LOMBARDIA
Regione dell'Italia settentrionale, comprendente la parte centrale della pianura Padana, delimitata a N dalle Alpi Centrali, dal Mincio e dal lago di Garda a E, dal corso del Po a S e dal lago Maggiore e dal Ticino a O.Gli attuali confini della L. non trovano riscontro in epoca medievale quando, soprattutto dal punto di vista culturale e artistico, è facile evidenziare una decisa omogeneità, fatte salve le diverse varianti locali, in tutta l'area padana, dal Piemonte fino al Veneto.La zona, verso la fine del sec. 5° a.C., venne interessata dalle invasioni celtiche e occupata dalla tribù degli Insubri, poi sottomessi, nel 222 a.C., dai Romani. Nella partizione augustea il territorio dell'attuale regione venne diviso tra la Transpadana a O e la Venetia a E. Il termine L. ebbe origine fondamentalmente nel periodo altomedievale, quando tutti i territori occupati dai Longobardi nella penisola italiana vennero accomunati sotto la denominazione di Langobardia - distinta in Maior, quella comprendente i territori dell'Italia centrosettentrionale, e Minor, quella con le zone del Meridione -, per tenerli distinti da quelli rimasti sotto il controllo bizantino, chiamati Romania. Da queste due denominazioni derivarono dunque i nomi di due regioni settentrionali italiane, allora sedi l'una dell'Esarcato bizantino e l'altra del nucleo fondamentale del regno longobardo, comprendente tra l'altro la capitale Pavia: la Romagna e, appunto, la Lombardia. Il toponimo Langobardia compare per la prima volta in un diploma del 629 di Dagoberto I re dei Franchi (629-639).
Il sec. 6° si aprì per la L., come per il resto d'Italia, sotto la dominazione degli Ostrogoti di Teodorico, che avevano posto la loro seconda capitale, dopo Ravenna, a Pavia, la piazzaforte che anche Procopio di Cesarea (De bello Gothico, II, 12) attesta essere stata la meglio munita della zona lombarda. Certamente, almeno fino ai primi decenni del secolo, le città lombarde dovevano risultare ancora abbastanza fiorenti, nonostante l'incipiente crisi economica e i danni derivati dalle turbolenze politiche e militari del secolo precedente, e anche la rete stradale romana doveva mantenersi sostanzialmente integra. Va anzi sottolineato come, nell'ambito della politica di renovatio sostenuta dal sovrano goto, particolare attenzione sia stata riservata alla salvaguardia e al ripristino delle infrastrutture pubbliche cadute in parziale disuso: cinte murarie, acquedotti, edifici pubblici. L'esempio di Pavia risulta chiarificatore se si pensa alla costruzione del palatium teodoriciano e ai lavori riguardanti le terme, l'anfiteatro e la cinta fortificata, promossi sia dallo stesso Teodorico sia dal suo successore Atalarico (526-534). Sempre all'epoca gota è riferibile l'edificazione a Como delle sette torri di rinforzo della cinta muraria di epoca tardorepubblicana, con riutilizzo di materiali da costruzione di età romana; anche a Milano va presumibilmente datata al sec. 6° la strada lastricata rinvenuta nel corso di scavi nei pressi di S. Tecla, mentre a Brescia appartiene al medesimo periodo la banchina dell'antico porto fluviale, che attesta la volontà di potenziamento della rete di comunicazioni fluviali a uso commerciale (Lusuardi Siena, 1984; Brogiolo, 1994).Da queste pur frammentarie testimonianze dovrebbero risultare evidenti l'interesse dei sovrani goti per il buon funzionamento delle opere pubbliche ricevute in eredità dall'epoca tardoromana e la volontà di porsi con essa in una linea di sostanziale continuità, testimoniata in L. anche nel campo dell'edilizia residenziale di tipo privato, che spesso sfruttava o si esemplava sul patrimonio edilizio superstite. A Brescia, per es., presso S. Giulia è stato riscontrato all'interno di una domus di epoca romana un frazionamento degli ambienti con relativo loro uso distinto, mentre a Milano, all'interno di un complesso edilizio tardoantico nell'area dell'od. piazza Duomo, sono attestate ripetute ristrutturazioni susseguitesi tutte in epoca gota, comprendenti tra le altre la pavimentazione in opus sectile degli ambienti e la costruzione di un portico. Lo sviluppo di nuove tipologie insediative è attestato invece da un complesso venuto alla luce a Brescia, in via Mario, dal quale emerge la tendenza al riutilizzo del materiale romano da costruzione, all'articolazione degli insediamenti in uno o due soli ambienti e alla loro pavimentazione in malta povera o direttamente in battuto, con focolare sul piano d'uso. La derivazione da tipologie edilizie non romane è testimoniata anche in campo castrense dal complesso fortificato rinvenuto sul monte Barro presso Lecco, con un'articolazione in ali intorno a un cortile centrale, secondo il modello delle ville fortificate pannoniche (Brogiolo, 1994).Perduta praticamente tutta la produzione artistica lombarda tra il sec. 5° - epoca dei mosaici della cappella di S. Aquilino in S. Lorenzo Maggiore e del sacello di S. Vittore in Ciel d'Oro in S. Ambrogio a Milano - e i primi decenni della dominazione longobarda, compreso anche il famoso mosaico che nel palazzo di Pavia raffigurava Teodorico a cavallo, la principale testimonianza dell'altissimo livello mantenuto ancora agli albori del sec. 6° dalle botteghe artistiche, in questo caso milanesi, è fornita dal codice aureo-purpureo noto come Evangeliario di Sarezzano (Arch. parrocchiale, J), il quale, essendo probabilmente (Ghiglione, 1987, pp. 130-133) il frutto dell'unione di due codici eseguiti da due diverse mani, attesterebbe l'esistenza di uno scriptorium in grado di offrire una produzione di qualità molto elevata, testimoniando indirettamente l'importanza del centro ambrosiano ancora nel sec. 6° come centro culturale con notevoli possibilità editoriali e imprenditoriali.La L. è particolarmente ricca di materiali archeologici provenienti da tombe e insediamenti goti; tra i ritrovamenti relativi alla generazione giunta in Italia con Teodorico sono da segnalare quelli di Torriano e di Torre del Mangano (prov. Pavia). Da qui provengono vari esemplari di fibule in argento con dorature a fuoco (Pavia, Civ. Mus.), decorate per quasi tutta la loro superficie con motivi di tralci spiraliformi secondo la tecnica del Kerbschnitt, mentre da scavi presso S. Ambrogio a Milano proviene un esemplare di fibula alveolata ad aquila caratteristica della produzione ostrogota del sec. 6° (Milano, coll. privata). Tra gli altri numerosi ritrovamenti lombardi vanno ricordati quelli di Fornovo San Giovanni (prov. Bergamo) e Cogozzo (frazione di Villa Carcina, prov. Brescia) per la presenza tra i corredi di reperti di provenienza franco-alamanna, evidentemente appartenenti agli Alamanni presi da Teodorico sotto la propria protezione (Bierbrauer, 1978; 1984).Con la lunga guerra tra Goti e Bizantini e la fine della dominazione ostrogota in Italia nel 553, iniziarono a registrarsi anche per le città lombarde, forse le meglio studiate sotto questo aspetto, quelli che Brogiolo (1994) ha considerato inequivocabili segni di degrado, ossia un abbandono significativo dei lastricati romani ancora sostanzialmente integri e una crescita sensibile della stratificazione verticale delle città, riscontrabile per es. a Brescia, Milano, Cremona e Mantova ed evidenziata dal c.d. strato nero, frutto di una chiara ruralizzazione delle aree urbane e di un accumulo incontrollato dei detriti; questi fenomeni, iniziati a manifestarsi al termine della guerra greco-gotica, si fecero sempre più evidenti durante il periodo della seguente dominazione longobarda. Di diverso avviso è Lusuardi Siena (1989), che considera questo innegabile processo non necessariamente un sintomo di degrado, bensì il portato di un nuovo modo di intendere lo spazio urbano e l'espressione di un nuovo sistema di vita proprio dei nuovi dominatori, ossia dei Longobardi.Questi occuparono le principali città padane all'indomani della loro venuta in Italia, quasi senza incontrare alcuna resistenza. Milano, Bergamo e Brescia vennero infatti conquistate tra 568 e 569, mentre soltanto Pavia oppose una lunga resistenza fino alla capitolazione nel 572. Di più marginale importanza furono Cremona e Mantova: la prima cadde nel 602 e venne distrutta anche per ritorsione - il suo territorio fu spartito tra i ducati di Bergamo e Brescia (Calderini, 1974, p. 1107) -, la seconda nel 603.L'insediamento nei centri urbani avvenne con la caratteristica, propria del popolo di Alboino, del concentrarsi nei pressi delle mura urbane e in vere e proprie isole abitate, le c.d. fare, ognuna con cimitero e chiesa, circondate da vaste aree disabitate, prevalentemente destinate al pascolo dei cavalli, di cui i Longobardi erano abili allevatori. Per l'esercizio del potere, gli invasori si insediarono nei preesistenti palazzi romani o goti, così come vennero occupati i capisaldi militari costituiti in epoca gota all'interno degli anfiteatri, come accadde per es. a Milano (Cagiano de Azevedo, 1974; 1980; Hudson, 1981). Anche per quanto riguarda il campo dell'architettura civile i Longobardi tesero a introdurre nel vivo dell'edilizia romana nuove tipologie loro proprie, come le abitazioni con alzato in legno, attestate in quasi tutte le città lombarde (Brogiolo, 1994), e la sala o la laubia all'interno dei palazzi ducali.Sul fronte dell'architettura religiosa certamente ben più forte risulta il peso esercitato dalla tradizione locale, ben comprensibile nei confronti di un popolo che vantava, perlomeno per quanto riguarda gli edifici di culto, una consuetudine architettonica pressoché nulla, tanto da far dubitare Cagiano de Azevedo (1974), che pur aveva risposto affermativamente al quesito sull'esistenza di un'architettura definibile senza mezzi termini longobarda, sull'estendibilità di tale definizione anche all'architettura religiosa sorta nei territori e nei secoli della dominazione longobarda. Resta comunque il fatto che in tali secoli e in tali territori, e in particolare in L., da sempre regione campione ai fini della ricerca sul tema, in quanto nucleo politico e culturale del regno longobardo, sboccia una cultura figurativa del tutto nuova e inedita, che nasce a evidenza dall'unificarsi delle singole componenti linguistiche alla sua origine; senza dubbio configuratosi inizialmente quale uno scontrarsi altrettanto violento quanto quello tra gli invasori e la gens romana, tale unificarsi, come ha sottolineato Romanini (1984, p. 668), trova il suo carattere di unicum nei nuovi modi espressivi consoni alla particolare esperienza storica che si verificò durante il dominio longobardo in Italia. In ogni caso occorre constatare che in L. e conseguentemente nel regno longobardo - ma il fenomeno è riscontrabile anche in area merovingia come romana e anche visigota o più genericamente germanica - nasce, durante la dominazione del popolo guidato in Italia da Alboino, un modo espressivo - in fatto di architettura come di ogni altro tipo di forma artistica - sostanzialmente inedito, che, ben al di là dall'essere soltanto il frutto dell'unione di radici culturali delle più diverse provenienze - barbariche, romane, bizantine o in senso lato orientali - e ben lungi dallo scomparire in uno con la sconfitta dei Longobardi per opera di Carlo Magno, risultò poi radicale ineliminabile proprio per la cultura carolingia ventura e dunque per tutta l'arte dell'Occidente europeo. E se ciò vale per tutte le componenti della cultura figurativa lombarda dell'epoca, tanto più è riscontrabile nella componente architettonica, quella certamente meglio testimoniata.Richiami alle tipologie paleocristiane e ravennati sono evidenti nelle prime architetture longobarde in L., risalenti fondamentalmente all'età teodolindea (589-625 ca.), seguita, con l'elezione a re di Autari (584-590), al funesto periodo di interregno ducale e caratterizzata, in particolare sotto il regno di Agilulfo (591-615/616 ca.), dal primo avvicinamento del popolo longobardo al cattolicesimo, voluto dalla regina Teodolinda su stimolo di papa Gregorio Magno. Al regno di Autari è riferibile la basilica di S. Alessandro a Fara Gera d'Adda (prov. Bergamo), di impianto appunto basilicale, a tre navate concluse in altrettante absidi, di andamento internamente semicircolare ed esternamente poligonale, a cinque lati, della cui fase originaria rimangono soltanto parte del muro perimetrale destro, l'abside maggiore, senza coronamento, e gli attacchi delle absidiole laterali (Merati, 1980). Oltre al motivo delle absidi internamente semicircolari ed esternamente poligonali, si mostra di chiara ascendenza ravennate anche la scansione delle pareti esterne con arcate cieche, soluzione che, presente in scala ben più monumentale già negli esterni della basilica di Treviri e di S. Simpliciano a Milano, da questo momento ebbe grande fortuna nell'ambito dell'architettura lombarda, come testimoniato anzitutto dalle esili trascrizioni linearistiche che se ne trovano in S. Giovanni in Conca a Milano (sec. 6°-7°), in S. Giovanni Evangelista a Castelseprio (sec. 7°) e in S. Maria alle Cacce e in S. Michele alla Pusterla a Pavia (sec. 8°). Già questo singolo elemento, che sembra sussistere in L. alla base della genesi del fortunatissimo tema degli archetti pensili - nella sua reinterpretazione, e non semplice imitazione, di un motivo chiaramente desunto dal lessico architettonico tardoantico -, sta a dimostrare la vivacità di una nuova generazione architettonica, ma non soltanto architettonica, che si pone in termini di effettiva continuità e non di mera ripresa nei confronti della imprescindibile tradizione classica, locale e non solo. Tale vivacità si direbbe testimoniata anche dalla ripresa della produzione di laterizi bollati, come attesta una tegola (604-615 ca.) con bollo dei sovrani Agilulfo e Adaloaldo utilizzata nell'ambito dei restauri della chiesa milanese di S. Simpliciano (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica; Fiorilla, 1986).Il riferimento a modelli tardoantichi è evidente anche nel caso della basilica di S. Giovanni in Conca a Milano, degli albori del sec. 7°, ad aula unica absidata, nel motivo delle serie di finestroni sovrapposti nell'abside (sec. 7°) di S. Giovanni Evangelista di Castelseprio e nella classica spaziatura delle finestre in facciata della pieve di S. Stefano a Rogno (prov. Bergamo), certamente anteriore all'8° secolo. La tipologia di battistero ambrosiano, ottagonale con esterno scandito da nicchie alternatamente semicircolari e rettangolari, è ripresa nel battistero di Lomello, anch'esso di età teodolindea, con una linearistica trascrizione parietale, arricchita da lievi rincassi con coronamento a capanna, che tanto lo discostano dai modelli ambrosiani quanto lo apparentano al battistero di Poitiers (sec. 7°). Il carattere programmatico dei rimandi a tipologie paleocristiane in questo periodo di avvicinamento della corte longobarda al cattolicesimo è confermato dal complesso palaziale con annessa chiesa che Teodolinda fece costruire a Monza entro il 603, e particolarmente dalla chiesa di S. Giovanni Battista, che, con il suo impianto a croce greca e copertura a cupola in materiale leggero, doveva parlare un chiaro linguaggio tardoantico-ravennate. Stesso programma traspare dalle testimonianze architettoniche dell'altro periodo di prevalenza del partito cattolico all'interno della corte longobarda, ossia verso il terzo quarto del sec. 7°, sotto il regno di Perterito, committente, insieme alla moglie Rodelinda, della distrutta chiesa cimiteriale di S. Maria in Pertica a Pavia, testimoniata nel sec. 15° da uno schizzo di Leonardo da Vinci e nel 18° dal rilievo che ne fece Veneroni. Per il suo accentuato slancio verticale e il nitore della sua scansione spaziale, la chiesa appare ben pertinente al gruppo di edifici longobardi che costituiscono una serie di variazioni sul tema della struttura centralizzata, insieme con il battistero di Lomello, Santa Sofia di Benevento e S. Michele Arcangelo di Perugia (Romanini, 1984, p. 671ss.; Castellani, in corso di stampa).Se dunque in L. i secc. 6° e 7° si caratterizzano, dal punto di vista architettonico, come momenti di assimilazione e di contemporanea trasfigurazione della tradizione latina, il sec. 8° si evidenzia come momento di intenso attivismo sperimentale, ricco di innovazioni morfologiche, frutto di più frequenti scambi con il mondo orientale e di un costante interesse per il patrimonio locale. Fu infatti la L. a svolgere un ruolo fondamentale nella nascita e diffusione della tipologia di oratorio ad aula unica con terminazione a tre absidi, che, di provenienza orientale (Peroni, 1972), fu uno dei principali lasciti della cultura longobarda a quella carolingia, come testimoniato dagli esempi, pertinenti a quest'ultima epoca, di Disentis e Müstair. Prototipo ancora di tardo sec. 7° (Bullough, 1966; Peroni, 1972) sarebbe l'oratorio di S. Michele alla Pusterla presso il monastero di S. Maria Teodote a Pavia, dove il presbiterio si presenta inoltre introdotto da due colonne poste di fronte ai muri terminali delle absidi, esattamente come in S. Maria d'Aurona a Milano, della metà del sec. 8°, ricostruibile solo attraverso una testimonianza grafica (Peroni, 1984; 1989; Cammarata, 1990), dove però le tre absidi sono inquadrate in spessore di muro. Al novero di questa tipologia dovrebbe appartenere anche la basilica inferiore di S. Salvatore a Brescia, se si accetta la cronologia desideriana (v. Brescia).Sempre alla prima metà del secolo dovrebbero appartenere i resti della basilica di S. Maria delle Cacce a Pavia, della quale si danno per accertati l'impianto basilicale e la scansione esterna con arcate cieche, a dimostrazione del perdurare dei riferimenti a tipologie tardoantiche, anche, se non soprattutto, durante il periodo della c.d. rinascenza liutprandea.Forse ancor meglio che in campo architettonico il sincretismo linguistico longobardo emerge in L. dal panorama della scultura, superstite peraltro, più che la contemporanea architettura, soltanto per sparsi lacerti, oltretutto di natura talmente ambigua da far ritenere a chi più si è occupato di questo argomento (Romanini, 1969; 1991) che sia illegittima per il momento qualsiasi panoramica che abbia pretesa di esaustività sul tema. Nel patrimonio scultoreo pertinente alla L. così come in toto alla Langobardia Maior, non è dato infatti riscontrare nulla che sia possibile mettere in rapporto con le manifestazioni figurative dei Longobardi prima della conquista e tantomeno nulla che mostri una linea di continuità con il linguaggio artistico tardoantico. Entrambi i linguaggi nella loro purezza originaria sembrano annullati del tutto dallo scontro tra le due culture e ciò che ne nasce appare essere una sorta di pluralismo linguistico, presente spesso all'interno di una stessa opera, fatto di momenti alterni di avvicinamento e reazione tra le due culture.Esempio principe di tali momenti di reazione, specie se confrontati con esempi tipici della scultura pavese degli inizi del sec. 6°, come il pluteo da S. Pietro in Ciel d'Oro e la transenna da S. Giovanni in Borgo (Pavia, Civ. Mus.), di chiaro stampo costantinopolitano (Romanini, 1969, pp. 233-234), sono certamente i noti capitelli di sec. 6°-7° riutilizzati nella cripta romanica di S. Eusebio a Pavia, volutamente posti a parlare, con la loro trasposizione in chiave monumentale di tipologie proprie dell'oreficeria alveolata di stampo barbarico, una lingua che più germanica sarebbe difficile immaginare, proprio nel luogo di più frequente esercizio dei virtuosismi del linguaggio classico, in quel fondamentale punto di snodo architettonico che è il capitello. Curiosamente tali capitelli sono anche la principale testimonianza della capacità di appropriazione da parte delle botteghe latine di nuovi motivi propri delle culture nomadi importati in Italia già dagli Ostrogoti. Lo stesso processo di reazione operato in campi di decisa pertinenza del linguaggio classico, come la ritrattistica, si vede attuato nella c.d. testina di Teodolinda (già Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), dove le forme plastiche dei precedenti ravennati e copti subiscono un processo di decisa astrattizzazione per forza di una linea che incide la pietra quasi in forma di gioiello cesellato. Ancora una linea che incide decisamente i piani è la protagonista della trasfigurazione dei motivi decorativi paleocristiani operata nelle lastre superstiti della decorazione della basilica teodolindea di S. Giovanni a Monza, dove le croci a braccia patenti e il grande chrismon a ruota sono decorati da motivi a cerchielli tipici della lavorazione di altri materiali come l'avorio. Lo stesso tipo di lavorazione è riscontrabile nella lastra frammentaria proveniente da S. Maria la Rossa (Milano, depositi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia). Dello stesso gruppo di opere di epoca teodolindea fa parte anche il pluteo con archetti proveniente da S. Giovanni Evangelista a Castelseprio (Gallarate, Mus. d'Arte Sacra della Collegiata di S. Maria Assunta).La medesima incisiva grafia lineare torna nelle coeve lastre funerarie di Mainfred e Odelberto provenienti da S. Vincenzo a Galliano (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), che, nella ricostruzione di un quadro stilistico di indiscussa omogeneità, Romanini (1984, p. 671) ha collegato con la miniatura bobbiese dell'Explicit secundum Lucam-Incipit secundum Marcum di un codice di Dublino (Trinity College, 55, già A.4.15, c. 149v).Un esempio di indiscutibile pluralismo linguistico in una stessa opera è dato dalla lapide di Aldo (v.) proveniente da S. Giovanni in Conca (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), per la quale Lusuardi Siena (1990) ha recentemente proposto una datazione ai decenni finali del sec. 7°, dove convivono una classica impostazione centrica e una raffinata resa epigrafica insieme alla decorazione alveolata del bordo originariamente certo riempita da paste vitree, come colorata doveva apparire anche la grande croce a braccia patenti che occupa tutto il campo della stele. La compresenza viva e consapevole dei due linguaggi sembra farsi sempre più forte nel corso del sec. 8°, in particolare intorno alla metà del secolo, in età liutprandea, quando vengono prodotte sia singole opere, come la lastra di S. Cumiano (Bobbio, Mus. dell'Abbazia di S. Colombano), per la quale vale fondamentalmente lo stesso discorso fatto per la lapide di Aldo, sia complessi decorativi, superstiti soltanto per frammenti, come quello di S. Maria d'Aurona a Milano, dove, in un clima di decisa impronta antichizzante, si riscontrano esempi di sapore propriamente costantinopolitano, come il frammento con aquila e aquilotti nel nido, accanto a traduzioni di prototipi paleocristiani in forme decisamente germaniche, simili a quelle del fronte dell'altare di Ratchis (Cividale, Mus. Cristiano), come nel frammento con angelo e clipeo (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica). Identiche osservazioni possono essere fatte per ciò che resta della decorazione della residenza reale di Corteolona, presso Pavia, dove coesistono trasposizioni in pietra di motivi nastriformi tipici dell'oreficeria germanica, come nei pulvini provenienti con ogni evidenza dalla chiesa di S. Anastasio annessa al palazzo e reimpiegati nell'ex monastero di Santa Cristina a Bissone, e brani di intenso classicismo, rivisitato in chiave linearistica, come nel noto frammento di cerbiatto già ritenuto cavallino (Pavia, Civ. Mus.; Romanini, 1975; 1991, pp. 21-28; 1992, pp. 82-85).L'unico vero elemento unificatore della plastica lombarda di epoca longobarda può in definitiva essere individuato nel valore sempre più deciso conferito alla linea nella resa costruttiva delle forme, che appaiono ritagliate contro i fondali così nelle sculture di età teodolindea come nei plutei liutprandei provenienti dall'oratorio di S. Michele alla Pusterla a Pavia (Pavia, Civ. Mus.) o nei frammenti d'ambone con pavoni provenienti da S. Salvatore a Brescia (Brescia, Civ. Mus. Cristiano).Una linea sottile e incisiva come mezzo principale della trasfigurazione di forme tardoantiche è la caratteristica principale anche delle poche testimonianze pittoriche superstiti per i secoli della dominazione longobarda in L., a cominciare dalla decorazione affrescata sull'esterno della vasca del battistero di Lomello, la cui vicinanza quasi palmare con le lastre scultoree teodolindee è stata sottolineata da Romanini (1975). Esempi del comunque altissimo livello mantenuto dalla produzione pittorica lombarda a cavallo tra il sec. 6° e il 7° restano gli affreschi rinvenuti all'interno di sepolture a S. Nazaro Maggiore e a S. Giovanni in Conca a Milano (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), di un linguaggio classico e naturalistico talmente vivo, filtrato a un tempo da un segno lineare vivace e riassuntivo, da poter essere considerati i confronti più calzanti con gli affreschi di quel monumento sfingeo per eccellenza del Medioevo occidentale che è S. Maria di Castelseprio (v.; Romanini, 1975; Righetti Tosti-Croce, 1988). Ad ancorare ancor più i dipinti milanesi a una cronologia di epoca teodolindea contribuiscono inoltre gli affreschi rinvenuti all'interno di sepolture a Verona, queste ultime datate con certezza su basi archeologiche agli inizi del sec. 7°, strettamente affini dal punto di vista stilistico agli esempi milanesi (Fiorio Tedone, 1986, pp. 420-421; Lorenzoni, 1994, p. 105). Perduti gli affreschi fatti eseguire da Teodolinda nel palazzo monzese, unica altra notevole testimonianza pittorica coeva, oltre ovviamente alla copiosa produzione miniatoria bobbiese (v. Bobbio), restano le miniature dipinte all'interno delle valve del dittico di Boezio (Brescia, Civ. Mus. Cristiano), sulla cui origine, se romana o lombarda, ancora si discute (Lomartire, 1994, p. 48). Altro problema non del tutto risolto è quello che interessa gli affreschi emersi all'interno della torre del monastero di Torba, presso Castelseprio, vista in particolare la loro evidente sordità al vivo linguaggio classico degli affreschi di S. Maria di Castelseprio, pur nella loro esplicita volontà di ricerca classicista, ormai allo scadere del sec. 8° (Bertelli, 1980; 1988; 1994).La dialettica di incontro-scontro tra linguaggi di origine diversa e il processo di attiva acculturazione del popolo longobardo possono essere seguiti agevolmente attraverso l'analisi dei copiosi materiali emersi anche in territorio padano dai sepolcreti longobardi (Rosa, 1954; Peroni, 1967; Calderini, 1974; Melucco Vaccaro, 19882), fino a giungere all'avvenuta stilizzazione del linguaggio classico per il tramite delle forme dell'oreficeria germanica riscontrabile nel reliquiario di S. Agostino, commissionato da Liutprando per S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, e negli smalti, certo prodotti da artefici lombardi (Bertelli, 1988), che adornano il reliquiario donato dal vescovo Alteo (780-799) alla cattedrale svizzera di Sion, nel Vallese, che si pongono ormai come diretti precedenti di quelli inseriti in una delle opere principali della cultura carolingia in terra lombarda: l'altare di Vuolvinio in S. Ambrogio a Milano.
Bibl.:
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Agli inizi del sec. 9° soprattutto la chiesa di S. Salvatore a Brescia fissa l'alto tenore raggiunto dalla civiltà artistica di L., affermando come ancora pienamente vitale un'ipotesi basilicale di sapore antichizzante. Un ciclo di affreschi, con scene su due registri (Panazza, 1962; Peroni, 1983), si disponeva sulle pareti della navata centrale, approfittando del cadenzato percorso creato da una rigogliosa decorazione in stucco (Peroni, 1962; 1969a). Lo stato frammentario di ciò che resta non permette di confermare se fin da quel momento esistesse in L. quel taglio locale, nella determinazione delle sequenze narrative, che si fece più evidente in seguito. Sul piano stilistico invece la decorazione non può essere vista come un evento eccezionale e isolato. L'attenzione rivolta, sia pure a livello di sinopie, agli affreschi di S. Maria foris portas a Castelseprio, i legami con gli stucchi del tempietto di Cividale e con gli affreschi, risalenti al sec. 8°, nella torre del monastero di Torba, testimoniano di una continuità, nei confronti del retaggio longobardo, tanto solida e vitale da rendere inadeguata, per l'area lombarda, l'idea di una rinascenza carolingia (Romanini, 1969). La solida comunanza esistente, per via dei partiti architettonici esterni (le finestre del cleristorio abbracciate da una doppia ghiera e le arcate su lesene disposte lungo i fianchi), tra il S. Salvatore di Brescia e costruzioni pavesi assegnabili al sec. 8°, come S. Maria delle Cacce e S. Felice (Peroni, 1976; Jacobsen, 1985), conferma che non esistono i presupposti per cogliere una radicale diversità tra quei due momenti. La chiesa bresciana propone un embrionale passaggio dalla cripta a corridoio verso quella a oratorio, che fu uno dei temi caratterizzanti l'architettura lombarda tra sec. 10° e 11° (Magni, 1979).Milano, sostituendosi alla longobarda Pavia, stava allora diventando il centro di tale civiltà artistica, come prova la qualità altissima dell'altare d'oro fatto realizzare, per la basilica di S. Ambrogio, dall'arcivescovo Angilberto II (824-859), forse intorno all'835. I suoi due autori, Vuolvinio che si firma sul retro e il collaboratore che esegue le Storie di Cristo sulla fronte, pongono le basi di un linguaggio figurativo intriso di solida linearità espressiva, il cui valore sintattico restò normativo, per l'ambiente lombardo, almeno fino alla fine del sec. 11° (de Francovich, 1942-1944). L'altare tuttavia non è un unicum: pezzi conservati a Monza (Mus. del Duomo), come la corona Ferrea, il reliquiario del Dente e la croce di Berengario I (Elbern, 1986), o la croce pensile decorata a smalto e innestata su una corona (Londra, Vict. and Alb. Mus.), testimoniano, nel corso del sec. 9°, di una ricca produzione, improntata a una forte vivacità decorativa.L'opera di Angilberto II in S. Ambrogio non si limitò all'altare, ma coinvolse anche il ciborio, dove è stato possibile riconoscere un momento esecutivo precedente la versione attuale (Bertelli, Brambilla Barcilon, Gallone, 1981), mentre non sono stati ancora trovati gli argomenti per rispondere, in maniera definitiva, all'interrogativo se anche l'abside risalga alla stessa epoca. Dare soluzione a questo problema sarebbe di grande rilievo, perché fisserebbe in maniera certa il momento di invenzione di un tema architettonico, quello dei fornici, che ebbe larga fortuna nella regione. Soprattutto sanerebbe la frattura tra l'opinione di chi pone la realizzazione di quel partito nel sec. 10° (Arslan, 1954c) e quella di chi riconosce nel 9° il momento più logico per la prima realizzazione del mosaico absidale, in quanto, per il suo carico di memorie antichizzanti, esso appare come una componente ineliminabile nel processo di valorizzazione della tomba del santo, che era lo scopo primario dell'intervento (Bertelli, 1986; 1988).Insieme al campanile dei Monaci in S. Ambrogio, la cappella della Pietà annessa alla chiesa di S. Maria presso S. Satiro testimonia della finezza intellettuale del momento. Realizzata per iniziativa dell'arcivescovo Ansperto, dunque tra l'873 e l'881, per via del suo impianto, a quattro absidi raccordate da vani quadrati, la cappella è stata in genere giudicata come la trasposizione di una soluzione bizantina, anche se risulta difficile riconoscerle un possibile prototipo (Dimitrokallis, 1968). In ogni caso, che vi sia, in quel momento, un'apertura nei confronti di tale cultura è testimoniato da un manoscritto di San Gallo (Stiftsbibl., 48), redatto, per i quaterni iniziali, nell'Italia settentrionale e contenente, a livello di didascalie, le indicazioni relative al corredo illustrativo di un tetravangelo bizantino (Mütherich, 1987). Si delineano così i percorsi che hanno consentito la composizione degli apparati decorativi di codici, di sicura produzione ambrosiana, come due salteri (Roma, BAV, Vat. lat. 83; Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 343), in cui, nella organizzazione del decoro delle iniziali, una componente irlandese, dovuta alla documentata presenza a Milano di monaci provenienti da quella regione, spesso intenti alla trascrizione di testi greci, si fonde con l'immagine di Davide nell'atto di dettare i salmi a quattro scribi, desunta da qualche prototipo orientale, ma declinata in stile locale (Santucci, Paredi, 1978).Anche per la L. il sec. 10° è avaro di testimonianze: non è detto tuttavia che nella realtà dei fatti questo silenzio abbia corrisposto a un'effettiva decadenza, visto che agli anni dell'arcivescovo Arderico (936-948) può essere riferita la costruzione della cappella di S. Lino presso S. Nazaro a Milano, dotata anche di una decorazione pittorica di cui sopravvivono parti assai limitate. Contribuisce a rompere il silenzio in maniera definitiva, nella seconda metà del secolo, la qualità straordinaria degli avori di produzione milanese. I due pezzi storiograficamente più utili, in quanto dotati di un preciso riferimento alla città, sono la situla (Milano, Tesoro del Duomo) fatta realizzare dall'arcivescovo Gotofredo, verso il 979-980, e quella Basilewsky (Londra, Vict. and Alb. Mus.), che usa come modello, per le scene della Passione e della Risurrezione, un avorio più antico, ancora conservato nella cattedrale milanese (Beckwith, 1963; Little, 1988). Il gruppo si caratterizza per una grande raffinatezza di esecuzione, ma anche per i contatti con ateliers d'Oltralpe, in particolare con quello di Metz, più evidenti nella serie delle placchette che formavano un paliotto destinato alla cattedrale di Magdeburgo (Little, 1986). Proprio un avorio vicino per intenzione e modi di fare a quelli milanesi, ossia la placca con l'immagine di S. Nazaro di Hannover (Kestner-Mus.), è uno dei punti sui quali si appoggia l'ipotesi seducente di una provenienza lombarda del Maestro del Registrum Gregorii, il grande miniatore attivo, sul finire del sec. 10°, per conto dell'arcivescovo di Treviri Egberto e dell'imperatore Ottone III (Nordenfalk, 1988). Anche se forse non sarà mai possibile trovare gli elementi che la confermino in maniera definitiva, l'ipotesi ha il merito di riconoscere, sul piano concreto delle opere, quella presenza in Oltralpe di artisti lombardi che è segnalata, tra sec. 10° e 11°, in almeno due casi, quello del pittore Giovanni chiamato ad Aquisgrana da Ottone III per decorare la Cappella Palatina, nel quale si è voluto riconoscere lo stesso Maestro del Registrum Gregorii, e quello di Nivardo, voluto, dopo il 1004, a Fleury, dall'abate Gauzlin (Nordenfalk, 1953). Queste presenze testimoniano, comunque, di un riconoscimento di qualità che sta a significare un'autonomia della vicenda lombarda, rispetto a quella scontata dipendenza stilistica dalla Reichenau che è stata spesso il filo conduttore della ricostruzione storiografica.Gli avori sono solo una delle tante espressioni di una civiltà artistica che, nel corso della seconda metà del secolo, venne affermando, con sempre maggiore sicurezza, la propria identità e per questo si mosse lungo binari stilistici uniformi. Caposaldo di queste ragioni espressive è il ciborio in stucco di S. Ambrogio, che, dopo avere sofferto, per molto tempo, di una radicale incertezza cronologica, ha trovato finalmente gli argomenti per una collocazione negli anni intorno al 972-973 (Peroni, 1974) o, al massimo, in un momento immediatamente successivo, corrispondente all'episcopato di Gotofredo (Bertelli, Brambilla Barcilon, Gallone, 1981; Bertelli, 1988). Opera solenne e di grande fascino, portatrice di una marcata esaltazione del ruolo degli arcivescovi e della loro autonomia nei confronti del potere temporale, grazie all'indicazione, sviluppata a livello iconografico, di una diretta investitura divina, esso venne a completare l'intenzione magnificatoria che aveva ispirato la creazione dell'altare d'oro, facendo del sepolcro di Ambrogio l'equivalente di una tomba apostolica (Elbern, 1952). Questo progetto fu attuato grazie a un programma decorativo di sofisticata complessità, intuibile nelle linee generali, ma del quale non sono stati ancora chiariti in pieno i dettagli. Il ciborio trasferisce a dimensione monumentale la delicata raffinatezza degli avori, dei quali fa proprio lo spazio astratto e cerimoniale, come indica il confronto tra la scena della Traditio legis, sulla fronte volta verso la navata, e la rappresentazione di omaggio sulla placchetta Trivulzio, conservata a Milano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata). È proprio la spazialità rarefatta e assente, che campisce l'immagine su un fondo vuoto, a indicare la continuità ideale che corre tra queste opere e la maniera di Vuolvinio. Del resto, anche sul piano tecnico, era ancora pienamente vitale, in questo momento, la straordinaria capacità esecutiva dello sbalzo testimoniata da quell'opera; lo provano, solenni e intensi per la carica di sentimenti che li pervade, due crocifissi monumentali in lamina d'argento, da riferire entrambi a una esecuzione milanese, quello di S. Michele a Pavia, proveniente dal monastero femminile di S. Maria Teodote e fatto realizzare dalla badessa Raingarda, per la quale i documenti forniscono date tra il 963-965 e prima del 996, quando è attestata una nuova badessa, e quello, conservato nella cattedrale di Vercelli, riconducibile al vescovo Leone, in carica dal 999 al 1026 (Peroni, 1971; 1986).L'intervento al ciborio di S. Ambrogio coinvolse anche il presbiterio, dove una decorazione ad affresco di finti marmi si accompagnava a una in stucco della quale facevano parte i due ariosi capitelli e i vigorosi simboli degli evangelisti Marco e Luca conservati nel Mus. Sacro di S. Ambrogio. Al suo ingresso è posto un tondo, sempre in stucco, con il ritratto di S. Ambrogio, che per i modi esecutivi prossimi a quelli del ciborio deve risalire allo stesso momento: anche se non è possibile dire di quale contesto facesse parte, esso testimonia la felice congiuntura locale di questo tipo di produzione plastica. Le tracce dell'esistenza di un analogo meccanismo decorativo - affresco e stucco - sono state trovate nella chiesa di S. Lorenzo a Cremona, pertinenti alla fondazione promossa dal vescovo Olderico, prima del 990 (Voltini, 1987). Anche se non è più possibile ricomporre il loro effetto di insieme, queste testimonianze sono indicative della continuità di un gusto decorativo che si riallacciava al passato, a S. Salvatore a Brescia, ma che avrebbe ancora vivacemente caratterizzato il secolo seguente.Intensa è anche, in questo momento, l'attività degli scriptoria milanesi, i quali operavano sulla base di un repertorio ornamentale che richiama, elaborandole, le forme del secolo precedente. Punto nodale di riferimento, perché consente di attribuire all'attività degli stessi artisti anche il gruppo dei codici realizzati per il vescovo di Ivrea Varmondo (969-1005), è il libro di preghiere realizzato per l'arcivescovo Arnolfo II (998-1018; Londra, BL, Egert. 3763; Turner, 1960), caratterizzato da sedici illustrazioni, costituite da isolate figure di santi, talvolta chiuse all'interno di una cornice. Il senso dello spazio e il carattere costruttivo sono ancora quelli del ciborio di S. Ambrogio, anche se, a livello di modelli, vi si insinuano conoscenze bizantine, come la Madonna orante, le quali, al momento, non lasciano traccia di sé nello stile. A questo codice se ne accompagnano altri, soprattutto un gruppo di messali, dei quali il capostipite potrebbe essere quello detto di Lodrino (Milano, Bibl. Ambrosiana, A.24 inf.), caratterizzati dalla presenza della Maiestas Domini a formare l'iniziale del Vere dignum e della Crocifissione per quella del Te igitur (Bertelli, 1989). Per via di un fare corsivo e sbrigativo, tutto intento a insaporire di ragioni grafiche la composizione, queste immagini segnano un netto divario qualitativo nei confronti di quelle, ben diversamente alte, del ciborio ambrosiano o dei crocifissi in lamina d'argento. Una diversa inclinazione è attestata invece dal Sacramentario di S. Satiro (Milano, Bibl. del Capitolo metropolitano, II, D.3.2), realizzato per l'arcivescovo Ariberto d'Intimiano (1018-1045), il solo codice in cui, sulla base di spunti desunti dalla Reichenau, le iniziali vedono l'oro giustapporsi ai colori (Paredi, 1957). Se in questo caso, nell'alzare il livello qualitativo, gioca un ruolo determinante la committenza, per il resto la decorazione libraria sembra attestarsi, nei confronti della pittura contemporanea, su una parlata quasi dialettale che nega la possibilità di un rapporto tra i due mezzi espressivi, se si esclude il caso, isolato, della Crocifissione dipinta, in primo strato, nell'abside del battistero di Riva San Vitale (Canton Ticino).Nel 1007 veniva consacrata la chiesa di S. Vincenzo a Galliano, di cui lo stesso Ariberto, ancora suddiacono, aveva curato il restauro e la decorazione. Architettonicamente l'intervento si segnala per l'aggiunta, su un corpo più antico, di un'abside, decorata esternamente da arcatelle su lesene che abbracciano le finestre, un partito collaudato ma vecchio. La presenza di una cripta a oratorio solleva di molto il presbiterio e conclude quel percorso formativo del tipo che, a livello regionale, ha le sue tappe precedenti a Brescia, oltre che in S. Salvatore, nella cripta detta di S. Filastrio del duomo vecchio, risalente all'838, e in quelle, del sec. 10°, di S. Pietro a Breme in Lomellina e di S. Giovanni domnarum a Pavia. Nel battistero che, a Galliano, secondo l'antica tradizione legata al rito ambrosiano, viene anteposto alla pieve, altrettanto oculato, quasi nascosto, è il richiamo alla pianta della milanese cappella della Pietà, un edificio che in questi anni godette di relativa fortuna, visto che viene citato, in maniera decisamente più convinta, anche nella cappella castrense di S. Maria di Paderna nel piacentino (Segagni Malacart, 1981). Tanta prudenza è riscattata però dalla realizzazione di un matroneo, al di sopra del deambulatorio, con scale di accesso, ricavate in spessore di muro, che creano il senso, nuovo, di una vitale articolazione della parete. Caute appaiono anche le scelte fatte nel S. Pietro di Agliate, perché citano S. Ambrogio: ma se il giro dei fornici, a fare da coronamento all'esterno dell'abside, poteva ancora convivere, negli stessi anni, con il perfetto impianto basilicale del milanese S. Vincenzo in Prato, il presbiterio allungato, coperto a botte, di lì a poco avrebbe ricevuto la sua sanzione ufficiale, come fattore di rottura proprio nei confronti di quella ragione antichizzante, nella meditata articolazione dei pilastri e delle arcate trasverse del lungo corpo della S. Maria Maggiore di Lomello.Insuperata per qualità resta a Galliano la decorazione pittorica dell'abside, testimonianza altissima del ruolo guida svolto dalla regione lombarda, anche nei confronti dei più agguerriti ateliers ottoniani, ruolo che ha tratto ulteriore conferma dalla scoperta del ciclo apocalittico del battistero di Novara, improntato a un comune linguaggio compositivo, altrettanto grandioso e solenne (Chierici, 1967). Negli affreschi dunque, meglio che altrove, si riconosce, nel complesso di Galliano, l'impronta decisiva della committenza di Ariberto (Brenk, 1988), figura guida per tutta la prima metà del sec. 11° e ultimo degli arcivescovi milanesi a dare agli interventi di cui si fa promotore una coloritura politica, tesa a sottolineare l'autonomia del proprio potere. Si legano al suo nome, dopo il 1018, alcuni tra i più significativi prodotti dell'oreficeria milanese (Milano, Tesoro del Duomo), come la coperta di evangeliario, in lastra d'argento dorata e sbalzata, stilisticamente legata al gusto solenne degli affreschi di Galliano, e la pace in oro, con ricca decorazione, formata da un compendio di svariate tecniche, che inventa uno spirito compositivo, rutilante di colori, che fu ancora in grado, sul finire del secolo, di dare il tono alla pace del S. Lorenzo di Chiavenna.È probabile che alle necessità cerimoniali della incoronazione di Corrado II, officiata da Ariberto nel 1026, risalga il ricamo su lino che in seguito l'arcivescovo introdusse nella tomba di S. Ambrogio e che, per il tema della scena di corte, inserita al di sotto di arcate, precorre lo spirito organizzativo del ricamo di Bayeux (Tapisserie de Bayeux; Martiniani Reber, 1987). Legate alla ripresa del patetismo di modelli bizantini sono invece le ultime committenze dell'arcivescovo, come la perduta coperta di evangeliario donata al duomo di Monza, poco prima della morte, o la grande croce in rame, lavorato a sbalzo e a cesello (Monza, Mus. del Duomo) e destinata, intorno al 1040, alla chiesa milanese di S. Dionigi. La copia grafica della coperta prova che la scena della Deposizione in essa rappresentata era stata ripresa da un avorio bizantino. A sua volta, la croce rompe, stilisticamente e iconograficamente, con la tradizione dei crocifissi in lamina d'argento, realizzati sul finire del secolo precedente, per tradurre il tipo bizantino del Christus patiens in uno spirito lineare che, anche in seguito, improntò, ma in maniera più corsiva, analoghe lavorazioni delle officine milanesi, come i due simboli degli evangelisti in rame sbalzato applicati, in riuso, al pulpito della basilica di S. Ambrogio o i due picchiotti in bronzo del portale centrale. Queste opere rivelano una decadenza della metallistica milanese, per cui non stupisce di trovare, nel corso del sec. 12°, tra Valchiavenna e Valtellina, una larga presenza di croci astili, di carattere provinciale (Binaghi Olivari, 1968; Zastrow, 1970-1973; Zastrow, De Meis, 1975), improntate a modelli germanici e indifferenti nei confronti del prototipo locale rappresentato dalla figura disposta al centro della pace di Ariberto. Così come, per queste stesse ragioni, risulta difficile inquadrare all'interno di una possibile produzione milanese lo squisito piede di candelabro (Praga, tesoro della cattedrale), che un'antica tradizione vorrebbe sottratto durante il sacco della città del 1162. Il bizantinismo delle tarde committenze di Ariberto da Intimiano si accompagna a quello, contemporaneo e più sostanziato stilisticamente, di un antifonario diurno (Monza, Bibl. Capitolare, C. 13/76; Mancinelli, 1969) da porre in relazione con le figure dei patriarchi ad affresco, conservate nel S. Michele a Oleggio e intrise di uno stesso spirito: questo legame fa comprendere quanto grave sia stata la perdita della chiesa milanese di S. Dionigi, che Ariberto aveva fatto restaurare, perché è possibile che essa svolgesse, alla metà del secolo, in quella direzione nuova, la stessa funzione di riferimento stilistico che, tanto tempo prima, aveva avuto S. Vincenzo a Galliano.In mancanza di questo solido ancoraggio, il panorama pittorico lombardo del sec. 11° non è mutato rispetto alla magistrale ricostruzione che ne dava Toesca (1912). I restauri hanno accresciuto le conoscenze, rivelando testi pittorici nuovi o migliorando la lettura di quelli noti, senza tuttavia che da tali scoperte siano scaturiti agganci cronologici sicuri, se si eccettua il caso degli affreschi trovati a Pavia, in S. Maria Gualtieri, legati alla data di consacrazione del 1096 (Peroni, 1969c). Anzi, in certi casi, come per gli affreschi del S. Giorgio in Borgovico a Como, è stato persino rimesso in discussione quel riferimento al 1082 che da sempre era stato dato per certo (Caldarulo, 1985). A sottolineare l'autonomia e l'importanza culturale della tradizione pittorica lombarda ha contribuito piuttosto l'analisi comparata dei cicli disposti lungo le pareti delle navate delle chiese di S. Pietro ad Agliate, di S. Martino a Carugo, di S. Vincenzo a Galliano e di S. Vittore a Muralto, in quanto ha permesso di riconoscere l'esistenza di un sistema decorativo che ricorda quello in uso, fin dal periodo paleocristiano, nelle basiliche romane, ma che ne è totalmente indipendente, sia per le fonti sia per il taglio tematico (Bertelli, 1989). Anche per il complesso di Civate il programma decorativo si è rivelato (Mancinelli, 1971) essere la sofisticata integrazione, realizzata in tempi e da artisti diversi, tra i due nuclei monumentali componenti il monastero: un vero percorso spirituale, una sorta di 'sacro monte' medievale, che va da quanto è venuto in luce sulle pareti dell'abbazia del piano, S. Calocero, con una scelta di storie veterotestamentarie del tutto inconsueta, al ciclo apocalittico della sede montana di S. Pietro, al quale si è aggiunta la traccia, sul muro meridionale della chiesa, di un probabile ciclo di S. Pietro, tratto dal Vangelo o dagli Atti degli Apostoli (Gatti, 1976). A completare la magnificenza del percorso, nella cripta del S. Calocero, sono state trovate le tracce di una decorazione in stucco, parallela a quella ancora presente nell'abbazia del monte. Insieme con i resti della decorazione della S. Maria Maggiore di Lomello, formata da grandi figure disposte lungo le pareti della navata centrale (Romanini, 1968), sono queste le ultime testimonianze della raffinata integrazione lombarda tra stucco e affresco, che non avrebbe retto di fronte alle esigenze nuove imposte dalla crisi del potere vescovile e dalla nascita dei Comuni. Anche in questo caso la perdita del ciborio in stucco che Ariberto da Intimiano aveva fatto realizzare per la chiesa di S. Dionigi sottrae una tappa intermedia, necessaria per la valutazione di quello di Civate, troppo diverso, per stile e intenzioni iconografiche, da quello di S. Ambrogio.Resta, del valore di frontiera del S. Pietro al Monte, il fatto che la sua pianta, a due absidi contrapposte, risalga alla prima fase progettuale (Guiglia Guidobaldi, 1978). Pur nell'incertezza cronologica che riguarda l'intero complesso, questa indicazione segnala un intenzionale recupero di suggestioni tratte da modelli carolingi, sul tipo della pianta ideale del monastero di San Gallo (Stiftsbibl., 1092), e trova la sua naturale collocazione all'interno dell'area comasca. Fin dal S. Carpoforo e dalla S. Eufemia all'Isola Comacina, risalenti entrambi alla prima metà del sec. 11° e significativi, il primo per la presenza di un transetto eccentrico e la seconda per i pilastri ottagonali e una copertura a crociera nella zona presbiteriale, Como si segnala per un progettare complesso che diede nerbo e originalità ai cantieri di fine secolo, prima a quello di S. Abbondio, concluso con la consacrazione del 1095, poi a quelli di S. Giacomo e di S. Fedele. In essi i richiami più disparati si annullano all'interno di una dimensione sperimentale che, utilizzando i sistemi di copertura mista, l'allungamento e l'articolazione delle zone presbiteriali, la varietà dei sostegni, la duplicazione dei livelli monumentali, scardina la logica basilicale fondata su una muralità continua, adatta alla stesura di grandi cicli pittorici.In tutta la regione vi fu del resto, con il sec. 11°, un salto nella qualità e nella messa in opera dei materiali edilizi, fossero essi il cotto o la pietra da taglio. Il miglioramento tecnico fu una delle tante ragioni che determinarono un diverso valore delle forme e degli spazi e che, nel prosieguo, ebbero conseguenze vistose sull'organizzazione degli interni, dove la decorazione pittorica, sottratta alle pareti, fu utilizzata per valorizzare coloristicamente le nuove partiture, inventando una condizione dipinta dell'architettura della quale oggi si coglie a fatica il ricordo (Autenrieth, 1987). Legata alla stessa rivoluzione è anche la larga diffusione, in tutta l'area lombarda, dei pavimenti musivi figurati, quasi a sostituire, con le immagini a carattere allegorico, che in genere ne compongono la decorazione, la perdita della ragione didattica insita nell'affresco. Sebbene un solo litostroto sia datato - quello, risalente al 1151, con figure di Virtù, della chiesa di S. Maria, nel complesso dell'abbazia di Polirone -, si tratta di un materiale di difficile valutazione, non tanto per la cronologia, in genere legata a quella delle architetture, quanto per la disparità stilistica che corre anche tra testi relativamente vicini, determinata dalle marcate differenze nella qualità dei materiali e nei metodi di esecuzione (Ebani, 1969). Conseguenza altrettanto vistosa fu infine la frequente introduzione di una plastica architettonica basata sul capitello figurato o istoriato, con l'abbandono del canone classicistico che era stato ancora dominante per tutto il corso del 10° secolo.Nasce da queste esigenze una scultura dalle caratteristiche locali e dalle marcate ragioni decorative che, come nel caso delle finestre del presbiterio e dell'abside del S. Abbondio a Como, traduce ancora, nella pietra, arricchendola di motivi e di componenti, una soluzione, quella della banda continua, già sperimentata, in cotto, nella parte più antica, ancora del sec. 11°, del campanile di S. Michele a Pavia, un edificio nel quale, tra il secondo e il terzo decennio del sec. 12°, un analogo criterio, sostanziato di più corposi spiriti plastici, si sarebbe esteso a governare l'intera facciata. Un frammento di ambone, conservato a Como (Mus. Civ. Archeologico P. Giovio), e il portale di S. Fedele testimoniano dell'invenzione, in questi cantieri, di una scultura figurata, di ruvida e violenta capacità espressiva, del tutto indifferente alle ragioni prospettiche e alla resa organica delle forme, un filone dal quale nacque, poco dopo, un capolavoro assoluto di fantasia e di forza come il pulpito di S. Giulio d'Orta. La differenza, al confronto con la pacata ragione compositiva che ancora ispira gli stucchi di Civate, non potrebbe essere più stridente e significativa di un improvviso mutare dei tempi e del sorgere di esigenze nuove.Fino a questo momento la produzione artistica aveva mantenuto, nell'intera regione, un carattere unitario, tanto da rendere accettabile l'idea dell'esistenza di un'arte lombarda carolingia od ottoniana, specie se si dà a questi termini il valore di notazioni cronologiche, piuttosto che una funzione qualificativa sotto il profilo culturale. Malgrado la larga fortuna di cui ha goduto in passato, l'idea di un'arte romanica lombarda è invece inapplicabile al frazionarsi delle esperienze in chiave locale che contraddistingue il 12° secolo. Venuta meno la funzione unificante svolta dai vescovi e da Milano, come centro di raccordo dell'intera arcidiocesi, le singole realtà cittadine si mossero sulla base di progetti autonomi, legati a esigenze contingenti, come quelle, di carattere palatino, che, tra la fine del sec. 11° e gli inizi del seguente, condizionarono la scelta di impianti centrici nel S. Lorenzo di Mantova (Calzona, 1991) e nel duomo vecchio di Brescia. Né hanno la forza o la volontà di contrapporsi a questo stato di cose, con un loro progetto unificante, fenomeni fortemente legati alla situazione politica e religiosa del momento, come la Pataria, a proposito della quale si ha solo la notizia, nel 1062, della prescrizione, da parte di s. Arialdo, di un muro di separazione tra la navata e il presbiterio (Cattaneo, 1975), o la larga diffusione, nel corso del sec. 11°, dei priorati cluniacensi, in quanto il fenomeno avvenne sulla base di una convinta accettazione delle realtà locali (Gatti Perer, 1979).Il solo caso di autonomia culturale, motivata anche dall'abbondanza delle risorse economiche, assicurate dalla protezione della contessa Matilde, è quello dell'abbazia del Polirone a San Benedetto Po, dove, entro il 1130, venne realizzata una chiesa abbaziale che lega a un corpo basilicale, schiettamente padano, un deambulatorio a cappelle radiali e un transetto, approssimativamente desunti da Cluny III (Piva, 1980). A realizzare il portale dell'edificio fu chiamato uno straordinario scultore, che, per il realismo sentimentale con cui interpreta il ciclo dei mesi, non è disdicevole riconoscere come Wiligelmo (Quintavalle, 1991), segno di una precoce apertura verso le novità modenesi, certamente favorita dagli stretti rapporti che, fino al 1115, vivente Matilde, poterono correre tra i due cantieri. Già sul finire del sec. 11°, del resto, lo scriptorium del Polirone produsse codici di raffinata articolazione intellettuale, legati a una religiosità riformata. Essi elaborano modi della miniatura lombarda degli inizi del secolo, come il Vangelo detto di Matilde (New York, Pierp. Morgan Lib., 492; Rough, 1973), o fanno propria la maniera della contemporanea produzione umbro-laziale, come il Salterio detto di Polirone (Mantova, Bibl. Com., 340 C III 20; Walther, 1992; Zanichelli, 1993), a testimonianza di una cultura che ormai guarda a Roma e al papato più che a Milano. Si tratta di un'opera di mediazione stilistica di significato, in quanto non solo giustifica la presenza di modi legati a quel contesto in affreschi come quelli della chiesa di S. Tommaso ad Acquanegra sul Chiese (Toesca, 1987), ma anche la loro comparsa nella decorazione libraria realizzata all'interno degli scriptoria ambrosiani. Sul finire del sec. 11° o nei primi anni del successivo, un codice come la In Lucae Evangelium expositio di Beda il Venerabile (Torino, Bibl. Naz., D.II.16), destinato a S. Vincenzo in Prato, mostra ancora una sostanziale fedeltà ai modi di una tradizione locale, della quale, nelle sue committenze, si sarebbe fatto strenuo difensore anche l'arcivescovo Anselmo V della Pusterla (1126-1133). In quegli stessi anni però una Bibbia (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.48 inf.), nella miniatura a piena pagina con il ritratto di una coppia di donatori laici, suggerisce già modi centro-italiani, spiegabili solo con la mediazione polironiana (Bertelli, 1989). L'apertura restò caratteristica anche della produzione promossa, tra il 1134 e il 1152, dal prevosto di S. Ambrogio, Martino Corvo, che dotò la basilica di un'edizione delle opere del santo in più volumi (Milano, Arch. Capitolare di S. Ambrogio, M 31-35; Roma, BAV, Vat. lat. 268, Vat. lat. 282). In seguito, sulla spinta di questa tendenza, una Bibbia (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.27 inf.) dalla ricca decorazione narrativa e i volumi destinati ad accompagnare la liturgia dell'anno che l'arcivescovo Algisio da Pirovano (1176-1185) fece approntare, dopo la battaglia di Legnano (1176), per risarcire la devastata biblioteca della cattedrale (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.29 inf., A.258 inf., B.28 inf.) restarono ancora fedeli al formato atlantico, in un momento in cui, ovunque, si tendeva ad abbandonarlo (Ferrari, 1989). Analoghe inclinazioni in direzione centroitaliana si colgono, insieme ad altre componenti, nella contemporanea produzione dello scriptorium dell'abbazia cistercense di Morimondo (Como, Seminario Maggiore, Bibl., Fondo Morimondo, 1, 2; Righetti Tosti-Croce, 1978).Il tema della copertura a volta a crociera costolonata, con tutte le conseguenze architettoniche che ne derivano a livello di pilastri e di matronei, ha visto da tempo riconosciuto il suo momento ideale, di ricerca e di interpretazione, nella ricostruzione, sul finire del sec. 11°, del S. Ambrogio di Milano (Peroni, 1988). Il fenomeno è vasto, complesso e articolato, e coinvolge, nella sua dimensione sperimentale, anche Pavia, dove sono attestate volte a crociera semplice, su campate oblunghe, in S. Maria Gualtieri, già entro il 1096; pochi anni dopo, a Milano, in S. Nazaro Maggiore, trova la sua prima compiuta realizzazione un elemento altrettanto caratteristico, per l'architettura locale, come il tiburio. Stabilito dunque che, per stato di conservazione e importanza ideale, S. Ambrogio a Milano e S. Michele a Pavia sono le punte emergenti di una realtà più articolata, è necessario constatare che quei due edifici, una volta messi in relazione, disegnano un percorso teso a risolvere, in presenza di un matroneo, l'impaccio rappresentato dalla mancata illuminazione diretta della navata centrale, conseguente al carattere sperimentale con il quale venivano realizzate le prime coperture a volte: lo stesso problema in Ss. Maria e Sigismondo a Rivolta d'Adda (Marini, 1984), entro il 1099, e in S. Savino a Piacenza (Salvini, 1978), consacrato nel 1107, induce a una giudiziosa rinuncia alla duplicazione degli ordini monumentali.A quei cantieri corrispondono anche due realtà plastiche diverse per intenzioni e meriti. Come nei capitelli impiegati nella contemporanea ricostruzione di S. Maria d'Aurona, in S. Ambrogio prevale una scultura affine a quella comasca, bene evidenziata, nei suoi caratteri di sbrigativa semplicità, dal legame che i rilievi del pulpito hanno con un capitello con l'Adorazione dei Magi e la Fuga in Egitto conservato a Como (Mus. Civ. Archeologico P. Giovio). Intorno a questo modo di fare, imputabile al fatto che, secondo una consuetudine radicata nell'ambiente comasco e largamente esportata (lo prova la contemporanea documentazione relativa ai magistri Antelami genovesi), sono le stesse maestranze attive alle architetture a realizzare anche le sculture, si formò una tradizione locale, milanese (Cassanelli, 1988; Segagni Malacart, 1989), la quale, passando per i portali di S. Celso e di S. Simpliciano, arriva fino al 1171 dei gustosi ma sciatti rilievi storici dei pilastri di porta Romana. Essa chiuse ogni spazio verso quel rinnovamento in direzione del realismo emiliano che poté avere luogo solo nel decennio successivo, con l'arrivo, sul cantiere della cattedrale di Lodi, di una bottega di scultori piacentini e con la realizzazione della recinzione presbiteriale dell'allora cattedrale milanese di S. Maria Maggiore da parte di scultori affini a quelli del pontile della cattedrale di Modena. In S. Michele a Pavia il ricchissimo corredo plastico, sia esterno sia interno, di grande raffinatezza ornamentale e di squisita sensibilità fabulistica, si sviluppa sulla base di premesse locali che hanno la loro radice nei capitelli della fine del sec. 11° di S. Pietro in Ciel d'Oro e fissa dei parametri formali che incontrano ulteriore evoluzione, anche qualitativa, nei resti provenienti da S. Giovanni in Borgo. Per tale ragione è doveroso riconoscere l'esistenza di una scuola pavese (Arslan, 1955; Peroni, 1967), distinta da quella comasca e caratterizzata da intenzioni sue proprie, sul piano sia dei contenuti sia della loro realizzazione, malgrado che le due correnti plastiche siano state sovente assimilate.Favorita dalla posizione geografica e da un minore peso della tradizione locale, una più agevole apertura verso le novità emiliane fu possibile sui cantieri delle cattedrali di Cremona e di Piacenza, due centri che, anche sul piano della decorazione libraria, seppero darsi un'identità distinta rispetto a Milano (Quintavalle, 1963). La cattedrale di Cremona fu avviata nel 1107 sulla base di un progetto che univa echi lombardi, nel sistema alternato dei sostegni, a spunti tratti dalla cattedrale di Modena, come la copertura a capriate, connessa ad arcate trasverse (Puerari, 1971; Quintavalle, 1973). Anche dopo che fu modificato, alla ripresa dei lavori, nel 1129, con una previsione di volte esapartite, di influenza piacentina, mai realizzate, a quel progetto collaborarono scultori di varia estrazione, alcuni di sicura provenienza modenese, altri, come lo straordinario creatore dei quattro profeti del portale maggiore, di più incerta collocazione (Cochetti Pratesi, 1976); tutti comunque legati, in diversa misura, alle novità descrittive proposte da Wiligelmo e capaci di stimolare un seguito locale di cui fa parte anche l'autore delle due umanissime cariatidi note con i nomi di Berta e Baldes.A Piacenza, nel 1122, la cattedrale venne avviata sulla base di un progetto, anch'esso tradito nel tempo, che prevedeva una copertura a volte esapartite desunta da modelli anglo-normanni, quindi radicalmente estraneo a presupposti lombardi (Romanini, 1954). Qui, come a Cremona, vi fu il succedersi di varie proposte plastiche, da quella iniziale wiligelmica a quella di Niccolò, attivo, attraverso la bottega, anche nel portico della chiesa di S. Eufemia (Verzar Bornstein, 1974); esse consentirono il formarsi di una robusta e duratura tradizione locale, dotata di caratteri stilistici propri (Cochetti Pratesi, 1973; Klein, 1994) e debitrice nei confronti di una matrice emiliana che, negli anni precedenti, non era ancora arrivata a toccare il cantiere di S. Savino, dipendente, come per l'architettura, da modelli ambrosiani.I segnali di un cambiamento si hanno con la seconda metà del secolo. Nel 1167 la fondazione del battistero di Cremona mise in campo una proposta architettonica, tutta svolta sul tema dello svuotamento della parete, che fu determinante nell'impostare il linguaggio nuovo che ebbe poi, tra i suoi interpreti più alti, il battistero di Parma e la cattedrale di Fidenza (Peroni, 1982). Un contributo in questo senso venne anche da una seconda fase edilizia degli insediamenti cistercensi, quella successiva alle fondazioni iniziali, ancora legate al carattere unitario del progetto bernardino, che prescindeva dalle realtà locali (Cadei, 1989). La vicenda costruttiva delle abbazie di Chiaravalle Milanese e di Morimondo, se da un lato conferma l'adozione, da parte dell'Ordine, del sistema alternato lombardo, nella versione priva di matroneo, dall'altro segnala, in questo momento, la definitiva affermazione presso di esso di fattori di goticizzazione, come i costoloni a sezione torica o il livellamento in chiave degli archi, che vengono ormai utilizzati anche in un più ampio ambito regionale, come suggerisce il restauro tardoromanico del S. Simpliciano di Milano.
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All'aprirsi del Duecento la L. appare segnata da un nuovo fervore che investe vari fenomeni artistici.
Nei cantieri delle fabbriche dei Cistercensi (v.) e in quelli degli edifici commissionati dagli organismi comunali lombardi comparvero i segni di "un rinnovamento formale che corrisponde anche a una fresca originalità di idee architettoniche" (Romanini, 1964, I, p. 12), cioè un nuovo modo di organizzare lo spazio: la tendenza a combinare geometrizzanti tracciati rettilinei con essenzialità e chiarezza formali segnò l'affermarsi dell'architettura gotica nella regione. Si tratta di caratteristiche definite in modo ancora sperimentale nell'abbaziale di Chiaravalle Milanese, a croce latina, con corpo longitudinale a sistema alternato, coro a terminazione rettilinea affiancato da tre cappelle rettangolari per lato, copertura con volte a crociera su bassi e massicci pilastri cilindrici in cotto - in cui la costruzione del nucleo originario, di diretta fondazione bernardina, risale ai decenni tra il 1150-1160 e il 1221 -, e con sempre maggior sicurezza in quelle di Abbadia Cerreto, nei pressi di Lodi, eretta tra il 1160-1170 e gli inizi del Duecento, e di Morimondo, in Lomellina. In quest'ultima già all'inizio del Duecento l'adozione del sistema uniforme e della sezione acuta degli archi e la diminuzione del dislivello tra navata centrale e laterali riflettevano alcune caratteristiche proprie del maturo Gotico lombardo, come la tendenza a creare uno spazio rettilineo, compatto e limpidamente unitario e ad assegnare un ruolo fondamentale alla parete "valorizzata nelle sue pure qualità cromatiche e intesa quale piano di proiezione dell'intera intelaiatura strutturale" (Romanini, 1964, I, p. 12).Il battistero di Varese, risalente al terzo o quarto decennio del sec. 13° (Romanini, 1964) e costituito dall'accostamento di due parallelepipedi squadrati coperti da volte a crociera cordonate pensili, impostate molto in basso su peducci ovoidali in pietra - una costante del gusto locale dalla metà del sec. 13° a tutto il 15° -, ben rappresenta l'architettura rettilinea tipica dei decenni centrali del Duecento lombardo, insieme alla parte orientale, a terminazione rettilinea priva di transetto, del duomo di Crema - ricostruito a partire dal quarto o quinto decennio del sec. 13° -, alla chiesetta degli Agostiniani di S. Maria di Torello, presso Carona, nel Canton Ticino, databile intorno al 1217, e alla chiesa 'a sala' di S. Maria Canale a Tortona (prov. Alessandria), della metà del secolo. Parteciparono di questo clima culturale, esercitando un notevole influsso in ambito regionale, gli insediamenti rurali e cittadini degli Umiliati, elaborati all'interno dei cantieri delle grange cistercensi lombarde e concentrati in larga parte intorno a Milano. Si trattava di piccole chiese - risalenti, nei primi esempi noti, alla fine del sec. 12° - notevolmente omogenee nel disegno di pianta e alzato, basate sulla composizione di vani cubiformi secondo semplici schemi geometrici, che negli esempi primitivi raggiunsero esiti di povertà radicale e ancora per tutto il Duecento ignorarono la nuova concezione spaziale, di sostanza drammatica, delle architetture minoritiche. Il tentativo di pervenire, attraverso un processo di ulteriore riduzione rispetto all'architettura cistercense della fine del sec. 12°, a un'assoluta uniformità, non fu però all'origine di un sostanziale rinnovamento della visione spaziale, tanto che la semplice ripetizione di un unico modulo ad quadratum era ancora alla base del corpo longitudinale aggiunto tra il quarto e il sesto decennio del Duecento alla chiesa di S. Pietro dell'abbazia di Viboldone presso San Giuliano Milanese - un blocco cubiforme rigidamente unitario diviso in tre navate da due file di bassi pilastri cilindrici in cotto che sostengono slanciate arcate acute e alte volte pensili all'interno di un alzato 'a sala' a gradonature, tipico della tradizione lombarda -, sull'esempio del quale dovette essere eretta, nello stesso giro di anni, la chiesa milanese di S. Maria di Brera, di cui si conservano l'intero registro inferiore e buona parte delle colonne che dividevano la zona occidentale in tre navate. Da blocchi geometrici accostati risulta costituita, ancora nel 1297, la chiesa di S. Lorenzo di Monlué a Milano - eretta come cappella di grangia -, con ampia aula di accesso a navata unica, già con travatura a vista e piccolo coro quadrangolare con volta a crociera.È stato ipotizzato che l'esperienza degli Umiliati abbia svolto un ruolo fondamentale di mediazione tra i Cistercensi e le maestranze che tra il sec. 12° e il 13° definirono il nuovo volto delle città comunali lombarde (Romanini, 1989), utilizzando largamente, dalla realizzazione delle cinte urbane a quella dei broletti (v.), progetti e manodopera cistercensi. Il gruppo dei broletti lombardi protoduecenteschi risulta estremamente omogeneo per la generalizzata adozione di uno stesso schemabase, con piano terreno aperto da portici e ampia aula superiore con serie regolari di polifore sotto archi di scarico, ripetuto con fedeltà lungo tutto il corso del Duecento e ancora in pieno Trecento. Mentre dunque le modifiche strutturali, con il passare del tempo, risultarono sostanzialmente limitate alla sostituzione delle capriate con volte e all'inserimento di scaloni in muratura, le forme specifiche adottate in ogni singolo edificio furono strettamente collegate alle tradizioni costruttive e all'evolversi della cultura architettonica locale. Moduli ancora pienamente romanici caratterizzano infatti il nucleo originario, l'ala settentrionale, del broletto di Novara, documentato per la prima volta nel 1208; inoltre, nell'attuale ala meridionale del broletto di Pavia, identificabile con la fabbrica iniziata nel 1197-1198, numerosi elementi, come i pilastri cilindrici del piano terreno e i capitelli delle bifore del primo piano, rimandano alle parti più arcaiche delle abbaziali cistercensi di Chiaravalle Milanese e di Morimondo e al coro dell'abbaziale di Viboldone. Il broletto di Como, eretto intorno al 1215 probabilmente a opera dei Campionesi (v.), presenta invece caratteri pienamente gotici nella rigorosa alternanza sulla facciata di fasce orizzontali in marmo bianco, bruno e rossiccio - tipiche del primo Duecento comasco - e nell'uso dell'arco acuto e dei capitelli a crochets.Con l'inoltrarsi del Duecento si approfondì la tendenza verso una più rigorosa scansione logica della parete aperta da arcate sempre più dilatate e disegnata da cordonature, da colonnine marmoree nelle finestre, da minuti ricami in cotto, che giunsero a rendere la definizione pittorica del piano fine a se stessa, piuttosto che espressione della struttura architettonica. Nel broletto di Brescia la modulazione della parete è giocata sul contrasto cromatico di due diverse tonalità di pietra, mentre una maggior consapevolezza compare nella sempre più insistita regolarità simmetrica che organizza le terse pareti in cotto con inserti lapidei del Broletto Nuovo di Milano, il palazzo della Ragione, costruito negli anni 1228-1233, notevolmente esteso in lunghezza e completamente aperto al piano terreno. L'arengario di Monza - eretto nel 1293 ca., ma per il quale è stata recentemente avanzata una datazione al 1255-1265 (Russel, 1988) - propone una versione ridotta, con accento veneto nel gusto per la vivace policromia pietra-cotto, dell'edificio milanese. Una nuova raffinatezza, con il sottile gioco chiaroscurale delle cordonature continue, dei ricami in cotto e delle lunghe colonnine marmoree che disegnano le finestre, anima le superfici della loggia dei Militi a Cremona - un piccolo ed elegante edificio in cotto eretto nel 1292, per il quale i referenti stilistici restano quelli consueti dell'area cremonese fino a Bologna e Piacenza - e dell'ala orientale del broletto di Lodi, l'unica parte conservata dell'edificio originario, fondato nel 1284 circa. Per l'ampliamento dei broletti furono in seguito erette nuove ali, basate sull'antico schema a blocco unico rettangolare, che, giustapposte ai nuclei primitivi, originarono monumentali complessi quadrilateri aperti su un cortile quadrato interno a portici. Esempi precoci sono rappresentati dall'ala orientale dell'od. complesso del broletto di Brescia - quest'ultima di forme analoghe alla più antica ala meridionale, mentre l'ala occidentale, riferibile agli anni 1282-1284, presenta un'accentuata vivacità pittorica - e dall'ala aggiunta verso S, dopo il 1236, al broletto di Pavia, che mostra affinità con quello di Verona e che segnò, con la sua articolazione a tre piani, la nascita di una nuova forma di edificio, tra palazzo pubblico e dimora signorile, apparsa contemporaneamente e con caratteri analoghi in tutta la Lombardia.Gli esiti tardoduecenteschi di forme nate insieme allo schema del broletto, come il risalto di nastri regolari di trifore sotto archi di scarico sfruttati per effetti pittorici, o la trasformazione della funzione del tipo da sala di adunanze a residenza privata, sono ben rappresentati dalla fronte meridionale del palazzo Arcivescovile di Milano, che, nel corso dei rifacimenti dovuti a Ottone Visconti tra il 1262 e il 1295, fu aperta da una nuova serie di dilatate bifore; tale soluzione dovette influenzare notevolmente sia i palazzi pavesi sia molte altre architetture civili lombarde coeve o successive (Romanini, 1964).Anche il tipico castello signorile, che si diffuse in L. in pieno Trecento, derivò il proprio schema-base dall'ampliamento in pianta quadrilatera del broletto. Si tratta di una tipologia che si definì nella seconda metà del Duecento, quando, in concomitanza con l'affermazione del potere visconteo, si assistette alla costruzione o ristrutturazione di palazzi privati e castelli - dei quali non restano che scarse tracce sicuramente databili - in cui diversi corpi di fabbrica, con basamenti scarpati e merli, fortificati da torri e aperti all'esterno da ampie bifore e trifore sotto archi di scarico, si disponevano intorno a un cortile aperto da portici e loggiati. I castelli di Abbiategrasso (prov. Milano), del tempo di Ottone, e di Vercelli, che si deve a Matteo I ed è munito di torre anche sull'ingresso, rappresentano i primi esempi di questa tipologia.I castelli delle zone collinari o montane, o comunque in posizione strategica, i cui precedenti vanno ricercati nelle torri-porta e nelle cinte urbiche dei Comuni (Romanini, 1964), conservano l'aspetto di roccaforti munite e rimasero a lungo caratterizzati da forme romaniche. Il castello Malaspina a Nazzano, presso Rivanazzano (prov. Pavia), costruito al passaggio tra Duecento e Trecento e caratterizzato da un accento stilistico ormai pienamente gotico, come anche le squadrate costruzioni in pietra ossolane e novaresi, per es. la torre Briona a Domodossola (prov. Verbania) o la porta urbica di Vignale Monferrato (prov. Alessandria), e ancora le nitide torri in cotto della pianura novarese e alessandrina e, in area milanese, la torre del castello di Trezzo sull'Adda e i resti del castello di San Colombano al Lambro, bene evidenziano, nello slancio verticale e nella tersa volumetria dell'impianto planimetrico e d'alzato, i caratteri comuni alle architetture difensive lombarde della seconda metà del Duecento. La genesi di questi chiari impianti geometrizzanti è stata individuata da Romanini (1964) nell'edilizia cistercense della fine del sec. 12° e della prima metà del 13°, con la quale presenta per es. strette analogie l'ala viscontea della rocca di Angera (v.), costituita da un portico con arcate archiacute su semplici pilastri - analogo peraltro a quello del castello di Abbiategrasso, al cortile nordorientale dell'ex palazzo visconteo di Milano, ai portici del castello di Cassano d'Adda (prov. Milano), della cittadella di Bergamo, del castello di Pandino (prov. Cremona) - sovrastato al primo piano da un vasto ambiente rettangolare diviso in due campate coperte da volte a crociera, secondo uno schema affine peraltro a quello dei broletti lombardi. L'architettura difensiva della riva occidentale del lago di Garda e in genere dell'Alto Mantovano, caratterizzata da un'accentuazione cromatica di schietta colorazione veneta, presenta planimetrie più sciolte.Gli edifici eretti nella regione dagli Ordini mendicanti introdussero nella tradizione architettonica locale un'inedita tensione drammatica, che risultò determinante per la successiva evoluzione del Gotico regionale (Romanini, 1964). La tendenza a utilizzare materiali e sistemi costruttivi tradizionali, piegandoli a esprimere una nuova concezione dello spazio, drammatico e in tensione, risultò chiara già nei primi interventi architettonici realizzati da Francescani e Domenicani a Milano, interventi che si risolsero nella trasformazione delle basiliche monumentali loro affidate in nuovi spazi unitari, rettilinei, permeati di una piena e diffusa luminosità. L'interesse per l'illuminazione caratterizzò in modo particolare gli interventi effettuati all'interno del chiaro impianto rettilineo, ritmato da semplici piloni cilindrici, dell'antica basilica milanese di S. Francesco Grande - della quale rimane unicamente una documentazione grafica e letteraria -, risoltisi nella realizzazione di nuove finestre e di un rosone sulla facciata. Aperture ricavate in rottura di muro sono riconoscibili anche nella struttura orientale, con coro quadrato e transetto di tipo mendicante, della chiesa di S. Marco, la casa madre milanese degli Eremiti di s. Agostino, eretta intorno alla metà del Duecento inglobando strutture più antiche (Romanini, 1964). Sull'ossatura romanica della basilica milanese di S. Eustorgio i Domenicani operarono, a partire dalla prima metà del Duecento, un intervento radicale, trasformandone la struttura in quella di una sala gotica, a tre navate coperte da crociere impostate alla stessa altezza, terminante nel fondale luminoso dell'abside.Nelle chiese di nuova fondazione risultava particolarmente diffuso - all'interno della più generale tendenza a creare spazi fortemente connotati nel senso di un'unità spaziale sia planimetrica sia d'alzato - il caratteristico impianto cruciforme con copertura spesso a tetto nella navata centrale e a crociera nelle navatelle e nella zona orientale, ben esemplificato dal caso precoce della chiesa di S. Francesco a Pavia, progettata nel 1238 e costruita a partire dal capocroce. Una particolare combinazione di tetto e volte su coppie di pilastri alternativamente cilindrici e ottagoni caratterizza l'alzato 'a sala' della chiesa domenicana di S. Giovanni in Canale a Piacenza, probabilmente eretta tra il 1220 e il 1250.Allungati perimetri rettangolari presentano le chiese di S. Francesco a Bergamo - consacrata nel 1292 e di cui rimangono la zona presbiteriale a terminazione rettilinea coperta con crociere costolonate e tre cappelle laterali a S - e quelle omonime a Brescia e Mantova, a tre navate con coro quadrangolare fortemente aggettante e prive di transetto, con una fila di cappelle gentilizie su un solo lato. Nella chiesa bresciana, eretta tra il 1254 e il 1265, l'utilizzazione di ampie arcate su pilastri cilindrici consentiva di ottenere un effetto di vasta aula unica, mentre a Mantova l'eliminazione anche dell'aggetto del coro aveva determinato la configurazione di un compatto perimetro rettangolare; in entrambe l'uso del colore - che mette in tesa, dinamica vibrazione la struttura architettonica - risente di una chiara componente veneta (Romanini, 1964).Il tema dell'unità spaziale, che annuncia una svolta di gusto poi tipica di gran parte dell'architettura lombarda all'aprirsi del Trecento - quando divenne il motivo-base dell'intera creazione in numerosi edifici -, si espresse in modo sempre più coerente nelle aule uniche delle chiese tardoduecentesche di S. Francesco di Pozzuolo Martesana (prov. Milano), in cui l'impianto dell'aula unica si fonde con lo schema cruciforme francescano, e di S. Francesco a Gargnano (prov. Brescia), dove una planimetria e una spazialità analoghe forniscono una reinterpretazione originale della locale sensibilità coloristica di ascendenza veneta. A Pozzuolo Martesana, in particolare, la contrapposizione tra il corpo della navata con tetto a vista e il coro quadrangolare voltato affiancato da due cappelle trasforma alla radice il valore di un edificio del tutto simile a quelli umiliati, per il valore stereometrico e per il nitore geometrico delle pareti in cotto (Scotti, 1983).Nella chiesa di S. Francesco a Cremona, sorta negli ultimi anni del sec. 13° e originariamente chiusa all'interno di un saldo perimetro rettangolare, la forte presenza di influssi emiliani, in particolare nella loro interpretazione piacentina - un tratto comune alla zona compresa tra Cremona, Crema, Lodi e l'Oltrepò pavese -, determinò il notevole sviluppo dello spazio in senso verticale, i profili complessi dei pilastri possenti, la presenza di crociere esapartite nella navata maggiore, il disegno ondulato, di chiara ascendenza nordica, di costoloni e arcate, l'incrocio sulla campata occidentale di una volta quadripartita e di una esapartita (Romanini, 1964); invece in S. Francesco a Lodi, iniziata probabilmente nel 1286 con una pianta a croce latina di tipo schiettamente duecentesco, i ricordi milanesi presenti nell'organizzazione della parete del transetto meridionale - vicina a S. Simpliciano, S. Marco e S. Eustorgio - e gli elementi derivati dall'ambiente piacentino, come i possenti sostegni cilindrici o l'alternanza delle volte su sostegni uniformi, devono essere considerati come elementi di un sostrato culturale ormai assimilato, come le volte a crociera rette da spigoli a muro e da snelli costoloni a toro conclusi pensili, costantemente adottati in L. sul volgere del Duecento.Rarissimi sono i resti dei primi conventi mendicanti - S. Francesco a Cassine (prov. Alessandria), S. Francesco a Desio (prov. Milano), S. Francesco a Vimercate (prov. Milano), il convento delle Domenicane di S. Fermo a Bergamo - e umiliati (l'abbazia di Mirasole presso Milano), che si ricollegano in modo diretto a formule e modelli cistercensi e che mostrano significative affinità con le architetture comunali. Gli edifici monastici assunsero un'aperta fisionomia gotica solo con l'aprirsi del Trecento, aderendo alle ricerche spaziali più ampiamente diffuse in ambito regionale, dalla contrazione del disegno planimetrico e strutturale alla ricerca di un'illuminazione diffusa (conventi di S. Francesco a Brescia, Bergamo, Alessandria e resti dei conventi francescani di Lodi e Gargnano).La diffusione sempre più ampia di spazi nitidi e unitari, frequentemente risolti in un compatto percorso rettangolo, caratterizza il quadro dell'architettura sacra lombarda della seconda metà del Duecento. Determinante risulta l'influenza dell'edilizia mendicante nella concezione dei volumi - definiti da ampi piani parietali, prevalentemente in laterizio, e unificati al proprio interno fino a risultare analoghi a strutture 'a pseudo-sala' - e nell'utilizzazione di semplici pilastri cilindrici con bassi capitelli a collare lisci o con una parca decorazione a crochets o a dado scantonato alla base.Interessante, in un gruppo di edifici eretti in territorio milanese entro la seconda metà del secolo, appare l'intento sperimentale di fondere il tipo tradizionale di basilica lombarda, accentrata intorno alla massa del tiburio, e i nuovi rettilinei spazi dinamici mendicanti. Nel nucleo della ricostruzione duecentesca del duomo di Monza (1258), sull'incrocio di un rettilineo impianto a croce greca - un unicum in ambito regionale -, di carattere schiettamente gotico nella strutturazione del sistema portante e nell'assemblaggio dei lisci piani laterizi, si innesta un tiburio ottagono di evidente derivazione romanica, in cui il gioco plastico e cromatico delle due gallerie, che rimanda a esempi milanesi e pavesi del tardo sec. 12°-primi 13°, risulta però reinterpretato con accenti nuovi nella studiata ritmica e nell'insistita simmetria che presiedono alla resa pittorica delle pareti. Anche ciò che rimane del corpo tardoduecentesco, con transetto non sporgente, della chiesa di S. Giovanni in Conca a Milano offre, insieme alla valorizzazione del piano parietale, una caratteristica reinterpretazione, in chiave di nervosa linearità pienamente gotica, di elementi di derivazione romanica sia nella facciata sia nei pilastri a fascio - formati da quattro semicolonne, di cui quella verso la navata notevolmente più esigua - sia nello stesso tiburio, che, configurandosi come un parallelepipedo allungato con pianta quadrata, lisce pareti in cotto, volta a crociera archiacuta con sottili costoloni a toro pensili su peducci a cono, assume in definitiva un valore spaziale del tutto nuovo rispetto alla caratteristica qualificazione plastica romanica. La chiesa parrocchiale di S. Giorgio a Omegna, sul lago d'Orta, offre alla fine del Duecento, per l'inserto del basso tiburio ottagono in una struttura planimetrica con corpo longitudinale a tre navate e transetto non aggettante e in un alzato 'a sala' a gradonature di spirito e forme pienamente gotiche, un esempio analogo in versione più modesta.Alla fine del Duecento la stessa caratteristica spazialità rettilinea improntò anche alcuni edifici appartenenti a quella zona tra Crema, Cremona e Lodi che rappresenta una sorta di terra di confine tra la cultura lombarda e quella emiliana. Nel corpo longitudinale del duomo di Crema, costruito nelle sue parti principali tra il 1284 e il 1341, e nel braccio settentrionale del transetto della cattedrale di Cremona, a tre navate con grevi piloni a fascio e piatte volte archiacute, eretto nel 1288, il modello del duomo di Piacenza venne reinterpretato in chiave di un più agile disegno unitario, che consente una visibilità immediata tra i vani. Nella cattedrale di Cremona gli elementi derivati da quella di Piacenza - come i sostegni cilindrici, di dimensioni possenti per altezza e spessore, con i bassi e ampi capitelli in pietra a bassorilievo e una semicolonna inserita dalla base verso la navata, e la scansione della parete in tre ordini sovrapposti di arcature, elementi divenuti dalla seconda metà del sec. 12° una cifra locale - si inseriscono in uno spazio nuovo in cui la pianta a sistema alternato venne abbandonata, le pareti della navata maggiore furono contratte in altezza, le navatelle ridotte in larghezza e dilatate in altezza e lunghezza, i valichi ampliati, le fonti di luce moltiplicate, espanse e riccamente lavorate, la qualità cromatica dei piani di superficie utilizzata in funzione di misura dello spazio. Se in questo caso appare determinante la mediazione di edifici quali le chiese di S. Francesco a Piacenza, Lodi, Cremona, anche nel transetto della cattedrale di Cremona "il modello solenne del Duomo di Piacenza risulta in definitiva trasfigurato dall'influsso, soprattutto, dei grandi nudi e rettilinei bracci di croce delle chiese minoritiche e domenicane" (Romanini, 1964, I, p. 172).Accenti piacentini caratterizzano anche l'impianto planimetrico e d'alzato tardoromanico del duomo di Lodi (seconda metà sec. 12°-metà 13°) insieme alla torre campanaria e ai portali inseriti in facciata.La creazione di uno spazio unitario di tipo cubiforme, con dislivello minimo e immediata comunicazione atmosferica e luministica tra navata e navata, dove le membrature si contraggono e diventano limiti lineari del piano, caratterizzò anche architetture di spirito 'tardoromanico' dalla fine del sec. 12° e ancora per tutto il Duecento: la chiesa 'a sala' di S. Maria Canale a Tortona, a tre navate concluse da absidi semicircolari; il nucleo orientale di S. Luca a Cremona, strutturato in senso gotico, ma con abside centrale costruita con moduli romanici di gusto emiliano; il corpo longitudinale di S. Lorenzo a Cremona, concluso a E da absidi romaniche; la vasta chiesa in cotto di S. Michele a Cremona, con colonne di marmo alte e snelle - un unicum nel Duecento lombardo - a scandire il corpo longitudinale coperto da tetto a vista.Malgrado il tradizionale orientamento veneto piuttosto che lombardo, una mentalità sostanzialmente analoga si riscontra anche, tra il sesto e l'ultimo decennio del Duecento, in S. Maria di Gradaro a Mantova, degli Agostiniani di S. Marco - della quale sono parzialmente leggibili le forme originarie con pianta rettangolare, terminazione orientale rettilinea e alzato 'a sala' a tre navi coperto da tetto a vista -, che mostra suggestivi contatti sia con S. Giovanni in Conca a Milano, anche nella facciata, dove schema e moduli tradizionali romanici assunsero volto inedito perché espressi con puro valore cromatico, sia con la chiesa di S. Gerolamo a Varzi (prov. Pavia), eretta tra la fine del sec. 13° e gli inizi del 14°, con pianta rettangolare a tre navate con ampio coro quadrato coperto a crociera, sopraelevazione decisa della navata, originariamente con tetto a vista, e archi trasversi anche nelle navatelle.Nella cattedrale di Cremona, la facciata occidentale, aperta da un grande rosone e da un protiro a due ordini tardoduecenteschi, e la fronte nord del transetto, con protiro analogo - affine a quelli sicuramente datati del duomo di Lodi e probabilmente opera dello stesso scultore di origine comasca che realizzò nel 1274 il ricchissimo rosone marmoreo della facciata della cattedrale di Cremona, con richiami a una cultura genericamente emiliana e in particolare piacentina e parmense (Romanini, 1964) -, annunciano quel nuovo interesse per la parete concepita come superficie pittorica autonoma rispetto alla struttura nel suo complesso, modulata da un raffinato gioco chiaroscurale che annulla ogni saldezza costruttiva, poi divenuto tipico del Trecento lombardo e caratterizzato da un'ampia utilizzazione delle tipologie della facciata a vento e della torre-guglia, costruite con complessi effetti luministici e pittorici di valore scenografico.La facciata a vento - diffusa nel sec. 14° soprattutto tra Milano, Lodi, Brescia e Cremona -, notevolmente sopraelevata rispetto al livello delle coperture del corpo della chiesa e aperta sul cielo con finestre praticate molto in alto negli scomparti laterali, comparve già nel corso del terzo quarto del Duecento nella chiesa di S. Francesco a Brescia - con ampio e ricco rosone, monofore con intradosso polilobato, oculi aperti 'a cielo' negli spioventi laterali della facciata - e nel duomo di Lodi, in cui le proporzioni delle aperture risultano ancora ridotte in relazione all'ampio piano parietale in cotto; un gusto analogo è presente anche nelle facciate della chiesa di S. Eustorgio a Milano e dell'abbaziale di Morimondo. È però nella facciata incompiuta della chiesa di S. Francesco a Lodi, iniziata nel 1280 ca. e conclusa solo tra il 1300 e il 1307, che le possibilità pittoriche del tema - giocate sul contrasto cromatico tra il fondale in cotto, il marmo bianco del rosone e delle colonnine delle bifore e il cielo - sono sviluppate per la prima volta e risolte in un raffinato e consapevole uso della policromia. Le eleganti aperture e i contrafforti che si interrompono a cappuccio a ca. metà altezza della facciata - un modulo che, insieme alla ghiera piatta dell'arco acuto profilata nell'estradosso da una sottile cornicetta aggettante e alla cornice ad arco sopraccigliare che orla la parte alta del rosone e si ferma pensile ripiegandosi brevemente ad angolo retto su entrambi i lati, è tipico dell'architettura lombarda del Trecento - creano un effetto sottilmente anticostruttivo. Caratteri più aggiornati presenta la facciata di S. Bassiano a Lodi Vecchio, eretta nel 1320-1323 in concomitanza con la ristrutturazione della chiesa, nella quale si moltiplicano i ricami in cotto su intradossi ed estradossi delle piatte ghiere sottili e viene dato risalto protagonistico alle alte bifore in cotto, modulate all'interno da bianche colonnine marmoree, aperte 'a cielo' subito al di sotto del cornicione degli spioventi laterali.Analoghi esiti di schietta sostanza pittorica caratterizzano alcune ricchissime facciate erette nei primi decenni del Trecento nella zona tra Milano, Lodi, Crema e Cremona, come quelle già citate delle cattedrali di Cremona - dove compaiono moduli poi ampiamente diffusi nel Trecento cremonese, come i contrafforti centrali tagliati immediatamente al di sotto della galleria di coronamento o le grandi finestre a ruota estese anche agli scomparti laterali delle fronti - e di Crema, del 1314 ca., in cui l'animazione chiaroscurale della superficie è ottenuta con morbidi ricami in terracotta stampata, un elemento del vocabolario architettonico regionale con un ruolo già fondamentale nel Duecento e qui sviluppato su scala monumentale. Un'affine temperie artistica è stata riconosciuta, nonostante la salda costruttività, anche nella facciata di S. Francesco a Pavia - la cui parte superiore fu eretta negli anni di passaggio tra Duecento e Trecento - con accenti veneti nella fascia centrale marmorea con losanghe policrome, cadenze emiliane dell'ampia e ricamatissima ghiera in cotto archiacuta della trifora dello scomparto centrale, e accenti piemontesi nei sottili pinnacoletti gugliati.La tipologia della torre-guglia - una singolare contaminatio tra la torre borgognona e il tiburio romanico comparsa nel passaggio tra Duecento e Trecento (Romanini, 1964)) - trova espressione esemplare nel coronamento del Torrazzo di Cremona, in cui un vibrante e scenografico gioco luministico percorre la superficie marmorea, e nel tiburio altissimo dell'abbaziale di Chiaravalle Milanese, dove la continua sottolineatura della parete in cotto attraverso l'uso della pietra e di decorazioni (per es. archetti pensili archiacuti) su fondo imbiancato e il pronunciato slancio verticale presentano uno schietto accento milanese, che richiama a Milano i campanili di S. Marco e di S. Lorenzo di Monlué e a Monza la torre dell'arengario.La ricerca di forme spaziali nitide e l'utilizzazione di partiti formali scarni, che caratterizzano tutto il periodo tra la fine del Duecento e il sesto-settimo decennio del Trecento, si espressero in una nuova interpretazione della chiesa 'a sala' - che nella sua declinazione lombarda si propone sempre come sala a gradinature, con la navata centrale maggiormente sviluppata in ampiezza e altezza - e della chiesa ad aula unica, tipologie in cui la ricerca dell'unità spaziale, basata sulla chiarezza logica del disegno e dell'ossatura strutturale, giunge alle ultime conseguenze in linea con le più avanzate tendenze tardogotiche europee, soprattutto dell'area tedesca.La chiesa di S. Eustorgio a Milano, con le cappelle gentilizie che vennero addossate alla navata meridionale nel corso di un secondo rimaneggiamento in senso gotico del corpo longitudinale iniziato nel 1297, offre un interessante esempio di fusione di aula unica e chiesa 'a sala', poiché le cappelle - a differenza di quanto accadeva nel primo Trecento lombardo - non furono più concepite come vani indipendenti rispetto alla struttura della chiesa, ma collegate direttamente alle campate della navatella, con le quali hanno in comune la volta archiacuta.La diffusione della chiesa 'a sala' già nel corso della prima metà del Trecento è esemplificata da edifici come S. Francesco ad Alessandria, eretto nel 1314 ca., e S. Maria Assunta a Pontecurone (prov. Alessandria), successiva di tre o quattro decenni, in cui il disegno spaziale unitario di semplice parallelepipedo appare rinnovato dall'accentuazione dello slancio verticale, originato dall'inedito risalto dato all'arco acuto, ma anche dalla parrocchiale di S. Gaudenzio a Baceno (prov. Verbania) o dalla chiesa di S. Giorgio a Varenna (prov. Lecco), entrambe chiuse in un rigido perimetro rettangolare, che a Varenna è privato anche dell'aggetto del transetto. Analoga spazialità rigidamente rettilinea, tradotta in una sobria e scarna architettura monocroma, presenta la chiesa di S. Francesco a Bergamo, consacrata nel 1292, che mostra elementi di novità nella nervosa esilità delle alte monofore trilobe della navata centrale (si conservano solo le prime due a partire da E nella parete settentrionale), nella fila di cappelle quadrate sul lato sud - che anticipano, ripetendo il disegno e le proporzioni delle corrispondenti campate della navatella, una soluzione molto diffusa nel Trecento lombardo -, nelle agili volte a crociera su sottili costoloni a toro che ricadono pensili su abachi obliqui retti da brevi peducci cilindrici con stilizzate testine umane (sigla tipica delle volte gotiche del Bergamasco), nella concentrazione dello spazio lungo la direttrice longitudinale ingresso-coro, determinante anche nelle chiese di S. Francesco a Mantova, Alessandria e Domodossola.Solo con la seconda metà del Trecento si assistette alla rapida diffusione di questa tipologia, in particolare nel territorio tra Milano, Pavia, Alessandria e Novara, dove la fusione di cadenze piemontesi e lombarde registra, rispetto ai precedenti duecenteschi, un'intensificazione delle seconde, e la colorazione lombarda risulta particolarmente evidente anche nella coeva architettura piacentina, come suggerisce la greve veste esterna in cotto delle tre chiese gemelle di S. Lorenzo, S. Anna e S. Maria del Carmine a Piacenza - databili intorno al 1334 -, che rimandano però alla cultura locale per l'ossatura strutturale oltre che per l'alzato senza gradinature.La chiesa ad aula unica è presente in terra lombarda nei secc. 14° e 15° in tre tipologie diverse, la prima delle quali è esemplificata dalla chiesa di S. Nazzaro della Costa a Novara, la cui parte orientale - formata da due vani quadrangolari coperti da agili volte a crociera archiacuta su costoloni a toro pensili - fu eretta per le Clarisse tra la fine del sec. 13° e gli inizi del 14° (una versione semplificata di questo tipo prevedeva copertura a tetto a vista sul vano occidentale). La chiesa di S. Maria dei Servi a Milano, eretta nel 1315-1317 e oggi scomparsa, esemplifica invece il tipo ad aula rettangolare conclusa a E da un coro quadrangolare aggettante, affiancato da una cappellina rettangolare per parte e con cappelle anche sui fianchi del corpo longitudinale, diffusosi rapidamente a partire dalla metà del secolo, mentre il terzo tipo, costituito dall'accostamento in vari disegni planimetrici di una serie di campate tra loro equivalenti e modellate in modo analogo in pianta e alzato, è rappresentato dalle chiese di S. Nicolò dei Celestini a Bergamo e S. Antonio a Breno (prov. Brescia), dei primi decenni del Trecento (Romanini, 1964).Una stessa concezione dello spazio basata su criteri di unitarietà e linearità mostrano anche i castelli viscontei della seconda metà del Trecento, accomunati dalla caratteristica planimetria basata sul quadrato, con torri quadrate sugli angoli e torrioni al centro della parete d'ingresso. I valori di cristallina evidenza lineare propri del castello di Pandino - un nitido volume in cotto risalente nel complesso al periodo di Bernabò Visconti, intorno al 1379, e caratterizzato dalla "tagliente linearità scarna così dell'ossatura strutturale [...] come della modulazione parietale" (Romanini, 1964, I, p. 316) - sono infatti presenti anche, in prov. di Milano, nei castelli di Binasco e di Cusago, in prov. di Pavia, in quelli di Lomello, di Voghera, di Casei-Gerola, di Pinarolo Po, di Landriano, con un prezioso portale toscaneggiante nella cappellina, e infine, in prov. di Bergamo, in quelli di Urgnano, di Romano di Lombardia e di Malpaga.Raggiungono esiti originali alcune strutture opera di personalità di primo piano, come il castello di Sant'Angelo Lodigiano (prov. Lodi), fatto erigere ex novo verso il 1370 da Regina della Scala con insolita planimetria asimmetrica, che rappresenta uno dei primi esempi d'impiego dell'apparato a sporgere, con beccatelli in pietra a triplice mensola e archetti a sesto acuto in mattoni. Le preziose bifore archiacute policrome che ritmano le pareti sono analoghe a quelle inserite in questo periodo nelle antiche mura del castello visconteo di Abbiategrasso e costituiscono il momento ornamentale saliente di tutta una serie di castelli (Beregnardo, Belgioioso, Mirabello, Cozzo, Mede). Numerosi castelli di montagna e di collina mostrano una più dinamica impostazione delle masse, come è evidente nei resti del castello di Oramala (prov. Pavia) e di Breno, ma anche nei castelli di Grosio (prov. Sondrio) in Valtellina, di Vogogna (prov. Verbania) in val d'Ossola, di Trezzo sull'Adda e di Arona (prov. Novara), e in quello di Cassano d'Adda, uno dei più complessi e originali di questo tipo, il cui nucleo essenziale, che risale alla costruzione viscontea intorno al 1380, mostra una sensibilità plastica e un senso ritmico più complessi rispetto a quelli del castello di Pandino, con cui pure presenta contatti negli elementi decorativi. Particolarissimo è il caso del castello di Vigevano (prov. Pavia), parte di una grandiosa sistemazione urbanistica, ricostruito per impulso di Luchino Visconti a partire dal 1350 ca., con fiorite bifore in terracotta dovute all'intervento di Gian Galeazzo e Filippo Maria.A partire dal quarto-quinto decennio del Trecento l'architettura lombarda risulta sempre più influenzata dagli artisti giunti alla corte viscontea da altre regioni - soprattutto da Toscana, Veneto e Liguria - e da terre d'Oltralpe, nel quadro del programmatico eclettismo legato alla politica internazionale di alleanze della signoria viscontea. Il forte influsso di tradizioni culturali diverse si attuò però sostanzialmente nella trasformazione del vocabolario decorativo, senza mutare i caratteri strutturali dell'edilizia lombarda, così come questi si erano venuti configurando tra la seconda metà del Duecento e i primi decenni del Trecento.Con la loggia degli Osii, cominciata nel 1316 a Milano sulla piazza dei Mercanti per iniziativa di Matteo Visconti, Scoto di San Geminiano fornì una versione originale, con un forte accento toscano nella modulazione plastica della parete, del tradizionale broletto lombardo; ma fu l'età di Azzone a segnare il momento ufficiale dell'ingresso della cultura toscana in L., con l'arrivo di Giotto tra il 1335 e il 1336 e di Giovanni di Balduccio da Pisa nel 1334 ca., che con la vasta cerchia di scolari, seguaci e imitatori determinò una rapida e capillare circolazione delle nuove idee nell'architettura regionale. La facciata della chiesa milanese di S. Maria di Brera - della quale si conservano solo alcuni frammenti - interpretata come un pezzo di scultura a sé stante, del tutto autonoma dall'edificio, offre un chiaro esempio della concezione dell'architettura dell'artista pisano in chiave di modulazione plastica e luministica delle superfici. L'influenza delle opere milanesi di Giovanni di Balduccio e del decorativismo dell'architettura pisana risultò determinante soprattutto per i Campionesi, all'opera di uno dei quali sarebbero dovuti le due monofore a ghimberga, le due edicolette pensili in terracotta disposte lateralmente al portale e i numerosi fregi toscaneggianti, sulla facciata di struttura lombarda in cotto, pietra e intonaco della chiesa abbaziale di S. Pietro a Viboldone, eretta nel 1348 e chiaramente suggestionata dall'esempio braidense. Anche l'opera di Matteo da Campione, cui si devono, tra il quinto e l'ottavo decennio del Trecento, il prolungamento occidentale e l'ornata facciata marmorea del duomo di Monza, mostra un'armonica fusione tra la cultura lombarda e quella toscana, alla quale si ispirarono inoltre, per un rapido arricchimento del proprio bagaglio iconografico, le maestranze dei terracottai lombardi, che tradussero con uno spiccato gusto pittorico anche moduli veneti e di derivazione nordica, evidenti nei partiti decorativi della chiesa di S. Agostino a Bergamo, che resta peraltro tipicamente lombarda nel compatto disegno rettilineo, e della facciata marmorea del vecchio duomo milanese di S. Maria Maggiore, databile agli anni 1378-1380 ca., conclusa da un disegno mistilineo attribuibile ai Delle Masegne, che lo riproposero tra il 1400 e il 1401 nella fronte del duomo di Mantova.L'influenza veneta fu determinante anche nell'architettura bresciana, nella quale apparve, in un momento relativamente precoce, l'arco inflesso con funzione portante - come nel caso del chiostro del convento di S. Francesco a Gargnano - e in modo più deciso, con accento soprattutto veronese, in quella mantovana, dove segna la naturale prosecuzione di rapporti secolari.All'architetto cremonese Francesco Pecorari fu affidata da Azzone Visconti a partire dal 1336 la costruzione della cappella e del campanile di S. Gottardo in Corte a Milano, che accanto a motivi della tradizione locale presentava alcuni temi innovativi, come l'abside a pianta poligonale unita all'aula unica e le finestre in disegno rettilineo, a cuspide triangolare nell'abside e a cornice rettangolare nella torre, che divennero a partire dalla metà del Trecento costanti tipiche dell'architettura regionale (per es. al Duomo Vecchio di Brescia venne aggiunto nel 1342 ca. un lungo presbiterio con abside pentagonale). La cappella milanese rappresentò uno dei prototipi più significativi per le numerose chiesette ad aula unica sorte, spesso con funzione di cappelle private, a partire dalla seconda metà del secolo, in cui il frequente uso della volta pensile e del tetto ligneo determinò uno scioglimento dei legami strutturali tra volte e pareti, tutte giocate sui valori pittorici della vibrante modulazione chiaroscurale negli esterni e della ricca decorazione ad affresco negli interni. Gli oratori dei Ss. Ambrogio e Caterina a Solaro, con lo stretto presbiterio rettangolare sopraelevato, e di S. Stefano a Lentate sul Seveso, entrambi risalenti agli anni sessanta del secolo, offrono un esempio dello schema a due vani accostati in asse longitudinale, mentre la chiesa di S. Maria Maddalena a Bergamo esemplifica la diffusa tipologia dell'aula unica rettangolare a copertura lignea - in questo caso ritmata da arconi trasversi - con cappelle voltate nella zona orientale e lungo i lati. Alla corrente dell'architettura campionese - formatasi sulla scia anzitutto della cultura toscana di Giovanni di Balduccio e caratterizzata da una semplificazione dell'ossatura strutturale a vantaggio della creazione di ampie superfici parietali movimentate da una fastosa decorazione policroma geometrizzante rigidamente simmetrica - devono essere riferite le facciate di S. Marco a Milano e della chiesa ad aula unica di S. Maria in Strata a Monza, che per la presenza del tetto a vista e del profondo coro semiottagonale rimanda, come numerose chiesette dell'area milanese, al modello del S. Gottardo.Una corrente di gusto ampiamente diffusa nella seconda metà del secolo è ben rappresentata dalla chiesa di S. Agostino a Como, dal corpo longitudinale di S. Lorenzo a Lodi, da S. Maria Nuova ad Abbiategrasso, dalla parrocchiale di Cassano d'Adda, tutte accomunate da piante rettilinee - frequentemente coperte con tetto ligneo, articolate in tre navate comunicanti attraverso alte arcature dilatate su snelli pilastri poligonali o cilindrici, con una o più profonde absidi poligonali - e dalla presenza di una luminosità diffusa e di una valorizzazione pittorica delle superfici parietali.Numerose chiese caratterizzate da un nuovo tipo di alzato 'a sala' e da un nuovo tipo di sistema portante - costituito all'interno da sostegni derivati dalla fusione del pilastro a colonna e di quello a fascio e all'esterno da contrafforti a guglia autonomi rispetto alla parete - testimoniano l'ingresso nell'architettura regionale dell'ultimo quarto del Trecento di alcune novità contraddistinte da un omogeneo influsso di marca germanica. Si tratta di aule in cotto a tre navate dal complessivo profilo cubico, in genere strutturate come 'a pseudo-sala', con illuminazione piena e diffusa, e facciate dalle pesanti forme a capanna monocuspidata con classicheggianti cornici quadrate a intonaco a incorniciare finestre e portali in terracotta, omogeneamente diffuse in area milanese, pavese, brianzola, lomellina - dove l'abside assume generalmente forma poligonale, come in S. Maria di Castello ad Alessandria, nella parrocchiale di S. Martino a Palestro e in S. Maria della Guardia a Sale - e in genere padana, dall'Alessandrino, al Novarese, al Lodigiano, al Canton Ticino, a Piacenza, ancora in pieno Quattrocento (Romanini, 1973).A Bartolino da Novara (v.) è stato attribuito un gruppo di chiese 'a sala', da S. Francesco e S. Pietro Martire a Vigevano a S. Lorenzo a Mortara (prov. Pavia), in cui la ricerca di unitarietà e linearità e la struttura compatta dei volumi dai profili taglienti rimandano al castello di S. Giorgio a Mantova, al quale l'architetto risulta lavorare nel 1395 circa. Un'analoga matrice culturale accomuna le architetture di Bartolino da Novara a quelle di Bernardo da Venezia (v.) - attivo tra l'ultimo quarto del sec. 14° e i primi anni del 15° al servizio di Gian Galeazzo Visconti -, che tradusse gli schemi tradizionali di edifici religiosi e di strutture fortificate, ed elementi della locale tradizione costruttiva romanica, "in un'inedita regolarità di rispondenze ritmiche" (Romanini, 1964, I, p. 418) impostata su una severa concezione spaziale ad quadratum e animata da una sensibilità pittorica e luministica di ascendenza veneta. Si tratta di caratteri evidenti nella chiesa di S. Maria del Carmine a Milano e nella certosa di Pavia, collegate dalle testimonianze documentarie alla sua attività e che hanno dunque permesso alla critica di riferire all'opera dell'architetto anche il castello visconteo di Pavia - con le facciate interne animate da preziose quadrifore con archetti trilobati e oculi con trafori marmorei -, in cui il caratteristico schema quadrangolare con torri angolari viene ritmato con regolarità geometrica, e la chiesa di S. Maria del Carmine di Pavia, iniziata nel 1370 ca. come un ampio vano unitario a croce latina coperto da crociere archiacute, in cui le navatelle e le cappelle gentilizie sono inserite in uno squadrato perimetro rettangolare, schema ripreso fedelmente nell'impianto progettuale originario della chiesa del Carmine di Milano, riedificata nel 1449 in seguito a un crollo. Nella certosa di Pavia, in cui la pianta del corpo longitudinale corrisponde esattamente al progetto di Bernardo, la tendenza a rompere lo statico equilibrio ad quadratum e a creare - attraverso l'abbandono del sistema alternato tra navata e navatelle e l'innesto del tiburio sulla campata d'incrocio - una più libera fusione atmosferica e un graduale movimento ascensionale, denuncia l'intervento di artisti maggiormente suggestionati dall'esempio del duomo di Milano, come Giacomo da Campione, la cui presenza è documentata in entrambi i cantieri.Il duomo di Milano - ricostruito a partire dal 1386 al posto della precedente cattedrale di S. Maria Maggiore - è al tempo stesso diretta espressione della tradizione gotica lombarda, per la concezione dello spazio unitario, saldamente centrato su un asse mediano e bloccato in equilibrio quadrangolare, e delle novità della ricerca europea trecentesca d'avanguardia, come attesta il ruolo determinante che venne svolto dall'esempio delle Hallenkirchen nella genesi del progetto originario del duomo, dove la svolta tardogotica in senso mitteleuropeo si manifestò in modo ancora più clamoroso (Romanini, 1973).Il gigantesco edificio a cinque navate con coro poligonale poco aggettante con deambulatorio senza cappelle e profondo e ampio transetto a tre navi, riconducibile all'influsso delle chiese 'a sala' padane (Romanini, 1973), fu progettato su un sistema modulare ad quadratum basato su rapporti aritmetici, come documenta il disegno di Antonio di Vincenzo (Bologna, Mus. di S. Petronio), che offre una testimonianza del progetto fissato prima del 1390, modificato più tardi sulla base di un nuovo progetto di alzato ad triangulum inviato dal matematico piacentino Gabriele Stornaloco entro il 1392.Durante la realizzazione della costruzione le gradonature delle navate furono bilanciate verso il basso per adeguare lo spazio interno alla struttura 'a pseudo-sala' e le due file di cappelle, originariamente progettate con fini statici, furono trasformate in navatelle. In questa fase protagonisti dello spazio divennero le pareti e gli originali piloni con i grandi capitelli a edicola - la cui funzione principale "è quella di sottolineare con la loro ridondante sequenza decorativa, la preminenza e la direzione delle navate maggiori, senza dover ricorrere ad una evidenziazione figurativa delle strutture, estranea alla mentalità lombarda e in genere italiana" (Cadei, 1969, p. 78) e che per il valore decisivo nel contesto spaziale risultano analoghi, in ambito ancora trecentesco, a quelli della chiesa di S. Giacomo a Pontida, presso Bergamo (Romanini, 1964) -, la cui veste attuale si deve a Giovannino de Grassi, che dal 1392 risulta sovrintendere ai lavori insieme a Giacomo da Campione.
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All'inizio del Duecento, le più capaci e innovatrici maestranze di origine lombarda lavoravano stabilmente al di fuori dei confini odierni della regione, in Emilia, in Veneto, in Trentino, in Toscana, talvolta altrove, anche Oltralpe. D'altra parte, quasi tutti i grandi cantieri tardoromanici lombardi si andavano chiudendo, almeno per quanto concerne l'architettura sacra.Se, dunque, è già da attendersi un numero di opere scultoree inferiore al secolo precedente, fattori storici e conservativi hanno determinato un ulteriore e drastico ridimensionamento nella quantità di sculture duecentesche in L., al punto da inficiarne definitivamente un tentativo di approfondita valutazione d'insieme, a grandi linee ancora possibile, invece, per il secolo successivo. Bisogna accontentarsi dunque di ragionare sui non molti fortunati frammenti oggi pervenuti, sebbene anch'essi abbiano sofferto mutilazioni, decontestualizzazioni, restauri e ricomposizioni arbitrarie che ne rendono più ardua la lettura.Da quanto è possibile attualmente osservare, emergono significative tracce dell'opera di botteghe di formazione antelamica a Milano, nei primi anni del Duecento. Il notevole rilievo frammentario con Viaggio e Adorazione dei Magi, dalla distrutta cattedrale di S. Maria Maggiore (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), presenta figure mosse eppure saldamente impostate, a forte aggetto, vivacizzate da pose dimostrative ritmicamente ricorrenti come in lenti passi di danza, sottolineate dai panneggi che, sebbene a pesanti pieghe, sembrano affinarsi e lasciarsi scomporre dal vento, in basso. La presenza di un cavallo dalle nette volumetrie, svincolantesi con forza dal fondo, permette di ravvisare in questa lastra un importante precedente della grande figura equestre a tutto tondo del podestà Oldrado da Tresseno sulla facciata meridionale del Broletto Nuovo di Milano, cui è da avvicinare il più nobile gruppo statuario lucchese con S. Martino e il povero (Lucca, duomo), coevo e pure di mano lombarda, ripreso dal ben più tardo esempio di identico soggetto nel municipio di Treviglio (prov. Bergamo). La statua milanese, opera del quarto decennio del secolo, intendeva riproporre la tipologia classica del cavaliere, reinterpretandone modernamente le forme, condensate in puri volumi vigorosamente delineati in tensione e chiaramente descritti entro lisce e turgide superfici.Nei primi anni del Duecento, la lastra con apostoli tra colonnine che reggono un architrave (Milano, duomo) rappresenta uno dei primi riconoscibili prodotti dell'arte delle botteghe campionesi in Lombardia. Si differenzia sostanzialmente da quanto sinora preso in esame per il rilievo sensibilmente meno aggettante, soprattutto per quanto riguarda il corpo delle figure, avvolto da panneggi a bande, più leggeri e aderenti, che si stratificano schiacciandosi contro il fondo. Le teste, inquadrate frontalmente, emergono in più deciso risalto plastico con la loro tipica, insistita quanto inespressiva fissità. I piedi e le aureole vanno a poggiare con instabile equilibrio sulle cornici inferiori e superiori, secondo uno schema compositivo che sarebbe restato per decenni caratteristico delle botteghe ticinesi. Si vedano già, per es., i poco più tardi rilievi del fonte del battistero di Varese, con figure di simile disposizione, ma di accentuata semplificazione formale.Il c.d. Virgilio in cattedra (Mantova, Gall. e Mus. di Palazzo Ducale) è il migliore prodotto in L. dell'evoluzione di questa arte nel pieno Duecento, all'insegna di un maggior respiro di tridimensionalità e di un più maturo realismo proporzionale ed espressivo, parallelo a quello perseguito dalle botteghe familiari campionesi nel resto dell'Italia centrosettentrionale, valga l'esempio dei Bigarelli (v.), originari di Arogno presso Campione d'Italia, in una zona in epoca medievale a ogni effetto lombarda.L'apporto precoce di gruppi di artisti viceversa estranei alla regione e in particolare di origine oltralpina è evidente anche ben anteriormente all'apertura del cantiere del duomo di Milano, in casi come la collegiata di S. Giovanni Battista a Monza, con i singolari rilievi della lunetta del portale di facciata, con le Storie di s. Giovanni Battista e la Donazione di Teodolinda, di mano apparentata ai rilievi bronzei di area renana.Durante il corso del Duecento ben viva è stata nella regione l'attività delle maestranze cistercensi al completamento delle abbaziali avviate perlopiù nel 12° secolo. La veste scultorea vi è ridotta al minimo o, talora, assente, con il significativo ricorso a capitelli a dado scantonato eseguiti a corsi di mattoni - si veda il caso di Abbadia Cerreto, presso Lodi, e della chiesa umiliata di Viboldone - negandone, dunque, la valenza scultorea, altrove peraltro richiamata solo dalla presenza di conci scolpiti a motivi aniconici a risaltare sulla muratura in laterizio.Tale impostazione non sarebbe stata aliena da conseguenze anche in ambito mendicante, fino a tutto il Trecento. I capitelli, i peducci e le chiavi di volta di molte delle chiese domenicane, francescane e agostiniane della regione avrebbero riproposto con semplicità motivi vegetali di origine cistercense, e al più, sporadicamente, elementari testine (per es. nelle chiese di S. Francesco a Brescia, Mantova, Lodi, Bergamo), fino a influenzare le prime fasi di costruzioni come il duomo di Crema o la collegiata di S. Giovanni Battista a Monza.Contemporaneamente si andavano completando edifici come la cattedrale di Cremona, aggiornando stilemi ricavati dall'opera delle maestranze attive in grandi cantieri emiliani come le cattedrali di Piacenza e Parma. Nel caso cremonese, cui non dovettero essere estranee forze di cultura campionese per le parti scultoree, i lavori si protrassero, attraverso il Duecento, fino alla metà ca. del secolo successivo, a concludere la stagione delle cattedrali tardoromaniche e protogotiche padane. I due protiri occidentale e settentrionale, in particolare, sono stati dimostrati (Romanini, 1964) in relazione con gli artefici del rosone di facciata, di schietto gusto campionese, firmato da Giacomo Porrata da Como nel 1274.Nel Trecento, a un'ancora riconoscibile influenza iconografica e, in taluni casi, stilistica cistercense si contrapposero le opere del periodo maturo dell'attività dei Campionesi (v.) e gli impulsi provenienti da altre regioni, segnatamente dalla Toscana, con la presenza in L. di Giotto (v.), di Giovanni di Balduccio (v.) da Pisa e di Gano da Siena (v.), tra i quali soprattutto il pisano fu interessato a costituirvi una stabile bottega di scultori, attiva fin quasi alla fine del secolo.Le opere campionesi del primo Trecento consistono soprattutto in fregi scolpiti su monumenti funebri, ripetenti invero modelli del secolo precedente, come il sarcofago di Mirano de Bechaloe (Desio, coll. privata) o un'altra fronte di sarcofago con S. Giorgio e il drago e il defunto presentato alla Vergine con il Bambino (Como, Mus. Civ. Archeologico P. Giovio). Tra le migliori realizzazioni del primo quarto del secolo sono l'arca del vescovo Berardo Maggi nel Duomo Vecchio di Brescia e il monumento dell'arcivescovo Ottone Visconti nel duomo di Milano, sarcofago su colonnine con il giacente appiattito sullo spiovente, tra le pieghe del letto funebre che riprendono il motivo dei panneggi sul busto del defunto. Più libertà e maggior rilievo si notano nelle antefisse, con simboli degli evangelisti, del monumento Visconti, e nei rilievi laterali della tomba Maggi, ma solo con il sepolcro ad arca di Guglielmo Longhi (Bergamo, S. Maria Maggiore), opera - ampiamente manomessa da restauri - risalente forse già al terzo decennio del Trecento, le figure intorno al giacente assunsero forma propriamente statuaria, riscattandosi dalla tendenza all'appiattimento precedentemente dimostrata.Nel secondo quarto del Trecento si situa il completamento della loggia degli Osii di Milano, con le statue di santi al livello sommitale, attribuite a Ugo e Giovanni da Campione, dai lisci panneggi per linee spezzate, caratterizzate da volti talora ritrattisticamente individuati (S. Ambrogio, S. Pietro), che emergono da corpi piuttosto tozzi e volumetricamente semplificati, all'uso campionese. Più elegante, ancorché rigida, una Madonna con il Bambino dall'arcaico e stereotipato sorriso.Ad anni intorno al 1340, che compare su una lapide, appartiene la decorazione del battistero di Bergamo (Storie neotestamentarie all'interno; Virtù, fortemente restaurate, all'esterno), eseguita da Giovanni da Campione, qui già profondamente influenzato dalla lezione balduccesca e dalle volumetrie giottesche. Ma malgrado le influenze toscane, tangibili a livello compositivo e rilevabili anche nei particolari iconografici e decorativi, le figurette sono interpretate con la chiara superficialità e con le abbreviazioni formali proprie alla cultura campionese, in una rilettura stilistica dell'arte che i Toscani stavano esportando in Italia padana, parallela a quella offerta dagli stessi aiuti locali di Giovanni di Balduccio nell'arca di S. Pietro martire in S. Eustorgio a Milano, del 1339. D'altro canto, tale opera restò punto di riferimento fondamentale e imprescindibile per tutta la scultura lombarda a venire, sino all'inizio del Quattrocento, e la bottega di Giovanni di Balduccio divenne il luogo delle più interessanti sperimentazioni artistiche in fatto di scultura nella L. dei decenni centrali del secolo. Gli stessi Campionesi, alcuni dei quali erano certamente tra i collaboratori del pisano, ne derivarono una nuova impostazione iconografica, per scene compiute e ricche di personaggi, spunti architettonici e paesaggistici, anche se in un primo tempo incoerentemente composti, come nella Natività della serie del battistero di Bergamo, con la mangiatoia resa da una scatola appesa alla cornice superiore e il letto di Maria fluttuante a mezz'aria. La Crocifissione, poi, mostra forti rimandi agli affreschi padovani di Giotto e ai pulpiti di Giovanni Pisano, forse conosciuti attraverso disegni di viaggio.Dalla scuola lombarda di Giovanni di Balduccio sarebbero emerse, a Milano soprattutto, opere iconograficamente ambiziose e pittoricamente descrittive, talora tipologicamente dotate di una fantasiosa originalità, come il trittico dei Magi e il più tardo trittico della Passione in S. Eustorgio, il monumento di Lanfranco Settala in S. Marco e la tomba Rusca (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica). La ricchezza di temi narrativi avrebbe finito tuttavia per prendere la mano a questi scultori, che, in opere come l'arca di S. Agostino (Pavia, S. Pietro in Ciel d'Oro), avrebbero composto organismi sempre più difficilmente leggibili e incoerenti.In ambito campionese, al periodo centrale dell'attività di Giovanni, soprattutto a Bergamo influenzato dalla nuova arte gotica toscana anche a livello architettonico, come mostrano i protiri di S. Maria Maggiore, fece seguito un richiudersi delle scuole sugli stilemi ormai propri, come appare già dalle sculture dei livelli superiori del protiro settentrionale della stessa concattedrale bergamasca, con il S. Alessandro a cavallo, ancora di Giovanni da Campione, o la Madonna e santi, o da statue come il nobile S. Agostino sulla facciata dell'omonima chiesa bergamasca, in un cantiere in cui peraltro dovettero operare maestranze provenienti dall'Europa centrale. Con il figlio di Giovanni, Niccolino, autore, ormai nel 1367, della lunetta di un portale minore settentrionale della stessa S. Maria Maggiore a Bergamo, si assiste a una lampante involuzione verso forme compendiariamente riassunte, di denso sapore tardoromanico.Più indipendente rispetto a Giovanni di Balduccio fu, almeno nella sua opera matura, Bonino da Campione (v.), con le sue incisioni superficiali con intento decorativo che non riescono a vivacizzare figure invariabilmente verticali, dalle magre forme allisciate. A partire da realizzazioni di grande risonanza, come il monumento funebre di Bernabò Visconti (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), il suo stile venne a permeare numerose opere minori a Milano e nella regione, come l'architrave del portale di facciata di S. Marco a Milano, con figure di santi a mezzobusto e simboli degli evangelisti dal morbido e piatto rilievo. Un estremo raggiungimento di questo stile delicato, ma qui in qualche modo memore della lezione balduccesca, è costituito dai rilievi con Storie della Vergine che decorano l'altare della parrocchiale di Carpiano, tra Milano e Lodi.Negli ultimi decenni del Trecento, a Monza Matteo da Campione terminò la ricostruzione del duomo con l'elegante facciata bicroma riccamente decorata, ancora esemplata sulle forme di radice pisana della chiesa milanese di S. Maria di Brera, di Giovanni di Balduccio, e con il pulpito su arcate, a elemento centrale poligonale. Esso è arricchito da una galleria con figurette entro nicchie di apostoli, evangelisti, da una Déesis e da un fregio con scene di caccia.Alla fine del secolo si assiste, con figure come Giacomo da Campione e Giovannino de Grassi (v.), all'inserimento di scene a rilievo, iconograficamente in parte riprendenti i modelli costituiti dalle storie presenti sulle arche, in grandiose opere architettonico-scultoree, come il portale della sagrestia settentrionale del duomo di Milano o il timpano del lavabo della stessa cattedrale, o alla vera e propria invenzione di nuove tipologie decorative, come i capitelli poligonali 'a tabernacolo' (Cadei, 1969), in quella congerie di interventi di artisti di differente cultura che caratterizzò a Milano il passaggio alla più tarda stagione del Gotico internazionale.
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La pittura dei secc. 13°-14° in L. è testimoniata dalla notevole produzione a fresco; nell'assenza di pittura su tavola è inoltre da sottolineare, nel sec. 14°, l'importanza della miniatura per documentare gli sviluppi dell'arte in questa regione: è questa, oltre all'affresco, a spiccare per la quantità della produzione e il livello qualitativo elevatissimo (Pirovano, 1986, p. 83). Nella pittura lombarda del sec. 13° sono state riconosciute componenti bizantineggianti e caratteristiche legate agli influssi dell'arte veneta e tedesca (Toesca, 1912, pp. 135-151; Segre Montel, 1986). Di recente, il riferimento all'arte bizantina è stato ridimensionato, mentre è stata rilevata la nascita, proprio in questo secolo, di uno stile moderno, caratterizzato dall'aspirazione a una dignità classica, e anche di una corrente autonoma, segnata da realismo, fisicità dei personaggi e gusto narrativo (Boskovits, 1989).Tra le opere più antiche conservate a Milano (v.) sono gli affreschi sul terzo pilastro sinistro della basilica di S. Ambrogio, raffiguranti la Madonna con il Bambino, un santo vescovo e il committente Bonamico Taverna, datati all'inizio del 13° secolo. In queste pitture si può cogliere il persistere delle tendenze bizantine insieme a un'angolosità del disegno riferibile all'influenza della coeva miniatura germanica (Toesca, 1912, pp. 136-137).A quest'opera si possono avvicinare il gigantesco S. Cristoforo, datato al 1217, affrescato sulla facciata di S. Maria di Torello presso Carona nel Canton Ticino, e un gruppo di affreschi dei primi decenni del sec. 13°: i cicli affrescati nelle chiese di S. Niccolò a Piona presso il lago di Como, di S. Vigilio di Rovio nel Canton Ticino e il S. Paolo dipinto su un pilastro della chiesa di S. Teodoro di Pavia (Segre Montel, 1986, p. 61). In questi ultimi, le figure, pesantemente contornate e fissate in rigide pose frontali, presentano un'interpretazione più trasandata dei moduli bizantini e puntuali riferimenti alla miniatura salisburghese e a quella veneta. A una lettura che ha messo in luce i riflessi bizantini in questo gruppo di opere si è contrapposto Boskovits (1989), che ne ha sottolineato il realismo elementare e severo, la rude schiettezza, la semplicità delle tipologie dei volti quadrati e l'energia del volume plastico determinato dall'assottigliarsi ed enfatizzarsi della linea di contorno. In queste opere - a cui sono accostabili anche gli affreschi della chiesa di S. Ambrogio al Castello a Camignolo, nella diocesi di Como - si può rilevare l'aspirazione all'essenzialità e a una dignità classica (Boskovits, 1989, p. 26). Il ciclo dei Mesi e le storie di santi del chiostro, della seconda metà del sec. 13°, nella citata chiesa di S. Niccolò a Piona sono invece moderatamente aggiornati in direzione gotica (Segre Montel, 1986, p. 63).Accanto a questo filone severo e classicheggiante - rilevabile a Milano nei citati affreschi Taverna in S. Ambrogio e in una raffigurazione di S. Elena, dell'inizio del sec. 13°, nella chiesa di S. Lorenzo Maggiore - compare una tendenza più libera e narrativa, caratterizzata da uno stile 'lineare' e 'grafico', per es. negli affreschi, in parte staccati, di S. Antonio in Foris a Bergamo, realizzati da un artista dall'arguto tono popolaresco e databili agli anni successivi al 1208 (Bergamo, Accad. Carrara; Boskovits, 1989, p. 30).Nella decorazione dell'aula della curia vescovile di Bergamo (v.), raffigurante Storie di Cristo, la Ruota della fortuna, la Pesatura delle anime e il Giudizio finale, si coglie uno sviluppo ulteriore di questo stile 'lineare' (Boskovits, 1989, p. 30). Negli ornati e nelle drôleries di zoccoli e cornici è stata sottolineata una commistione di elementi bizantineggianti e di provenienza oltremontana, mediati dalla miniatura (Segre Montel, 1986, p. 63), caratteri rilevabili anche negli affreschi tardoduecenteschi di S. Leonardo di Borgomanero (prov. Novara) e in quelli della rocca di Angera (v.).Alla metà del sec. 13° risale un'interpretazione in senso occidentale dei modelli bizantini, negli affreschi del palazzo della Ragione di Mantova (v.), raffiguranti la Madonna in trono tra santi, S. Cristoforo con una donatrice e frammenti di un Giudizio universale. Datati a un momento successivo alla ricostruzione del 1250, gli affreschi sono firmati da Grixopolus (v.), "pictor Par[---]sis" (Segre Montel, 1986, p. 62). L'opera, tradizionalmente collegata al problema del battistero di Parma, è stata inserita nella corrente 'lineare' dell'arte lombarda, in un'accezione più ordinata e dignitosa (Boskovits, 1989, p. 34).Sono datati nella seconda metà del sec. 13° gli affreschi di S. Maria di Gradaro a Mantova, in cui i caratteri bizantineggianti sono interpretati da una linea angolosa, per es. nell'affresco con l'Ultima Cena (Toesca, 1912, p. 143). L'opera presenta d'altra parte legami con la tradizione veronese e con modelli ornamentali della miniatura gotica (Segre Montel, 1986, p. 63).Al Maestro di Angera sono stati attribuiti alcuni affreschi milanesi della seconda metà del sec. 13°, come un frammento raffigurante la Madonna sul quarto pilastro sinistro di S. Eustorgio e la frammentaria Deposizione dalla croce in S. Lorenzo Maggiore; questo affresco, per le proporzioni più allungate delle figure e per i ritmi più mossi, sembra appartenere a un momento successivo al ciclo di Angera, intorno alla fine degli anni ottanta (Boskovits, 1989, p. 40). Alla maturità del Maestro di Angera è stato inoltre assegnato (Boskovits, 1989) l'affresco con la Madonna in trono tra santi che si trova sulla scala che dà accesso alla cripta in S. Vincenzo a Galliano (v.), opera in cui erano stati rilevati modelli bizantini affini a quelli del frescante della cupola del battistero di Parma (Toesca, 1912, pp. 143-144).All'interpretazione degli ideali del Gotico occidentale nel senso di solenne e classica purezza formale, espressa dal Maestro di Angera, si può avvicinare il frescante del battistero di Riva San Vitale nel Canton Ticino, caratterizzato da una travolgente vitalità; a questo artista è stato avvicinato l'autore della Madonna con Bambino benedicente nella cappella Cittadini in S. Lorenzo a Milano (Boskovits, 1989, pp. 40-41).Gli affreschi della tomba di Guglielmo de' Cottis (m. nel 1267), abate di S. Ambrogio, nell'atrio della basilica ambrosiana, costituiscono un momento nodale nello sviluppo della corrente realistica dell'arte lombarda, per la rappresentazione della realtà quotidiana e per la particolare attenzione alla resa dei caratteri individuali (Boskovits, 1989, p. 42). Nell'Annunciazione staccata dall'arco trionfale di S. Giovanni in Conca a Milano (Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Antica), tradizionalmente datata alla seconda metà del sec. 13°, dove una gamma cromatica sfumata e luminosa ammorbidisce le forme neoellenistiche, è stata sottolineata la maniera bizantineggiante, prevalente ancora nella seconda metà del secolo (Segre Montel, 1986, p. 62). Estremamente simile, forse opera dello stesso artista, è l'affresco raffigurante l'Ultima Cena nella chiesa di S. Agostino a Bergamo (Boskovits, 1989, pp. 47, 50).Al formarsi di una 'maniera nuova' rispetto alle forme più passivamente bizantineggianti, nel periodo di transizione tra il sec. 13° e il 14°, possono essere collegati gli affreschi di S. Michele a Cremona (v.), in cui si può rilevare un vivo senso naturalistico, affine alle coeve miniature bolognesi. Nella stessa linea si può inserire la raffigurazione della Visita dei fratelli della Misericordia affrescata nel duomo di Bergamo, in cui accanto ai caratteri bizantineggianti si rilevano un'intensa espressività dei volti e un disegno ampio, dai forti contorni (Toesca, 1912, pp. 147-148). Le influenze oltremontane dovettero cominciare a diffondersi a partire dalla fine del sec. 13°, come dimostrano gli affreschi della chiesa del monastero di Solbiate (ca. 1290), caratterizzati da un disegnare angoloso dei volti e da vesti prive di rilievo, o le pitture del piano terreno della c.d. torre di Ansperto, inglobata nel monastero di S. Maurizio a Milano (Toesca, 1912, pp. 150-151).Durante la dominazione viscontea, Milano divenne il centro propulsore di fenomeni culturali di rilievo; la casata identificò infatti le proprie aspirazioni egemoniche con quelle del capoluogo e favorì lo sviluppo degli strati medi e popolari dei mercatores: ciò agevolò l'affermarsi in pittura di tematiche profane, storico-narrative ed epico-cavalleresche, come le gesta di Ottone Visconti nella rocca di Angera, o popolari e quotidiane (Pirovano, 1986, p. 71), nei carri agricoli sulla volta di S. Bassiano a Lodi Vecchio (v. Lodi).Una delle principali correnti stilistiche nella pittura lombarda della prima metà del sec. 14°, caratterizzata da figure dalla volumetria potente, da chiarezza nella resa spaziale e dall'intensità dei sentimenti, è stata individuata nella parte più antica degli affreschi con Storie bibliche nella navata della chiesa di S. Giorgio ad Almenno San Salvatore presso Bergamo e negli affreschi con Storie di Cristo nel convento Matris Domini di Bergamo (Boskovits, 1989, p. 51).Al primo ventennio del Trecento risalgono due importanti cicli di affreschi a Como (v.) - le Storie delle ss. Liberata e Faustina (Como, Mus. Civ. Archeologico P. Giovio) e le successive Storie di Cristo, datate poco dopo il 1320, nell'abside della chiesa di S. Abbondio (Volpe, 1983, p. 289) - caratterizzati da un gusto del racconto affine a quello rilevabile nell'illustrazione dei manoscritti (Pirovano, 1986, pp. 73, 75, 89-90).Grande realismo e capacità di raffigurare lo spazio architettonico con illusionismo prospettico caratterizzano il Maestro dei Fissiraga (m. nel 1327) in S. Francesco a Lodi, attivo anche nell'area di Varese. Alla sua bottega è stato infatti assegnato un gruppo di opere più tarde - tra cui una Crocifissione nel battistero di Varese - in cui il gusto per il particolare descrittivo prevale sull'interesse volumetrico (Pirovano, 1986, p. 74).Agli anni trenta-quaranta del Trecento viene datato l'affresco votivo con la Madonna con il Bambino, s. Agostino e membri della famiglia Aliprandi nell'ex cappella di S. Orsola in S. Marco a Milano; all'autore, un artista esperto pur se affrettato, sono inoltre state assegnate (Boskovits, 1989, pp. 55-58) svariate opere nel territorio di Monza (v.).Allo stesso periodo è inoltre databile la decorazione della volta della cappella Visconti in S. Eustorgio a Milano. Gli affreschi con i quattro evangelisti, in cui - analogamente a quanto avviene nella miniatura coeva - una fantasia bizzarra e impressionistica rivela tracce di influenze bolognesi, sono stati avvicinati alle successive Storie di Giovanni Battista affrescate in S. Maria dei Ghirli a Campione d'Italia (Boskovits, 1989, p. 63).La venuta di Giotto a Milano, intorno alla metà del quarto decennio del secolo, per affrescare la Vanagloria circondata da eroi, purtroppo perduta, in una sala nel palazzo di Azzone Visconti, costituì uno spartiacque nella pittura lombarda del sec. 14° (Gilbert, 1977). Le opere di Giotto a Milano non dovettero tuttavia provocare un effetto immediato: i pittori della generazione precedente rimasero infatti fedeli alla tradizione del realismo, caratterizzato dall'accentuazione plastica dei volumi e dalla ricerca di effetti illusionistici. Ciò è rilevabile in un gruppo di opere datate agli anni trenta-quaranta, per es. negli affreschi del Primo Maestro di Chiaravalle oppure nei Ss. Maddalena e Crispiniano affrescati nella cappella del campanile della chiesa di S. Marco a Milano, attribuiti al frescante che realizzò i busti sul sottarco della cappella di S. Tommaso di Villanova nella stessa chiesa (Boskovits, 1989, p. 63).Riflessi giotteschi cominciarono a comparire solo nella generazione successiva, specie a partire dal 1340 ca., in artisti che, sebbene per alcuni versi richiamino i diretti seguaci di Giotto toscani e umbri, possono essere considerati di matrice lombarda: il frescante della Crocifissione in S. Gottardo in Corte a Milano, il Secondo Maestro di Chiaravalle (autore delle Storie mariane del tiburio) e il gruppo di opere a essi collegate (Boskovits, 1989, pp. 63-64).L'interpretazione più alta data a Milano dell'arte di Giotto è probabilmente la Crocifissione, purtroppo molto deteriorata e oggi staccata, originariamente affrescata sulla parete di una cappella esterna, posta alla base del campanile di S. Gottardo in Corte, la chiesa della corte che Azzone Visconti aveva ristrutturato negli anni trenta. L'opera, generalmente datata al 1340 ca. (Volpe, 1983, pp. 294-295), è stata oggetto di un complesso dibattito tra sostenitori dell'attribuzione a un maestro di matrice toscana (Longhi, 1940; Salmi, 1955a) o a un lombardo (Volpe, 1983, pp. 292-295), e appare comunque qualitativamente disomogenea, prodotto di équipe di un maestro, forse di formazione toscana, e di aiuti locali (Cassanelli, 1993, p. 31). Riflessi stilistici della presenza giottesca sono inoltre gli affreschi frammentari, pertinenti a scene di Giudizio, scoperti nel sottotetto del palazzo Arcivescovile di Milano, che nel sec. 16° inglobava parte della vecchia corte (Pirovano, 1986, p. 75).Complessa e molto articolata era la cultura figurativa dei frescanti che nella prima metà del secolo decorarono l'abbazia di Chiaravalle Milanese, alle porte di Milano. Volpe (1983, pp. 290-292) ha suddiviso i maestri attivi, nel quarto e quinto decennio del sec. 14°, nel tiburio della chiesa in due gruppi, ognuno costituito da almeno due artisti. Agli affreschi, datati tra il 1330 e il 1340, caratterizzati da elementi più arcaici - gli evangelisti e i Dottori della Chiesa del Primo Maestro e i santi forse realizzati da un collaboratore -, succedono le Storie della Vergine (Annuncio della prossima morte, Dormitio, Funerali, Assunzione), affrescate sui quattro spicchi del tiburio e datate all'incirca alla metà del secolo. Anche in questo secondo gruppo di affreschi Volpe (1983, pp. 290-292) ha distinto due mani, l'una responsabile dell'Assunzione, l'altra degli altri tre riquadri. Longhi (1940, p. 180) aveva confrontato l'Assunzione con una Assunta nel Camposanto di Pisa (distrutta durante la seconda guerra mondiale), attribuita dalle fonti a Stefano; alla tesi di un solo pittore attivo nei due centri avevano aderito Toesca (1951, p. 762), che ipotizzava fosse un lombardo, e Salmi (1955a; 1955b), che lo riteneva un pisano. Al collegamento tra le due opere si è opposto Volpe (1983, pp. 291-292), mentre l'ipotesi è stata ripresa da Boskovits (1989, p. 64), che ha collegato alle Storie mariane anche la Madonna in trono dell'abbazia degli Umiliati a Viboldone presso San Giuliano Milanese e la decorazione più tarda dell'abbazia di Vertemate presso Como, opere tradizionalmente avvicinate al Secondo Maestro di Chiaravalle senza essergli direttamente attribuite. Pirovano (1986, p. 76) ha sottolineato l'ascendenza lombarda di questo secondo gruppo, rilevando l'uso di un segno sommario che piega il linguaggio di matrice toscana a effetti efficacemente espressionistici, notandone la derivazione dagli arcaici cicli romanici e dalla grafia lineare del Maestro di Angera.Al 1349 è datata da un'iscrizione la Madonna in trono tra santi affrescata sul lunettone dell'arcone tra la quinta campata della navata centrale e l'abside dell'abbazia di Viboldone. L'anonimo autore è stato oggetto di un ampio dibattito critico tra sostenitori di un'origine toscana (Toesca, 1912, pp. 238-242; Salmi, 1955a; 1955b; Arslan, 1963a, pp. 234-236) o lombarda (Gregori, 1974; Volpe, 1983, p. 296). Sulle facce degli altri tre arconi della campata è affrescato un Giudizio universale, attribuito a Giusto de' Menabuoi (v.), e per lo più datato a ridosso della Vergine in trono (Longhi, 1940; Gregori, 1974; Volpe, 1983). A Giusto sono stati assegnati anche i deteriorati affreschi della prima campata della navatella sinistra (Gregori, 1974), mentre a un maestro toscano è stata collegata la decorazione della seconda campata della navatella di destra. Un ciclo cristologico, in cui è evidente un intento illustrativo e divulgativo in linea con le esigenze pastorali degli Umiliati, decora la quarta campata della navata centrale, culminando nella Crocifissione sull'arcone est; il ciclo appare piuttosto disomogeneo e frutto di culture diverse (Cassanelli, 1993, pp. 40-41) e andrebbe datato, secondo Pirovano (1986, p. 77), non oltre il sesto decennio del 14° secolo.Intorno agli affreschi delle due abbazie e agli anni a ridosso del 1350 si concentrano dunque i problemi di attribuzione legati alle figure di Giusto de' Menabuoi e Giovanni da Milano (v.). A Giusto è stato collegato anche il Trionfo di s. Tommaso nella cappella Visconti di S. Eustorgio a Milano (Cassanelli, 1993, p. 43).Influssi di Giovanni da Milano e di Giusto de' Menabuoi sono stati rintracciati infine negli oratori viscontei di Mocchirolo, Lentate e Solaro. Il noto gruppo degli oratori brianzoli, eretti nel contado a N di Milano e decorati tra il settimo e l'ottavo decennio del sec. 14°, è caratterizzato dalla coincidenza di committenza e maestranze cittadine, collocazione rurale e destinazione popolare, e vanno considerati come imprese indubbiamente aggiornate e non come fatti periferici (Quattrini, 1993, pp. 57-60).Il più antico è quello dei Ss. Ambrogio e Caterina a Solaro, commissionato da Ambrogio Birago e costruito fra il 1363 e il 1367. Sulle pareti sono affrescate le Storie dei ss. Gioacchino e Anna e quelle della Vergine; sulla volta sono ritratti gli evangelisti e nel sottarco gli apostoli. Gli affreschi sono datati alla metà degli anni sessanta e presentano influssi di Giusto de' Menabuoi e di Giovanni da Milano, in particolare nella Crocifissione del presbiterio.L'oratorio di Lentate sul Seveso era originariamente annesso al castello di Stefano Porro, consigliere di Bernabò e di Gian Galeazzo Visconti. La costruzione, completata entro il 1369, è forse da collegare alla nomina di Stefano a conte palatino (1368) e la decorazione deve essere stata conclusa prima della sua morte, avvenuta tra il 1378 e il 1380, dal momento che il committente vi è effigiato insieme alla famiglia. Gli affreschi rivelano stretti contatti con quelli di Solaro, mentre rapporti con la miniatura coeva sono evidenti nelle Storie di s. Stefano affrescate sulle pareti.Di tono irreale e cortese, e anch'essi legati alla miniatura, sono gli affreschi con le Storie di s. Giovanni Battista e quelle di s. Ludovico di Tolosa nell'oratorio di Albizzate presso Varese, riferibile alla famiglia Visconti grazie agli stemmi sulla facciata e sull'arco trionfale, e datato all'ultimo quarto del secolo. Presentano forti affinità con questo oratorio gli affreschi con Storie di s. Giovanni Battista in una cappella gentilizia in S. Salvatore a Brescia (v.), probabilmente da riferire a una committenza milanese.Il ciclo degli affreschi di Mocchirolo, ora staccato e ricostituito (Milano, Pinacoteca di Brera), raffigurante Storie di s. Ambrogio e di s. Caterina, appartiene alla stessa cultura dei precedenti oratori. Sulla base della presenza dello stemma Porro e di una scena di dedicazione analoga a quella di Lentate, si pensava a una derivazione di Lentate da Mocchirolo, datando quest'ultimo all'inizio degli anni sessanta, grazie alla chiara discendenza da Giovanni da Milano e da Giusto de' Menabuoi. Sulla base di nuove scoperte documentarie gli studi recenti tendono a collegare Mocchirolo alla figura del più giovane Lanfranco Porro e al pittore Pecino da Novara, che risulterebbe partito per Mocchirolo nel 1378 (Galli, 1991; Quattrini, 1993, pp. 60-67), e quindi a rovesciare il rapporto tra i due oratori.Influssi di Giovanni da Milano sono stati rintracciati anche nella frammentaria Crocifissione nel transetto di S. Marco a Milano, datata agli anni ottanta del sec. 14° (Recanati, 1990). Del 1382 è l'affresco con Madonna con il Bambino, santi e donatore, staccato dalla milanese S. Maria dei Servi (Milano, Pinacoteca di Brera), in cui un'iscrizione, oggi scomparsa, riportava la data e il nome del pittore, Simone da Corbetta.L'attività del più significativo pittore e miniatore della fine del sec. 14°, Michelino da Besozzo, è documentata a partire dal 1388, quando dipinse gli affreschi perduti in S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia (v.), mentre le ultime notizie risalgono al 1450 (La pittura in Lombardia, 1993, pp. 426-427). Fondamentale per la ricostruzione della sua attività è la tavola firmata con il Matrimonio mistico di s. Caterina (Siena, Pinacoteca Naz.) e appare piuttosto fondata l'attribuzione a Michelino dello Sposalizio della Vergine di New York (Metropolitan Mus. of Art). I resti della vetrata di S. Giulitta nel duomo di Milano, con sei busti di profeti e re veterotestamentari, sono invece documentati al 1423-1425. Tra i numerosi affreschi assegnatigli dalla critica appare convincente l'attribuzione degli evangelisti e santi nella volta della cappella di S. Martino in S. Eustorgio a Milano (Cadei, 1984, p. 123).
Nella miniatura lombarda del sec. 13° è stato rilevato uno sviluppo stilistico analogo a quello della pittura: un predominio dello stile bizantineggiante, saltuariamente contaminato da influenze gotiche francesi, con caratteristiche comuni, tuttavia, anche alle scuole bolognese ed emiliana (Toesca, 1912, pp. 151-153); questi caratteri sono individuabili per es. in un messale proveniente dall'abbazia di Polirone a San Benedetto Po (Mantova, Bibl. Com., D III 15) e in una Bibbia di Milano (Bibl. Ambrosiana, B.28 inf.). La presenza di componenti francesi, in particolare affinità con gli avori del sec. 13°, permette di datare a questo secolo una Bibbia (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.27 inf.; Cogliati Arano, 1970a, p. 393), mentre la loro assenza spinge ad arretrare all'inizio del secolo un altro manoscritto (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.29 inf.; Cogliati Arano, 1970a, pp. 394-395).Alla corrente realistica di cui fa parte il Maestro della tomba di Guglielmo de' Cottis sono state collegate anche le miniature di due manoscritti della fine del sec. 13° (Boskovits, 1989): i Moralia in Iob di Gregorio Magno (Milano, Bibl. Ambrosiana, B.39 inf.) e il De regimine principum di Egidio Romano (Parigi, BN, lat. 6477), in cui compare una miniatura di dedica (c. Av) con l'autore in abiti monastici che offre il testo a Filippo IV il Bello (Avril, Gousset, Rabel, 1984, p. 21, tav. X). Nella parte inferiore della scena il miniatore appare influenzato da un prototipo francese, e non inserisce riferimenti spaziali, mentre nella parte superiore è ritratto un panorama cittadino con notevoli effetti di profondità (Boskovits, 1989, p. 43).L'imitazione di modelli francesi è di certo legata al contenuto di due codici probabilmente scritti e miniati in L.: la Conqueste de la Terre d'outremer (Parigi, BN, fr. 2631) e il Roman de Tristan (Parigi, BN, fr. 755), databili l'uno a cavallo tra il sec. 13° e il 14° (Toesca, 1912, p. 152), l'altro ai primi decenni del Trecento (Avril, 1989). Sono stati messi in luce i rapporti con la produzione bolognese e veneta del maestro del Tristan (Boskovits, 1989, p. 62), riconosciuto nel miniatore principale di un Roman de Troie di San Pietroburgo (Saltykov-Ščedrin, Fr.f.v. XI. 3; Pianosi, 1992).Al momento di transizione tra il sec. 13° e il 14° è databile l'illustrazione del Sermone di Pietro da Barsegapè, traduzione in volgare dell'Antico e del Nuovo Testamento (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AD.XIII.48), in cui sono evidenti gli influssi francesi (Cogliati Arano, 1970a, p. 395).A influenze assisiati è stato invece collegato un altro messale ambrosiano (Milano, Bibl. Ambrosiana, C.170 inf.), realizzato, probabilmente all'inizio del sec. 14°, per Robertus vicecomes archipresbiter, identificabile con Roberto Visconti, arcivescovo di Milano dal 1354, oppure con suo zio Roberto, arciprete della metropolitana milanese dal 1293 al 1312 (De Floriani, 1988).Il Liber Pantheon di Goffredo da Viterbo (Parigi, BN, lat. 4895) fu copiato dal notaio milanese Giovanni 'de Nuxigia' e illustrato nel 1331 per Azzone Visconti. Il codice è dunque precedente all'arrivo di Giotto a Milano; le storie riempiono i margini, mescolandosi al testo con scioltezza narrativa e grande libertà di impaginazione, con ampie impostazioni spaziali e gradoni pietrosi impiegati come quinte. Il miniatore, legato al Sermone di Pietro da Barsegapè e all'affresco del convento Matris Domini a Bergamo, rivela decisi influssi bolognesi (Boskovits, 1989, p. 63); alla bottega del Liber Pantheon è stato collegato anche un salterio e martirologio diviso tra Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 78.C.16) e Milano (Bibl. Ambrosiana, P.165 sup.; Cogliati Arano, 1970a, p. 396).L'impronta bolognese della miniatura lombarda del sec. 14°, evidente nel Roman de Tristan e nel Liber Pantheon, appare ancora avvertibile, alla metà del secolo, in due manoscritti di contenuto classico recanti le armi Savoia (Lipsia, Universitätsbibl., 70; Parigi, BN, lat. 7242). I due codici, usciti dalla stessa bottega, sono ricchi di riferimenti giotteschi e senesi; nel secondo - contenente fra l'altro gli Strategemata di Frontino - compare anche lo stemma Visconti con le lettere GZ (c. 11v); ciò spinge ad assegnare il codice a Galeazzo II Visconti, a cui andò in sposa Bianca di Savoia nel 1350 (Cogliati Arano, 1970a, p. 400).Alla metà del secolo vanno assegnate due miniature inserite in un messale ambrosiano (Roma, BAV, Pal. lat. 506, cc. 114b, 114c), collegabile agli influssi giottesco-senesi e datato al 1347 (Toesca, 1912, pp. 276-278). Delle due miniature a piena pagina inserite nel Messale Nardini (Milano, Bibl. del Capitolo metropolitano, II, D.2.32, cc. 137v, 138v), datate poco oltre la metà del secolo, sono stati evidenziati i caratteri giusteschi e l'affinità con la pittura ad affresco contemporanea, tanto forti da farle sembrare pittura monumentale in piccolo formato (Castelfranchi Vegas, 1993, p. 297).Avril (1990) ha sottolineato l'importanza del soggiorno milanese di Francesco Petrarca (1353-1361, anche se non ininterrottamente) per il rinnovamento della miniatura e della pittura padana del Trecento, proprio negli anni in cui vennero fondati lo Studio e la biblioteca del castello di Pavia. Petrarca si rivolse fra l'altro proprio al maestro del Messale Nardini per decorare quattro manoscritti della sua biblioteca personale.Importantissimo per la miniatura della seconda metà del Trecento fu lo sviluppo della biblioteca viscontea di Pavia, che secondo l'inventario del 1426 conservava novecentottantotto codici, molti dei quali confluiti alla Bibliothèque Nationale di Parigi in seguito alla conquista di Pavia da parte di Luigi XII, che, nel 1499, depredò la biblioteca del castello (Pellegrin, 1955). All'inizio dell'ottavo decennio del sec. 14° è datato un piccolo codice liturgico, Missa in festivitate sancti Benedicti (Parigi, BN, lat. 1142), in cui è raffigurato il committente ai piedi della Vergine. Nell'immagine, anch'essa collegabile alla pittura a fresco contemporanea, è stato riconosciuto Galeazzo II (Pellegrin, 1955). Da Bianca di Savoia, moglie di Galeazzo, fu commissionato invece il più antico libro d'ore lombardo noto (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 23215), illustrato e firmato da Giovanni di Benedetto da Como (v.), databile tra il 1350 - data delle nozze di Bianca e Galeazzo, le cui armi nel codice appaiono congiunte - e il 1387, anno di morte di Bianca. Il sistema di inquadramento delle scene a piena pagina e il carattere monumentale delle figure hanno spinto a collegare le miniature di Giovanni di Benedetto agli affreschi dei citati oratori brianzoli.Nel Guiron le Courtois (Parigi, BN, nouv. acq. fr. 5243), uno dei capolavori della miniatura padana del sec. 14°, sono stati di recente ritrovati lo stemma e il monogramma di Bernabò Visconti (c. 46v), signore di Milano dal 1378 al 1385 (Sutton, 1989, p. 119). Il codice è stato oggetto di ampie discussioni relative alla datazione e alla provenienza: tradizionalmente assegnato agli anni ottanta, era stato arretrato da Volpe (1983, pp. 302-304) al periodo 1360-1370. Il riconoscimento dello stemma di Bernabò dovrebbe almeno chiudere a favore della L. il dibattito sulla provenienza del raffinatissimo codice, eseguito quasi integralmente a disegni monocromi: a ipotesi lombarde (Toesca, 1912, pp. 377-378) si erano contrapposte infatti localizzazioni veronesi (Salmi, 1955a; 1955b). Queste ultime si basavano su confronti con i volumi del De viris illustribus di Francesco Petrarca attribuiti ad Altichiero (Parigi, BN, lat. 6069F, lat. 6069I), eseguiti per i Carraresi di Padova ed entrati in possesso di Gian Galeazzo nel 1388. Castelfranchi Vegas (1993), tuttavia, ha sottolineato l'isolamento di questo codice nel panorama della miniatura lombarda, lasciando aperta la possibilità di collocare le scene in area veronese; anche se nell'esecutore delle iniziali ornate è stato riconosciuto il miniatore attivo nell'Iliade di Petrarca (Parigi, BN, lat. 7880), sicuramente miniata a Milano, Castelfranchi Vegas non esclude che nel Guiron le scene e le iniziali siano state miniate in momenti diversi, come nella stessa Iliade, iniziata a Padova, terminata a Pavia e miniata e rilegata a Milano. A un collaboratore del maestro del Guiron è stato attribuito un codice dei Facta et dicta memoranda di Valerio Massimo (Bologna, Bibl. Univ., 2463; Toesca, 1954), datato al 1377 e firmato dal copista Giovanni Medico di Reggio (Castelfranchi Vegas, 1993, p. 301).Indubbio è il collegamento iconografico tra il Guiron e il Lancelot du Lac (Parigi, BN, fr. 343), anche se per alcuni è il Lancelot che si ispira al Guiron nella composizione delle scene (Sutton, 1989, p. 131), mentre per altri il rapporto sarebbe inverso (Cogliati Arano, 1970a, p. 416); dal punto di vista qualitativo, il Lancelot appare decisamente lontano dal raffinatissimo Guiron.Il Lancelot fa parte di un gruppo di codici datati agli anni ottanta del Trecento, realizzati da un atelier composito legato alla bottega di Giovanni di Benedetto da Como, il cui manoscritto più significativo è un libro d'ore-messale conservato a Parigi (BN, lat. 757; Tosatti, 1992). La cronologia e la committenza del codice sono discusse: Sutton (1982; 1989) ha identificato il committente, inginocchiato ai piedi della Vergine (c. 109v), con Bertrando de' Rossi - conte di San Secondo, al servizio di Bernabò Visconti e poi di Gian Galeazzo -, riconoscendo il suo monogramma nelle iniziali BE su alcune carte (per es. c. 58r); sulla base del collare con il sole radiante - emblema favorito di Gian Galeazzo - indossato dal committente, Sutton ha assegnato il codice al periodo successivo al 1385, anno in cui Bertrando passò al servizio di Gian Galeazzo. Un ampio studio di Kirsch (1991) ha riconfermato la datazione tradizionale al 1380, collegando invece l'esecuzione del libro alle nozze, avvenute in quell'anno, di Gian Galeazzo con Caterina, figlia di Bernabò Visconti, a cui alluderebbero l'emblema degli anelli incrociati, ricorrente nel manoscritto, e il monogramma GV (c. 364r). L'analisi stilistica di questo importante manoscritto è resa difficile dai procedimenti esecutivi, che si basavano su un succedersi di fasi in cui più mani potevano operare anche sulla stessa carta. Al miniatore, generalmente collegato a Giovanni di Benedetto (Natività, c. 283v; Madonna della Misericordia, c. 258r), si avvicina un secondo maestro, riconosciuto per es. nella raffigurazione di S. Orsola (c. 380r) e nelle Tentazioni di s. Antonio (c. 296v). Da questi artisti si stacca un miniatore dal linearismo sottile e appuntito, operante per es. nelle scene della Genesi, nell'Assunzione di Maria (c. 349r) e nella Trasfigurazione (c. 309r), che Arslan (1963b) identificava con un maestro francese. A questo libro d'ore-messale è legato il libro d'ore-messale Smith-Lesouëff (Parigi, BN, Smith-Lesouëff 22), versione ridotta del codice di medesimo argomento; in questo manoscritto, di poco più tardo, lo stesso committente è raffigurato, lievemente invecchiato, ai piedi della Vergine (Castelfranchi Vegas, 1993, p. 304); Cogliati Arano (1970a, p. 441) considera il libro d'ore-messale Smith-Lesouëff precedente, mentre Kirsch (1991) li data entrambi al 1380.La bottega che ha operato nel primo libro d'ore-messale, giudicata tra le più affermate (Sutton, 1989), è caratterizzata da uno sviluppato gusto decorativo, dalla preferenza per i colori vivaci e per il disegno marcato, dal senso del movimento e dell'azione, ma è stato giustamente rilevato come la sua importanza non vada sopravvalutata rispetto alle contemporanee produzioni francesi o a opere lombarde come le miniature di Giovannino de Grassi (v.) nell'Offiziolo Visconti (Firenze, Bibl. Naz., B.R. 397). A tale bottega sono state accostate anche pitture murali, come alcune immagini affrescate sui piloni di S. Francesco a Lodi (Bandera Bistoletti, 1987, p. 20) e gli affreschi con Storie di s. Caterina, provenienti dalla chiesa di S. Lorenzo a Piacenza (v.) e ora staccati (Mus. Civ.).Tra i codici collegati a questa bottega è il Tacuinum sanitatis di Parigi (BN, nouv. acq. lat. 1673), difficile da confrontare con il libro d'ore-messale perché segue l'impostazione caratteristica di tale tipologia di libro, prodotto in L. in vari esemplari (per es. Liegi, Bibl. Univ., 1041; Vienna, Öst. Nat. Bibl., Ser. nov. 2644; Roma, Casanat., 4182, Theatrum sanitatis; Roma, Casanat., 459, Historia plantarum; Cogliati Arano, 1973; Moly Mariotti, 1993). Alle miniature presenti in un gruppo di carte del Tacuinum di Vienna (cc. 91-103), caratterizzate da una grafia eccitata e nervosa, è stato collegato l'affresco con il Giudizio universale in S. Maria dei Ghirli a Campione d'Italia, firmato dai fratelli Franco e Filippolo de Veris e datato al 1400 (Toesca, 1912, pp. 345-346), anche se l'attribuzione delle miniature ai de Veris non è uniformemente accettata dalla critica (Arslan, 1963b, p. 44).Gli influssi francesi e boemi che determinarono la svolta in direzione del Gotico internazionale (Arslan, 1963b), giunti in L. anche grazie ai rapporti matrimoniali intrecciati tra Visconti e Valois, culminarono nelle opere di Giovannino de Grassi, il principale miniatore milanese, oltre che ingegnere della fabbrica del duomo, a cui di recente sono state attribuite anche pitture murali. Il coinvolgimento sempre maggiore del ducato di Milano nell'ambito europeo con la signoria di Gian Galeazzo Visconti - nominato duca palatino da Venceslao IV di Boemia nel 1395 - contribuì di certo all'inserimento dell'arte lombarda nel Gotico internazionale. Una raffigurazione minuziosa, quasi cronachistica, dell'Incoronazione ducale di Gian Galeazzo è contenuta nel Messale dell'Incoronazione (Milano, Bibl. Capitolare di S. Ambrogio, lat. 6, c. 8r; Kirsch, 1991, p. 69ss.), realizzata da Anovelo da Imbonate (v.).Ad Anovelo e alla bottega di Giovannino de Grassi è stata collegata l'attività giovanile del Maestro del libro d'ore di Modena - per es. le miniature che completano l'ultimo volume di una Bibbia iniziata da Salomone de Grassi (Milano, Bibl. Naz. Braidense, AE.XIV.27) - inserito nella corrente 'espressionistica' della miniatura lombarda a causa delle esasperazioni degli orli arrovellati e i colori puri e squillanti nelle sue miniature (Cadei, 1984, p. 28). Il libro d'ore da cui il miniatore trae il nome (Modena, Bibl. Estense, R.7.3, già lat. 842) è databile al 1390 ca., mentre sono da collocare nel primo decennio del sec. 15° altri due libri d'ore - particolarmente interessanti per l'apparato iconografico (Manzari, 1994) - assegnabili alla sua bottega (Aia, Koninklijke Bibl., 76.F.6; Parma, Bibl. Palatina, Pal. 56). Il primo, forse iniziato per Gian Galeazzo Visconti e interrotto con la sua morte nel 1402, è stato attribuito da Arslan (1963b, p. 39) a un miniatore diverso, il Maestro del libro d'ore di Isabella di Castiglia. All'attività giovanile del Maestro del libro d'ore di Modena (Bollati, 1989) dovrebbero appartenere anche un salterio (Oxford, Bodl. Lib., Canon lat. 378) e le Romulae fabulae di Gualtiero Anglico (Bologna, Bibl. Univ., 1213). Si segnala inoltre l'ipotesi che identifica il Maestro del libro d'ore di Modena con Tommasino da Vimercate (Sutton, 1991a), formulata tuttavia sulla base di una attribuzione discussa dalla critica (A Descriptive Catalogue, 1982). Il già segnalato parallelismo tra miniatura e pittura monumentale nella seconda metà del sec. 14° è confermato anche dai rapporti tra alcune miniature a piena pagina del libro d'ore di Modena (per es. S. Dorotea, c. 244r) e i santi affrescati sulla volta di S. Maria in Selva presso Locarno, nel Canton Ticino.A Pavia è da collegare un gruppo di manoscritti strettamente connessi con il mondo accademico, dotati di apparati decorativi meno lussuosi di quelli di corte, anche se, rispetto alla produzione di corte, presentano nelle bordure e nelle iniziali miniate un aggiornamento preciso e precoce sulla miniatura francese (Castelfranchi Vegas, 1993, p. 314). Il più noto tra questi codici è la Naturalis Historia di Plinio (Milano, Bibl. Ambrosiana, E.24 inf.), che reca la data 1389 con l'autoritratto e la firma del miniatore (c. 332r), Pietro da Pavia (v.).A questo miniatore appaiono strettamente legati gli esordi di Michelino da Besozzo: all'uno o all'altro è attribuita la decorazione del De consolatione philosophiae di Boezio (Cesena, Bibl. Com. Malatestiana, D.XIV.1) e caratteri pavesi sono rintracciati nella miniatura di apertura dei Commentarii in Psalmos di s. Agostino (Roma, BAV, Vat. lat. 451, c. 1r), assegnata a Michelino (Castelfranchi Vegas, 1993, p. 315). Ai primi anni del sec. 15° risale l'Elogio funebre di Gian Galeazzo Visconti, composto dall'agostiniano Pietro da Castelletto nel 1402 e miniato da Michelino probabilmente nel 1403 (Parigi, BN, lat. 5888), mentre le Epistolae di s. Girolamo, realizzate per la famiglia Cornaro di Venezia, recano la data 1414 (Londra, BL, Egert. 3266). Il libro di preghiere di New York (Pierp. Morgan Lib., 944) è invece variamente datato, dal 1410 (The Prayer Book, 1981) al terzo decennio del secolo (Cadei, 1984, p. 126). Cadei (1984, p. 123) espunge dal catalogo di Michelino i disegni nel Libretto degli Anacoreti (Roma, Ist. Naz. per la Grafica, inv. nr. 3727-3756) - assegnato al miniatore da Boskovits (in Arte in Lombardia, 1988, pp. 90-93) - ed esprime forti dubbi sull'attribuzione a Michelino del libro d'ore di Avignone (Bibl Mun., 111), e del De consolatione di Cesena.Nei primi decenni del Quattrocento operava un gruppo di miniatori con i quali si conclude il Tardo Gotico lombardo; il secondo volume dell'Offiziolo Visconti (Firenze, Bibl. Naz., Landau Finaly 22) raccoglie le opere di alcuni dei più significativi tra loro, tra cui Belbello da Pavia. Nell'arte di Belbello, caratterizzata da violenza espressiva, trasposizione dei dati naturali in emozionalità accesa, anche attraverso l'uso irreale del colore, sono state rilevate forti componenti bolognesi. È possibile tracciare una linea di discendenza di questa corrente 'espressiva', affine all'arte bolognese, dal Liber Pantheon e dal Tristan al Lancelot e al Maestro del libro d'ore di Modena (Cadei, 1984, p. 28). Nel secondo volume dell'Offiziolo Visconti sono state distinte varie mani di miniatori anonimi: il Maestro della Genesi, il Maestro del Battesimo di Cristo e il Maestro delle Storie di Mosè (Cadei, 1984, p. 86ss.). Tra questi, il Maestro del Battesimo di Cristo spicca come "altissimo, tale da ergersi a contraltare di Michelino in quei primi decenni del Quattrocento in cui l'apporto lombardo al weicher Stil è ancora da scoprire" (Cadei, 1984, p. 88). Si può inoltre identificare questo miniatore con il Maestro del De natura deorum, autore verso il 1400-1402 di una miniatura in un codice degli anni settanta del sec. 14° (Parigi, BN, lat. 640, c. 11v), del frontespizio della Historia plantarum (Roma, Casanat., 459) e di un polittico (coll. privata; Meiss, 1961). Attraverso l'esame di un gruppo di affreschi nell'area pavese, Cadei (1984, pp. 107-122) giunge a delineare la figura di un caposcuola, ne rintraccia le radici nelle miniature di gusto più spiccatamente francese presenti nel libro d'ore di Modena (per es. cc. 237r, 238r) e riconosce l'epilogo di questa corrente negli affreschi di Bonifacio Bembo nella cappella Cavalcabò in S. Agostino a Cremona.Dalle botteghe del Maestro del libro d'ore di Modena e di Michelino da Besozzo sembra derivare l'opera di botteghe attive ormai nella prima metà del sec. 15°, come quelle del Maestro delle Vitae imperatorum di Svetonio (Parigi, BN, ital. 131) - attribuitogli da Toesca (1912, p. 529) - e del Maestro Olivetano illustratore, per es., del Breviario di Maria di Savoia (Chambéry, Bibl. Mun., 4, c. 9r; Cadei, 1984, p. 146ss.). Dell'ingente produzione di questa bottega (Levi D'Ancona, 1970) ha cominciato solo recentemente a delinearsi un catalogo più preciso (Melograni, 1990; 1992; 1994-1995).
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Nei secc. 13° e 14° Milano fu uno dei più importanti centri metallurgici europei, noto soprattutto per la produzione di armi ed equipaggiamenti difensivi. Quando, nella seconda metà del Trecento, vennero configurandosi le prime armature in piastra, la lavorazione di spade e corazze assunse le caratteristiche di un artigianato di lusso. Più difficile è individuare una continuità nel trattamento dei metalli anche in ambito religioso e figurativo. Forse un riflesso dell'abilità dei ferrai lombardi sul principio del sec. 13° va ravvisato nella cancellata in ferro battuto di S. Colombano a Bobbio (v.), mentre sembra da escludere che il c.d. candelabro Trivulzio, conservato nel duomo di Milano, sia stato eseguito in città, sia pure da una bottega di bronzisti oltremontani. L'angelo, anch'esso in bronzo, del battistero di Cremona (v.), databile con grande incertezza fra il sec. 12° e il 13°, e il S. Bassiano (1284) del duomo di Lodi (v.), in lamine di rame sbalzate e dorate, suggeriscono che in L. deve essere esistita una statuaria in metallo capace di mediare, specialmente nel S. Bassiano, fra la sintesi plastica della pietra e il fascino 'idolatrico' dei materiali preziosi.Una relativa decadenza dei laboratori orafi lombardi nel sec. 13° è stata suggerita da alcuni studiosi (Zastrow, 1978, p. 134) per spiegare la scarsità di pezzi sicuramente di provenienza locale e la compensativa presenza di opere importate. Ciò è particolarmente sensibile nel caso degli smalti di Limoges, ben rappresentati a Milano da opere come la pisside a torre da S. Nazaro Maggiore e la colomba eucaristica (Milano, Tesoro del Duomo; Cinotti, 1973), nonché dal duecentesco pastorale proveniente da S. Stefano (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata; Museo d'arti applicate, 1985). Ormai ritenuta veneziana (Bertelli, 1985) è la splendida croce che l'arcivescovo Ottone Visconti (1262-1295) avrebbe donato all'abbazia di Chiaravalle (Milano, Tesoro del Duomo, già in S. Maria presso S. Celso), mentre una traccia di cultura più propriamente lombarda va probabilmente riconosciuta nella patena argentea, conservata nel Mus. Tesoro della Collegiata di S. Lorenzo a Chiavenna (prov. Sondrio), già attribuita al sec. 12° (Aureggi Ariatta, Ariatta, 1981), ma avvicinata da Vergani (in Milano e la Lombardia, 1993, pp. 317-318) agli affreschi della rocca di Angera (v.), con una datazione a fine Duecento.Anche in relazione agli avori l'importazione francese sembra essere la regola, sia per oggetti d'uso liturgico e devozionale sia per manufatti di pregio a destinazione profana: lo confermano, fra gli altri, il raro calice con la raffigurazione delle Arti liberali proveniente dalla chiesa milanese di S. Gottardo in Corte (Milano, Tesoro del Duomo) e il cofanetto con Storie della castellana di Vergi (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata), entrambi del sec. 14° (Avori gotici francesi, 1976). Tuttavia, specie nel caso di pezzi conservati nei musei, è sovente arduo dimostrarne l'arrivo in L. ab antiquo, e quindi giudicarne l'incidenza sul contesto medievale locale. L'osservazione vale anche per diverse croci metalliche abruzzesi dei secc. 13°-14°, molte delle quali conservate in coll. private, censite prevalentemente da Zastrow (Zastrow, de Meis, 1975; Zastrow, 1978). Soltanto verso la fine del Trecento cominciarono a proliferare sul mercato i lavori della bottega veneto-fiorentina degli Embriachi, che risposero al linearismo transalpino con un più risentito plasticismo capace di articolarsi in complessi spettacolari come il trittico della certosa di Pavia (v.), eseguito nell'atelier di Baldassare degli Embriachi fra il 1400 e il 1409.Nel corso del sec. 14° emerse gradualmente il profilo di un'oreficeria di gusto e qualità decisamente internazionali, commisurata ai fasti della corte viscontea. A Milano i documenti ricordano maestri francesi e tedeschi che spesso ricoprirono incarichi importanti nella Corporazione degli orefici (Le matricole degli orefici, 1977; Buchi, 1979). Borgognone, forse, e operante intorno al 1380-1390, fu l'artefice della Madonna con il Bambino in argento dorato e dipinto, donata nel 1597 al duomo di Mantova (v.) dal vescovo Francesco Gonzaga (Valsecchi, 1973, p. 96). Anche in questo caso, però, non se ne conosce la storia precedente. L'aggiornamento stilistico investì pure le zecche, quando sulle monete milanesi di Bernabò e Galeazzo II Visconti (1354-1378) la consueta figura di S. Ambrogio in trono, ereditata dal secolo precedente, si animò di nuove vibrazioni chiaroscurali (Travaini, 1994). A commissionare oggetti preziosi non furono soltanto i signori: il conte palatino Stefano Porro, committente dell'oratorio di Lentate sul Seveso, fece eseguire nel 1368 un calice dal piede polilobato e medaglioni esagonali sul nodo (Milano, Castello Sforzesco, Civ. Raccolte di Arte Applicata) e nella cornice in vetro graffito su fondo oro dell'arca di S. Fedele nell'omonima chiesa a Como (v.), innalzata dal vescovo Stefano Gatti nel 1365, furono attivi (Bertelli, 1985), un pittore bolognese e uno lombardo. Milanese era invece Borgino dal Pozzo, autore del paliotto (1350-1357) dell'altare maggiore del duomo di Monza (v.), in argento dorato e sbalzato con inserti di pietre e smalti, che, pur rifacendosi alla tipologia dell'altare carolingio di Vuolvinio nel milanese S. Ambrogio, rivela non pochi addentellati con la scultura lombarda del tempo, così come la croce astile della parrocchiale di Montichiari (prov. Brescia), fra le poche testimonianze superstiti dell'oreficeria a Brescia (v.), centro assai attivo nel campo delle arti suntuarie fin dal secolo precedente (Panazza, 1963).Il rapporto con l'arte monumentale è molto più marcato nei due capolavori che illuminano gli ultimi anni del Trecento: la croce astile di S. Maria Maggiore a Bergamo (v.), già conservata nella basilica e trafugata nel 1973, e il calice detto di Gian Galeazzo Visconti del duomo di Monza. La croce (1392) - preceduta dall'affine, ma meno aggraziata, croce di Ughetto Lorenzoni da Vertova e Michele Silli da Piacenza nel tesoro del duomo (1386) - è opera raffinatissima di Andriolo de' Bianchi, che era anche scultore in pietra; il calice (1396-1402) è caratterizzato nel nodo da un'elaborata struttura architettonica modellata sull'esempio dei capitelli del duomo di Milano e per questo accostata al nome di Giovannino de Grassi. Intorno al 1400 il dialogo fra macro e micro tecniche, unito alla squisita perizia esecutiva, aveva ormai fatto dell'oreficeria lombarda un'esperienza trainante del Gotico europeo. L'area bergamasca rimase aperta a influenze veneziane, come sembra dimostrare l'esuberante croce in argento e cristallo di rocca, ormai del 1420 ca., nella chiesa del Carmine a Bergamo (Omaggio a San Marco, 1994, p. 239), mentre in provincia, specie nel territorio di Como, si diffusero croci astili che traducevano modelli aulici in forme più semplificate e che conobbero grande fortuna per tutto il sec. 15° (Capolavori di oreficeria sacra, 1984; Zastrow, 1994).
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