo e il cui influsso si spinse tanto oltre, da indurre ancora nel secolo XVII un pensatore insieme cattolico e dispregiatore della logica classica come Cartesio a considerare il principio di non contraddizione come limite, sia pure unico, dell'onnipotenza divina.
Come le altre dottrine che più propriamente tenevano dell'elemento antico e trascendentistico del pensiero medievale, anche la logica aristotelico-scolastica dell'apodissi decadde dal suo posto d'onore, in genere per la nuova atmosfera spirituale dell'Umanesimo e del Rinascimento e in particolare per il mutato interesse della gnoseologia. Impallidito l'ideale di una rivelazione e di una conoscenza che scendessero dall'alto, e affermatosi quello opposto di un'esperienza che partendo dal mondo dell'umano e del particolare ne carpisse i segreti e instaurasse così sulla natura il regno dell'uomo, la ricerca logica abbandonò la deduzione per l'induzione, il procedimento che dall'universale ricavava il particolare per quello che dal particolare risaliva all'universale. Di qui il novum organum e l'instauratio magna di Bacone, che più d'ogni altro diede espressione all'idea della conoscenza empirica della natura come mezzo per il suo pratico dominio: di qui la metodologia di Cartesio e lo sperimentalismo di Galileo, e tutta l'analisi dell'esperienza che, nel senso di una sempre maggior riduzione del suo contenuto oggettivo, fu poi compiuta dall'empirismo inglese e francese. Ma come questa indagine del fatto conoscitivo mirava soprattutto a discernere i suoi elementi oggettivi da quelli soggettivi, e anche quando cercava di determinare i processi onde dalle più semplici sensazioni ed esperienze si generavano per associazione le idee più alte e complesse non poteva in fondo mai fornire altro che esemplificazioni di tali processi, e non mai regole assolute che li dominassero, così a tutta questa gnoseologia non si può dire corrispondesse una logica la quale affermasse più che il generico principio dell'induzione, onde l'universale nasceva dal particolare. Di fatto, del procedimento induttivo non potevano darsi leggi valide assolutamente a priori, ma solo norme metodiche, regulae ad directionem ingenii, per orientarsi nell'analisi delle esperienze notandone le concordanze e le diversità, predisporre nuovi esperimenti, e via dicendo. E come il sapere di metrica non basta a rendere poeti, così tali avvertimenti metodici potevano tutt'al più scaltrire, ma non mai creare gli scopritori sperimentali delle verità: né le cose mutavano con la matematizzazione delle scienze sperimentali, nella quale non altro si faceva che semplificare ed esprimere più rapidamente, in termini simbolici, i risultati universali indotti dalle esperienze, e con lo stesso linguaggio tachigrafico anticipare ipoteticamente nuove esperienze possibili, da provare poi nel reale.
Non si creò quindi allora, né si creò più tardi (nonostante i ripetuti tentativi, che ebbero massimo rigoglio nella seconda metà dell'Ottocento, quando le scienze sperimentali vennero in pieno fiore e legarono ai proprî interessi anche la filosofia, e che tuttora si compiono) una vera e propria logica dell'esperienza, che aggiungesse al principio generale della conoscenza induttiva come classificazione di dati singoli in schemi universali non già semplici norme metodologiche, di validita sempre empirica (come, per es., quella delle variazioni concomitanti), ma reali leggi e categorie, dotate di quel carattere di apriorità e assolutezza senza cui non avrebbero potuto costituire una logica degna del nome. Ma si creò, in compenso, quella gnoseologia delle scienze sperimentali, a cui il naturalismo del Rinascimento contribuì col richiamo all'immediata esperienza delle cose, l'empirismo inglese con la dissoluzione dei presupposti oggettivistici concernenti sia la materia sia la forma dell'esperienza (lo stesso scetticismo humiano, negando l'oggettività del nesso causale, lo ricondusse alla concreta attività del pensiero tesoreggiante le successioni osservate per prevedere le successioni future), e la critica più recente (per es., Rickert, Bergson, Croce) col chiarimento, operato a riparo delle illecite invadenze positivistiche, del carattere pratico della scienza sperimentale, semplificante la realtà in schemi atti a meglio prevederne e dominarne l'accadere. Né tale concezione gnoseologica, onde la moderna scienza naturalistica appare diretta erede dell'antico metodo epagogico di Socrate e d'Aristotele, sembra destinata a cadere di fronte alle critiche che si vengono movendo contro il concetto di causa: giacché, inteso tale concetto nel senso prettamente soggettivistico a cui si è accennato, esso non può non essere intrinseco a qualsiasi legge si voglia porre come costitutiva dell'accadere, anche quando essa si presenti nella forma apparentemente contraddittoria di un calcolo delle probabilità. Del mero caso non si dà scienza, e il caso calcolato non è più caso, come già sapeva il vecchio Epicuro.
D'altra parte, anche la logica della deduzione continuò ad avere cultori, sia nella sua forma classica, aristotelico-scolastica, sia nella traduzione simbolica che prese il nome di logistica. Aliena ormai dallo spirito dei pensatori anche più logici e razionalistici dell'età moderna (Cartesio la dispregiava apertamente, e il rigore deduttivo della spinoziana Ethica more geometrico demonstrata era affatto diverso da quello che esteriormente la rivestiva), la logica formale classica si rifugiò tra studiosi di second'ordine, che le dedicarono cure appassionate di conservatori e restauratori. La Francia ebbe un celebre testo scolastico nella Logique de Port-Royal; la Germania, che con la scuola leibniz-wolffiana ne aveva dato quelle vaste trattazioni didascaliche che costituirono il punto di partenza delle critiche kantiane e postkantiane, tornò dopo l'età idealistica a propugnare, contro gli abusi della dialettica, l'uso salutare della logica del buon tempo antico (per opera, principalmente, di Adolfo Trendelenburg e di Bernardo Bolzano, l'ultimo dei quali tenuto in gran conto dalla odierna scuola "fenomenologica" capeggiata da E. Husserl e liberamente proseguita da M. Heidegger, la quale, mirando all'analisi e alla sistemazione di tutti i valori logici che si possono scoprire intrinseci al pensiero, tramezza tra la logica formale e la dottrina delle categorie). Non occorre dire, d'altronde, che la tradizione della logica scolastica continuò a vivere, come tuttora continua, nell'insegnamento della Chiesa cattolica.
Ma la forma nella quale la logica classica sopravvive nell'età moderna non come semplice restaurazione o perfezionamento dell'antico ma in figura di grande rinnovamento, e con tale rigoglio di studî da far credere a una sua reale vitalità, è quella della così detta logica matematica (v.), o logistica. Questa dottrina trae le sue origini da una non molto felice idea del grande Leibniz (grande, in verità, come matematico, gnoseologo e metafisico, ma non troppo come logico, se credette di completare la serie degli assiomi aggiungendo ai principî medievali d'identità-non contraddizione e del terzo escluso quel principio di ragion sufficiente, che nella logica in realtà non entrava affatto, riferendosi invece alla concezione teleologica dell'accadere, e cioè a un problema di filosofia della pratica). Egli pensò che, come si potevano trascrivere in termini matematici i rapporti tra le realtà fisiche, e continuare a calcolare su essi senza più riferirsi a quelle realtà, alle quali potevano infine essere applicati i risultati dei calcoli, così si dovevano poter simboleggiare schematicamente anche le operazioni logiche, in modo da poter prescindere, ragionando o almeno controllando l'esattezza dei ragionamenti, dal contenuto particolare dei ragionamenti stessi. Concezione la quale (a parte intrinseche difficoltà, che rendevano illegittimo quel paragone tra matematica e logica) presentava l'esigenza di conformare un simile calculus ratiocinator - quand'esso non avesse voluto significare i semplici rapporti d'implicazione concettuale già esaurientemente previsti dalla logica classica - con una ricchezza di segni che lo avesse messo in grado di esprimere qualsiasi concetto (ars characteristica est ars ita formandi atque ordinandi characteres, ut referant cogitatione seu ut eam inter se habeant relationem, quam cogitationes inter se habent, diceva Leibniz): portato alla sua perfezione, cioè, esso si sarebbe identificato col vocabolario, anzi con tutti i vocabolarî del mondo. Questa idea, che non aveva avuto fortuna ai suoi tempi, è invece tornata in onore nel secolo XX anche per opera delle indagini teoriche dell'italiano G. Peano e della sua scuola, e delle accurate ricerche storiche compiute dal Couturat sulla logica leibniziana; e, trovato il suo classico nei Principia mathemathica di B. Russell e A. N. Whitehead, ha conquistato, specialmente tra i matematici, molti cultori: tra cui sono da ricordare, anche quali precursori, gl'inglesi A. de Morgan e G. Boole, i tedeschi E. Schroder e G. Frege, e ora il polacco J. Lukasiewicz con la sua scuola di Varsavia, ecc.
Tali, dunque, le forme di diretta sopravvivenza della logica antica nel pensiero moderno. Altra, invece, era la vera logica di questo pensiero, il quale, come si opponeva all'antico in tutta la concezione del reale, così doveva differenziarsene anche nella logica che quella concezione sosteneva. Nata nel corso della grande indagine con cui Kant gettava le basi della gnoseologia moderna, essa si presentò come nuovo organo conoscitivo accoppiante l'assolutezza della deduzione all'inventività dell'induzione. A Kant la logica classica appariva come conclusa, e fin dal tempo di Aristotele, in un sistema sostanzialmente perfetto: però la sillogistica era rigorosa ma sterile, e l'astrazione degli universali dai particolari feconda ma contingente, perché soggetta a smentita da parte di altre osservazioni particolari. Occorreva sostituire, ai giudizî analitici a priori dell'apodittica e a quelli sintetici a posteriori dell'epagogica, giudizî che fossero insieme a priori e sintetici, cioè universalmente necessarî e tali che la loro predicazione non significasse solo un'analisi di conoscenze già note nei termini, ma accrescesse realmente col predicato il contenuto del soggetto. Come dottrina della sintesi a priori si costituì quindi quella "logica trascendentale", che ne teorizzava la possibilità mostrando come nell'esperienza il materiale oggettivo, proveniente dalla cosa in sé e quindi apportatore di continue novità al pensiero, assumesse forma universale nelle pure intuizioni dello spazio e del tempo e negli schemi categorici dell'intelletto, che soli rendevano possibile (con le loro connessioni, tra cui era fondamentale quella di causalità) tale esperienza. Al difuori della logica trascendentale restava invece la dialettica, come dottrina delle contraddizioni o antinomie nelle quali incorreva il pensiero quando avesse voluto concepire la realtà prescindendo dai limiti dell'esperienza possibile, e cioè, per es., superando le determinazioni temporali e spaziali ordinate dall'intuizione e aprendo il regno della libertà accanto a quello della necessità causale prescritta dall'intelletto. Cosi la logica s'identificava con la gnoseologia, perché la teoria delle forme legittime e illegittime in cui si moveva intrinsecamente il pensiero era nello stesso tempo quella dei modi in cui esso poteva, o meno, appercepire, fenomenicamente trasformandola, la noumenica realtà.
Era d'altronde caratteristico come anche questa moderna logica restasse contesta di motivi e di concetti che alla logica antica appartenevano e che solo sul piano di quella avevano la loro ragion d'essere. Il fatto stesso dell'antitesi aveva generato analogie, e molto era stato semplicemente trascritto dall'antica notazione nella nuova. La sintesi operata dall'intelletto era affatto diversa da quella onde la copula collegava soggetto e predicato, e pur continuava a rivestirsi della forma del giudizio; la nuova tavola delle categorie poteva bene essere contrapposta da Kant alla "rapsodia" di quelle aristoteliche, ma non faceva poi che riprodurre la serie dei tipi aristotelici del giudizio, passati attraverso le aggiunte e le deformazioni scolastiche. E anche quando la gnoseologia kantiana, attraverso la critica degl'immediati successori e soprattutto del Fichte, si sbarazzò dell'idea di un'oggettività noumenica e considerò il pensiero non più come diretto all'apprensione e sistemazione di una realtà estranea ma come dotato di vita e sviluppo autonomi, quell'influsso degli antichi concetti logici crebbe, anziché scemare, di efficacia. Essa infatti si dissolveva come gnoseologia, risultando chiara da tal punto di vista la contraddizione intrinseca a ogni dottrina della conoscenza, che, definendo il conoscere come modificazione di una realtà, doveva pur conoscere tale realtà senza modificarla, per poterne asserire l'esistenza e constatare la modificazione che vi arrecava il pensiero. Da un lato, il pensiero gnoseologizzante doveva compiangere le deformazioni della realtà che operava il pensiero gnoseologizzato: dall'altro, la necessità universale di tali defomazioni, e cioè di tale gnoseologia, era negata dalla stessa attività del pensiero gnoseologizzante. Ma, se la gnoseologia cadeva, restava la logica, appunto come legge dell'indipendente vita del pensiero: e qui tornava più larga la possibilità di quegli influssi classici.
Anzi, non solo era con ciò riaperta la via ai motivi della logica aristotelica, ma la rivalutazione della dialettica, che in contrasto con Kant compirono i suoi successori idealisti, ridiede adito a quelle formulazioni che già l'antichità aveva elaborate in ordine a tale problema. Non più costretto nei confini dell'intelletto e della possibile esperienza, il pensiero non riconosceva a sé limite che da sé stesso non si ponesse, e che non potesse valicare per porsi in una determinazione più ampia, poi egualmente superabile dal suo assoluto potere. Solo, anzi, in questo porre e superare il limite, che il pensiero faceva determinandosi in una data posizione mercé la differenza e il contrasto rispetto alla posizione diversa od opposta e riassorbendo in sé questa posizione antitetica come essenziale alla sua stessa natura e quindi ad essa non estrinseca ma intrinseca, la verità si approfondiva e svelava nella sua sempre maggiore interiorità, autocosciente e autonoma. Né il fatto che ciascuna posizione del pensiero risultasse superata da quella che idealmente le succedeva doveva far apparire tale processo di posizioni come svalutazione continua, onde le singole determinazioni fossero una dopo l'altra sommerse nell'infinito espandersi della consapevolezza: giacché tale idea rispondeva proprio all'astratta antitesi kantiana della finità e dell'infinità (la prima svalutata dalla seconda, e la seconda inafferrabile dal pensiero, condannato alla prima, se non come indefinito allontanamento del limite) che la dialettica aveva per compito precipuo di superare, mostrando come ogni determinazione conoscitiva, perfettamente delimitata nel suo momento e pure intrinsecamente connaturata a tutte le altre determinazioni ideali dal cui superamento essa era sorta e che dal suo superamento dovevano sorgere, partecipasse insieme della finità più concreta e della più esauriente infinità.
Era, tutto ciò, sostanzialmente conforme all'assoluta natura dello spirito, dovunque presente e perciò infinito della maggiore infinità pensabile, e pure particolarmente determinato in ogni sua posizione già secondo quel più profondo principio noetico d'Aristotele per cui non si dava contenuto d'esperienza non qualificato distintamente da tutto ciò che fosse altro da esso. Principio fondamentale della logica classica, che si chiariva così non soltanto pertinente alla sfera della teoria, ma costitutivo della piena e unitaria natura dello spirito, il quale non sarebbe stato vivo e agente e si sarebbe fermato nella greca immobilità e indifferenza della divina νόησις νοήσεως, se avesse aggiunto all'irraggiungibilità del suo limite di pura consapevolezza un'egualmente insuperabile infinità di contenuto, e non un'esperienza determinata al di là della quale restasse sempre aperta la possibilità del diverso, e quindi della mutazione. Ma questa più interna ragione dell'atteggiamento speculativo onde l'idealismo germanico sentiva da un lato di doversi opporre, in nome della dialettica, a quell'intellettualismo di Kant che come gnoseologia del finito tornava alla natura della logica classica, e d'altro lato avvertiva la particolare validità di tale principio del finito e l'esigenza di valorizzarlo a suo luogo nello stesso sistema della dialettica, restò anche agli occhi dei maggiori postkantiani velata dall'aspetto essenzialmente gnoseologico, che alle dottrine di essi derivava dal loro stesso punto di partenza. Se la storia prekantiana della conoscenza era stata una gnoseologia dell'adeguazione del pensiero al reale, e la critica kantiana una gnoseologia dell'adeguazione del reale al pensiero, gl'idealisti, che rifiutavano persino quell'ultimo presupposto di oggettività, concepivano tuttavia l'autonomo sviluppo del pensiero, pur considerato quale unica e assoluta realtà come un processo teoretico onde la verità cresceva su sé stessa, acquistando sempre maggiore consapevolezza di sé. Di qui l'aspetto di deduzione dialettica delle categorie logiche del reale, che assunsero questi sistemi e che serbava lo stesso carattere essenzialmente teoretico anche quando la deduzione si distingueva in quelle delle categorie del logo, della natura e dello spirito.
E a questa considerazione della dialettica come dottrina del sapere contribuì fortemente anche il modo in cui si presentò ai postkantiani lo stesso principio costitutivo di quella logica classica, a cui si contrapponeva la logica nuova. Nella tradizione scolastica, come s'è detto, i due principî, noetico e dianoetico, di Aristotele si erano fusi nell'ibrido principium identitatis, che, formulato come "A è A", contaminava l'unità dell'oggetto del principio noetico con una dualità dianoetica fittizia, in quanto costituita di un'equazione di termini assai più adatta a prender posto fra i giudizî tautologici del cinico Antistene che fra le aristoteliche sintesi di noemi. In quella infelice formula conobbero i postkantiani il principio della logica classica; e, per ciò che in essa vi era di noetico, giustamente sentirono come in pieno le si opponesse il principio dialettico, che contro l'esigenza classica dell'unitaria e immota determinazione di ogni contenuto di pensiero, respingente da sé tutto ciò che rispetto ad essa fosse altro, faceva valere la nuova idea dell'incessante processo, onde ogni verità si determinava solo riferendosi ad altro, e ponendo insieme e superando il suo limite. Come del resto aveva veduto già lo stesso Platone, quando l'aveva posta in funzione del rapporto onde ogni idea, serbando immota nella serie del tempo la sua unitaria determinazione, risultava qualificata dalla sua identità rispetto a sé stessa e dalla sua alterità rispetto a tutte le altre: salva, s'intende, la differenza che distingueva questa dialettica statica, teorizzata nel Sofista, da quella dialettica dinamica onde ogni idea, ponendo e superando il suo limite, trapassava in altre idee, e, che, ironizzata nel Parmenide come degenerazione megarica dell'eleatismo, con incongruenza storica e congruenza teorica, era celebrata dai postkantiani come culmine dell'antica dialettica.
Ma, per ciò che nella formula medievale dell'identità era invece di dianoetico, e cioè di riferentesi al principio di non contraddizione garante dell'alternativa irriducibile dell'affermare e del negare, del sì e del no, i postkantiani furono indotti a credere che la loro dialettica si opponesse alla logica classica proprio nel suo principio dianoetico, e asserirono l'immanenza della contraddizione all'universa realtà. Di qui l'aspetto anche più astrattamente gnoseologico che assunse il sistema dialettico come processo delle verità, nascente ciascuna dalla contraddizione della precedente e condannata a contraddirsi per generare la successiva; di qui lo scandalo dei logici benpensanti, a cui tale dialettica non poteva non apparire incontrollabile giuoco di prestigio, procreante le verità più discordi nella folle danza del si e del no, e insieme l'interiore angoscia degli stessi dialettici, che da un lato celebravano la contraddizione e dall'altro erano forzati, non solo nel comune pensare ma anche nelle argomentazioni speculative in cui, per es., denunciassero le contraddizioni altrui, a non consentire alla contraddizione e a consentire alla non contraddizione (e Hegel medesimo, che così pienamente negava il principio dianoetico, compiva gli sforzi più assurdi per reintrodurre nel suo sistema, sia pur con l'intento di un'adeguata trasvalutazione, la vecchia logica sillogistica che da quel principio discendeva; mentre, poi, ciò che muoveva in concreto i suoi processi dialettici era soltanto quel motivo dell'Andersheit, in cui riviveva l'opposizione noetica della ταὐτότης alla ἑτερότης). Di qui, infine, quelle stesse più comiche aberrazioni degli epigoni traducenti in tesi, antitesi e sintesi i paragrafi della botanica e i continenti della geografia, che piombarono la dialettica nel ridicolo in cui restò sommersa per tutta la seconda metà del secolo XIX, e che non potevano sorgere se non quando il principio dialettico avesse attinto, dalla stessa sua astratta contrapposizione al formalismo dianoetico, il medesimo carattere di strumento utile a tutti gli usi.
Nella rinascita dell'idealismo, iniziatasi in Italia nel secolo XX, queste confusioni della dialettica romantica sono man mano venute in chiaro, parte in forma esplicita, parte per le stesse modificazioni generali del punto di vista speculativo, che hanno tolto valore a quelle formalmente superstiti. Così, la Logica crociana è ancora una "scienza del concetto puro", e vi si parla di giudizî definitorî, proprî della filosofia determinante le categorie dello spirito, arte pensiero economia morale, e di giudizî individuali, proprî della storiografia sussumente le singole esperienze spirituali sotto ciascuna di tali categorie, neppur tacendo l'intento di rinnovare un sano aristotelismo; e la corrispondente riforma della dialettica hegeliana, se acutamente insiste (separando il principio di opposizione, presiedente al rapporto fra i quattro valori spirituali e le loro antitesi negative, dal principio di distinzione concernente la relazione reciproca di quei valori) sulla necessità di distinguere, nelle complesse deduzioni dialettiche di Hegel, il giuoco del motivo della contraddizione da quello del motivo dell'alterità, seguita tuttavia a concepire la dialettica come strumento teoretico, per un verso proprio dell'attività filosofica dello spirito e per altro verso garante della relazione di essa con le altre tre, e quindi misticamente superiore a tutte. Ma questi arcaismi logici e dialettici sono, nel sistema crociano, inessenziali di fronte alla vichiana risoluzione della gnoseologia in metodologia del pensiero storiografico, riducente tutta la realtà a concreta e contemporanea esperienza storica e tutto il lavoro teoretico a riconoscimento di tale esperienza. Né i chiarimenti metodologici e i saggi critici e le narrazioni storiche del Croce appaiono costituiti di giudizî, definitorî o individuali, con soggetto, predicato e copula, ma libere parole dotate di valore estetico od oratorio, e comunque destinate, dal punto di vista logico-storiografico, a valer solo come psicagogiche generatrici di esperienza spirituale, e, prodotta tale azione, a dissolversi.
Parallelamente, l'attualismo gentiliano ha compiuto, nella Logica come teoria del conoscere, il tentativo grandioso di conciliare la classica opposizione di logica antica e di moderna dialettica, concependo l'una e l'altra come momenti del sistema dello spirito, che l'oggettività della logica dell'astratto risolve e conserva nella soggettività della logica del concreto. Ma, a correggere il complesso aspetto gnoseologico assunto da tale sistemazione, e a volgere - secondo il suo stesso intento di assoluta conversione della logica nell'etica - alla dottrina dello spirito come pura azione e libertà lo stesso concetto del rapporto Ira l'oggettiva determinazione del contenuto dell'esperienza, garantito dalla logica classica, e il suo eterno superamento soggettivo, segnalato dalla moderna dialettica, esso ha insieme fatto valere la sua fondamentale idea dell'attualità dello spirito, il quale è veramente base del tutto in quanto soggettivamente sorregge anche le oggettivazioni che mediti di sé stesso. Più profondo del pensiero che le gnoseologie studiano e delimitano è il pensiero che quelle gnoseologie crea e quei limiti varca con lo sguardo; e che quindi chiarisce illegittima o contingente ogni singola logica o gnoseologia non risolubile nel semplice atto di consapevolezza del suo pratico operare, il quale, necessariamente legato alla determinatezza della sua esperienza, può dirsi obbediente all'antica norma logica, e, di essa eternamente insoddisfatto e infedele, può chiamarsi seguace del nuovo demone dialettico. Nella storia dei problemi logici e gnoseologici questa verità dell'attualismo può così esser designata come parola ultima dello spirito moderno, il quale, riconosciuta illimitabile la natura del suo conoscere, ha con ciò eliminato ogni particolare teoria del conoscere.
Bibl.: Per ciò che concerne l'esposizione particolare di ciascun sistema e movimento di pensiero, v. le voci riguardanti singolarmente i pensatori e le scuole. Da confrontare sono inoltre gli articoli descriventi lo sviluppo di concetti e problemi logici di cui si è fatto cenno nel presente schizzo storico (v., per es., apodissi; contraddizione; giudizio; identità; logica matematica; logos; modalità; sillogistica, ecc.). Indichiamo qui solo le più importanti trattazioni generali di storia della logica. Opera fondamentale è quella di C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, voll. 4, Lipsia 1855-70 (ristampa anastatica, Lipsia 1927: una traduzione italiana ne è in preparazione): il vol. I concerne la logica dell'antichità classica ed è ormai alquanto invecchiato nella concezione e insufficiente nel materiale; gli altri tre trattano la logica medievale fino al Rinascimento, e sono tuttora indispensabili per la gran ricchezza di documentazione in essi contenuta. Punto di vista del Prantl è quello della rivendicazione antihegeliana di un aristotelismo vero contro l'aristotelismo deformato della tradizione medievale. Inoltre: F. Harms, Geschichte der Logik, Berlino 1881; F. Ueberweg, System der Logik u. Geschichte d. logischen Lehren, 5ª ed., Lipsia 1882; E. Cassirer, Geschichte des Erkenntnisproblems, 2ª edizione, Berlino 1911; R. Adamson, A short History of Logic, Edimburgo e Londra 1911; Th. Ziehen, Lehrbuch der Logik auf positivistischer Grundlage mit Berücksichtigung der Geschichte der Logik, Bonn 1920; F. Enriques, Per la storia della logica. I principii della scienza nel concetto dei pensatori matematici, Bologna s. a.; H. Scholz, Geschichte der Logik, Berlino 1931 (breve compendio, dal punto di vista logistico). Interessante per molti punti di storia della logica è anche la raccolta degli Scritti di G. Vailati, Firenze-Lipsia 1911. In particolare, sulla logica prearistotelica: E. Hoffmann, Die Sprache u. die archaische Logik, Tubinga 1925; J. Stenzel Logik, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XIII, Stoccarda 1926, coll. 991-1011. Per l'intepretazione della logica aristotelica data nel presente articolo v. G. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, Firenze 1927; per quella generale della genesi e dello sviluppo della logica greca, id., Studi sull'eleatismo, Roma 1932; per il modo in cui l'idealismo postkantiano intese il principio della logica classica, id., Logica antica e dialettica hegeliana, in Verhandlungen des II. Hegelkongresses, Tubinga-Haarlem 1932, pp. 67-76. Per la dialettica greca: M. Losacco, Storia della dialettica, I: Il periodo greco, Firenze 1922 (più espositiva che critica). Inoltre: F. Enriques e Diaz di Santillana, Storia del pensiero scientifico (I, concernente l'età antica, Milano 1932), che vuol essere insieme una storia dei presupposti logici di tale pensiero; cfr. però G. Calogero, in Giornale critico della filosofia italiana, XV (1934). Infine, per la storia della logica matematica e della logistica: J. Venn, Symbolic Logic, 2ª ed., Londra 1894; C. I. Levis, A Survey of Symbolic Logic, Berkeley 1918; J. Jörgensen, A Treatise of Formal Logic, its evolution and main branches, with its relations to Mathematics and Philosophy, voll. 3, Copenaghen-Londra 1931 (il vol. I è dedicato per intero alla trattazione storica).