Logica
di Chaïm Perelman
Logica
sommario: 1. La concezione ‛formale' della logica: lo studio delle verità logiche: a) l'oggetto della logica e la tradizione aristotelica; b) l'antipsicologismo di Frege e il problema dello status delle proposizioni; c) l'impostazione di Quine: la nozione di evidenza, la logica dell'identità, la verità logica come verità necessaria; d) dalla sintassi alla semantica; altri tipi di logica. 2. La concezione ‛pragmatica' della logica: lo studio della comunicazione: a) il dilemma tra realismo e nominalismo; b) la pragmatica; c) la comunicazione in una lingua ‛ordinaria' e la ricerca di una interpretazione adeguata; d) la teoria dell'argomentazione. □ Bibliografia.
1. La concezione ‛formale' della logica: lo studio delle verità logiche
a) L'oggetto della logica e la tradizione aristotelica
Una riflessione filosofica sulla logica deve essere preceduta dalla determinazione dell'oggetto della disciplina, e non accontentarsi della semplice identificazione, così frequente ai nostri giorni, della logica con la logica formale. Infatti, mentre a partire da Aristotele la logica è stata assimilata allo studio della struttura dei ragionamenti e dei mezzi di prova, la sua riduzione alla logica formale sposta verso la metodologia, la psicologia e l'epistemologia lo studio del ragionamento induttivo e di tutte le forme d'argomentazione: la logica viene così a limitarsi allo studio sistematico delle verità logiche e della sola prova dimostrativa.
Delimitando in tal modo l'oggetto della logica, gli studiosi contemporanei pretendono di continuare la tradizione di Aristotele, il quale definisce come oggetto degli Analitici primi lo studio della dimostrazione e del ‛sillogismo', cioè di un ‟discorso in cui, poste talune cose, alcune altre ne seguono di necessità per il solo fatto che le prime sono poste" (24b 18-20). Notiamo subito che il sillogismo, così come è stato definito da Aristotele in questo passo, s'identifica con il ragionamento deduttivo in generale, e non con quelle particolari strutture che noi oggi definiamo come sillogismi. Per Aristotele (Topici 100a 7-29), il ragionamento deduttivo costituisce una dimostrazione se le premesse del ragionamento sono vere, il che garantisce la verità della conclusione.
Ma Aristotele non aveva mai preteso che la logica dovesse necessariamente limitarsi all'oggetto degli Analitici primi. Al contrario, l'aver radunato nell'Organon parecchi altri trattati è un'indicazione a favore della tesi opposta. Definendo l'oggetto della Retorica come la ricerca dei mezzi di persuasione appropriati a ogni circostanza, egli non esita ad accostarla alla dialettica e perfino alla dimostrazione, che sarebbe il mezzo di persuasione più efficace (Retorica, I, 1354a 1-5, 1355a 4-7). Compito del logico è, secondo Aristotele, analizzare ogni tipo di ragionamento, che si tratti di sillogismo o d'induzione, d'entimema o di ragionamento attraverso esempi, di prova o di prova apparente, di dimostrazione o di fallacie. La verità è che per Aristotele il ragionamento è a un tempo una struttura espressa in formule determinate e un discorso interiore dell'anima (Analitici secondi I, 76b 24-25). La logica moderna, al contrario, dopo Frege e la sua lotta contro lo psicologismo (quale si è manifestato, per esempio, nei primi lavori di Husserl: (Über den Begriff der Zahl. Psychologische Analysen, Halle 1887 e Philosophie der Arithmetik. Logische und psychologische Untersuchungen, vol. I, Halle 1891), ha cercato di eliminare ogni traccia di psicologia dalla logica, alla quale la nozione stessa di mente sarebbe, come dice Russell (v., 1903, vol. I, p. 4), totalmente estranea (irrelevant).
b) L'antipsicologismo di Frege e il problema dello status delle proposizioni
Per Frege è il predicato ‛vero' che determina l'oggetto della logica, così come il predicato ‛bello' determina quello dell'estetica e il predicato ‛buono' quello dell'etica. ‟Come devo pensare per raggiungere lo scopo, cioè la verità?" Noi facciamo affidamento sulla logica per rispondere a tale interrogativo, senza esigere peraltro che essa penetri in ogni campo particolare del sapere per studiarne gli oggetti: assegnamo alla logica il compito di indicarci quanto vi è di più generale, ciò che rimane valido in ogni campo del pensiero. Le regole del nostro pensiero e di ciò che consideriamo come vero si debbono ritenere determinate dalle leggi di ciò che è vero (Wahrsein) (v. Frege, 1971, pp. 38-39). Si può dunque dire che ‛la logica è la scienza delle leggi più generali di ciò che è vero'.
Frege considera però vana la ricerca della definizione del vero, poiché, se si definisce la verità della rappresentazione per mezzo della sua coincidenza con il reale, si potrebbe in ogni caso chiedere: ‟È vero che la rappresentazione coincide col reale?" E un tale quesito potrebbe essere sollevato per ogni definizione della verità. La verità è qualche cosa di così fondamentale e di così semplice che non vi è modo di ridurla a qualcosa di più semplice.
Più spesso si attribuisce la verità alle proposizioni; ma allora bisogna limitarsi alle proposizioni assertive, attraverso le quali si comunica un fatto o una legge matematica o naturale, escludendo le proposizioni interrogative, ottative o imperative. Per proposizione, inoltre, non bisogna intendere una sequenza di suoni, poiché tale sequenza potrebbe esprimere una proposizione vera in una lingua e falsa in un'altra, e il senso che consideriamo come vero potrebbe essere reso da altri suoni in un'altra lingua: è il senso di un'asserzione ciò che esprime un pensiero (Gedanke), di cui si può dire che è vero o falso. A questo tipo di pensieri bisogna opporre i pensieri apparenti (Scheingedanken), che si trovano nella poesia e nella mitologia, e che non sono né veri né falsi poiché non esiste il soggetto di cui si parla. L'enunciato ‛Scilla ha sei bocche' non è vero; ma l'enunciato ‛Scilla non ha sei bocche' è altrettanto non vero: questo perché, secondo Frege, non si può parlare di verità di una proposizione se non quando il soggetto di essa designa un oggetto reale. Altrimenti si tratta, come nel caso di ‛Scilla', di un nome proprio apparente (Scheineigenname), servendosi del quale non si possono formulare che proposizioni apparenti. Ci si imbatte, in questo esempio, nel problema dei rapporti tra la verità e l'esistenza, problema le cui soluzioni differiscono a seconda della filosofia della logica adottata. Ma poiché non considera l'idea di verità come relativa al dominio preso in esame, Frege è obbligato a far dipendere la sua logica da un'ontologia assolutista.
Per comprendere come un pensiero (Gedanke) possa essere concepito senza far riferimento alla psicologia, bisogna accuratamente distinguerlo dalla rappresentazione, che è sempre la rappresentazione di qualcuno. D'altra parte, la verità è indipendente dalle nostre opinioni, da quanto noi riconosciamo come vero: altrimenti due opinioni non potrebbero contraddirsi, né sarebbe possibile considerare un'opinione come erronea. Non solamente - ci dice Frege - i pensieri non hanno bisogno, per essere veri, d'essere riconosciuti come tali, ma la loro verità è indipendente dal fatto che noi li pensiamo. Una legge di natura, difatti, non è inventata da noi: essa è scoperta. ‟Come un'isola deserta in un mare di ghiacci si trovava là molto tempo prima del momento in cui un uomo l'ha scorta, così le leggi della natura e le leggi matematiche sono valide da sempre, e non solo dal momento della loro scoperta. Possiamo concludere, allora, che i pensieri (Gedanken), se sono veri, lo sono non solo indipendentemente dal nostro riconoscimento, ma anche indipendentemente da ogni attività di pensiero (Denken)" (v. Frege, 1971, p. 46).
Da quanto detto risulta che, per evitare ogni confusione, bisognerebbe tradurre la parola Gedanke di Frege col termine ‛idea'. L'oggettività caratterizzerebbe non solamente le idee vere, ma anche quelle false, poiché il vero e il falso hanno lo stesso status, che è indipendente da ogni attività di pensiero (v. Frege, 1971, pp. 53-54).
Alcuni enunciati come, per esempio, ‛ho freddo', sembrano contraddire la teoria appena presentata, poiché questo stesso enunciato espresso da una persona sarà vero, da un'altra, falso. Ma in realtà l'idea, per essere vera o falsa, deve essere perfettamente determinata, e si dovrebbe essere in grado di enunciarla in una maniera che la renda indipendente da colui che la pensa o la formula, e dalle circostanze di tempo e di luogo che accompagnano l'enunciato. L'affermazione ‛piove' può essere vera o falsa solo se viene completata in modo tale da eliminare ogni indeterminazione dall'idea così presentata.
Nella misura in cui le proposizioni dell'aritmetica sono vere, i numeri devono avere un'oggettività che li renda suscettibili di diventare oggettò di scienza. Occorre dunque riconoscere non solo l'esistenza di realtà sensibili, corporali, ma anche la sussistenza d'un mondo d'oggetti ideali - quali i numeri e una infinità d'idee, tanto vere che false - di cui le scienze matematiche presuppongono l'oggettività, e che sarebbero indipendenti da ogni mente conoscente.
Una concezione della logica, e della matematica, che non esiti ad accogliere tutte le conseguenze dell'antipsicologismo, porta a un ‛realismo' delle idee, che viene associato al platonismo e che gran parte dei logici si rifiuta di ammettere.
La controversia riguardante le conseguenze ontologiche dell'antipsicologismo, che ricorda la disputa medioevale sugli universali, è nota nella letteratura filosofica contemporanea come il problema dello status delle ‛proposizioni'.
Le proposizioni sarebbero entità tali che: a) sono vere o false (ma non vere e false); b) il loro valore (di verità o di falsità) resta immutabile; c) sono al di fuori del tempo; d) entrano in relazioni logiche; e) possono costituire l'oggetto d'una asserzione, d'una credenza, d'un dubbio, e possono essere affermate o negate; f) possono essere espresse per mezzo di differenti enunciati (sentences) in una o più lingue (v. Pospesel, 1969).
Mentre per Frege, e per molti altri logici contemporanei, l'esistenza di proposizioni è un presupposto della logica, per altri filosofi invece l'ipotesi della loro esistenza è tanto bizzarra quanto inutile. È bizzarra poiché equivale all'esistenza d'una infinità di proposizioni semplici, metà delle quali sono false, che non sono state mai pensate da alcuno, e d'una infinità di proposizioni complesse derivate da quelle semplici. D'altra parte, questa teoria, la cui sola ragione d'essere sarebbe quella di spiegare ciò che hanno in comune enunciati col medesimo senso, e che dovrebbe essere in grado di rispondere al quesito: ‟che cos'è il senso di un enunciato?", non adempie alla sua funzione, in quanto certi enunciati possono avere lo stesso senso senza che questo sia una proposizione, e enunciati che non hanno lo stesso senso possono esprimere una medesima proposizione (v. Pospesel, 1969, pp. 283-285).
Un buon numero di logici, non potendo rassegnarsi al realismo delle proposizioni o delle idee, preferisce adottare una posizione nominalista, riducendo lo status delle proposizioni a quello di entità linguistiche, quali gli enunciati che renderebbero gli stessi servigi che ci si attende dalle proposizioni (v. Gochet; 1972).
c) L'impostazione di Quine: la nozione di evidenza, la logica dell'identità, la verità logica come verità necessaria
Al di là delle loro divergenze, il comune presupposto dei logici moderni, sia nominalisti che realisti, grazie al quale sperano di evitare ogni psicologismo, è il loro attaccamento alla formalizzazione della logica. Da questa formalizzazione alla riduzione dell'oggetto della logica allo ‟studio sistematico delle verità logiche" (v. Quine, 1970, p. XI), il passo è breve; le verità logiche sono evidenti (obvious) sia in atto (actually) che in potenza: ciascuna di esse è evidente così com'è, oppure può essere raggiunta a partire da verità evidenti attraverso una successione di passi, ciascuno di per sé evidente (v. Quine, 1970, pp. 82-83). La nozione di ‛evidenza', nella misura in cui caratterizza tanto il punto di partenza quanto ogni operazione della logica, sfuggirebbe alla psicologia, almeno individuale, e si applicherebbe ai segni altrettanto bene che alla loro interpretazione: essa deve infatti garantire la verità degli assiomi di partenza, e non solamente l'accordo sui segni iniziali e sulle regole di formazione di espressioni corrette a partire dagli elementi. Tale evidenza non può essere garantita che attraverso presupposti, i quali condizionano ogni sforzo di formalizzazione: cioè, il senso dei segni primitivi (non definiti) e le regole di formazione non possono dar luogo alla minima ambiguità né ad alcuna controversia. Nel momento in cui potrebbe nascere una disputa, com'è il caso delle diverse formulazioni della teoria degli insiemi che permettono di evitare i paradossi della teoria classica, si esce - secondo Quine - dal campo della logica cosi come egli la concepisce (v. Quine, 1970, p. 64).
Secondo tale definizione della logica, che dovrebbe garantire un fondamento incrollabile e indiscutibile del sapere umano, ogni ragionamento controverso, che si tratti dell'argomentazione o anche dell'induzione, non rientra più nella logica, ma nell'epistemologia, nella teoria della conoscenza (v. Quine, 1970, p. XI). Per evitare un circolo vizioso, con la definizione della logica come studio sistematico delle verità logiche, occorre indicare gli elementi e le tecniche che permetterebbero, per ricorrenza, di costruire le verità logiche e nient'altro.
Si parte da enunciati schematizzati da lettere quali ‛p' o ‛q' e di cui sappiamo che sono veri o falsi, il che costituisce il presupposto fondamentale d'una logica bivalente. Sostituendo in un enunciato uno o due (o più di due) nomi d'oggetti con le variabili ‛x', ‛y', ‛z', si ottengono espressioni predicative a una o due (o più di due) variabili. A partire da ‛5〈0', si può ottenere ‛x〈0', o ‛x〈y', che Quine definisce come ‟enunciati atomici aperti" a una o due variabili (v. Quine, 1970, p. 23). Aggiungendo gli operatori di negazione (‛¬') e di prodotto logico (‛⋀'), si possono costruire, partendo da enunciati atomici, enunciati molecolari il cui valore di verità dipende e può essere definito a partire dal valore di verità dei primi.
Sostituendo in un enunciato atomico un nome d'oggetto con una variabile, si indicherà la parte invariabile con lettere maiuscole, quali ‛F', ‛G', che prenderanno il nome di funtori. Per completare il linguaggio della logica, Quine aggiunge ancora un quantificatore esistenziale (‛∃x', ‛∃y') composto dal simbolo ‛∃', e dalla variabile che viene quantificata. ‛(∃x) Fx' si leggerà: esiste un x che soddisfa il funtore F; se ‛Fx' si traduce con ‛x è positivo', ‛(∃x) Fx' si leggerà: esiste un x tale che x è positivo.
A partire da questi differenti segni primitivi, si potrà introdurre, per mezzo di definizioni classiche, gli altri operatori della logica, e in particolare i segni che indicano la somma logica, l'implicazione e l'equivalenza, nonché il quantificatore universale (‛per ogni X'). Per completare l'arsenale del logico, Quine vi aggiunge la logica dell'identità (‛='), definita dall'assioma ‛x=x' e dallo schema assiomatico ‛¬[(x=y)⋀(Fx⋀¬Fy)]' (è falso che un oggetto sia identico a un altro e contemporaneamente vi sia un predicato soddisfatto dal primo oggetto e non dal secondo). Gödel ha potuto mostrare, infatti, che i procedimenti capaci di provare tutte le verità logiche con quantificazione saranno in grado di provare tutte le verità logiche con quantificazione e identità (v. Quine, 1970, p. 62).
Notiamo, incidentalmente, che l'identità così definita - che è l'identità del logico e del matematico - non riguarda esseri che mutano, poiché, secondo tale definizione, il re in piedi non è identico al re seduto: la definizione d'identità, infatti, implica che tutte le qualità di esseri identici siano le stesse. Ne segue che gli oggetti ai quali si applicano le leggi dell'identità saranno immutabili ed eterni, come i numeri. Perché la logica formale così concepita abbia un oggetto, che permetta la formulazione di verità logiche, occorre che esistano verità eterne, indipendenti da ogni fattore contingente: la logica si occuperebbe del valore di verità di proposizioni eterne (v. Quine, 1970, p. 14). Non c'è da stupirsi, allora, che partendo di qui si possa facilmente passare alla concezione difesa da H. Scholz, sulle orme di Leibniz, secondo cui la logica consisterebbe nell'insieme delle proposizioni vere in tutti i mondi possibili (v. Hasenjaeger, 1968, p. 241).
Una proposizione vera in tutti i mondi possibili è una proposizione la cui verità non dipende da ciò che accade in questo o quel mondo possibile, cioè da quanto è semplicemente contingente. Poiché l'esistenza di questa o quella lingua, di questa o quella convenzione linguistica non è stata mai considerata come una verità necessaria (per alcuni movimenti filosofici, quale l'empirismo logico, ogni affermazione d'esistenza, ogni affermazione sintetica è contingente e perciò estranea alla logica), ne segue che l'identificazione delle verità logiche con le verità necessarie dovrebbe concepirsi indipendentemente da ogni convenzione linguistica, da ogni decisione o stipulazione. Sarebbe infatti impensabile che quanto è necessariamente vero dipendesse da una convenzione umana, di qualunque tipo.
Le verità logiche, in quanto necessarie, non dovendo dipendere dall'esistenza di alcun ente, si presenteranno come giudizi ipotetici: se una certa premessa è vera, ne deriva una certa conseguenza. Il sillogismo sarebbe l'espressione tipica di una verità logica: una proposizione ne implica una seconda e, se la seconda ne implica una terza, la prima implica la terza. Le verità logiche che non hanno la forma d'un rapporto ‛condizione-conseguenza' sarebbero nondimeno riconducibili a uno schema siffatto. In questo modo il principio del terzo escluso ‛¬p o p' e quello di non contraddizione ‛¬(p e ¬p)' possono essere ricondotti ambedue al principio d'identità ‛se p, allora p' nella logica bivalente classica, nella quale vale il principio della doppia negazione ‛se ¬¬p, allora p'.
Quali sono gli oggetti di cui una logica presuppone l'esistenza? A questa domanda Quine risponde: ‟essere ritenuti entità vuol dire unicamente e semplicemente essere considerati valori di una variabile" (v. Quine, 1953; tr. it. p. 13). Ogni teoria deve accettare l'esistenza d'entità cui devono potersi riferire le sue variabili vincolate, al fine di poter considerare come vere le affermazioni della teoria stessa (ibid.). Ne segue che, se si accetta la teoria dell'identità, i valori della variabile x che figura nell'espressione ‛(x) (x=x)' (per tutti i valori di x, x è uguale a x) non possono consistere che in oggetti invariabili. O gli oggetti ai quali si riferisce la teoria dell'identità sono immutabili, come i numeri, oppure il nome di un oggetto mutevole non può che riferirsi all'oggetto così com'è nell'intervallo di tempo durante il quale non cambia.
d) Dalla sintassi alla semantica; altri tipi di logica
La teoria della deduzione, e le verità logiche che permette di formulare, sono state considerate da Carnap come il risultato di semplici convenzioni di un linguaggio L, la cui ‛sintassi logica' formulerebbe le regole per la formazione di espressioni corrette: gli assiomi e le regole di deduzione consentono di dimostrare i teoremi a partire dagli assiomi. Ma, non appena si introducono in questa logica variabili individuali e quantificatori, le cose rischiano di complicarsi. Infatti, se le espressioni ben formate devono avere un senso in virtù delle sole convenzioni linguistiche e indipendentemente da quanto accade nella realtà, come bisogna interpretare gli enunciati universali della forma ‛tutti gli A sono B' perché il loro senso non dipenda dall'esistenza o inesistenza di A? Nella logica di Aristotele un enunciato universale presupponeva che il nome, che fungeva in esso da soggetto, designasse un oggetto reale; altrimenti non era possibile chiedersi se un predicato potesse o no essergli attribuito. Allo stesso modo, Frege aveva definito come ‛pseudo-nome' il nome di un essere inesistente, e il fatto di attribuirgli o no dei predicati dava luogo, ogni volta, a una pseudo-proposizione. Accade così che le proposizioni ‛tutti i figli di Giovanni sono biondi' e ‛nessun figlio di Giovanni è biondo' sono ambedue pseudo-proposizioni se Giovanni non ha figli. Ma l'assimilazione di enunciati universali a implicazioni formali del tipo ‛per tutti gli x, se x è un figlio di Giovanni, esso è biondo' e ‛per tutti gli x, se x è un figlio di Giovanni, esso non è biondo' ci obbliga a considerare quest'ultime vere, poiché ogni implicazione, il cui antecedente sia falso, è necessariamente vera. Il caso è ancora più lampante quando la frase incomincia con un articolo determinativo singolare. Le affermazioni ‛il re di Francia è calvo' e ‛il re di Francia non è calvo' sarebbero forse ambedue false se non esistesse un re di Francia, e ciò contrariamente al principio del terzo escluso? Dopo la ben nota analisi di Russell, l'enunciato precedente, come tutti gli enunciati della medesima struttura, dovrebbe assumere una forma in cui si afferma simultaneamente: vi è un x, che è il re di Francia ed è calvo, e, se esistesse un y che possedesse i predicati d'essere re di Francia e d'essere calvo, sarebbe identico a x. Il fatto di considerare da una parte un tale enunciato come falso se una delle tre condizioni non è realizzata, e di assimilare dall'altra l'universale ‛tutti i figli di Giovanni sono biondi' a un'implicazione formale sempre vera, se Giovanni non ha figli, mostra le difficoltà che s'incontrano nell'esprimere in maniera indiscutibile e per mezzo di un formalismo che garantisca loro uno stesso valore di verità (vero o falso), qualunque sia il contesto, enunciati formulati nel linguaggio ordinario. È noto che l'analisi di Strawson (v., 1950), non preoccupandosi di garantire sempre un valore di verità agli enunciati del linguaggio ordinario, giunge alla conclusione che un enunciato, il quale attribuisca un predicato a un soggetto, non afferma bensì ‛presuppone' l'esistenza d'un soggetto: nel caso in cui il soggetto dell'enunciato non designi alcunché di reale, l'enunciato stesso sarebbe privo di valore di verità. La soluzione raccomandata da Strawson per enunciati formulati in una lingua naturale - come il francese o l'inglese - non sarebbe vincolata dalla convenzione che regola le espressioni del linguaggio artificiale, secondo la quale tutte le espressioni ben formate hanno un senso e uno solo, e le proposizioni hanno sempre lo stesso valore di verità qualunque sia il contesto al quale si applicano.
Limitando l'oggetto della logica alle verità logiche, senza mettere in gioco né nomi d'oggetto né variabili, si potrebbe, a rigore, ricollegarle alla sintassi logica del linguaggio: tutte queste verità potrebbero infatti essere controllate e verificate grazie alle condizioni che determinano il senso dei segni e delle operazioni. Ma non appena ci si interroga sulla verità di enunciati contenenti un nome d'oggetto, si pone un problema semantico, cioè se il soggetto possegga o no il predicato che gli viene attribuito. Contrariamente alla sintassi che permette, per ricorrenza, di formulare enunciati veri esclusivamente in virtù della loro forma, la semantica, che concerne i rapporti tra i segni e ciò che essi designano, consente di formulare enunciati la cui verità o falsità dipende dalla loro corrispondenza col reale, dal fatto che il soggetto soddisfi il predicato, o che gli oggetti si trovino nella relazione espressa dall'enunciato.
Le cose si complicano, in effetti, allorché non si tratta più di verità logiche vere in tutti i mondi possibili - le quali o non presuppongono l'esistenza d'alcun oggetto o, a rigore, unicamente quella d'oggetti eterni e immutabili -, ma il soggetto dell'enunciato è il nome proprio di un essere contingente e mutevole.
Come garantire le condizioni indispensabili alla logica classica, e cioè che i valori di ‛p', ‛q' e ‛r' restino sempre gli stessi (principio d'identità), siano veri o falsi (principio del terzo escluso) e non siano simultaneamente veri e falsi (principio di non contraddizione)? Fintanto che le proposizioni messe al posto delle lettere ‛p', ‛q' o ‛r' riguardano enti eterni e immutabili, non si pone alcun problema. Ma se si tratta di enti contingenti (che a volte esistono e a volte no) e mutevoli (che ora sono in grado di soddisfare certi predicati e ora no), è indispensabile assegnare a ogni proposizione che li riguarda un coefficiente temporale: ciò che si afferma vero o falso è, e rimane, tale solo a condizione d'indicare l'istante al quale si riferisce l'asserzione. Si giunge così a elaborare sistemi di logica temporale, tense-logic (A. N. Prior), o di logica cronologica (v. Rescher, Chronological..., 1968). Accanto a una logica che verte sul vero e il falso, si elaborerà una logica modale, che concerne il necessario e il contingente, il possibile e l'impossibile (v. Barcan Marcus, 1968; v. Hughes e Cresswell, 1968). Poi verrà il turno delle logiche ‛deontiche', che vertono su ciò che è permesso e ciò che è vietato, e cui sarà dato anche il nome di logiche delle norme (v. Kalinowski, La logique..., 1972 e Études..., 1972). Più recentemente alcuni autori hanno studiato in maniera approfondita e grazie alla formalizzazione (meaning-postulates) nozioni epistemiche quali la credenza e la conoscenza (v. Hintikka, 1962). Lo stesso modo di formalizzazione è stato applicato ad altre nozioni filosofiche, quali quelle di preferenza, di decisione, d'ordine (nel senso di comando), d'azione, e anche quelle d'esistenza, di realtà e d'apparenza (v. Hintikka, 1967 e 1968; v. Rescher, Recent..., 1968). Ancora più recentemente i logici hanno elaborato la teoria dei modelli, esaminando le relazioni reciproche tra insiemi di enunciati formalizzati e insiemi di strutture che permettono di soddisfarli (v. Robinson, 1968). Infine, le analisi logiche del linguaggio ordinario, quali le ritroviamo nel Wittgenstein delle Philosophische Untersuchungen e nei lavori di Austin e della sua scuola, si allontanano dal formalismo e mostrano gli innumerevoli usi del linguaggio di cui un analisi puramente formale non riesce più a rendere conto.
2. La concezione ‛pragmatica' della logica: lo studio della comunicazione
a) Il dilemma tra realismo e nominalismo
Per comprendere il rinnovamento che quest'ultimo tipo di approccio introduce nella filosofia della logica, modificandone le prospettive, rifacciamoci ai problemi filosofici che la concezione formalistica della logica pone.
Le due impostazioni tradizionalmente contrapposte erano quelle del realismo e del nominalismo, che differivano essenzialmente riguardo allo status da accordare alle verità logiche e al loro oggetto. Le verità logiche esprimono forse idee eterne e invariabili e le rispettive relazioni - e quindi le ritroviamo in tutti i mondi possibili -, oppure sono, al contrario, le conseguenze di convenzioni del linguaggio, e come tali relative a quest'ultimo? Per i nominalisti non esistono che realtà concrete, individui che l'esperienza ci fa conoscere: tutto il resto è opera umana. L'esplorazione dei mondi possibili e degli enti che ne fanno parte non si compie tramite potenti telescopi, ma consegue da stipulazioni, cioè da condizioni descrittive che noi associamo all'idea di mondo possibile (v. Kripke, 1972, p. 267).
L'analisi di Kripke, invece di occuparsi d'entità logiche e matematiche, il cui status favorisce la tesi del realismo, s'interessa dei nomi propri d'individui contingenti e mutevoli e del modo in cui questi nomi propri sono utilizzati nella lingua ordinaria. Noi diciamo che un individuo avrebbe potuto agire diversamente da come in realtà si è comportato, possedere questa o quella proprietà, senza per questo cessare d'essere lo stesso individuo. Può un individuo cambiare, anche profondamente, senza cessare d'essere lo stesso? Come identificare Giona cosi com'è descritto dalla Bibbia, quando la maggior parte delle cose che vi si raccontano di lui devono essere ritenute false? (V. Kripke, 1972, p. 282). Quand'è che possiamo dire trattarsi d'uno stesso individuo, malgrado le sue modificazioni, e non solo nel mondo reale, ma anche in tutti i mondi possibili? Come fare a sapere se lo stesso nome può essere applicato a un individuo, la cui identità sarebbe rimasta la stessa malgrado la diversità delle proprietà che gli si attribuiscono? Va da sé che, in questo caso, un ente non potrebbe venire identificato, come accade nella prospettiva leibniziana, dall'insieme dei suoi attributi, poiché avrebbe potuto averne altri senza per questo modificare la sua identità. Ma, allora, quali sono i criteri per identificare una persona, una città, una nazione, attraverso le trasformazioni che ha potuto subire nella storia (ed eventualmente che avrebbe potuto subire) senza che ci si possa esimere dall'applicarle lo stesso nome? Se la definizione classica dell'identità di x e y - secondo cui tutti i predicati di x e di y devono coincidere - non è più applicabile, come accordarsi su una nozione d'identità che permetta di assegnare lo stesso nome a certe realtà individuali? Se si risponde che, in queste condizioni, il fatto di denominare o d'identificare un ente malgrado i mutamenti deriva da convenzioni linguistiche, la questione che immediatamente sorge è la seguente: queste convenzioni sono forse completamente arbitrarie? Lo stesso interrogativo può essere sollevato a proposito del principio di tolleranza di Carnap circa la costruzione di linguaggi artificiali (v. Carnap, 1934). E vero che si è perfettamente liberi di costruire dei linguaggi artificiali - cioè delle logiche - in maniera completamente arbitraria? Ogni filosofia della logica deve dunque scegliere tra il realismo e il nominalismo, tra una logica necessaria, che s'imporrebbe in modo evidente a ogni spirito ansioso di verità logica, e una logica come costruzione ‛arbitraria', ove le verità logiche non sarebbero altro che l'insieme delle conseguenze risultanti da una scelta preliminare interamente arbitraria? Queste due concezioni, la prima delle quali esclude ogni possibilità di disaccordo e la seconda ogni possibilità di ragionevole scelta tra logiche differenti, sembrano ambedue derivate da un modo di concepire la ragione legato alla nozione di evidenza, tale cioè che non appena si esca dall'evidenza, ci si trovi con ciò stesso in pieno arbitrio.
C'è modo di sfuggire a questo dilemma disastroso e tuttavia inevitabile non appena si abbandoni il dominio della pura forma e la sfera degli oggetti eterni e immutabili? Questo è quanto si sforzeranno di realizzare i logici che, accordando il primato alla ‛pragmatica', esamineranno il linguaggio e le espressioni linguistiche non in rapporto alla sintassi - che si occupa di relazioni tra espressioni ‛ben formate' - né alla semantica - che studia le condizioni strutturali che definiscono la verità o la falsità degli enunciati grazie alla loro corrispondenza con questo o quell'oggetto -, ma studiando fin dall'inizio i rapporti tra i segni utilizzati, gli oggetti a cui si riferiscono e i loro utenti, cioè coloro che producono le espressioni linguistiche e coloro ai quali sono dirette.
In altri termini, il centro di questa concezione non è più la nozione di verità, ma quella di ‛comunicazione'.
b) La pragmatica
Secondo questa nuova impostazione, la pragmatica non è una parte di cui la logica potrebbe, a rigore, fare a meno, limitandosi alla sintassi e, eventualmente, alla semantica; ma sarebbe in realtà all'origine di ogni logica, le verità logiche non essendo ottenute altrimenti che attraverso uno sforzo d'astrazione a partire dagli atti linguistici tra interlocutori che utilizzano segni in un contesto determinato. La logica non si presenta più, in questa prospettiva, come una disciplina chiusa in se stessa, concepita ora come lo studio di un mondo d'idee oggettive, ora come il risultato di un insieme di convenzioni arbitrarie, ma diventa lo strumento di una comunicazione efficace, la cui elaborazione è condizionata dai fini perseguiti nell'azione. Non saranno più la verità e il suo supporto, la proposizione, a costituire le nozioni primitive della logica, ma saranno le modalità del discorso, in quanto modalità di un'azione, a spiegare le modalità di costruzione di una logica formale. Questa tendenza ad accordare il primato all' azione si ritrova nettamente nel Wittgenstein degli ultimi anni (v. Wittgenstein, 1969), nelle conferenze e pubblicazioni di J. Austin e della sua scuola (v. Austin, 1962), nell'impostazione dell'allievo americano di Austin, J. R. Searle (v., 1969), e del linguista G. Lakoff (v., 1972). Le mie ricerche sulla retorica e l'argomentazione si inscrivono in questa stessa prospettiva (v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, 19702).
Ecco come Searle presenta il suo punto di vista: ‟Parlare un linguaggio equivale a eseguire atti linguistici, come il fare asserzioni, il dare ordini, il formulare domande, il fare promesse e così via; e, più astrattamente, atti come il riferirsi a e il predicare; in secondo luogo, tali atti sono resi possibili da (e sono eseguiti in accordo con) certe regole sull'uso degli elementi linguistici. [...] L'unità della comunicazione linguistica non è, come generalmente si suppone, il simbolo, la parola o l'enunciato, o magari l'occorrenza del simbolo, della parola, o dell'enunciato, ma piuttosto la produzione o un'emissione del simbolo, della parola o dell'enunciato nell'esecuzione dell'atto linguistico. Considerare l'occorrenza come un messaggio equivale a considerarla come un'occorrenza prodotta o emessa" (v. Searle, 1969).
Fin dall'inizio non si analizzano più le parole e gli enunciati indipendentemente dall'atto comunicativo e dagli usi ai quali può servire, ma si analizza quest'ultimo nel contesto, esaminando le condizioni che danno alla comunicazione tutto il suo senso e la sua portata. Invece di farsi ipnotizzare dalla verità e falsità come uniche proprietà delle proposizioni, si considererà l'asserzione come un'azione che non può essere esplicata in maniera sensata se non in un certo contesto. Questo permetterà di spiegare perché l'affermazione ‛è vero, ma non ci crede' è perfettamente comprensibile, mentre l'enunciato ‛è vero, ma non ci credo' è a prima vista bizzarro e non potrebbe interpretarsi, a rigore, che come ‛è vero, benché incredibile', rendendo l'affermazione, per così dire, impersonale. Il fatto è che bisogna distinguere - seguendo Austin - in ogni enunciato un significato ‛locutorio' (il senso e il riferimento) e una ‛forza illocutoria' (v. Austin, 1962, p. 147). Secondo Austin, vi sarebbero in ogni lingua centinaia di verbi - di cui egli dà numerosi esempi (ibid., pp. 47-163) che indicano il modo in cui ci si può servire delle parole. Si può discutere, descrivere, ordinare, guidare, raccomandare, nominare, promettere, autorizzare, consentire, complimentarsi, scusarsi, ringraziare, ecc. Ognuno di questi modi di utilizzare il linguaggio presuppone delle condizioni d'uso, senza le quali la comunicazione sembra stonata (infelicitous).
È così che Searle isola le condizioni preliminari perché si possa seriamente dire che qualcuno s'impegna con una promessa. Non solo egli deve enunciare la sua promessa in maniera comprensibile, tale che il suo interlocutore senta e comprenda, ma, per impegnarsi a fare p, occorre anche che egli enunci p nella sua asserzione, che si tratti di un' azione futura, compiuta da lui e per la quale egli si faccia garante, che il suo interlocutore desideri ch'egli la realizzi e che egli lo sappia (altrimenti con ‛promessa' si esprimerebbe piuttosto una minaccia); bisogna ancora che ‛l'azione promessa non sia quella che normalmente sarebbe stata compiuta senza tale promessa, bisogna che colui che promette abbia l'intenzione a un tempo d'impegnarsi e di mantenere (o almeno che dia tale impressione a colui che l'ascolta), e infine che colui col quale si è impegnato sappia che, pronunciando le parole in questione, l'oratore ha preso nei suoi confronti un impegno determinato (v. Searle, 1969, pp. 57-61).
Si potrebbero allo stesso modo enumerare le condizioni che determinano quando, con un atto di comunicazione, ci si riferisce a un oggetto (ibid., pp. 94-95) e quando si attribuisce un predicato a un oggetto (ibid., pp. 126-127). Emettendo enunciati fuori del contesto, non si effettua un atto di comunicazione appropriato, e quindi la questione della verità o falsità della comunicazione non si pone affatto.
A tale riguardo, Searle nota molto giustamente che le analisi come quelle di Russell, cioè analisi di descrizioni che non si riferiscono a nessuno (‛l'attuale re di Francia è calvo'), potevano illudere quando riguardavano un'affermazione: queste asserzioni sarebbero false nella misura in cui affermassero implicitamente l'esistenza di un ente, l'attuale re di Francia, che non esiste affatto. Ma questa stessa analisi sarebbe forse ammissibile nel caso di domande quali ‛È calvo l'attuale re di Francia?' o di ordini come ‛Porta questo al re di Francia!'? Nessuno direbbe che la domanda o l'ordine enuncino un'asserzione che sarebbe falsa poiché non esiste il re di Francia (ibid., pp. 157-162).
La conclusione di questo esame è che lo studio del senso degli enunciati non è distinto, in linea di principio, da quello degli atti ‛illocutori'.
c) La comunicazione in una lingua ‛ordinaria' e la ricerca di una interpretazione adeguata
Le analisi di enunciati, conformemente alle esigenze della logica formale, dovrebbero identificare e considerare come intercambiabili tutte le tautologie, qualunque siano le costanti che vi figurino. Infatti le tautologie, secondo il primo Wittgenstein, non dicono nulla del mondo, e l'affermazione ‛piove o non piove' è vera qualunque cosa accada. Ma - domanda Searle - quando si dice di un uomo politico ‛o è fascista o non lo è' oppure o e comunista o non lo è', si avanza un dubbio a proposito di qualità assai differenti: ne consegue quindi che le espressioni non sono affatto intercambiabili.
Questo esempio ci ricorda d'altronde che quasi mai, comunicando nella lingua ordinaria un enunciato che si presenta sotto la forma d'una identità o d'una contraddizione, si ha veramente l'intenzione d'informare d'una verità o falsità logica, qualunque siano le apparenze. Colui che dice ‛una lira è una lira', ‛i figli sono figli', ‛gli affari sono affari' desidera far sapere qualcosa di diverso da una tautologia. E l'affermazione di Eraclito ‛Entriamo e non entriamo due volte nello stesso fiume', non si propone di renderci partecipi di una contraddizione. In effetti, ogni volta che riceviamo una comunicazione, cerchiamo d'interpretarla in modo che si accordi con il contesto nel quale viene presentata. A meno che il contesto non sia quello d'un corso di logica, non si vede l'interesse di affermazioni che enuncino o una banalità o una contraddizione. L'ascoltatore interpreterà normalmente ciò che sente in modo che quanto viene detto acquisti un senso nel contesto in cui s'inserisce la frase; e a tale scopo egli darà un senso in qualche misura diverso alle parole ‛lira', ‛figli', ‛affari' che figurano prima e dopo la copula. Allo stesso modo, le parole ‛lo stesso fiume' riceveranno due interpretazioni differenti, permettendo così, nell'affermazione di Eraclito, di evitare l'incoerenza. Questa maniera d'interpretare le parole del linguaggio ordinario ci indica che, per comprenderlo, si adottano convenzioni diverse da quelle usate in un linguaggio formale. Mentre nel secondo caso si parte dall'ipotesi che in un linguaggio formale uno stesso segno, una stessa espressione non possano mai avere due sensi differenti, la comprensione di un'espressione della lingua ordinaria esige che l'intelligibilità della comunicazione nel contesto abbia la precedenza sulle considerazioni d'univocità. Accade cosi che l'interprete passi facilmente dall'interpretazione letterale d'una espressione a quella metaforica o figurata, allorché il contesto lo esige. Così Pascal raccomanda di fare quando si tratti d'interpretare un passaggio delle Sacre Scritture: ‟Quando la parola di Dio, che è veritiera, è da un punto di vista letterale falsa, è però vera da un punto di vista spirituale" (B. Pascal, Pensées 555 [31], in Oeuvres complètes, Paris 1969, p. 1261). Volendo salvaguardare il primato della verità della parola divina, dovremo cercarne un senso che possa soddisfarci. Il ruolo di un giudice nell'interpretazione di un testo giuridico sarà analogo: occorre che l'interprete dia al testo giuridico un senso soddisfacente.
Ma una tale ricerca d'interpretazione adeguata fa ancora parte della logica? Non abbiamo forse visto che la logica è lo studio delle verità che si possono formulare in un linguaggio molto povero, non comportante che un certo numero d'operatori, di lettere schematiche, di variabili individuali e di quantificatori? E così è effettivamente definita la logica formale elaborata da Quine. Ma, dopo essere stata completata dallo studio di logiche modali e di logiche ‛deontiche', di postulati di significato e di ragionamenti formulati nella lingua ordinaria, la logica ha ritrovato una gran parte del suo campo di studio tradizionale, che è quello costituito da enunciati e ragionamenti formulati in una lingua naturale.
In questa prospettiva possono essere sollevate due questioni. La prima è stata posta abbastanza bene dal linguista G. Lakoff. Se la lingua naturale serve al ragionamento - e non si può negare che la maggior parte dei ragionamenti sia formulata in una lingua naturale -, la struttura logica che è indispensabile alla lingua per adempiere al suo ruolo di strumento non dovrebbe forse corrispondere, almeno a livello profondo, alla sua struttura grammaticale? (v. Lakoff, 1972, p. 545).
Lakoff mostra nel suo studio, con numerose e dettagliate analisi, come non solo le regole sintattiche, ma anche le regole semantiche obbediscano a considerazioni d'ordine logico. Per lui ‟la logica naturale, assieme alla linguistica, è lo studio empirico della natura del linguaggio e del ragionamento umano" (ibid., p. 648; v. Bar-Hillel, 1970, pp. 182-222, 304-356). Questa logica ‛naturale' non è né indipendente da ogni pensiero umano nè puramente convenzionale, ma dipende dal modo in cui gli uomini concepiscono l'universo nel quale vivono e a proposito del quale comunicano. Si potrebbe a rigore intenderla alla maniera di Lorenzen (v., 1965) come l'insieme delle regole accettate al momento di una disputa, regole che fissano le condizioni che determineranno la vittoria dell'uno o dell'altro avversario.
d) La teoria dell'argomentazione
La seconda questione è quella di cui mi sono personalmente occupato. Essa riguarda lo studio empirico e analitico delle forme di ragionamento e di prova in quanto tecniche che mirano a stabilire o a rinforzare un'adesione, a giustificare scelte e decisioni.
Si potrebbe evidentemente sostenere che uno studio di tal genere non riguarda la logica, bensì la psicologia; ed è vero che non può fare totalmente astrazione da una mente conoscente. Esso rientra, però, anche nel campo della metodologia, nella misura in cui le metodologie non sono puramente formali, ma relative al dominio trattato. Questa branca della logica ha anche ricevuto il nome di dialettica. Personalmente preferisco denominarla teoria dell'argomentazione, opponendola alle tecniche di dimostrazione analizzate dalla logica formale. Nulla impedisce di riservare, nell'ambito della logica, un posto d'onore alla logica formale, che ha raggiunto una perfezione non eguagliata; ma niente ci obbliga a trascurare l'analisi approfondita delle tecniche di argomentazione, indispensabili non appena si abbandoni il ragionamento formale, cioè un ragionamento perfettamente definito e non contestato (per il discorso che segue v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, 19702). L'esame delle discussioni quotidiane, dei dibattiti politici, delle arringhe degli avvocati e dei trattati filosofici ci obbliga a far posto ai ragionamenti che Aristotele contrapponeva ai ragionamenti analitici, denominandoli ragionamenti dialettici. Questo aspetto complementare della logica s'inserisce in una teoria generale della comunicazione.
Il motivo per cui le tecniche dell'argomentazione sono state progressivamente trascurate a partire dal XVII secolo è che esse non forniscono una prova stringente, analoga alle prove matematiche. Non v'è dubbio che sarebbe meglio, ogni volta che sia possibile, ricorrere al calcolo, al peso o alla misura per giungere a una conclusione indiscutibile. Ma quando ciò non è possibile, si dovrebbe ricorrere alla dialettica e all'argomentazione. È quanto, rifacendosi a Platone, J. Moreau ci ricorda nell'interessante brano che qui riportiamo: ‟Se non siamo d'accordo, io e te, - dice Socrate a Eutifrone - sul numero (di oggetti in un paniere), sulla lunghezza (di una pezza di stoffa), o sul peso (di un sacco di grano), non litigheremo per questo, non intavoleremo una discussione; basterà contare, misurare o pesare, e la nostra disputa sarà risolta. Queste controversie si prolungano e si inaspriscono quando vengono a mancare tali processi di misura, tali criteri d'oggettività; questo caso si verifica - precisa Socrate - quando si è in disaccordo sul giusto e l'ingiusto, sul bello e il brutto, sul bene e il male, in una parola sui valori (Platone, Eutifrone 7 d). Ora, se si vuole evitare in un caso simile che il disaccordo degeneri in conflitto e sia risolto con la violenza, non v'è altro mezzo che fare ricorso a una discussione ragionevole. La dialettica, arte del discutere, appare come il metodo appropriato alla soluzione dei problemi pratici, che riguardano i fini dell'azione e ogni circostanza ove siano impegnati valori; per l'esame di questioni siffatte essa è adoperata nei dialoghi socratici, ed è questa la ragione della stima in cui la tiene Platone" (v. Moreau, 1963, p. 207).
Se si vuole che le discussioni e le controversie non siano decise dalla violenza, ma pervengano a una decisione ragionevole - quella che può essere meglio giustificata - è bene non trascurare i ragionamenti di differente tipo che consentono di motivare un giudizio. Nella misura in cui il diritto è un insieme di tecniche che permettono di risolvere i conflitti tramite procedure ove il pro e il contro possono farsi valere, illuminando quindi il giudice incaricato di porre fine al conflitto con la sua sentenza motivata, l'analisi del ragionamento giuridico e delle condizioni della sua utilizzazione potranno chiarirci la natura della logica giuridica.
Il miglior modo di far conoscere il carattere specifico della teoria dell'argomentazione sarà quello di sottolineare tutto ciò che la oppone alla logica formale.
Una dimostrazione si svolge nel quadro di un sistema isolato, nel quale gli elementi e le espressioni ben formate, così come le regole di deduzione, sono stati determinati in modo da eliminare ogni ambiguità e controversia. La prova attraverso il calcolo è indipendente dall'adesione di chicchessia; essa si svolge in modo impersonale, sia che gli assiomi da cui si parte siano considerati come verità atemporali, sia come ipotesi, o come risultato d'una convenzione.
Un'argomentazione, al contrario, si presenta in una lingua naturale, conosciuta dagli interlocutori e dalla quale solo di rado ogni ambiguità è interamente esclusa. Essa si svolge in funzione dell'adesione di chi ascolta: le sue tesi di partenza dovranno infatti essere ammesse da coloro ai quali si indirizza, senza di che si rischia di commettere l'errore d'argomentazione noto col nome di ‛petizione di principio'. Infatti, se l'uditorio di cui si ricerca l'adesione, che si vuole persuadere o convincere, non ammette una delle tesi di partenza, l'argomentazione non avrà la benché minima presa sugli ascoltatori. A tale proposito notiamo che, siccome lo scopo dell'argomentazione è di ottenere o di accrescere l'adesione di un uditorio alle tesi presentate alla sua approvazione, una teoria dell'argomentazione non può trascurare, come invece fa una teoria della dimostrazione, i problemi posti dal contatto delle menti, quali la volontà di convincere da parte di chi pronuncia il discorso e la disposizione dell'uditorio ad ascoltare l'oratore sul punto che si propone di sviluppare. Tali condizioni psicosociali, che permettono o favoriscono il contatto intellettuale tra l'oratore e il suo uditorio, non sono date in qualsiasi circostanza. Istituzioni di ogni genere possono favorire od ostacolare il contatto. Normalmente, infatti, un'argomentazione incita all'azione, o almeno mira a creare una disposizione all'azione, che si tradurrebbe in pratica in caso di necessità. Ben si comprende come gli effetti dell'argomentazione non siano indifferenti ai detentori del potere, i quali, in certi casi, proteggeranno la libertà d'espressione, di stampa e d'insegnamento, mentre, in altri, se ne riserveranno l'uso, instaurando la censura e controllando severamente ogni espressione di pensiero che potrebbe essere loro sgradita. Il fatto è che, nel campo dell'argomentazione, pensiero e azione sono intimamente legati e, quando ci si riferisce all'argomentazione, non si può più separare nettamente la ragione dalla volontà, poiché l'argomentazione guida e giustifica le nostre decisioni e le nostre scelte.
Attiriamo subito l'attenzione sulla differenza esistente tra una dimostrazione che giunge a una conclusione, di fronte alla quale non ci si può che inchinare (se si accetta il sistema in cui si svolge) e un'argomentazione che può giustificare una decisione, senza tuttavia sopprimere ogni elemento di scelta e di impegno in merito. È in rapporto all'argomentazione che l'idea di una decisione ragionevole, di esercizio della libertà spirituale, in correlazione con la responsabilità di chi agisce, acquista tutto il suo significato. Infatti, le ragioni che giustificano la decisione dell'uno possono essere controbilanciate da quelle che inciteranno un altro a prendere e a giustificare una decisione differente. In realtà, la varietà degli argomenti permette il più delle volte argomentazioni contrapposte. Questo non significa affatto che tutti gli argomenti siano di pari forza: le diverse discipline in cui si esercita l'argomentazione presenteranno regole di metodo che guideranno, senza tuttavia costringerli, i loro cultori nell'elaborazione e nell'accettazione delle soluzioni più adeguate. Bisogna però ammettere come una cosa normale il fatto che, contrariamente a quanto accade in una dimostrazione formale, si possano svolgere argomentazioni contrapposte e che, quando è necessario decidere la disputa, possa essere inevitabile il ricorso a un giudice o a una tecnica di decisione, quale per esempio il voto. In altri campi, al contrario, ove non vi sia urgenza, le discussioni e le controversie possono continuare indefinitamente.
Quanto ai razionalisti, per i quali esiste una soluzione adeguata di ogni problema ben posto - soluzione che Dio conosce dall'eternità - il carattere non necessitante dell'argomentazione rivela la sua imperfezione e giustifica il disprezzo in cui è tenuta. Si potrebbe però progressivamente ridurre la libertà che caratterizza il suo uso eliminando, attraverso definizioni e restrizioni appropriate, le indeterminazioni che spiegano quanto vi è di non necessitante nelle conclusioni alle quali l'argomentazione conduce. Il dibattito e la controversia si rifaranno allora più lontano, alle ragioni che abbiamo di accettare una certa definizione o una certa restrizione nella scelta degli argomenti. In fin dei conti, il dibattito sui fondamenti, ove il ricorso all'argomentazione si rivela inevitabile, si rifarà ai principi primi della filosofia. Questo è quanto ha visto bene Aristotele, per il quale il ragionamento dialettico serve, tra l'altro, a provare i principi primi di ogni scienza (Topici, 101b 1-4), che le dimostrazioni, appunto perché si tratta di principi primi, presuppongono necessariamente. Analogamente, d'altronde, ogni filosofia della logica, qualunque concezione si abbia della logica, deve servirsi dell'argomentazione per farsi accettare.
Uno studio analitico di tutti i tipi di argomenti oltrepasserebbe largamente i limiti di questo articolo. È sufficiente segnalare che l'indice analitico del nostro Traité de l'argumentation contiene la lista d'un centinaio d'argomenti esaminati (v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, 19702, pp. 684-685). I più conosciuti, non ignorati nemmeno da quanti non sanno nulla della teoria dell'argomentazione, sono l'argomento attraverso l'esempio, fondamento inevitabile di ogni ragionamento induttivo, e il ragionamento per analogia, senza il quale è difficile concepire una logica dell'invenzione e della scoperta.
In termini generali, possiamo dire che un'argomentazione consiste sia nello stabilire un legame tra le tesi di partenza e quelle a cui si vuole giungere, sia nelle dissociazioni operate in seno alle nozioni iniziali, dissociazioni che, proponendosi lo scopo di eliminare eventuali incompatibilità, sfociano in un rimaneggiamento del materiale concettuale che lo renda più soddisfacente. Questo rimaneggiamento si effettua classicamente attraverso la distinzione tra l'apparenza e la realtà, che si può d'altronde applicare a qualunque nozione, quale il bene, la libertà, la giustizia, ecc. Un esempio classico sarebbe la distinzione stabilita da Kant tra il mondo dei fenomeni, delle apparenze, e quello delle cose in se. Attraverso tali dissociazioni, che oppongono nell'uno o nell'altro campo del pensiero l'apparenza alla realtà, si giunge alla creazione di ‛coppie filosofiche', che si ritrovano, sistematizzate, in ogni sforzo filosofico originale.
Gli argomenti sono raramente isolati gli uni dagli altri. Sono in genere organizzati in seno a un discorso, il che pone il problema dell'ordine più efficace nel quale dovrebbero essere presentati. Quest'ordine è in funzione dell'uditorio: un argomento dovrebbe essere presentato a chi ascolta nel momento in cui questi è meglio disposto ad accoglierlo. Lo studio dell'ordine degli argomenti in un discorso rientrava, durante il Rinascimento, nei problemi di metodo; Descartes lo ha sostituito con le regole del metodo, ispirate dal ragionamento e dalle analisi matematiche.
Lo studio dell'argomentazione, che mira a suscitare l'adesione di un uditorio, non separa i problemi di fondo dalle questioni di forma. Infatti l'argomento, in quanto tecnica di collegamento di tesi controverse ad altre già ammesse, presuppone che l'adesione a queste ultime sia sufficiente a reggere il peso dell'argomentazione. Per accrescere questa adesione di partenza, bisogna attirare l'attenzione sulle tesi ammesse, dare loro una ‛presenza' che, senza lo sforzo dell'oratore, non sarebbe forse di per sé sufficiente. Ora, la creazione o l'intensificazione della ‛presenza' rende necessari sforzi di presentazione, nonché il ricorso a figure retoriche, il cui studio (non tanto come ornamenti puramente stilistici, ma in quanto argomenti efficaci) mostrerebbe chiaramente quanto forma e sostanza siano in reciproca interazione.
Ci siamo allontanati, sembra, dalla logica e dalla teoria della prova; ma in realtà, se il fine della prova è quello di accrescere l'intensità dell'adesione di un uditorio alle tesi che gli vengono presentate, e se la logica, nel suo senso più generale, studia le condizioni di una comunicazione efficace, a essa spetterebbe analizzare, dal semplice suggerimento fino alla dimostrazione attraverso un calcolo, tutte le forme di ragionamento più o meno probanti che le discipline più svariate non esitano a mettere in opera. Se non isoliamo la logica formale da tutte le forme di ragionamento meno depurate, se non la consideriamo che come la punta più acuminata degli schemi di ragionamento più frequenti e meno necessitanti, inseriamo con ciò la logica in un contesto che ne fa un'opera umana, né oggettiva ed eterna né arbitraria e convenzionale, ma rispondente ai bisogni di una comunicazione umana, con molteplici forme che si adattano alla molteplicità ditali bisogni. È in questo spirito che R. Blanché conclude il suo bel libro sul ragionamento con un capitolo intitolato Logica e retorica, dove mostra la loro complementarità nella costituzione della prova, oggetto centrale della logica tradizionale (v. Blanché, 1973, pp. 253-263).
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