LOMBARDIA (A. T., 17-18-19; 24-25-26)
Situazione, limiti, estensione. - Regione storica dell'Italia continentale compresa tra il cimale delle Alpi centrali, il medio Po, il Ticino, il Sarca, il Garda e il Mincio. Il nome discende dal medievale Longobardia, denominazione d'origine bizantina creata per antitesi a Romania, e corrispondente perciò all'insieme dei territorî italiani occupati o dominati dai Longobardi. Solo dopo l'888 si indicò col nome di Longobarda la marca carolingia d'Italia che comprendeva Milano. Ma, mentre ancora nel basso Medioevo l'accezione del toponimo valicava di molto i confini dell'attuale Lombardia (all'epoca di Dante lombardo fu talora sinonimo d'italiano), solo con la signoria viscontea furono inclusi in questa i territorî alpini a N. dei grandi laghi (valli ticinesi, Valtellina), che però ne vissero per lo più indipendenti. Bergamasco e Bresciano rimasero a lungo sotto l'influenza veneta; a differenza di Cremona, che seguì sempre le vicende di Milano, Mantova ebbe esistenza politica autonoma fino in epoca moderna. Per converso data già dall'epoca del ducato la riunione alla Lombardia dei territorî appenninici sulla destra del Po, staccatine solo nel 1743 per venire aggregati al Piemonte.
Non vi fu dunque nessun periodo nel quale la regione lombarda si vedesse composta politicamente sulla base della sua unità fisica; e nemmeno la circoscrizione amministrativa attuale ricalca i limiti segnati da natura.
Il compartimento - compreso fra gli estremi: 46° 38′ a N. (M. Buffalora, in provincia di Sondrio, sul confine svizzero), 44° 52′ a S. (M. Lesima, in provincia di Pavia, sul confine col Piacentino, che dopo l'aggregazione dell'alto Bobbiese viene a contatto col Piemonte, separando così Lombardia da Liguria, prima limitrofe); 8° 5′ circa a O. (Lomellina, a occidente di Palestro) e 11° 25′ a E. (Quattrelle sul Po, presso Ficarolo) - lascia fuori infatti (a parte i territorî delle Giudicarie compresi nel Trentino) ampî lembi montani fisicamente italiani: l'intero Canton Ticino, e le Valli Mesolcina (Moesa), Bregaglia (alta Maira) e Poschiavina (ai Grigioni) appartenenti alla Svizzera, ciò che non può dirsi certo compensato dall'inclusione, in Lombardia, di pochi chilometri di terreno nelle alte valli di Lei (affluente del Reno) e di Livigno (Spöl, affluente dell'Inn), ambedue comprese nella provincia di Sondrio. Quanto poco, del resto, le frontiere politiche si adattino ai limiti naturali, è visibile nel capriccioso decorso della linea di confine tra Lombardia e Svizzera (il più capriccioso, anzi, di tutta la nostra frontiera terrestre) nella zona dei laghi, dove il comune lombardo di Campione costituisce un'isola italiana (kmq. 2,6) in territorio elvetico, e delle due comunicazioni, parallele, che utilizzano la Val Tresa, una, la rotabile, è in Svizzera, l'altra, la ferrovia, in Lombardia. Per contro, il compartimento dilaga a S. da un lato sulla destra del basso Ticino (Lomellina, o ex-circondario di Mortara, 1263 kmq.), dall'altro oltre il corso del Po, nelle due provincie di Pavia (ex-circondarî di Bobbio e di Voghera: 1110 kmq.) e di Mantova (territorio di Gonzaga: 609 kmq.), territorî aggregati alla Lombardia dal 1866. Nei suoi limiti amministrativi attuali, la Lombardia si estende su 23.808,99 kmq. (ossia poco meno di 1/5 dell'Italia continentale (la Lombardia fisica è almeno del 2,5% più ampîa), ed è perciò la 5ª per superficie tra le regioni italiane (subito dopo la Sardegna e prima della Toscana).
Morfologia. - La massima larghezza della regione (da E. a O.) è di circa 255 km., la massima lunghezza (da N. a S.) di 190: entro questo spazio relativamente angusto si passa da oltre 4 mila m. di altezza (Bernina, 4052 m., il punto più alto delle Alpi lombarde) a 11 m. s. m., al fondovalle del Po a Quattrelle. Vario quindi ne risulta il paesaggio naturale; la varietà è poi accresciuta dal fatto che il pendio interno del grande arco alpino chiude, tra il crinale e il piano, la larga fascia dei rilievi prealpini, separata per mezzo di netti solchi longitudinali, di cui il più cospicuo ed evidente è rappresentato dal medio corso dell'Adda (Valtellina), dalla zona assiale - essenzialmente gneissico-cristallina - delle Lepontine e delle Retiche, nelle quali numerose cime oltrepassano i 3500 m., Pizzi di Palù 3912, Ortles 3899, Cevedale 3778, Disgrazia 3678, Adamello 3554, Presanella 3564 ecc.). Né molto inferiore in altezza è la stessa fascia prealpina, che si va ampliando ed estollendo sempre più dal Lago Maggiore al Garda e tocca la sua acme nel Pizzo di Coca (3052 m.), a S. di Sondrio: l'alternanza, che la caratterizza, di rocce di assai diversa resistenza (dai calcari marnosi mesozoici alle dolomie retiche e alle arenarie cretaciche), vi produce un pittoresco contrasto tra vecchie superficie allivellate (piani) e fughe di pinnacoli, piramidi e pareti a strapiombo, come quelle che han reso famosi le Grigne (2410), il tipico profilo del Resegone (1875), e il gruppo dell'Arera (2512 m.), tra Serio e Brembo.
Il passaggio dalla falda pedemontana alla gronda in cui divaga il Po è segnato, qui più vistosamente che altrove nel versante interno delle Alpi, da più serie di apparati (anfiteatri, archi) morenici, in corrispondenza allo sbocco dei grandi ghiacciai quaternarî, e perciò più imponenti e complessi a S. dei grandi laghi, e da laghi (Varesotto, Brianza, anfiteatro benacense) o da torbiere (Iseo) ancora occupati nelle più o meno ampie depressioni che s'aprono tra arco e arco. Esterna a questa è la zona delle conoidi fluvioglaciali, che i tributarî del Po hanno quasi dovunque intaccato e rielaborato, appianandole e terrazzandole: depositi di regola tanto più profondamente alterati in superficie e ferrettizzati (groane, brughiere), quanto più antichi; ma, in complesso, quasi dovunque sterili o capaci solo di magra vegetazione (eriche), almeno fino a che non intervenga attivamente a rigenerarli l'opera dell'uomo (rimboschimento, bonifica), che ne riduce a poco a poco l'estensione.
La cosiddetta linea delle risorgive, o fontanili, che da Magenta per Rho, Monza, Treviglio, Martinengo, Romano, Bagnolo e Ghedi tocca il Mincio a Goito, disegna il primo affiorare delle falde acquee decorrenti al disotto delle conoidi accumulatesi allo sbocco delle valli alpine, e serve bene a delimitare l'alta pianura diluvio-glaciale, ghiaiosa, bibula e perciò asciutta e di scarsa fertilità naturale, dall'argillosa, pingue, bassa pianura alluvionale, caratterizzata dalla grande ricchezza di acque che le viene sia dalla poca profondità della falda sotterranea, sia dai molti fiumi che la solcano e che formano, anche per le condizioni speciali delle temperature (riscaldamento dovuto alle masse lacustri), un sistema irrigatorio ideale.
Condizioni alquanto diverse si hanno nel piccolo cuneo dell'Oltrepò pavese, dove la zona alluvionale lungo il gran fiume è ristretta dal protendersi delle propaggini collinari dell'Appennino di cui la parte compresa entro la circoscrizione lombarda si limita alla valle dello Stàffora. Lembo d'Appennino è da considerare anche la piccola emergenza (11 km. di asse) del colle di S. Colombano (144 m.), che spicca sulla rasa pianura presso la foce del Lambro nel Po; genesi e costituzione geologica richiamano qui i colli astigiani.
In complesso poco meno di metà (46,6%) del territorio lombardo cade in regioni di pianura, circa i 2/5 in quelle di montagna (39,9%) e il resto (13,5%) in zone collinari, il che significa che, mentre le seconde hanno un'estensione press'a poco identica che nel complesso del regno, le ultime figurano in Lombardia ridotte dei 2/5 e per contro più che doppie le zone pianeggianti.
Idrografia. - Dei tre fiumi maggiori della Lombardia, tributarî del Po, come tutte le acque della regione fisica, solo l'Oglio (lunghezza km. 280; bacino kmq. 664) rientra intero nei limiti del compartimento. L'Adda, che per lunghezza (km. 313) e bacino (kmq. 7979) è il massimo, lascia ai Grigioni una parte dei suoi tributarî, mentre il Ticino (km. 248; kmq. 7228), che è il più ricco di acque, resta in tutto il suo corso superiore in territorio svizzero.
Tutti e tre i fiumi sono immissarî ed emissarî di specchi lacustri, ciò che conferisce loro il comune carattere di risultare formati da due sezioni distinte, a monte e a valle di questi bacini di decantamento. Uscendone, i fiumi stessi corrono profondamente incassati nel loro tratto mediano (le sponde emergono a 40-50 m. sul pelo dell'acqua per il Ticino a Sesto Calende, a 80 circa per l'Adda a Paderno, ancora a 40-50 per l'Oglio a Sarnico), con dislivelli sensibili (rapide), fino a che, col digradare delle terrazze che li accompagnano nell'alta pianura, non divagano sulla rasa spalla di sinistra del Po, disegnando ampî meandri, abbandonando lanche e mortizze, e volgendo verso SE. nel senso voluto dalla doppia inclinazione. Mentre il loro valore ne è dunque assai diminuito come vie navigabili, per una parte almeno del loro corso, questo rappresenta, qui, una specie di nastro isolante per le comunicazioni fra le opposte sponde. Lo svantaggio è compensato, in epoca moderna, dalla possibilità di sfruttare i dislivelli del fondo valle per la produzione di energia idroelettrica e per l'irrigazione dell'alta pianura asciutta. Nella bassa le acque di risorgenza hanno certo maggiore importanza economica che non gli stessi fiumi (Ticino, Adda e Oglio sono navigabili nel loro tratto inferiore), i quali del resto vedono ampiamente risarcite, per afflusso sotterraneo, le perdite cui sono sottoposti a monte per effetto delle erogazioni necessarie alle colture. L'abbondanza delle acque superficiali ha reso indispensabile qui la loro sistemazione (canali); l'accumulo dei materiali solidi tende a sollevare di continuo gli alvei dei fiumi (Oglio) e soprattutto quello del Po, che corre più o meno pensile rispetto alla pianura circostante e deve quindi essere protetto da più ordini di arginature. Interesse minore presentano gli altri fiumi, sia propriamente prealpini, come il Serio (km. 124; kmq. 1265) e il Brembo (km. 72; kmq. 885), affluenti dell'Adda, o il Mella (km. 96; kmq. 1138), tributario dell'Oglio, sia pertinenti in parte al territorio trentino, come il Chiese (km. 160; kmq. 1596), che scende dall'Adamello e il Sarca-Mincio (km. 195; kmq. 3058), emissario del massimo lago italiano: portata media di poco superiore alla metà di quella dell'Oglio.
La Lombardia è notoriamente la regione italiana più ricca di laghi; ne furono riconosciuti e studiati sinora circa un centinaio (senza contare una dozzina di laghi artificiali), dei quali poco meno della metà d'alta montagna (superiori ai 2000 m.; più alto di tutti il L. Gelato Superiore, a 2800 m. nel bacino dell'Oglio), e una trentina inferiori ai 500 m. Tra questi, oltre le tre maggiori superficie lacustri d'Italia, il Benaco o L. di Garda (370 kmq.), il Verbano o L. Maggiore (212 kmq.), e il Lario o L. di Como (145 kmq.), van ricordati il Sebino o L. d'Iseo (61 kmq.), il Ceresio o L. di Lugano (51 kmq.), il Lago di Varese (15 kmq.) e il Lago d'Idro (11 kmq.). Dei rimanenti, appena una dozzina hanno superficie superiori ad 1 kmq. La genesi della più parte dei maggiori bacini (al pari, del resto, di tutti quelli di montagna) è in rapporto diretto o indiretto con l'espansione dei ghiacciai pleistocenici, ognuno dei quali, immediatamente dietro le proprie morene frontali, lasciò una o più cavità, poi invase da acque lacustri, ciò che non esclude, in molti casi, la presenza di solchi e fratture antecedenti alle stesse fasi glaciali (Benaco, Lario, ecc.). L'esistenza di questi sembra confermata dalle condizioni del fondo, che l'erosione delle correnti ghiacciate spinse non di rado al disotto del livello marino (criptodepressione massima nel L. Maggiore a 281 m.). In seguito l'alluvionamento dei bacini lacustri è proceduto con intensità tanto notevole, che le modificazioni della linea di riva si possono riconocere anche in epoca storica (per es., alle due estremità del Lario).
I riflessi che la zona dei grandi laghi esercita sul clima e sul popolamento della Lombardia prealpina sono evidenti, non foss'altro dalle alte cifre della densità di abitanti che contrassegna la zona stessa, specie se messe a confronto con quelle delle fasce montane da cui è ricinta: il significato antropogeografico è accresciuto dal fatto che i grandi laghi sono tutti lungo le più frequentate vie di comunicazione che dalla pianura padana adducono ai valichi alpini.
Clima. - Il carattere più saliente del clima lombardo è la continentalità, attenuata, tuttavia, nella zona prealpina, dalla benefica influenza delle grandi masse lacustri, che vi mitigano i rigori invernali, riducendo così le escursioni termiche stagionali ed annue. Il comportamento dei principali elementi climatici è sintetizzato nell'unita tabella dalla quale risulta come le temperature medie del mese più freddo - che è dovunque il gennaio - vadano crescendo dalla bassa, ove corre il Po, verso l'alta pianura e le colline antistanti all'arco alpino (tra Cremona e Bergamo vi è una dinerenza di circa 4 gradi nell'escursione media annua), mentre per le temperature estive avviene di regola il contrario.
L'umidita è in quasi tutta la Lombardia essenzialmente in rapporto con le correnti aeree provenienti dall'alto Adriatico; nelle precipitazioni, però, è ancora più evidente l'efficacia di condizioni locali (orientamento delle valli, esposizione rispetto alle correnti stesse, a ridosso, per es., di masse montuose capaci di arrestarne l'apporto acqueo). Quando però si prescinda da queste, si può concludere che le quantità medie annue della pioggia crescono, come norma, dalla bassa pianura (600-750 mm.), verso la zona collinare (1000-1250 mm.), e la prealpina, dove attingono il loro massimo (2000 mm.). La distribuzione di questi quantitativi nelle diverse stagioni non presenta anomalie notevoli: la Lombardia rientra tutta nel dominio di tipi pluviometrici sublitoranei, con due massimi, cioè, cadenti in primavera avanzata e in autunno, e prevalenza del primo a N., del secondo a S. del Po. Nella pianura i due massimi quasi si equivalgono, stabilizzandosi in aprile-maggio e ottobre. Condizioni di vera continentalità (con massimo unico) mancano; vi si avvicinano solo alcune valli maggiori (per es., la Valtellina) non lungi dal cimale alpino.
Precipitazioni temporalesche non sono rare, specie in estate, e sono accompagnate da grandine in misura press'a poco simile a quella delle altre regioni d'Italia (5-6 temporali grandinosi all'anno). Molto maggiore vi è la frequenza delle nebbie, che va diminuendo dalla pianura (Mantova, 71 casi all'anno) alla zona pedemontana (Bergamo: 22), e si concentra, di regola, nei mesi invernali (ottobre-febbraio, col massimo in dicembre-gennaio).
Flora. - Dal punto di vista floristico la Lombardia costituisce un territorio di transizione fra la zona temperata fredda dell'Europa centrale in cui rientra la sua parte maggiore, e i distretti mediterranei, i quali (a prescindere dal lembo appenninico dell'Oltrepò pavese, che esce fuori dai suoi confini fisici, appartenendo all'Emilia) vi sono rappresentati da colonie più o meno estese, in rapporto sia con la più recente storia geologica (flora marina residua delle valli di Sermide), sia con condizioni di clima particolarmente mite, determinate dalla presenza e dall'ampiezza degli specchi lacustri pedemontani. Sulle rive di questi anzi la mancanza degli elementi pertinenti ai due dominî dà origine a distretti floristici a sé stanti (flora insubriana), caratterizzati da specie proprie, fra cui Cytisus nigricans, Sarothamnus scoparius, Carpesium cernuum, Campanula patula, Euphrasia stricta, diverse specie di Genista, Galium, Centaurea, ecc.).
La fascia calcarea (meridionale) della zona alpina è geneticamente connessa con le finitime Alpi orientali, pur presentando un ricco e interessante endemismo, che sembra trovar centro nel gruppo delle Grigne; la zona assiale, silicica, molto più povera, anche e meglio con le Alpi occidentali. Notevole, in confronto di queste, il sensibile deprimersi dei limiti altimetrici (superiore ed inferiore) rispetto a quanto si osserva nelle finitime Alpi occidentali, come conseguenza della maggiore piovosità, che è in rapporto, con la minore distanza dall'Adriatico.
Elementi delle regioni settentrionali d'Europa compaiono, oltre che nella fascia montana, nelle numerose, anche se di regola poco estese, aree palustri (torbiere). Molto meno importante, per il botanico, la pianura, la cui vegetazione spontanea, estremamente povera, è comune con quella dell'Europa centrale, ma ospita non poche piante esotiche, che vi trovano rapida naturalizzazione (soprattutto Helodea canademis).
Fauna. - Il popolamento animale appare assai ridotto (specialmente l'avifauna) dalla lunga, intensa e spietata opera di distruzione dell'uomo. L'orso è ormai scomparso dalla zona alpina, dove anche il lupo va facendosi raro, al pari di quasi tutta la selvaggina, che trova invece, in piano, una certa protezione nelle numerose bandite. L'ittiofauna merita ricordo, oltre che per il suo interesse scientifico, per l'importanza economica delle specie importate (coregoni, murene, salmerino, persico-trota, ecc.), che si sono ottimamente acclimate e riprodotte nei nostri laghi maggiori.
Popolazione. - La Lombardia, pur rappresentando appena il 7,6% del territorio italiano, accoglie il 13,45% della sua popolazione e supera così, quanto a cifre assolute, tutte le altre regioni, venendo dietro, per indice di densità (232,9 ab. per kqm.) solo alla Liguria e alla Campania, ambedue molto più piccole di superficie. Delle provincie lombarde, la meno popolosa è quella di Sondrio, quasi tutta montuosa, che è anche la meno popolosa d'Italia dopo Zara, ma la cui densità (41,9) è superiore a quella di molte altre; per contro Milano è seconda solo a Napoli per popolazione assoluta, ma con la cifra di densità (725,1) più alta di tutte le provincie italiane.
L'aumento della popolazione lombarda è stato fra i più notevoli entro i confini del regno, e anche se riferito ai territorî europei in genere: nell'ultimo secolo il numero degli abitanti è più che raddoppiato, crescendo di oltre il 30% tra il 1901 e il 1931. L'incremento risulta notevolmente più rapido di quello della popolazione italiana presa nel suo complesso; perciò la percentuale che in questa viene a occupare la Lombardia, che al principio del sec. XIX si può giudicare stesse fra il 10 e l'11%, saliva al 13,19% nel 1901 e al 13,82% nel 1911, per oscillare intorno a questa cifra nei due ultimi censimenti (13,71% nel 1921; 13,45% nel 1931, certo per insufficiente comparabilità dei dati). La densità della popolazione, già più alta dell'attuale complessiva per il regno fino dalla prima metà del secolo scorso (156 ab. per kmq. nel 1862), la oltrepassa oggi di due terzi, ed è dovuta, più che a condizioni di clima (piogge) e di suolo (terreni alluvionali e irrigabili) eccezionalmente favorevoli alle colture intensive, al rapido sviluppo delle industrie. Queste, più che quelle, dànno infatti ragione delle forti differenze che gl'indici di densità accusano da zona a zona: bassi nei distretti montani (Sondrio), superano già la media del regno nelle provincie di Mantova e di Cremona, per attingere i massimi attorno ai distretti industriali (Milano, Varese, Brescia, Bergamo).
Il movimento naturale della popolazione mette in evidenza una natalità nettamente inferiore e una mortalità leggermente superiore alla media del regno, e di conseguenza un accrescimento naturale piuttosto basso, in ogni modo più basso di quello complessivo del paese. L'indice di nuzialità, che era di 6,92‰ nel 1913, saliva a 7,53‰ nel 1930, un po' più, dunque, che nel complesso del regno (7,41‰), ma con valori oscillanti da provincia a provincia; minimi; in quella di Bergamo (6,67), massimi in quella di Mantova (8,05), Le stesse oscillazioni si hanno per la natalità, nella quale è anzi più stridente il contrasto fra gli estremi (Pavia: 17,31; Bergamo 35,17); in misura minore per la mortalità (Varese: 11,61; Bergamo: 19,37), caratterizzata da un forte quoziente infantile (145,68‰ nel triennio 1929-30; la cifra più alta fra i compartimenti del regno), ma di nuovo e anche più brusche per l'accrescimento naturale, che, mentre tocca il 15,8‰ nella provincia di Bergamo, scende al 5,25‰ in quella di Pavia, segnando 9,56‰ per il compartimento, contro 12,6‰ per il regno.
Come in altre regioni dell'Italia continentale, l'emigrazione non transoceanica (ossia per lo più temporanea, e diretta essenzialmente in Francia e in Svizzera) assume in Lombardia proporzioni notevoli, aggirandosi intorno a 1/5 del totale del regno e venendo per numero (40.725 lavoratori nel 1930, 25.804 nel 1931, contro 269.002 nel quinquennio 1910-14) subito dopo quella del Veneto; per contro assai minore, in senso assoluto (3065 lavoratori nel 1930; 1762 nel 1931, contro 81.171 nel 1910-14) e relativo, è quella transoceanica, pressoché compensata, in questi ultimi anni, dai rimpatrî (2287 e 1945 rispettivamente nel 1930 e 1931). Degne di considerazione sono del pari le cifre dell'emigrazione non dipendente da cause di lavoro (a essere più esatti, per ragioni di commercio), per la quale anzi la Lombardia occupa il primo posto fra le regioni italiane (3274 e 110.469 individui nel triennio 1929-31 per i paesi transoceanici e non transoceanici, contro 2784 e 99.084 rimpatriati rispettivamente).
Influenza non trascurabile sul movimento della popolazione hanno le migrazioni interne, che tuttavia non sempre determinano, come altrove (Piemonte, Liguria), un'eccedenza positiva (il 1930 segna infatti 33.296 immigrati contro 36.581 emigrati). Di regola le correnti immigratorie restano inferiori alle emigratorie fuorché nelle provincie di Milano e Varese, per le quali il potere di assorbimento è di gran lunga maggiore: oltre che sul vicino Veneto, che vi contribuisce in misura cospicua, l'assorbimento si fa ormai sentire ovunque, specie sulla Toscana, la Sicilia e le Puglie. Comparativamente più intenso che nelle altre regioni italiane è poi lo scambio di popolazione da zona a zona; determinato dal più alacre ritmo industriale, e dall'opportunità o dalla necessità, che ne consegue alle varie forme di attività, di completarsi e integrarsi l'un l'altra.
Agricoltura e allevamento. - La prosperità agricola del compartimento, che ne costituisce una delle basi economiche più solide, rimonta nelle sue origini, in sostanza, alla fine del sec. XVIII, ma ha veduto i più rapidi progressi con i continui perfezionamenti tecnici realizzati nella bassa pianura padana in epoca anche più recente e in special modo nell'ultimo cinquantennio. Va anzitutto notato come appare dal quadro qui unito, che la superficie improduttiva è in Lombardia proporzionalmente poco meno che doppia che nel complesso del regno - anzi è la più alta fra quelle delle regioni italiane dopo la Venezia Tridentina (15%) - e più che doppia quella dell'incolto produttivo, mentre poi la media del regno è superata anche per ciò che riguarda i seminativi, appartenenti per circa due terzi alla zona della bassa. Le cifre dell'improduttivo, minime nelle provincie pianeggianti di Mantova (6,7%) e di Cremona (8%), salgono al 34% in quella, tutta montuosa, di Sondrio, e si mantengono su 19% e 16% per Como e Varese rispettivamente.
Le superficie boschive sono concentrate per circa il 70% nella zona di montagna, ma vi rappresentano appena il 35,7% dell'area produttiva (contro il 58,1% in Toscana, ma solo il 32,6% per il complesso del regno); poco meno di 30 mila ha. su 384 mila sono coperti da castagneti da frutto. Le provvidenze imposte negli ultimi anni dagli enti pubblici per la difesa del patrimonio forestale hanno arrestato il già intenso disboscamento, ma la produzione del legname è affatto sproporzionata alla superficie occupata dal bosco. Per il resto, l'economia agraria delle zone di montagna cerca sempre più decisamente di orientarsi verso l'allevamento: il grande frazionarsi del possesso fondiario, la conduzione diretta, la mancanza o la deficienza dei capitali hanno contribuito a mantenere fino a ieri, in sostanza, vecchie pratiche tradizionali, volte in origine ai bisogni di un'economia chiusa. Con l'impulso dei tempi nuovi, con le benefiche conseguenze delle emigrazioni, con le stesse necessità della crisi, l'agricoltura viene facendosi anche in montagna sempre più razionale: si può calcolare che circa 2/5 della superficie sono occupati dal prato stabile, 2/5 dal bosco e il resto da colture varie (segala, frumento, orzo, vigna, ecc.).
Ben evolute appaiono le pratiche agrarie nella zona di collina e nell'alta pianura, dove però l'intenso sviluppo delle industrie ha sottratto e continua a sottrare braccia ai campi; sebbene le colture e i metodi di conduzione varino assai da zona a zona (conduzione diretta e mezzadria nel Bergamasco e nel Bresciano; affitto in danaro nel Milanese) si può dire che da 1/2 a 2/3 della superficie agraria vi sono occupati dai seminativi, intorno a 1/4 dal bosco, specialmente da cedui, da 1/10 a 1/5 dalle colture legnose specializzate (vigneto e frutteto), e il resto dai pascoli e dai prati stabili. L'improduttivo è ridotto spesso a proporzioni insignificanti; l'incolto produttivo (brughiera, e forme miste di bosco e brughiera) tocca invece in qualche zona (nell'alto Milanese) il 20-30%.
Ciò che meglio di tutto serve a distinguere dalle due precedenti la regione della bassa pianura, è la lunga, perfezionata pratica dell'irrigazione artificiale. Di tutto il bacino padano, la parte compresa entro i confini della Lombardia presenta, per lo sviluppo di quella, le condizioni naturali più favorevoli (pendii leggermente acclivi, fiumi che depositano materiali sottili e sono regolati da grandi serbatoi lacustri; migliori condizioni climatiche per la più efficace protezione verso N. e il più diretto influsso dei venti caldi meridionali, in confronto, per es., del Piemonte; abbondanza d'acque estive, falde freatiche largamente affioranti o defluenti a piccola profondità, ecc.); non sorprende perciò che qui, prima che altrove, abbiano potuto svilupparsi e diffondersi le opere irrigatorie, che, già fiorenti in epoca romana, ebbero un nuovo impulso durante il basso Medioevo e uno anche maggiore dagl'inizî del secolo scorso in poi. Oltre il 56% della superficie di pianura è in Lombardia irrigato (ma oltre il 60%, se si considera la superficie agraria), contro il 46% e il 12% rispettivamente per il Piemonte e l'Emilia (il 50% e il 13% della superficie agraria). La superficie irrigata si estende su 482 mila ha.; le principali canalizzazioni - l'origine di alcune risale ai secoli XII-XIII - si hanno fra Ticino e Adda (Naviglio Grande, Canale della Martesana, Canale Villoresi, ecc.), nella zona al cui centro è Milano, mentre oltre metà della superficie irrigata trae alimento dalle acque dei fontanili.
Benché i bisogni dell'agricoltura non si possano dire ancor del tutto soddisfatti e grandi lavori di bonifica, oltre quelli già felicemente compiuti, siano necessarî per la sistemazione di alcune zone (bassa mantovana), si può affermare che la pianura lombarda abbia ormai raggiunto con l'irrigazione uno stadio di altissima evoluzione agraria; in ogni caso si deve all'irrigazione - a parte l'impianto della risicoltura, che la Lombardia ha in comune col vicino Piemonte - il grande sviluppo assunto dalle colture foraggere mediante i prati a marcita, senza i quali non sarebbe stato possibile il fiorire dell'industria zootecnica e delle molte che le sono legate. D'altra parte, il grado di eccellenza della pratica agraria in genere è attestato dal fatto che le provincie lombarde figurano fra le più fertili d'Italia e quelle ove si attingono i più alti rendimenti medî per ha.
Basi dell'agricoltura lombarda sono le colture cerealicole e le foraggere; per queste ultime il compartimento precede tutte le altre regioni d'Italia, sia in senso assoluto sia nei rendimenti medî. Per il frumento, la Lombardia è superata solo dall'Emilia e dalla Sicilia, che hanno però una superficie coltivata rispettivamente poco meno che doppia e tripla, e perciò coi prodotti unitarî più alti del regno (massimi nella provincia di Cremona con 31,69 per ha. nel 1931; minimi in quella di Sondrio con 15,8). Il granoturco occupa in Lombardia una superficie di poco minore di quella del frumento. Produzione e rendimento (nel 1931) sono anche per il granoturco superiori a quelli di tutti gli altri compartimenti, per contro restano un po' al di sotto del Piemonte per il riso. Minore importanza hanno gli altri cereali, salvo la segala, per la quale la Lombardia ha parimenti il primato in Italia.
Delle piante industriali vengono coltivate la barbabietola da zucchero (198 mila q. nel 1931), la canapa e soprattutto il lino, che è però in forte contrazione (1,6 mila ha.: produzione del seme 22 mila q. nel 1909-13; 11,3 nel 1923-27; 9,3 nel 1927, appena 1,1 nel 1931), ciò che è tanto più doloroso in quanto le sue eccellenti caratteristiche qualitative permettono l'utilizzazione più o meno estesa del tiglio (10 mila q. nel 1909-1913, 5,9 nel 1923-27, meno di un migliaio nel 1931), che viene sottoposto a macerazione e ceduto in gran parte ai linifici, mentre va scomparendo la pratica della lavorazione domestica. Frutta e legumi non hanno sviluppo pari a quello di altre regioni italiane; per contro, grande importanza ha la coltura della patata, che dà oltre 1/6 del totale del regno, con prodotti unitarî più che doppî della media di questo (106,89 per ha., contro 42,5).
Mentre la coltura dell'ulivo è quasi trascurabile (poco meno di 5 mila ha., per lo più promiscuamente con altre piante; produzione 27 mila q. di ulive e 4,9 mila di hl. di olio nel 1922-26, ma appena 10 e 1,8 rispettivamente nel 1931), merita un cenno quella della vite, diffusa sopra tutto nell'Oltrepò pavese, in Valtellina e nelle colline del Bresciano (212,4 mila ha., di cui appena 38,3 a coltura specializzata nel 1931), sebbene in via di contrazione. I quantitativi del raccolto (4 milioni di quintali annui circa) e del vino ricavatone (2-2,5 mil. di hl) sono modesti; pregiate tuttavia le qualità, anche se non di grande fama (Grumello e Sassella della Valtellina; Barbacarlo e Montebuono del Pavese, ecc.).
Nella gelsicoltura la Lombardia conserva il suo secolare primato (5 milioni di q. di foglia annui); pur mantenendolo anche nella produzione del seme bachi allevato (344,5 mila once nel 1930, 260,4, nel 1931, poco meno di 2/5 del totale del regno), lo ha perduto di recente in quella dei bozzoli, per i quali la Venezia propria è ormai in testa alle regioni italiane.
L'allevamento - che ha avuto in Lombardia un primo decisivo impulso solo dopo il 1875 all'incirca - dà al compartimento il 18,3% dei bovini, il 18,1% degli equini e il 13% dei suini del regno; per questi la Lombardia è superata solo dall'Emilia, per gli altri supera tutte le regioni italiane. I maggiori perfezionamenti riguardano essenzialmente i bovini, per i quali le zone meglio specializzate sono la bassa lodigiana e il Cremonese, ma l'allevamento è fiorente quasi dovunque; quello equino soprattutto in provincia di Cremona. La consistenza complessiva del bestiame lombardo è rilevabile dall'unita tabella, che permette evidenti conclusioni sul suo recente sviluppo (da notare la forte contrazione del bestiame minuto).
Industrie. - La Lombardia occupa notoriamente una posizione di superiorità, anzi di vera egemonia nella vita industriale e commerciale del regno; primato messo in evidenza non solo da elementi quantitativi, ma più ancora dal raro equilibrio che in essa ha sempre potuto mantenersi tra le varie forme di attività. Lo sviluppo industriale ricalca senza dubbio tradizioni lontane, ma nella sua espressione moderna risale in sostanza al periodo 1830-50, quando accanto alla piccola industria domestica, esercitata con metodi antiquati, estremamente frazionata e in parte ancora sopravvivente, vennero impiantate le prime filande di cotone (1830) e di lino (1840), si attuarono trasformazioni radicali in quella meccanica (1840), si fecero rifiorire le ceramiche (1855) e le poligrafiche, e si diede opera su basi nuove alla manifattura dei tessuti di seta, sfruttando i più perfezionati processi tecnici consentiti dall'impiego del vapore. Il ritmo di questo sviluppo si accentua decisamente tra il 1871 e il 1873, e più ancora dopo il 1880, quando ormai Milano, divenuta il massimo centro industriale italiano, afferma la sua importanza anche come piazza europea (per es., nel commercio delle sete), e all'economia europea sempre più strettamente si lega con l'apertura del valico del Gottardo (1882). L'attrezzamento industriale lombardo si rivela sapiente nella crisi generale dell'87, che viene agevolmente superata; e l'ascensione continua vigorosa fino all'anteguerra (massime nel quadriennio 1904-07), quando ormai tutta l'economia lombarda ha assunto un netto carattere capitalistico e può sostenere senza scosse non solo l'enorme sforzo a cui sarà sottoposta dalle inattese necessità della difesa nazionale, ma anche il durissimo travaglio del dopoguerra, che il fascismo ha risolto restituendo all'industria le condizioni più opportune per un nuovo balzo in avanti.
Il primato è espresso nella percentuale degli addetti agli esercizî industriali che in Lombardia è più che doppia (138‰ nel 1911; 198‰ nel 1927) che nel regno (64‰ e 98‰ rispettivamente) e superiore a quella di qualunque altra regione; il suo più moderno attrezzamento si rileva facilmente nelle cifre relative al concentramento dell'industria, piccole, medie e grandi aziende: mentre infatti nel 1927 la piccola industria (comprendente cioè esercizî con meno di 5 addetti ciascuna) assorbe in Lombardia solo il 18% delle maestranze, il 32% la media e il 50% la grande (esercizî con oltre 100 addetti) le proporzioni figurano per il complesso del regno col 38%, 32% e 30% rispettivamente.
Delle industrie lombarde le tessili sono, come in passato, di gran lunga le più sviluppate, occupando da sole oltre 1/3 degli addetti all'industria censiti nel compartimento (1927); e delle tessili più largamente rappresentate le cotoniere (45-50% dei fusi e 66% dei telai meccanici del regno), che si concentrano nelle valli dell'Olona, del Lambro, del Serio e del Brembo, nell'alta pianura milanese e in Brianza. Col 48% delle bacinelle censite nel regno, la Lombardia torce l'80% circa e produce i 6/10 della seta greggia nazionale (Como, Milano) e anche nella seta artificiale, pur non avendo il primato, mantiene un posto eminente (Cesano Maderno, Pavia) fra le regioni italiane, di cui domina il mercato. Canapificio e lanificio contano in Lombardia una metà all'incirca delle maestranze di tutto il paese (Monza, Paderno, Desio, Vimercate); molto minori, ma tutt'altro che trascurabili il lanificio (Monza, Gavardo, Gandino) e lo iutificio (Milano, S. Pellegrino). Delle industrie tessili complementari, meritano un cenno speciale il maglificio e il nastrificio (Bresciano, Milanese), nonché la fabbricazione dei cappelli di feltro (Monza, Como) e dei tappeti (Monza, Mortara).
Seconde per importanza economica e numero di addetti (poco meno di 1/5 del totale del compartimento) sono le industrie siderurgiche, metallurgiche e meccaniche, diffuse soprattutto intorno a Milano e nelle provincie di Brescia, Bergamo, Como e Varese. La Lombardia provvede per larga parte ai bisogni del paese per il materiale ferroviario (Milano, Saronno, Sesto S. Giovanni), automobilistico (notevole la produzione dei magneti) ed aviatorio (Varese, Sesto Calende), alimentando in pari tempo copiosamente la corrente delle nostre esportazioni.
Un quinto degli stabilimenti chimici e un quarto degli operai che vi sono addetti in tutto il regno è concentrato in Lombardia; la produzione è volta soprattutto ai medicinali e agli articoli farmaceutici (Milano), alle materie coloranti (Rho, Cesano Maderno, Niguarda, Melegnano), e ai fertilizzanti chimici. Anche le industrie della concia e del cuoio (calzature, guantifici e valigerie) vi sono ben rappresentate; più notevoli ancora quelle della gomma e della carta, quest'ultima con metà degli stabilimenti di tutta Italia. Le industrie poligrafiche accentrano in provincia di Milano poco meno di 1/5 degl. addetti del regno.
Le industrie estrattive, data la relativa povertà del sottosuolo lombardo, hanno scarso interesse; per contro fiorenti sono quelle del legno, e soprattutto il mobilificio, che è esercitato in numerosi piccoli laboratori in tutta la Brianza (Cantù) e alimenta una forte corrente esportatrice.
Le diverse industrie alimentari sono più o meno largamente rappresentate, anche oltre i bisogni della regione, ma su tutte emergono, per l'entità del prodotto e per l'alto grado di perfezione tecnica, quelle del latte (burrificio, caseificio, sottoprodotti del latte, ecc.), la cui massima diffusione è nella zona di pianura del Lodigiano e del Cremonese.
Tutta questa varia e copiosa attività industriale non sarebbe possibile senza una larga disponibilità di energia. Il compartimento, pur essendo di poco inferiore al solo Piemonte nel totale della potenza elettrica installata (1075 mila kW. su 4763 nel regno), supera ogni altra regione italiana nella produzione di energia elettrica (2419 milioni di kWh. nel 1931, su 9884 nel regno), ed è costretto a importarne larghi quantitativi, oltre che dai finitimi compartimenti, dai Grigioni e dal Canton Ticino.
Commercio, comunicazioni e trasporti. - L'importanza commerciale della Lombardia è connessa essenzialmente alla sua felice condizione topografica: nella zona media della pianura del Po, antistante al tratto centrale della barriera alpina, dove, su una fronte di meno di 300 km. in linea d'aria, il cimale si deprime in almeno 10 grandi valichi: il Sempione (2008 m.), il Gottardo (2111 m.), il Lucomagno (1917 m.), il S. Bernardino (2063 m.), lo Spluga (2117 m.), il Maloia (1817 m.), il Bernina (2330 m.), lo Stelvio (2759 m.), e il Resia (1507 m.), valichi accompagnati da altrettante strade di grande comunicazione e da tre ferrovie (Sempione, Gottardo, Bernina). Le comunicazioni che mettono capo a questi passaggi convergono tutte sulla pianura lombarda, e principalmente su Milano, che è a sua volta il punto di partenza di altre strade adducenti al Mediterraneo (M. Ligure e Adriatico), al cuore della penisola e ai due lati della trasversale congiungente il bacino del Rodano a quello del Danubio attraverso l'Italia settentrionale.
Poco meno di 1/5 delle persone impiegate nel commercio in tutta Italia vivono in Lombardia e per 1/7 nella sola provincia di Milano, il massimo centro finanziario del regno.
Indice dell'importanza della Lombardia dal punto di vista commerciale è la cifra complessiva delle partite liquidate dalla stanza di compensazione, che a Milano ammontarono nel 1931 al 54% del totale italiano, valore più che doppio di quelli di Genova e di Roma riuniti; indice della floridezza economica è la percentuale dei depositi nelle casse di risparmio ordinarie e postali lombarde su quelli del regno: 5,3 su 31,2 miliardi di lire (17, 1%) nel 1931.
La Lombardia conta 1101 km. di strade statali (appena il 5% del totale del regno, meno della media per compartimento), ma oltre 13.000 km. di altre buone vie già provinciali e comunali. Il traffico degli autoveicoli vi è comparativamente molto più intenso che negli altri compartimenti: nel 1931 la Lombardia possedeva il 25% (23.765) dei motocicli, il 22% (46.924) delle automobili, il 14% (1314) degli autobus, il 19% (7201) delle motoleggiere di tutto il regno. La rete ferroviaria statale è di circa 1400 km. (di cui 170 a trazione elettrica), con linee a prodotti chilometrici tra i più elevati d'Italia; vi sono inoltre 708 km. di ferrovie secondarie, 1063 di tramvie extraurbane. Le linee automobilistiche misurano 9955 km. su 102 mila del regno (1931). Il 67,85% della superficie del compartimento è a una distanza di 0,5 km. dalle ferrovie, valore massimo in Italia, come massimo il rapporto tra la superficie stessa e i chilometri lineari di binario (8,2 su 100 kmq., contro 7 nel complesso del regno). Una certa importanza ha anche la navigazione lacuale, che si sviluppa in complesso su 357 km. di linee: nel 1931 il movimento segnò 2739 passeggeri e 327.184 tonn. di merci (queste ultime per oltre il 70% trasportate sul Lago d'Iseo).
Centri abitati. - La percentuale della popolazione sparsa 137,8‰) è in Lombardia notevolmente al disotto della media del regno (214,2‰), prevalendo di gran lunga nel compartimento le piccole agglomerazioni; se si prendono come base i comuni, si osserva che circa il 30% degli abitanti è riunito in centri compresi tra 1000 e 4000 anime, e poco meno del 60% in centri inferiori ai 10 mila ab. Le forme di massimo agglomeramento si hanno nell'area montuosa alpina e prealpina (villaggi e casali) e nei grossi centri rurali che caratterizzano i distretti subalpini di tipo arido (zona delle groane e delle brughiere), estesi soprattutto fra Ticino e Adda; forme miste con popolazione in parte accentrata in piccoli borghi compatti, in parte raccolta in villaggi e casali, o disseminata nelle case isolate sui fondi, dominano la fascia pedemontana che scende al Po, di cui la porzione lombarda si può dir tipica per lo sviluppo della corte che la caratterizza fin quasi al Mincio.
Il compartimento conta (cens. 1931) 194 centri comunali con popolazione superiore ai 5 mila ab. (per 3/10 appartenenti alla sola provincia di Milano) distribuiti per lo più nella regione dell'alta pianura asciutta, allo sbocco delle maggiori valli alpine e attorno alle città più popolose. Dei capoluoghi di provincia, uno (Milano) supera il milione di abit., uno i 100 mila (Brescia); quattro (Bergamo, Como, Cremona e Pavia) hanno una popolazione di più di 50 mila abitanti, due (Mantova e Varese) compresa fra i 25 e i 50, ed uno (Sondrio) di poco superiore ai 10 mila. Più che 50 mila abitanti conta anche Monza, più che 25 Lecco, Legnano, Lodi, Sesto S. Giovanni, Vigevano, Voghera, Busto Arsizio e Gallarate.
Bibl.: La bibliografia geografica relativa alla Lombardia è copiosissima, ma volta a illustrare piuttosto le parti che l'insieme. Qui si ricordano solo gli scritti che hanno interesse generale; fra questi conservano ancora valore opere di vecchia data, che non sempre è facile sostituire con trattazioni recenti. Cfr.: C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844; Dizionario corografico della Lombardia, Milano 1854; G. Frattini, Storia e statistica delle industrie manifatturiere in Lombardia, Milano 1856; S. Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia, Milano 1857; A. Brenna e C. Cantù, Grande illustrazione del Lombardo-Veneto, Milano 1858-61; Atti della giunta per l'inchiesta agraria, IV: Relazione sulla Lombardia, Roma 1882; G. Chiesi, Illustrazione delle provincie di Milano, Como, Sondrio, Bergamo, Brescia, Cremona e Mantova, in La Patria, di G. Strafforello, Torino 1894-99; L. V. Bertarelli, Guida itineraria dell'Italia, Milano 1904 (la quinta, ultima edizione della Guida d'Italia del T. C. I., in cui alla Lombardia è dedicato un volume apposito, porta la data del 1930); Ville e castelli d'Italia: Lombardia e laghi, Milano 1907; A. Serpieri, Il contratto agrario e le condizioni dei contadini nell'Alto Milanese, Milano 1910; E. Hutton, The Cities of L., Londra 1912; La Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde nella evoluzione economica della regione, Milano 1923 (contiene pregevoli studî storico-economici; fra questi ricordiamo: R. Ciasca, L'evoluzione economica della Lombardia dagli inizî del sec. XIX al 1860, pp. 341-405; G. Luzzatto, L'evoluzione economica della Lombardia dal 1860 al 1922, pp. 449-526; C. Gini e M. Boldrini, L'importanza della Lombardia nel Regno d'Italia dalla costituzione di questo fino ai nostri giorni, illustrata sulla base di alcuni indici statistici, pp. 547-67); H. Luigley, Lombardia, Tyrol and Trentino, Londra 1925; E. Hutton, Milan and Lombardia, Londra 1925; G. B. Rossi, Milano e la Lombardia antichi e moderni, Torino 1925; P. Albertario, Aspetti e problemi dell'economia italiana: la valutazione della produzione lorda dell'agricoltura lombarda considerata nei due quinquenni 1910-14 e 1920-24, in Giornale degli economisti, XLI (1926), pp. 672-91; Federaz. Alpinist. Ital., Itinerarî d'ascensioni, Milano 1926; A. Bianchini, L'agricoltura in provincia di Pavia e la battaglia del grano, Pavia 1927; K. Frenzel, Beiträge zur Landschaftskunde der westlichen Lomb. mit landeskundlichen Ergänzungen, in Mitteil. der geogr. Gesells. Hamburg, XXXVIII (1927), pp. 217-373; G. Graziani e S. Grande, Lombardia col Canton Ticino, Torino 1927; G. Dainelli e N. Tarchiani, Lombardia, Ed. Itinerari Automobilistici d'Italia, Firenze 1927; Atti del X Congresso geografico italiano, Guida delle escursioni, Milano 1927; P. Torelli, Un comune cittadino in territorio ad economia agricola, Mantova 1930; G. B. Cacciamalli, Morfogenesi delle Prealpi lombarde, Brescia 1930; O. Stolz, Studio sulle condizioni economico-agrarie della provincia di Sondrio, Vicenza 1931; P. Albertario, I resultati delle irrigazioni lombarde in base alle stime catastali, Roma 1931; G. Medici, Monografia economico-agraria dell'Oltrepò pavese, Pavia 1932; D. Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1931.
Interesse più che locale hanno alcune delle recenti relazioni a stampa dei Consigli Provinciali dell'Economia. Quella a cura della Camera di Commercio e Industria di Brescia (1927) è una completa illustrazione di larga parte del territorio lombardo.
Folklore.
Le tradizioni più caratteristiche sono nella parte alpina della regione, ove nelle "stufe" a veglia, giovani e vecchi ripetono le antiche leggende dei cavalieri, dei re e delle regine (Teodolinda, la buona; Rosmunda, la cattiva), o i paurosi racconti delle "anime confinate" sulle cime dei monti, delle "vaine" (spiriti) rotolanti per le rupi, dei cagnôlitt, che guaiscono e mordono come cani.
Il Natale è celebrato quasi ovunque col ciocco, che in qualche luogo si accende in pubblico, come un tempo a Milano; il carnevale e il carnevalone del rito ambrosiano (v. carnevale, IX, p. 98) sono celebrati coi falò, specie nella Val d'Ossola; la Quaresima con la cerimonia della "Segavecchia"; il ritorno del maggio con "l'Albero novello" che le fanciulle di Oltrona (Lago di Varze) nella prima domenica del mese portano in trionfo di soglia in soglia. In molti paesi gli sposi novelli devono varcare, pagando un pedaggio convenzionale, la "serra", specie se lo sposo è forestiero; comuni sono pure il trasporto della scirpa (corredo) entro cesti (Ossola) o su carri; la richiesta della fanciulla mediante linguaggio figurato; il rito della falsa sposa (Valtellina); l'impagliata (paiada imputa) che si 1ª spargendo pula di riso sulla porta della sposa abbandonata; la ciocada (v. batterella) per i vedovi.
Bibl.: O. Braggio, Folklore ossolano, in Illustrazione Ossolana, 1912; G. Rosa, Dialetti, costumi e tradiz. delle prov. di Bergamo e Brescia, Brescia 1872; E. Filippini, La festa dei canestri a Menaggio, in Rivista trad. popol., 1894; A. Visconti, I Lombardi, Milano s. a.; M. Azzoni-Storti, Alcune trad. cremonesi, Cremona 1925; inoltre G. Pitrè, Bibl. trad. pop. d'Italia, Torino 1894.
Dialetti.
I dialetti lombardi si possono dividere in due zone: una occidentale e l'altra orientale, linea di confine fra l'una e l'altra è il corso dell'Adda. La prima zona include, oltre i dialetti di Milano, Como, Sondrio, ecc., quelli della Svizzera italiana (Canton Ticino; Mesolcina, Val Calanca, Bregaglia e Poschiavo nei Grigioni) e si estende fino alle varietà settentrionali della provincia di Pavia (v. emilia: Dialetti). Della seconda zona (Bergamo, Brescia, Cremona) fanno parte i dialetti delle Giudicarie e di Trento, Vezzano, Pergine, Levico, dove è però vivace l'influsso veneto (v. venezia tridentina). La zona occidentale può essere suddivisa in meridionale (dialetti della pianura e delle Prealpi) e settentrionale (dialetti alpini nella sezione alta della Toce, del Ticino e dell'Adda, dove è notevole l'elemento ladino). Le varietà parlate nella sezione orientale e occidentale della pianura si designano col nome di lombardo comune.
Un tratto tipico che valga a differenziare il lombardo comune dagli altri dialetti settentrionali o gallo-italici, o, anche, italo-galloladini (v. italia: Lingua e dialetti), non esiste. Si può, tuttavia, mettere in vedetta, con le dovute riserve, il fenomeno, per cui il latino ct- volge a ć (p. es. fać "fatto", lać "latte" ecc .), che è caratteristicamente lombardo, ignoto però a dialetti alpini (Bormio, e Poschiavo), dove è rimasto alla fase jt- come in piemontese, e sopraffatto ormai dallo sviluppo letterario (ed emiliano-veneto): t. Invece, il lombardo partecipa, com'è naturale, alla fonetica e alla morfologia e sintassi degli altri dialetti del sistema settentrionale, in varia misura. Così, ha lo scempiamento delle consonanti geminate, la sonorizzazione delle sorde intervocaliche (röda "ruota"), il palatalizzamento dell'ū in ü e il suono ö (monottongazione di uo, ue da ï, lat. ŏ), la caduta delle vocali atone finali, salvo -a (ed -œ), la scomparsa di -d- intervocalico, lo sviluppo di z (e poi s) dal c dinnanzi a e ed i (sima "cima"), il velarizzamento di -n- intervocalico dopo vocale accentata (per es. laṅa "lana", maṅ, quindi mã "mano"), la risoluzione dei nessi pl, bl, fl, cl, gl, a pj, bj, fj, kj, øj donde poi, per alcuni di questi nessi, una riduzione palatale (per es. ćamá "chiamare", ǵanda "ghianda", ecc.), la metafonesi di -ī, per cui è ed î si riducono a i e u (per es., quest, plur. quist; cavél, plur. caví "capelli"), fenomeno di cui restano ancora alcune vestigia, mentre fu gagliardo nel passato e vive tuttora vegeto nei dialetti alpini, dove l'influsso si estende ad a, é, ï (per es. sold; söld; cor; cör, ecc. in Valmaggia, ecc.). Sono, questi, fenomeni antichi, che avevano già avuto luogo ai tempi di Bonvesin de la Riva, quando si venne costituendo in Lombardia una sorta di idioma illustre nobilitato o itafianizzato, vinto in processo di tempo dal toscano o dalla lingua letteraria.
I dialetti alpini lombardi conservano fenomeni che ormai sono scomparsi nel lombardo comune, come lo sviluppo di ö da ö, soltanto quando la finale sia lat. -i o -u (fjöl "figliuolo", ma femminile fjòla o fjòra "figliuola"). L'estensione di ö a casi di finale diversa da -i e -u si era già effettuata al tempo di Bonvesin. Abbiamo già notato che -jt- da -ct- si trova ancora in dialetti alpini. Pare che la risposta per u (e non per ü) che si ha per il lat. ū in alcuni di questi dialetti (Bormio, Mesolcina, Onsernone, Sottoceneri, parte del Malcantone e della Valle Capriasca) sia una ricostruzione, anziché una conservazione della fase latina. Sono caratteri proprî delle varietà alpine: la palatalizzazione delle velari in condizioni determinate (per es. ćamp "campo", ǵat "gatto"), lo sviluppo di a libero in e (per es. levent. éra "ala"), che ha propaggini in dialetti più meridionali, la sibilante linguale è da c, davanti a e, i (per es. èima "cima"), ecc.
Nel lombardo comune è caratteristico della zona occidentale il fenomeno del rotacismo di -l- intervocalico, fenomeno detto "ambrosiano", per il passato assai più esteso d'oggi (per es. ara "ala", para "pala", ecc.); proprî della zona orientale: lo svolgimento di ī e ū seguiti da più d'una consonante in é e ö (per es. vést "visto", lös "luccio"), la caduta di n riuscito finale e davanti a consonante (pa "pane", ma "mano", dét "dente"), la scomparsa di v iniziale e soprattutto intervocalico (kaal "cavallo", bergam. i "vino").
Le parlate cosiddette "gallo-italiche" di Sicilia (Sperlinga, Nicosia, Piazza Armerina, Aidone; S. Fratello, Francavilla e Novara) paiono riattaccarsi a dialetti lombardi alpini, di cui rappresentano, in ogni modo, una fase antica (sec. XII).
Bibl.: C. Salvioni, Fonetica del dialetto moderno della città di Milano, Torino 1884; id., Dialetti alpini, in Lettura, I (1901); Lingua e dialetti della Svizzera italiana, in Rend. dell'Istituto lombardo, s. 2ª, XL (1907); id., Note varie sulle parlate lombardo-sicule, in Mem. del R. Ist. lomb., s. 3ª, XXI (1907); id., Osservazioni sull'ant. vocalismo milanese, in Studi... Rajna, Firenze 1911; G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916; P. E. Guarnerio, Appunti less. bregagliotti, in Rend. Ist. lomb., s. 2ª, XLI (1908); W. v. Wartburg, Zur Stellung der Bergeller Mundart, in Bündner Monatsblatt, 1919; C. Merlo, Lingue e genti d'Italia, in Genti e favelle, Milano 1932; id., Il sostrato etnico e i dial. italiani, in Italia dial., IX (1933); S. Sganzini, Le isole di u da ü nella Svizzera ital., in Italia dial., IX (1933).
Letteratura dialettale.
Per la letteratura dialettale milanese, v. milano. Gli altri dialetti lombardi del gruppo occidentale non hanno avuto una propria letteratura, avendo ceduto al prestigio di Milano. Agl'inizî, nel Cinquecento, la letteratura ticinese e la verbanese, con l'Accademia di Val di Blenio e la Badia dei facchini del Lago Maggiore, rappresentarono quella "rustica" di Milano. Il dialetto valtellinese figura in poesie oscure o d'occasione, antiche e moderne (in tempi recenti a Sondrio C. Bonadei, a Bormio G. Pedranzini). Per Como si ricordano piccoli saggi in prosa e poesia della seconda metà del Settecento, G. Rezzonico verseggiatore del secolo scorso e il vivente vecchio "Frico" (F. Piadeni). Nel Lecchese ha usato il dialetto natio misto al milanese G. Doniselli (1816-1892). Varese vanta poeti moderni: oltre G. Ganna, con una bella tradizione di famiglia Giuseppe Federico Della Chiesa (1774-1846), i nipoti Federico e Speri, quest'ultimo fra i migliori poeti meneghini viventi. Altri rimatori odierni varesini sono G. Talamone, A. Reggiori. A Lodi attirano l'attenzione la commedia Sposa Francesca (1709, altra stampa 1856) di Francesco de Lemene, e la traduzione del II canto della Gerusalemme Liberata dello stesso. Per il sec. XIX sono da ricordare G. B. Fugazza, C. Codazzi, G. Riboni; tra i viventi, G. S. Cremaschi e A. Gelmini coltivano varietà del dialetto lodigiano.
Il dialetto di Bergamo, centro del gruppo orientale lombardo, fu tra i primi e principali a essere usato in poesia, e si trova ben presto introdotto frequentemente nelle commedie e favole drammatiche italiane. G. Bressani, che lasciò fra l'altro in versi un Epitafio di Francesco Petrarca, visse nel sec. XVI. Allora fino a metà del secolo seguente fiorì la letteratura detta zannesca, facchinesca o bergamasca. Del Seicento sono notevoli anche alcune versioni da classici latini e italiani. Nel Settecento si distinsero l'abate G. Rota e G. B. Angelini, del quale ultimo rimangono pure un vocabolario bergamasco e appunti sulla letteratura della sua città. Pietro Ruggeri, da Stabello (1797-1858), è popolarissimo e meritamente apprezzato per le sue poesie ricche di schietta comicità; fiorito tra il 1880 e il 1910 è E. Trezzini, fondatore del Giopì, importante periodico dialettale. Fra i poeti più stimati d'oggi è Giacinto Gambirasio (La bisaccia del Giramondo), il quale rappresenta con immediatezza l'anima popolare ed è scrittore pensoso e malinconico. Poesie dialettali e saggi di versione della Divina Commedia ha scritto Bortolo Belotti, autore anche di varî saggi critici intorno alla letteratura locale. Esiste poi un'associazione letteraria (detta il Ducato di Piazza Pontida), che promuove lo studio delle tradizioni bergamasche e favorisce la poesia dialettale (buoni cultori G. Bonandrini, S. Locatelli-Milesi, A. Arienti, R. Avogadri, G. Mazza e molti altri). La letteratura dialettale è stata meno coltivata in Brescia. Di anonimi autori si possono ricordare una Mattinata (1554), ristampata più volte, e il dialogo in versi La massera da bè (La serva dabbene"). Nel secolo che fu propizio ovunque alla letteratura in dialetto, L. Mascheroni e C. Arici non sdegnarono di dettare poesie vernacole in fogli volanti. Molti i capricci poetici, in generale inediti; alle stampe fu data nel 1826 una raccolta di 44 sonetti, i cui argomenti P. Lottieri trasse dal Quaresimale del Segneri. Fra i cultori del dialetto, fioriti anche in Brescia dalla metà dell'Ottocento in poi, è soprattutto da ricordare Angelo Canossi, che schizza bravamente quadretti e tipi antichi e moderni della vita cittadina; egli è assai lodato per la corona di sonetti Dés zornade ("Dieci Giornate"), d'ispirazione pascarelliana. In Crema si sono avuti nel Settecento e nell'Ottocento tenui saggi poetici (F. Sanseverino, Saggio di poesie in dialetto cremasco, Milano 1838). Modernamente una certa dignità d'arte fu raggiunta da F. Pesadori che curò le sue raccolte di versi dal 1875 al 1905 (ediz. postuma, 1930); tra i viventi ricordiamo G. Stabilini. Inculto rimase in generale il dialetto di Cremona, che pur si onora dell'antico fimatore Gerardo Patechio e forse anche di Uguccione da Lodi. Si conoscono a stampa una Bosinada contro i giacobini (1800) e un mazzetto di componimenti raccolti per curiosità linguistica dal Biondelli (Saggio sui dial. gallo-italici, 1853). Nel generale rifiorire della poesia dialettale salirono in fama: M. Bellini, morto nel 1917, popolare per le sue creazioni dei Limarî, per il suo sentimento della natura e per la vena satirica sgorgante da un patriottismo anticlericale allora in voga; G. Lonati, verseggiatore tipico nel ritrarre con bonaria fedeltà i contadini della sua terra e le piccole vicende cittadine. Altri verseggiatori sono A. Cattalinich e A. Pernice.
In Pavia la letteratura dialettale prosperò particolarmente dalla metà del Settecento in poi. Sono di tale epoca la pubblicazione dell'interessante almanacco Giarlaett (1764-65, e ancora 1836) e la fondazione della poetica Accademia della Basletta, di sana indole ridanciana. Notevole la stampa di un componimento poetico in dialetto per l'elezione del rettore dell'università, P. Tamburini (1790); di particolare fama allora S. S. Capsoni (1735-96) e A. Monti (1742-1802). All'Ottocento appartengono buoni poeti: A. Cugini, nato verso il 1800; G. Bignami (1799-1873), traduttore e poeta originale; S. Carati (1794-1848), che è considerato il maggior poeta dialettale della città (pregevoli le ottave I du prim més del cholera in Pavia, 1836). In tempi più vicini, R. Rampoldi, S. Capella A. Rillosi, A. Griziotti (1860-1927), i motivi principali della cui musa sono il Ticino, la passione sportiva e la patria. Tra i viventi: Rocco Cantoni, fecondo e ispirato a egregi sensi civili; A. Ferrari, pieno di brio; F. Inzaghi, simpatico autodidatta, e fra gli appassionati e attivi M. Gennari, A. Annovazzi e altri ancora.
Copiosa e vivace la letteratura moderna di Mantova che però è linguisticamente di tipo emiliano. Si può risalire a G. M. Galeotti, del sec. XVIII, le cui poesie bernesche in dialetto rustico sono passate tradizionalmente di bocca in bocca tra i concittadini. Verseggiatori non scarsi di pregi artistici, oltre al Fiorio e al Capilupi, sono: F. Arrivabene, autore di un vocabolario mantovano e di poesie molte delle quali stampate in giornali locali e molte inedite (Bibl. comunale); dopo di lui per importanza, F. Ferretti, don D. Bertoldi, il vivente A. Nosari, che hanno pubblicato buone raccolte di versi, e molti altri (A. Panizza, E. Berni, E. Boccola, E. Recalchi, M. Martinotti, T. Buelloni, U. Marcheselli, F. Campogalliani, F. Carli). Conforme all'abbondanza dei poeti quella dei giornali dialettali mantovani, dal 1881 in poi: Mah!!, Il Mendico, Il Merlin Cocai, Il Lirone, Al Coeur, Al Bagai, La Bagolona, La Cupola d'Sant'Andrea, senza parlare dei numeri unici.
Musica popolare.
Il patrimonio musicale del popolo lombardo non è stato finora studiato in lavori speciali e modernamente condotti. Anche le varie raccolte non mostrano sufficiente severità di metodo. Questa deficienza è facilmente spiegabile nel caso del canto popolare lombardo, se si pensa alla grande e rapida diffusione, in pressoché tutta la Lombardia, della civiltà musicale che si sviluppava e prosperava nel centro milanese. La musicalità popolare lombarda ha assorbito gli spiriti e le forme della musica d'arte, stilizzandoli in modî suoi, abbastanza costanti.
Nei canti che possiamo ritenere più direttamente legati al popolo troviamo una tendenza alla linea melodica più piana e semplice, atta al canto corale per 3e, 6e, ecc. - quasi mai riccamente ornata da vocalizzi e da melismi (certo assai meno di quanto non avvenga nel canto delle regioni centro-meridionali) e svolta quasi sempre nella tonalità moderna (maggiore e minore); i modi antichi sono oggi pressoché scomparsi, e gli intervalli, raramente alterati, confermano regolarmente il giuoco delle funzioni tonali. La melodia per gradi congiunti e per piccoli intervalli è più frequente di quelle ad ampie espansioni vocali. Il ritmo, tranne rare eccezioni, anch'esso si determina con una simmetria, paragonabile a quella delle danze, che richiama quanto avviene nel Lied tedesco. Caratteri di questo cantare sono quasi sempre dolcezza e tenera malinconia, e la gioia vi appare moderata, quasi fosse già nel ricordo. Il cullarsi del canto nelle terzine (le misure più frequenti sono 6/8, 12/8 e le ternarie) e nelle simmetriche risposte di tonica e dominante, contribuiscono a tale senso di sognante, dolce abbandono. Non mancano, però, canti d'indole scherzosa, fondati più sull'elemento ritmico che sul melodico a note ribattute e accenti marcati, d'immediata derivazione dalla danza. Strumenti più usati sono il mandolino e - per l'accompagnamento della voce - la chitarra. Si usa però anche la fisarmonica.
Preistoria.
Le testimonianze della presenza dell'uomo in questa regione cominciano soltanto nei tempi geologici attuali. Nessun relitto industriale, dunque, che accenni al Paleolitico: siffatta lacuna, difficilmente spiegabile con la mancanza di ritrovamenti o l'incompiutezza delle indagini, può essere messa in rapporto con le condizioni naturali e climatiche della regione stessa durante i tempi pleistocenici, non esclusa la grande avanzata del fronte glaciale.
Per i tempi attuali si hanno invece documentazioni abbondanti della dimora dell'uomo, soprattutto fornite dalle numerose abitazioni lacustri o su palafitte, le quali dànno alla regione lombarda una fisionomia paletnologica particolare. Se l'impianto delle prime palafitte, le quali occuparono le rive di tutti i laghi subalpini dal Maggiore al Garda (escluso peraltro il Lago di Como), può supporsi avvenuto alla fine dell'età della pietra levigata, o neolitica, il massimo fiorire della loro vita si ha nell'età eneolitica e in quella successiva del bronzo. Come per il resto dell'Italia in generale, scarse o poco comprensibili sono le reliquie della pura civiltà neolitica; ma stazioni da non confondersi con le palafitticole si rintracciarono in più luoghi, nell'Isola dei Cipressi del lago di Pusiano (Como), nella Caverna del Corno presso Trescorre (Bergamo), nel "Buco del quaj" fra Iseo e Pilzone (Brescia), e soprattutto presso Seniga (Brescia). Quivi, come ad Ostiano (Cremona), furono rinvenuti "fondi di capanna" analoghi ai più cdebri scoperti dal Rosa nel Teramano e da G. Chierici nel Reggiano.
Lo studio delle palafitte lombarde s'iniziò ben presto, come conseguenza del vivo interessamento prodotto dalla prima scoperta di tali antiche dimore, avvenuta nel 1854 nel Lago di Zurigo (v. archeologia, IV, p. 26 segg.), e per l'incitamento del paletnologo francese G. De Mortillet. Si ebbero così, nel 1860, la prima scoperta della palafitta di Mercurago presso Arona fatta da Giov. Moro, e nel 1863 le ricerche sistematiche di Antonio Stoppani, che condussero alla scoperta delle palafitte del Lago di Varese e del territorio di Lecco. Negli anni seguenti le ricerche s'intensificarono per opera di una schiera di illustri studiosi, quali I. Regazzoni, P. Castelfranco, A. Angelucci, G. Ranchet, C. Marinoni, ecc., e quasi tutte le provincie lombarde rivelarono una densa e operosa civiltà, analoga genericamente a quella svoltasi nel paese classico delle palafitte, la Svizzera. I ritrovamenti più importanti avvennero, oltre che nel già nominato Lago di Varese, nei laghi di Monate, di Annone e di Varano (Como), nelle torbiere della Brianza (Bosisio e Pusiano), nella torbiera Brabbia fra Varese e Ternate, nella torbiera Lagozza (Milano), in quella di Cataragna (Brescia), nella valle del Malchetto e a Polada presso Desenzano (Brescia), presso il Lago d'Iseo, e fin nel Mantovano presso Cavriana.
Gli scavi più proficui furono quelli eseguiti nelle palafitte del Lago di Varese, dove si riconobbero ben otto stazioni, tra cui spicca quella detta dell'Isolino, conformata in modo analogo ai cosiddetti Steinberger svizzeri, cioè con mucchi di pietre deposti attorno ai pali, e riferibile per l'origine a età piuttosto antica.
I copiosi e svariati oggetti raccolti nel fondo tra i residui della palificata, benché non possano servire a determinazioni rigorose dal punto di vista cronologico, dato il naturale rimescolamento, tuttavia forniscono dati sufficienti per comporre il quadro della civiltà di queste popolazioni lacustri. Abbondantissimo il materiale siliceo e di pietra (cuspidi di frecce, teste di lance e di giavellotti, seghe, coltellini, accette di pietra verde) non dissimile da quello usato dalla civiltà cavernicola e dei "fondi di capanna"; piuttosto rozza la ceramica d'impasto e povera di forme; ben presente l'industria dell'osso (spatole, pugnali, scalpelli, frecce), soprattutto praticata con ossa di cervo, capra, bue, porco; infine, specie nelle stazioni che più hanno perdurato, è anche rappresentata la suppellettile metallica, tra cui spiccano gli ami da pesca e le frecce, denotanti come i palafitticoli lombardi fossero molto dediti alla pesca e alla caccia, oltre che all'agricoltura. Negli strati superiori dell'Isolino si rinvennero semi carbonizzati di miglio e di frumento, come pure semi di prugnolo e di sambuco, serviti certamente per la fabbricazione di bevande fermentate. Ma, benché l'industria metallica sia più o meno rappresentata, le vere palafitte lombarde sono notevoli per la loro scarsezza di oggetti di bronzo, in confronto dell'abbondanza di quelli silicei.
Quanto al rito funebre, nessun documento seriamente probativo si è potuto raccogliere; qualche indizio potrebbe far supporre che nell'età enea venisse praticata l'incinerazione. Per l'origine etnica, di fronte alla teoria di L. Pigorini, che suppone una discesa di famiglie dalla Svizzera, sta l'altra, capeggiata da E. Brizio, per cui si dovrebbe ammettere un particolare sviluppo della stessa civiltà attestata dalle abitazioni in caverne e dai "fondi di capanna".
Per l'età eneolitica propriamente detta la Lombardia orientale offre un quadro assai importante e significativo, con il grande sepolcreto a inumazione scoperto a Remedello Sotto nel Bresciano (v. eneolitica, civiltà), nel quale i vecchi paletnologi vollero scorgere l'ingresso di nuove genti. Caratterizzata dalla posizione rannicchiata del cadavere, dalla straordinaria finezza della lavorazione della selce, dalla presenza delle prime armi di rame, questa civiltà di Remedello, base agli studî fondamentali di G. A. Colini sull'età eneolitica, è presente anche nel Mantovano (tombe di Motta della Cappelletta di Cerese, Asola; necropoli di Fontanella di Casalromano). Contemporanei sono gli strati palafitticoli di Lagozza (Milano) e delle torbiere d'Iseo, e le stazioni all'aperto di Lagazzi e Ca' de' Cioss tra Vho e S. Lorenzo Guazzone nel Cremonese.
La successiva età del bronzo non segna, in generale, per la Lombardia, mutamenti nell'aspetto fondamentale della civiltà. Accanto all'ultimo sviluppo delle abitazioni lacustri si hanno importanti documenti tratti da villaggi all'aperto, soprattutto scavati nel Cremonese (Cella Dati, San Pietro in Mendicate, Calvatone), cui si rassomiglia la stazione di Demorta nel Mantovano, ritenuta in principio come una stazione di tipo intermedio fra le palafitte e i fondi di capanne. A questo tipo di abitato va anche attribuita la stazione bresciana del Castellaro di Gottolengo. Nella Lombardia bassa orientale si ha anche la penetrazione della cultura terramaricola (v. italia: Preistoria); seguendo la teoria pigoriniana si dovrebbero riconoscere vere terramare, e fra le più antiche, nel Cremonese (Ognissanti di Pieve S. Giacomo, Costa S. Caterina di Tredossi), e nel Mantovano (Sabbioneta, Cogozzo, Casale Zańanella di Viadana, Bellaguarda, Villa Cappella, Bellanda, ecc.).
All'impianto di stazioni terramaricole corrisponde la sicura presenza del rito incineratore con le necropoli di Monte Lonato (Brescia), di Pietole-Virgilio, di Commessaggio e Bellaguarda (Mantova).
Il nuovo rito è presente anche nella Lombardia occidentale con le tombe della Cattabrega di Crescenzago (Milano), appartenenti alla vera età enea, e alle quali cronologicamente si susseguono le tombe scavate nel 1888-89 presso Monza, segnanti il passaggio alla prima età del ferro che, nella Lombardia, così come nel Piemonte e fino alla Liguria, vedrà il fiorire della cosiddetta civiltà di Golasecca, con un folto di necropoli a cremazione (v. ferro, civiltà del). Il periodo di transizione al ferro ha anche un'importante documentazione nel ripostiglio di armi e strumenti trovato alla Cascina Ranza, alle porte di Milano; nonché in una tomba incontrata a Palazzo presso Cologno al Serio (Bergamo). Il contrasto, che era notevole per la pura età enea, fra le provincie orientali e quelle occidentali (dove mancano assolutamente strati analoghi alle terramare) con l'alba della civiltà protostorica si attenua.
La prima età del ferro, come d'altronde per quasi tutta l'Italia, è documentata dalle dense necropoli. Alla civiltà di Golasecca, o del Ticino, in cui il Castelfranco riconobbe due periodi, oltre alle più caratteristiche necropoli scoperte intorno al Lago Maggiore e all'inizio del Ticino, si riferiscono le tombe di Bissone (Pavia), della Cascina Scamozzina presso Albairate (Milano), della necropoli abbastanza avanzata in età di Legnano (Milano); mentre più affine alla cultura terramaricola è la necropoli di transizione al ferro scoperta a Fontanella di Casalromano (Mantova), nello stesso territorio che ha rivelato importanti vestigia funebri eneolitiche.
La prima età del ferro segna anche uno straordinario sviluppo di vita nel Comasco, col fiorire di una civiltà abbastanza ricca e che si protende verso il nord nel Canton Ticino. Non dissimile sostanzialmente da quella di Golasecca, con la quale da molti paletnologi viene accomunata, mentre qualche altro studioso la suppone emanazione di un ramo distinto di genti incineranti, essa è ormai ben nota da una numerosissima serie di necropoli esplorate a cura della Società archeologica comense, tra le quali primeggiano quelle della Valtravaglia, della Ca' Morta, di Gudo, Rebbio, Cardano, ecc. Nonostante l'intensa esplorazione, in una regione così densamente abitata, come dimostrano le necropoli, talora estesissime, non si è incontrata mai finora una traccia di villaggio.
Affine alla civiltà di Golasecca, con qualche elemento penetratovi dalla grande civiltà di Este, questa cultura del Comasco e del Ticinese, verso la metà del millennio, mostra, benché debolmente, qualche influsso dovuto alla penetrazione commerciale dell'Etruria. Alcune tombe più recenti (p. es. di Rebbio, della Ca' Morta), nello stesso periodo di tempo, mostrano anche i segni precursori del grande mutamento culturale che si produrrà dopo il 400 a. C. con l'invasione gallica, destinata a imprimere una ben diversa fisionomia alla regione lombarda.
Bibl.: E. Brizio, Epoca preistorica, in Storia politica d'Italia, Milano s. a., p. xliv-xlvii; T. E. Peet, The stone a. bronze Ages in Italy, ecc., Oxford 1909, pp. 289-330; R. Munro, Palaeolith. Man a. Terramara settlem., ecc., Edimburgo 1912, pp. 346-397; L. Pigorini, Preistoria, in Cinquanta anni di storia ital., Roma 1911, passim; G. Patroni, in Bullett. Paletnologia ital., XXXIV (1908), pp. 81, 192; XLVI (1926), pp. 18-37; Notizie scavi, 1923, p. 117 segg.; G. Baserga, Osservaz. sopra la 1ª età del ferro nel Comasco, in Rivista archeologica prov. Como, 1928, pp. 6-19.
Storia.
La regione non ebbe fisionomia propria né autonomia politica e amministrativa nell'età romana: fece parte geograficamente della Gallia Cisalpina e, con la divisione augustea, appartenne per la parte orientale alla Venetia e, per quella occidentale, alla Transpadana. Il confine era segnato a un dipresso dal corso dell'Oglio.
Quando Odoacre è acclamato re dagli Eruli (476 d. C.), in Pavia da lui espugnata, i centri urbani della vecchia Insubria sono decaduti; e anche Milano, che il poeta Ausonio esaltava non meno bella e non meno ricca di Roma, vive nell'ombra. La pianura padana è divenuta terra di confisca per la colonizzazione barbarica: prima gli Eruli, poi i Goti di Teodorico. Battuto da Teodorico sulle rive dell'Adda, Odoacre riparò a Ravenna ove fu ucciso. La Lombardia (per usare un nome ancora improprio) cadde sotto il dominio dei Goti. La guerra greco-gotica fu rovinosa per la Lombardia: Milano accolse i profughi delle campagne, sì che Uraia, apertasi una breccia dopo eroica resistenza (539), poté far vendetta sopra 300.000 persone (Procopio). La città rimase in preda a tale spavento, che ognuno ripeteva "non est iam causa vivendi" e fu necessario un appello magnanimo di Massimo, vescovo di Torino, per richiamare i superstiti alla fede nella continuità della vita e nel lavoro. Narsete risanò molte piaghe; ma il governo bizantino fu di cattiva memoria: l'alta pressione tributaria, l'avidità dei funzionarî, una pestilenza, una carestia e lo scisma dei Tre capitoli disseminarono sì gravi malcontenti, che forse fu vendetta di popolo la leggenda che Narsete sollecitasse i Longobardi a invadere la penisola. Solo i capi militari e le chiese arricchirono; e i vescovi ebbero parte nell'esercizio delle funzioni civili; alcuni, fra questi il vescovo di Milano, tenendo per l'Oriente contro Roma nelle controversie dogmatiche, con aspirazioni d'autonomia. Il torrente longobardo sommerse quasi per intero la pianura padana, restando immuni le coste e Padova, Monselice, Mantova; e la conquista dilatò verso il sud.
"Italia Longobarda" fu tutto il regno di Alboino. Solo nel sec. VII il nome si localizza al nord, nella regione prima detta Liguria, poi Neustria sino al fiume Adda, e corrispondente ai centri di attività e stanziamento degli ultimi barbari. Un diploma di Dagoberto (30 luglio 629) accenna per la prima volta all'uso di "Langobardia" nella nuova significazione.
Triste la condizione dei vinti: o uccisi, o spogliati, o costretti, se proprietarî di terre, a cedere il terzo dei frutti. La Lombardia rimase senza difesa. Inerti i Bizantini. Fugge il metropolita, che ripara a Genova; dei nobili alcuni si salvano lungo le coste; dei coloni, buon numero nelle valli a nord dei laghi: i maestri comacini si raccolgono sull'isola omonima. Solo Pavia oppone una forte resistenza. Assediata da Alboino si arrende dopo tre anni e diviene il centro della monarchia, preferita a Milano per i suoi mezzi di difesa e di viabilità fluviale. Lo stato di rapina e di violenza personale s'inasprì sotto Clefi; ancor più, durante il decennio d'interregno (574-584) i 35 duchi, che erano solo comandanti militari, si divisero le terre conquistate e ne divennero i governatori. Restaurata la monarchia, le spese di corte gravarono sui nobilì nuovamente taglieggiati. Ma ora comincia l'opera di sistemazione. Nelle campagne i vinti ricorsero a colture intensive per compensare le perdite subite. Nelle città, ripopolate dai Longobardi, un maggiore affiatamento spirituale dal giorno in cui il barbaro convertito si trovò a pregare nella stessa chiesa del vinto romano. La chiesa ambrosiana, ricuperato il suo vescovo (645) e non più scismatica, allargò la sua sfera d'azione, coadiuvata dagli stessi Longobardi fondatori e promotori di opere pie: la chiesa di S. Giovanni in Monza, di S. Pietro in Civate, di S. Pietro in Ciel d'Oro a Pavia, il monastero di S. Giulia in Brescia e di S. Colombano in Bobbio. E con la fede cattolica acquista importanza Milano che getta un po' nell'ombra Pavia focolare di arianesimo, che resiste per amore di superiorità; e sale anche Monza, residenza prediletta di Teodolinda, la collaboratrice di Gregorio Magno. Ma quando Astolfo riprende una politica di guerra, Pavia accoglie il re che fugge sotto l'irrompere dei Franchi invocati proprio dalla Chiesa. Poco dopo nella stessa Pavia (774) l'ultimo re, Desiderio, si arrendeva a Carlo. I Longobardi non scomparvero: mutarono il re. A essi si unirono alcune migliaia di guerrieri franchi, nuovo contributo all'aristocrazia feudale. Così, dice il Verri, si videro tre nazioni distinte naturalizzate nella Lombardia, professando ciascuno di vivere con le leggi della propria origine. Pavia continuò capitale. Carlo Magno rispettò la divisione territoriale in ducati che era in vigore presso i Longobardi, sempre poco disposti a ricevere dal monarcato un'educazione politica in senso unitario. Più tardi, nell'801, sostituì gradatamente i conti franchi ai duchi longobardi e organizzò il particolarismo vigente con il Capitolare italicum.
Nell'888, quando l'Italia si staccò dall'Impero carolingio, la Neustria, che era un ducato solo, si sdoppiò in due marche: d'Ivrea fino al Ticino; di Lombardia (poi Milanese) fra il Ticino, il Sarca-Mincio, le Alpi e le sorgenti Panaro-Trebbia, ridotta poi nel 950 fra le Alpi, il Ticino, il Po, l'Oglio. Entro la marca fiorivano i comitati di Milano (con Como), Pavia, Seprio, Bergamo, Lodi, Cremona, Brescia, Mantova, Piacenza, Parma, Reggio, Modena. La città quindi, col suo territorio, rimane la base della circoscrizione politico-amministrativa; è la sede del conte, con autorità civile militare, e giudiziaria, sino a che il vescovo non lo moverà di seggio.
Il che è imminente. Ampie immunità alle chiese su molti beni le fanno partecipi della giurisdizione comitale. Berengario, che concede al vescovo di Bergamo il governo della città e la facoltà di riparare le mura e di provvedere alla difesa contro gli Ungari - concessione ripetuta per le chiese di Cremona, di Como, di Pavia, di Vercelli, ecc. - dà il colore del tempo. I feudi maggiori appartengono alla Chiesa ambrosiana: degno di ricordo il paese di Campione. Il suo vescovo è la persona politica più importante della Lombardia; indice di un nuovo ordine è Ansperto, che, di volere proprio, restaura le mura di Milano e afferma contro il papa Giovanni VIII la sua preminenza di metropolita. Ormai è la Chiesa che possiede funzioni direttive, e Ottone le riconosce e le incoraggia, quando, sceso in Italia per mettere fine all'anarchia dei conti-re e cinta in Milano la corona ferrea (961), sente il bisogno di cercare nel clero un punto d'appoggio contro la feudalità laica. La Lombardia è legata alla Germania. La cultura è progredita con orientamento classico-laicale. Già il Capitolare olonese (825) aveva istituito scuole di stato, non più vescovili, in ogni centro ragguardevole.
La lotta ora è fra due tipi di poteri, vescovile e popolare. Milano è al suo primo campo di esperienza. Pavia fa eccezione: centro politico e militare barbarico, sede permanente del Sacro Palazzo, con una piccola feudalità assai numerosa, è il centro di resistenza alla coalizione imperiale vescovile e di difesa dell'aristocrazia laica che sta per essere isolata. Con la casa di Sassonia aumentano i benefici immunitarî e le donazioni di terre alla Chiesa, il cui potere si estende spesso per più miglia fuori la città; la Chiesa di Lodi comanda fino a 7 miglia oltre le mura; quella di Cremona arriva alle sponde dell'Adda; Como comprende il comitato di Bellinzona, parte di quello di Lecco, le chiuse e i ponti di Chiavenna. Ampiezza di dominio che degenera in soprusi, violenze e in un piccolo nepotismo. Ma allora interviene il popolo e acquista una prima coscienza delle sue forze. Ora è Milano che insorge contro il vescovo Landolfo, lo caccia di sede, lo costringe a patti (933). Poco dopo è Cremona che spoglia il vescovo Olderico e l'alto clero dei loro beni e non risparmia i valvassori laici soggetti alla chiesa (1027). Il Comune è alle porte. E non lo arrestano né il tentativo di restaurazione regia per opera di Arduino, che si appoggia al partito pavese, rappresentando senza fortuna la coalizione antitedesca dei malcontenti feudali; né la politica dell'arcivescovo milanese Ariberto d'Intimiano (v.) che si schiera ora coi nobili ora coi popolani, perdendo gli uni e gli altri. Arduino chiude il ciclo dei feudatarî-re; Ariberto il ciclo della dittatura vescovile. Dell'uno restò come vivo ricordo la sommossa di Pavia contro i soldati dell'Impero, e la distruzione del palazzo regio; dell'altro il carroccio simbolo della resistenza popolare.
Le forze nuove affiorano dagli strati minori, con tendenza a prorompere da quelli sempre più bassi. In questa lotta contro la casa sassone, i piccoli vassalli hanno ottenuto di essere parificati ai grandi (1037); essi figurano come gli ultimi alleati dell'Impero: ma quando prendono a tiranneggiare il popolo, questo rompe a tumulto e trova un capo in un patrizio, Lanzone; la lotta è violentissima e si svolge ora contro tutta la feudalità, di ogni grado e colore; i nobili escono da Milano per indurla a capitolare con un assedio; anche Ariberto li segue; la resistenza dura tre anni (1042-1045): si chiude con la conciliazione delle parti, ossia con l'avvento di un governo in comune, nel quale entrano, per un patto di natura privata, i varî ordini dei cittadini. Milano ha dato il segnale dei nuovi tempi; le altre città la seguono un po' a distanza. Ma l'esito è uguale dovunque: al principio gerarchico si sostituisce il principio associativo; l'apparire dei consoli indica il fatto compiuto. Talvolta il passaggio avviene pacificamente: a Bergamo i "boni homines", da ricche famiglie mercantili, prendono parte al governo in comune col vescovo (1080); ivi pure nel 1118 compaiono i consoli; apparsi nel 1109 a Como; a Cremona già nel 1101.
E quasi dovunque, nella Lombardia del sec. XI, al dramma politico si associa il dramma religioso, e la nuova costituzione è illuminata da un pensiero che per lo più attinge ai primi tempi della Chiesa. L'esercizio temporale aveva distolto dalle cure del santuario. I pastori di anime erano macchiati di simonia e di concubinaggio. I capitanei e valvassori "venditores ecclesiarum" erano gli alleati e i complici. In questa società doveva incontrare favore il moto eretico che, fiorente in Europa, mandava le sue diramazioni nella Val Padana lungo i valichi alpini, tante volte percorsi dai Lombardi, già arbitri del commercio europeo. Centro naturale dell'eresia fu Milano perché il clero vi si contava "come la sabbia del mare" (Bonizone); un proverbio del tempo diceva: "Mediolanum in clericis, Papia in deliciis, Roma in artificiis". Tessitori di lana, armaioli, orefici, ecc., insieme con i mercanti e con il clero povero, oppugnano le credenze e i costumi dell'alto clero e della classe aristocraica. Moto di popolo questo dei patarini (v.); e culmina su nel papato a cui assurge un uomo delle stesse tendenze, il monaco Ildebrando, che aiuta Milano a sfrondare i poteri della sua chiesa, togliendole Como che incorpora nel patriarcato di Aquileia. Cadevano alcuni diritti metropolitici mentre cadeva il prestigio dei vescovi nell'ordine civile e morale.
Il comune entra in una fase di azione; prima la città s'integra con l'acquisto del contado; poi le maggiori si rovesciano sulle minori, talvolta con impeto di distruzione. Lodi scompare sotto la violenza di Milano; Como è salva dopo una guerra di dieci anni, ma pagando un tributo (1127); Cremona è contro Crema; Pavia contro Tortona, Bergamo contro Brescia. Politica di espansione razionale, che risponde, specialmente per Milano, a impulsi demografici e a necessità di mercato. In pochi anni Lodi, Cremona, Como, Vigevano e Novara, i feudatarî del Seprio e della Martesana cadono entro la sua orbita d'influenza politica e sino a che l'imperatore è distratto da altri problemi, Milano può compiere in libertà quest'opera di coordinamento delle forze periferiche, che rappresenta una prima sistemazione della nazionalità italiana entro le sue possibilità regionali. Ma con l'avvento di Federico I (1152) la tutela dei diritti imperiali sull'Italia diventa il problema centrale della Germania. I rancori provocati da Milano fanno credere al Barbarossa che la parte offesa gli sarà di certo aiuto nella propria opera di rivendicazione. E in un primo tempo è così. Milano viene demolita dal piccone tedesco e con l'aiuto di Lodigiani, Pavesi e Comaschi. Ma tosto la visione del comune pericolo assopisce la rivalità di ieri e a una prima Lega veronese fa seguito la Lega lombarda, che poi si salda con la prima. Milano, risorta dalle sue ceneri, è l'anima di queste coalizioni, nelle quali entrano anche le città che essa aveva più duramente colpite, come la nuova Lodi. Legnano è la Valmy lombarda del Medioevo (1176).
La pace di Costanza, in accordo fra comune e Chiesa, detta le condizioni della vita futura. Il comune tornato libero scioglie le leghe e ricade in balia delle proprie forze. Riaffiorano i vecchi contrasti di classe. Il comune tende ad allargare le sue basi politiche. Ogni ceto si costituisce in società separata con proprî consigli o credenze; anche il "populus" ha le proprie (di S. Ambrogio a Milano, di S. Faustino a Brescia, ecc.). L'irrompere delle fazioni conduce al restringersi dei poteri in forme dispotiche temporanee: dal console al podestà forestiero, preludio al signore. Riarde la fiamma eretica. Le città lombarde sono sede di concilî valdesi; a Milano si contano 15 sette diverse. Gli Umiliati però non discutono, ma lavorano di lena. Tutti sono intenti a dir male del papato. Milano sembra l'Antiroma. Questi contrasti indeboliscono la seconda Lega lombarda contro il rinnovarsi del pericolo germanico Federico II riprende il programma dell'avo; ma Cortenova (1237), dove i comuni sono battuti, non è la rivincita di Legnano. Posteriori rovesci costringono l'imperatore a levare il campo, e il comune ritorna in dominio delle fazioni. Consoli di diversi partiti; assemblee di varie organizzazioni; nuova sovranità arbitraria, il capitano del popolo; forze guelfe e forze ghibelline. In ogni comune preponderano due famiglie rivali del potere. A Pavia i Beccaria e i Langosco; a Novara i Torricelli e i Cavalazzi; a Vercelli gli Avvocati e i Tizzoni; a Bergamo i Colleoni e i Suardi; a Lodi i Vignati e i Vistarini; a Como i Rusca e i Vitani. Decisiva, fra tutte, la lotta dei Visconti con i Torriani; questi ultimi di parte guelfa e popolare.
È ora che Milano, sotto una magistratura dispotica, compia l'opera fallita al primo comune. Una convenzione stipulata col Barbarossa (11 febbraio 1185) definiva i suoi diritti sovrani: sulla diocesi, sopra le contee di Seprio, di Martesana, di Burgaria, di Lecco, di Angera, su territorî oltre l'Adda (la Giaradadda), e del versante opposto oltre il Lago Maggior. Erano esenti i feudi: vastissimi quelli ecclesiastici: il metropolita possedeva la rocca di Angera, Arona, ecc.; il capitolo del duomo aveva in feudo Carimate, Melzo, Brivio, Porlezza, la Valsolda, la Valle Leventina, ecc. Era dunque naturale che Milano, nel correggere le anormalità dei suoi confini giurisdizionali, fosse condotta a una più ampia opera.
I Visconti ne sono gli artefici. La cattura di Napo della Torre (11 gennaio 1277) inizia la loro fortuna, che ha una prima sanzione ufficiale nella nomina di Matteo Visconti - conferitagli da Adolfo di Nassau - a vicario imperiale su tutta la Lombardia (1294). Matteo comanda a 11 città: Milano, Como, Bergamo, Lodi, Cremona, Piacenza, Pavia, Novara, Tortona, Vercelli, Alessandria. La conquista procede sicura, sebbene contrastata da parziali successi politici di Guido della Torre; e la prosegue Luchino che ha dominio su 18 città; Giovanni su 22. Azzone consolida il novello stato respingendo gli attacchi di Ludovico il Bavaro (1329). Milano si popola e si abbellisce; Bonvesin da Riva vi conta 200.000 anime. Il nome di Azzone diventa popolare; nella seduta del 15 marzo 1330 il Consiglio generale gli conferisce il titolo di "domus generalis" con la facoltà di fare leggi e statuti in nome del comune. La democrazia è finita. Ma l'opera viscontea risponde a un interesse generale, non di un solo partito. La signoria segue le direttive del commercio e tende al mare. La Lombardia, complesso di forze economiche viventi in funzione di una maggiore unità geografica, rompe le barriere del particolarismo feudale e crea le basi di un grande stato. Genova, occupata nel 1353, è perduta nel 1356. Bologna aprirà le vie dell'Adriatico: comperata nel 1350 dall'arcivescovo Giovanni, suscita l'opposizione della Chiesa che la fa riprendere dall'Albornoz. Ma Bernabò ne fa la meta della sua politica e tenta di avere la direzione di una lega italiana contro gli stranieri, per farsi strada nella penisola. Il piano fallisce. Lo ritenta Gian Galeazzo: creato da Venceslao duca di Lombardia, domina dalla vetta delle Alpi centrali fino a Bologna, da Alessandria a Belluno. L'opinione pubblica lo assiste, eccitata da un senso di grandezza: signorilità di corte, di relazioni diplomatiche, di cultura, di arte, di edifici, di chiese, di centri di studio: soprattutto maggiore unità di esistenza politica e più forte azione dell'economia lombarda sopra l'economia europea. Un coro di voci adulatorie parla di un regno d'Italia, e Gian Galeazzo risponde con l'assedio di Firenze, la rocca forte del guelfismo. Ma il caso gli spezza, con la vita, la spada.
I nemici irrompono violenti: il ducato va tutto a pezzi. Ricomposto in parte dal figlio Filippo Maria, non può resistere agli assalti di una triplice lega Venezia-Firenze-Genova. Allora si ridestano le forze centrifughe rianimate dalla guerra, e alla repubblica ambrosiana fa eco la repubblica di S. Abbondio. Il particolarismo trionfa: ne approfitta Venezia che avanza verso Milano, sì che l'opera accortamente riparatrice di Francesco Sforza più che imposta è desiderata. Il vecchio ducato risorge dalla Sesia all'Adda, toccando Bobbio, Piacenza, Parma, Genova, Savona. La pace di Lodi che sembra metter fine al disordine vuol essere pace italiana: non più egemonia, ma equilibrio; fallita l'unità, almeno il patto federale. Sulla potenza della nuova dinastia splende la luce di una nuova rinascenza artistica. Milano raggiunge 300.000 abitanti. Le altre città partecipano al suo benessere. La loro edilizia si rinnova. Ma l'ascesa è finita. Il figlio di Francesco, Galeazzo Maria Sforza, segna il declino. Tiranno, è spento in una congiura; discordie di famiglia agitano la successione astutamente carpita da Ludovico il Moro, terzogenito di Francesco Sforza, che però del mal acquisto sa usare con intelligente vigore. La Lombardia ha un ultimo momento di grandezza. Ma Ludovico non riesce a sopprimere le difficoltà derivate dalla sua origine violenta. Crede di superarle con l'aiuto straniero, che invece è funesto alla sua casa e al suo stato. Dopo molte avventure egli finisce prigioniero nel castello di Loches: la Lombardia è preda di Francia e Spagna.
In Europa si fa strada l'idea che per avere l'Italia bisogna avere Milano: "La entrada para toda Italia es Milán" (Mendoza). La Lombardia diviene la meta agognata per chi vuole avere l'egemonia sul Mediterraneo. Il regime di servitù durerà fino al 1859. Lo inaugura Luigi XII il 6 ottobre 1499. E subito dopo scoppia un periodo di guerre e di torbidi, d'improvvise risorse e ricadute: i 60 giorni di Ludovico il Moro, la lega di Giulio II, l'intervento svizzero, le parentesi sforzesche, le avventure di Francesco I, la congiura del Morone, carestie e pestilenze; l'esito conclusivo è che la Lombardia per 179 anni resta legata a Madrid.
Gravi le perdite: Cremona e la Ghiaradadda passate a Venezia (dal 1500); la Valtellina ai Grigioni (1512); Bellinzona alla Svizzera (12 aprile 1503), come i baliaggi del Ticino al di qua delle Alpi (Locarno, Valmaggia, Lugano, Mendrisio) dal 1516; l'Oltrepò piacentino ai Farnesi.
Si chiude un'epoca della storia lombarda: cessano le guerre interne, ma anche il suo processo autonomo: l'iniziativa politica è alle grandi potenze; il commercio ha fuori patria le sue leve di comando; l'attività manifatturiera è soggetta a disposizioni dall'estero, declina anche il maggiore prodotto lombardo, sebbene ultimo in ordine di tempo, perché il mercato di Lione infligge gravi colpi al commercio della seta e favorisce l'emigrazione degli operai che diventano i maestri dell'Europa. Pregiudizî spagnoleschi distolgono gli alti ceti dalle loro tradizioni di lavoro; una legislazione caotica in materia economica disorienta la produzione e lo scambio; non vi è giustizia nel sistema tributario; il fiscalismo non risparmia neppure i vecchi privilegi ecclesiastici, determinando infinite contese di giurisdizione e disordini popolari. I poveri sudditi non hanno che il respiro "esente dagli agravi" (ricorso a Madrid del 1690). I rigori della controriforma oscurano il senso della vita e della fede. Da porre in attivo: la politica dei passi alpini, che per la Spagna significava sicurezza di allacciamenti militari con la Germania e per proprì fini, specie nella Valtellina soggetta ai Grigioni; la fortificazione delle città con bastioni e nuove cinte di mura; la resistenza dei corpi civici al dispotismo di Madrid; l'attività del senato (istituito da Luigi XII) nel campo del diritto, e del magistrato per l'industria (istituito da Francesco Sforza) nel campo economico; le provvidenze di S. Carlo; gl'impulsi culturali di Federico Borromeo; le opere pie del patriziato.
La guerra di successione spagnola sostituisce Vienna a Madrid nel governo della Lombardia, che si aggrega il ducato di Mantova (1714). Nel cozzo fra Asburgo e Borboni, che dura sino al 1748, si fa avanti il Piemonte che aspira a formare con le terre di qua dal Ticino un grande stato; ma il sogno audace vive una breve realtà nella persona di Carlo Emanuele III (1733-36), che riesce però a impadronirsi di Alessandria, Casale, Vercelli, Novara: Pavia, staccata così da tutte queste terre per lei di vitale importanza economica, risente grave danno da tale fatto: ma è danno peraltro benefico, perché grazie a esso viene posto in chiaro quanto profondi siano i nessi economici fra i paesi situati di qua e quelli di là dal Ticino, e divisi da una frontiera politica che apparirà sempre più onerosa. Con la pace di Vienna (1738) l'Austria ritorna, e per 60 anni: in forma moderata, con Maria Teresa; violenta e dispotica con Giuseppe II: sinché Leopoldo, impaurito dai torbidi di Parigi, restaura l'antico, che era stato preso d'assalto.
Tuttavia l'Austria cade senza rimpianti: la Lombardia ha progredito lentamente: essa non ha potuto ricavare che scarse possibilità di avanzamento dalle sue forze risanate: Vienna subordinava il traffico lombardo agl'interessi di Trieste e della monarchia danubiana. Nel 1796 (15 maggio) l'esercito della Rivoluzione entrava in Milano fra il delirio dei giacobini e la diffidenza dei patrizî. Gli entusiasmi furono smorzati dai soprusi dei militari; le velleità di resistenza, dal saccheggio di Pavia (25 maggio). Campoformio lega la Lombardia alle sorti di Francia, col nome di repubblica cisalpina a cui è annessa la Valtellina, insorta contro i Grigioni. Sopraffatta dagli Austro-Russi nel 1799, risorge dopo Marengo; è ampliata e trasformata in repubblica italiana nel 1802, e in regno italico nel 1805; scompare con la sommossa popolare del 20 aprile 1814 contro G. Prina, vittima designata di una crisi economica di cui egli non era responsabile.
Fecondo periodo di storia. Libertà promessa, non permessa ai Cisalpini, limitata poi; sentimenti unitarî caldeggiati nei proclami, contrastati di fatto; la Lombardia ridotta a umile cadetta dell'impero: milizia ausiliaria di esso, colonia di sfruttamento. Però visse in mezzo a grande modernità d'idee, a fremiti di patriottismo, a lotte di partiti, a correnti d'italianità che venivano da ogni parte della penisola, e a emozioni di guerra. E contrasse l'abitudine di esaminare nazionalmente i problemi che si solevano affrontare sotto un aspetto regionalistico. I Lombardi esordirono nelle armi; profittarono di nuove arterie stradali; fecero prova di quel che sia la libertà elargita e mercanteggiata da stranieri.
Il congresso di Vienna sanzionò il dominio dell'Austria sulla Lombardia congiunta al Veneto: si apre il periodo della Restaurazione, che si sviluppa insieme con la preparazione rivoluzionaria. Il principe di Metternich deve lottare contro l'opinione patriottico-liberale, già maturata nel periodo napoleonico: ma non riesce a impedire che nel regno Lombardo-Veneto (v.), dove la burocrazia è tedesca, il commercio vincolato al monopolio viennese e la finanza soffocata dalla grave crisi austriaca, si formino vendite carbonare, logge massoniche, segreti accordi insurrezionali con altre provincie d'Italia. Né i processi del '21 evitano che la Giovine Italia inizi in Lombardia il suo apostolato popolare e Milano diventi il campo di concentrazione di tutte le forze rivoluzionarie, appoggiate dalle citta minori, mentre le valli prealpine, soprattutto quella d'Intelvi, sono il tramite della propaganda patriottica che occulta in Svizzera i suoi torchi, i suoi comitati, i suoi generali. Si scontrano la corrente unitaria e federale, la monarchica e la repubblicana; ma non ci s'indugia in soverchie ideologie. Della futura Italia è studiato il problema tecnico: strade, sbocchi al mare, navigazione fluviale, industria serica, leghe economiche, macchine agricole, ferrovie. Anche il romantico Conciliatore (1818), sorto con orizzonte letterario, tosto lo allarga a questioni pratiche: mutuo insegnamento, battelli a vapore, illuminazione a gas. L'Istituto lombardo di scienze e lettere prosegue questa alleanza delle lettere con la politica, come la proseguono il Politecnico del Cattaneo e il Crepuscolo del Correnti. Contributi al movimento vengon da tutti i ceti: nobiltà fatta industre e cospiratrice; borghesia sensibile a interessi culturali e scientifici (Milano 1844: VI Congresso degli scienziati italiani); plebe che prende parte a ogni attività politica. Nelle Cinque giornate del 1848 questo fronte unico riduce l'Austria nel quadrilatero, suscita i prodigi del volontarismo di guerra, che veste camicia rossa a Morazzone e a Luino, e le epiche resistenze di Brescia e di Venezia. L'armistizio di Salasco annulla il voto di annessione della Lombardia e del Veneto al regno di Sardegna, e Novara riconferma il ritorno di Radetzky a Milano. Il decennio che segue è diviso in due periodi ben distinti dall'insurrezione del 6 febbraio 1853 in Milano: quello precedente è dominato dal Mazzini e quindi da congiure, tentativi isolati, accordi coi profughi del Canton Ticino: il popolo continua la tradizione del '48 e offre con Amatore (Antonio) Sciesa il sacrificio dei suoi più umili ma più puri eroi, seguito da condanne a morte di parecchi altri artigiani, non meno numerose che quelle sentenziate dai processi di Mantova; il periodo seguente, di orientamento unanime verso la soluzione piemontese del problema italiano, è dominato dal Cavour che, nel difendere gli emigrati politici lombardi di cui l'Austria sequestra i beni, inizia il duello diplomatico col governo di Vienna. Dopo l'epilogo vittorioso del '59 la storia della Lombardia si confonde con quella del regno d'Italia.
Bibl.: Oltre le opere fondamentali di Giorgio Giulini, P. Verri, A. Fumagalli, A. F. Frisi, C. Cattaneo, C. Cantù, U. Formentini, e, più recentemente, E. Verga, A. Colombo, A. Visconti, A. Monti, E. Rota, R. Soriga, ecc. (per cui v. milano), v. indici e annate dell'Archivio storico lombardo, della rivista La Lombardia nel Risorgimento, le pubblicazioni storiche della Famiglia Meneghina, edite a Milano, e le Conferenze di storia milanese (ed. Treves).
Arte.
Dello splendore artistico del territorio lombardo nel periodo romano dell'impero rimangono alcune notevoli testimonianze: in Milano, ad esempio, le grandiose colonne di San Lorenzo, già credute l'atrio delle terme costruite da Massimiano; in Brescia i ruderi del tempio di Vespasiano, nei cui pressi si rinvenne nel 1826 la famosa Vittoria in bronzo dorato, che è una delle più perfette riproduzioni della plastica greca.
Nell'età medievale, la storia artistica della Lombardia è collegata alla storia della Chiesa e ai rivolgimenti portati dalle invasioni barbariche; conosce però anche nei secoli più oscuri e travagliati dei momenti di fioritura e specialmente si afferma con assoluta originalità nell'architettura. La città di Milano era ancora satura di paganesimo, quando Ambrogio costruì una nuova basilica (secolo IV), che dal suo nome fu detta ambrosiana. Come provano moderni scavi, essa doveva seguire il tracciato della chiesa attuale: era divisa in tre navate da due serie di colonne, e nei vasti spazî parietali recava figurazioni affrescate dei due Testamenti. In pieno Medioevo ci conduce l'antico San Lorenzo di Milano, che nella sua costruzione originale (sec. V o VI), poi in molte parti modificata, strettamente richiama San Vitale di Ravenna anche per l'ambulacro e per i matronei che circondano il vano centrale. Quanto rimane della costruzione più antica in San Salvatore di Brescia (secolo VIII) e in varie chiese coeve di Pavia, erette dai Longobardi, prova l'attività di quei maestri comacini, oriundi dalla regione dei laghi, che poi sparsero per ogni dove, in Italia e in Europa, le forme apprese dai costruttori ravennati.
La scultura di questo primo periodo medievale, che va dal secolo IV all'VIII, non ha lasciato notevoli testimonianze: alcuni frammenti dei musei di Pavia, di Como e di Brescia rivelano come nel sec. VIII le forme decorative risentissero ancora sensibilmente l'efficacia dell'arte bizantino-ravennate.
Della pittura dei primi secoli medievali sussistono in Lombardia due documenti notevoli: i mosaici di Sant'Aquilino presso San Lorenzo di Milano (fine sec. V), in cui sono ancora vivi i riflessi dell'arte classica, e i mosaici del sacello di San Vittore presso la basilica ambrosiana (fine secolo V o princ. del VI), che per lo stile si possono, invece, mettere a riscontro con quello di Sant'Apollinare Nuovo di Ravenna.
Più difficile è stabilire caratteri decisamente lombardi in quelle suppellettili che appartengono alle cosiddette "arti minori": gli studî recenti hanno disgregato quella serie di avorî che si affermavano lavorati da artefici milanesi, e sono anche controverse le origini della capsella d'argento nella chiesa dei Ss. Nazzaro e Celso di Milano (fine sec. IV) e delle imposte lignee della basilica ambrosiana (fine sec. IV o inizî del V). E neppure un giudizio sicuro si può dare di quel famoso complesso di oggetti (sec. VII) conservati nel tesoro del duomo di Monza, che la tradizione collega al nome della pia regina longobarda Teodolinda. Anche se in parte costruiti da artefici lombardi, nella ricerca coloristica ottenuta col contrasto di pietre vivaci, essi manifestano una tendenza che riporta al pittoricismo orientale.
Il periodo che va dalla fine del sec. VIII al sec. XI, è caratterizzato, nell'architettura, da un'attività sempre più intensa dei maestri comacini e dei loro continuatori. A quest'epoca risalgono, almeno in parte, varî edifici milanesi: le absidi di Sant'Ambrogio e di San Vincenzo in Prato, le primitive costruzioni di Sant'Eustorgio, San Babila, San Celso, e, nei dintorni di Milano, San Pietro d'Agliate, San Pietro di Civate, San Vincenzo di Galliano. Anche il duomo di Brescia, nella cui area fu poi costruita l'attuale Rotonda, risale al sec. IX. E nel sec. X si assiste alla diffusione di quest'attività edilizia, che ha il suo centro in Lombardia, in ogni parte d'Italia e anche oltralpe.
Mentre la scultura e la pittura di questo periodo non sono documentate che da rari frammenti, delle arti minori offrirebbe un cospicuo esempio, se fosse di artefice lombardo, l'altare della basilica di Sant'Ambrogio (sec. IX). Ma l'origine di quel Vuolvinio, che in esso iscrisse il proprio nome, non è piuttosto da ricercarsi, come pensa il Toesca, nel campo della nuova arte di Francia? Anche la legatura del codice di Berengario I nel duomo di Monza e il noto secchiello liturgico del duomo di Milano presentano stretti addentellati con modelli oltremontani.
Nell'età romanica (sec. XI-fine sec. XIII) la più solenne manifestazione del potere creativo si ha nell'architettura. Precorsa da un lavorio secolare - dall'opera dei maestri comacini - essa trasse da tradizioni più antiche, dal cuore della stessa Roma, gli elementi per la sua formazione. Al nuovo sistema architettonico si addivenne specialmente dal problema di coprire con una muratura a vòlta - sia a botte sia a crociera su costoloni - il vasto corpo centrale delle chiese per sostituire con una copertura più stabile il fragile tetto di legname. E le chiese nell'età romanica, oltre a essere templi della fede, sono create quale sacro luogo di raduno di un popolo operoso e gagliardo. Sant'Ambrogio di Milano, che viene ricostruito nella parte anteriore durante la seconda metà del sec. XI, assurge al grado di "chiesa madre e regina dell'architettura romanica". La quale appare in una fase di evoluzione nelle belle chiese pavesi di San Teodoro, San Lazzaro, San Pietro in Ciel d'Oro, e specialmente nel venerando San Michele. Anche il Sant'Abbondio e il San Fedele di Como sono edifici in cui l'architettura lombarda studia geniali soluzioni in pianta e in struttura. E ciò avviene del pari nelle costruzioni a sistema basilicale o centrale dell'Emilia, del Piemonte, della Liguria, delle Marche, della Toscana, ecc., ovunque i maestri lombardi portano le loro forme rudi e possenti.
La scultura rinasce alla metà del sec. XI, e assume aspetti diversi a seconda delle fonti cui attinge. Così nel ciborio di San Pietro di Civate è ancora di derivazione bizantina, mentre in quello coevo dì S. Ambrogio di Milano si afferma nel più originale naturalismo. Le forme plastiche del romanico lombardo si concretano all'inizio del sec. XII con Wiligelmo, con Nicolò, con Guglielmo, finché sul finire del secolo B. Antelami corona in opere possenti l'arte dei suoi predecessori. A lui si attribuisce il gruppo equestre di Oldrado da Tresseno nel Palazzo della Ragione di Milano.
Mentre l'arte romanica prendeva già forme quasi totalmente nuove tanto nell'architettura quanto nella scultura, nella pittura domina ancora vigorosa la tradizione bizantina. Essa si afferma negli affreschi dell'abside di San Vincenzo a Galliano (circa 1007), nella decorazione pittorica di San Pietro al Monte in Civate (seconda metà del sec. XII), nel grandioso mosaico absidale della basilica ambrosiana (scorcio del sec. XII), che può utilmente essere messo a riscontro con opere musive di Venezia.
Le arti minori lombarde in questo periodo sono rappresentate da alcuni magnifici litostrati: ve ne erano interessantissimi a San Benedetto di Porisone, nel duomo di Cremona, a San Michele di Pavia, nella chiesa monastica di Bobbio, ecc., e quasi tutti, nei frammenti rimasti, hanno figurazioni ispirate a scritti morali dei bassi tempi o a leggende popolari. Anche la miniatura lombarda, in quest'età, comincia ad acquistare una fisionomia propria e ad avere un notevole sviluppo. Tra i manoscritti miniati del monastero di San Benedetto di Porisone (secolo XII) si possono trovare documenti del suo fiorire.
L'architettura del Trecento segna il termine di maturazione del periodo romanico. Anche il gotico italiano, sebbene in minore misura rispetto a quello d'oltralpe, ricerca la vitalità della massa architettonica, cui dà slancio con ardito verticalismo, e animazione con il modellato scultoreo d'ogni membratura. Monza e Como hanno importanti chiese gotiche, alle quali lavorarono i maestri campionesi. Ma su ogni altro edificio gotico dell'Italia settentrionale sta il duomo di Milano, iniziato per volere di Gian Galeazzo Visconti nel 1386 (v. milano). Accanto all'architettura religiosa già nel sec. XIII era fiorita quella civile e ogni città si adorna ora del suo Broletto o Palazzo della Ragione: interessanti esempî quelli di Milano, Monza, Como, Cremona.
La scultura lombarda del Trecento, con Balduccio da Pisa che la domina, è propaggine di quella pisana: sono, infatti, seguaci di Balduccio gli artefici che lavorano l'arca di Sant'Agostino in S. Pietro in Ciel d'Oro di Pavia ed eseguono monumenti funebri in numerose chiese lombarde; e ai Toscani s'ispiravano i maestri campionesi, originarî di quelle regioni da cui si erano diffusi i Comacini, anch'essi soliti a unire l'architettura alla decorazione, esplicando la propria attività, più che nei loro paesi, nei centri maggiori: a Bergamo, a Verona, a Monza e a Milano.
Il carattere naturalistico della pittura lombarda si afferma, accanto alle propaggini giottesche e senesi, nei cicli di Viboldone, di Solaro, di Vertemate, negli affreschi dell'oratorio Porro a Mocchirolo. Giovanni da Milano, che lascia il suo capolavoro in Santa Croce di Firenze, è la maggiore personalità pittorica di questo periodo, che anche nel ciclo della rocca d'Angera (primi del sec. XIV) ha lasciato un esempio notevole di pittura profana.
In molti codici miniati della Lombardia durante il Trecento si riscontrano caratteri stilistici non dissimili da quelli dalla pittura: residui di bizantinismo dapprima, influssi toscani poi, e infine una larga efficacia dello stile gotico d'oltralpe. Di alcuni miniatori conosciamo il nome: Giovanni di Benedetto da Como, frate Pietro da Pavia, Anovelo da Imbonate, mentre una serie di artisti ignoti illustra quei curiosi Tacuina sanitatis, in cui, attingendo alla cultura araba, si dànno precetti di vita. In questa serie di artisti rientra, per l'arte sua, quel Giovannino de' Grassi, di cvi si dirà fra breve a proposito dei suoi lavori di scultura.
Il Quattrocento è periodo di straordinario sviluppo di tutte le arti in Lombardia. Milano, agli inizî del secolo, con la costruzione del duomo diviene fulcro del gotico fiorito: esso però non tarda a cedere di fronte al nuovo giusto portato dai maestri toscani, Michelozzo e Antonio Averulino detto il Filarete, costruttore il primo del palazzo mediceo e della cappella Portinari in Sant'Eustorgio, ideatore il secondo dell'Ospedale voluto da Francesco Sforza (vedi milano). Tuttavia queste propaggini di arte toscana cedono alla loro volta dinnanzi alle nuove affermazioni costruttive di Bramante, il maestro che conclude il primo Rinascimento e inizia il secondo (v. bramante; milano). La sua attività non si limitò al centro milanese, ma si estese in Lombardia: ebbe parte nel progetto del duomo di Pavia, attese ai lavori del castello di Vigevano, costruì la facciata di S. Maria in Abbiategrasso. In alcune di queste sue opere egli preannuncia quella severa padronanza della forma, che nel periodo romano si risolverà in pura architettura spaziale. La nuova scuola locale lombarda s'inizia con Pietro e Guiniforte Solari: questi succedette, nel 1453, ai primi costruttori della Certosa di Pavia, fondata nel 1396 da Gian Galeazzo Visconti, e creò un edificio nitido e luminoso, più prossimo al Rinascimento. Artista schiettamente lombardo è Giovanni Antonio Amadeo, che dopo avere dato prova del suo raffinato cromatismo costruttivo nella cappella Colleoni di Bergamo, attende alla fabbrica del duomo di Milano e alla Certosa di Pavia. Accanto all'Amadeo, altri architetti lombardi elaborano di preferenza la pianta ottagonale o centrale: Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, dà andamento ottagono all'interno della cappella Trivulzio in San Nazaro di Milano e costruisce un edificio di assoluta severità formale; Giovanni Battaggio da Lodi inizia in patria S. Maria Incoronata e crea in S. Maria della Croce in Crema uno degli edifici più pittoreschi per giuoco di luci; Cristoforo Solari dà il modello del transetto del duomo di Como; Giangiacomo Dolcebuono erige in Milano il Monastero Maggiore e l'ïnterno di Santa Maria presso San Celso.
La scultura lombarda del Rinascimento s'inizia sullo scorcio del Trecento con il bassorilievo del Cristo con la Samaritana di Giovannino de' Grassi, posto sul lavabo della sagrestia meridionale del duomo di Milano. Le forme accentuano ancora lo stilismo gotico e segnano il trapasso a quelle di Matteo Raverti e di Iacopino da Tradate, che in questa epoca sono i due maggiori scultori della cattedrale. Per un lungo periodo la scultura lombarda non annovera alcuna personalità, e le influenze venete si alternano con quelle toscane, ma dopo la metà del secolo trova il suo centro nei lavori della Certosa di Pavia, con maestri quali l'Amadeo, i Mantegazza, Benedetto Briosco, i Rodari, ecc. L'Amadeo lascia anche opere squisite nella cappella Colleoni di Bergamo; Cristoforo Solari si afferma col monumento di Ludovico il Moro e Beatrice d'Este, ora nella Certosa di Pavia.
Nella pittura, come nella scultura, prevalgono sul principio del sec. XV le forme gotico-internazionali, di cui sono esponenti maestri quali Michelino da Besozzo, Leonardo da Besozzo, gli Zavattari, ecc. E non senza rapporto con quelle, ma già consapevoli del Rinascimento, sono gli affreschi del fiorentino Masolino a Castiglione d'Olona. Ma dopo la metà del secolo trae impulso al suo rinnovamento da Padova: caposcuola il bresciano Vincenzo Foppa, che molto lavorò per le chiese di Brescia, di Milano e della Liguria. Nelle numerose sue tavolette della Madonna è da apprezzare la plastica chiaroscurale, che ha tale potere di trasfigurazione del vero, da accennare a lontanissimi svolgimenti della pittura lombarda. La plastica del Foppa diviene più rude e violenta in Bernardino Butinone (v.).
Il Bramante doveva essersi formato nella pittura sugli esempî di Melozzo da Forlì e del Mantegna, come dimostra la larghezza plastica ch'egli accompagna a incisivi contorni mantegneschi e a sicura scienza prospettica; soprattutto architetto, egli nei suoi dipinti costruisce spazî e forme umane, improntando queste di una energia fisica che soltanto nel Cristo alla colonna dell'abbazia di Chiaravalle (Milano, Brera), per certo l'ultima sua opera di pittura a noi rimasta. si muta in potente espressione di dolore. Un'incisione segnata col suo nome (Londra, British Museum) attesta anche meglio i suoi rapporti col Mantegna, la cui influenza, già diffusa nella pittura lombarda, egli riconfermò genialmente. Forse già nel 1477 il Bramante, non senza aiuti, aveva decorato di finta architettura e di figure di filosofi l'esterno dell'antico palazzo del Podestà a Bergamo: affreschi i cui scarsi avanzi lasciano intravvedere in poche parti la robusta maniera del maestro, quale s'intravvede a Milano negli stinti resti della decorazione della facciata della casa Fontana, e si esplica per intero negli affreschi già in una sala di casa Panigarola (Milano, Brera), in cui, entro nicchie e architetture saldamente costruite, giganteggiano figure di armati in cui la fattura stessa che le tornisce e le martella serve a esaltare il senso eroico di forza. L'Argo nella sala del Tesoro del Castello Sforzesco rivela un fare più largo del pittore, che poi sembra non avere più atteso che all'architettura. Per il Bramantino, che ricerca l'astratta trasfigurazione delle forme nella luce, v. bramantino. Chiude la vecchia scuola lombarda, quasi del tutto estranea al rinnovamento di Leonardo, Ambrogio da Fossano detto il Bergognone (v.), solitario interprete di una religiosità umile e mistica.
Per la fortuna delle arti minori lombarde del Quattrocento, che si accentrano quasi esclusivamente in Milano, v. milano.
L'architettura lombarda del Cinquecento ha i suoi maggiori rappresentanti nel perugino Galeazzo Alessi, in Pellegrino Tibaldi bolognese, in Martino Bassi, in Vincenzo Seregni e in Giuseppe Meda, i quali lasciarono molte opere a Milano (v.). Il Tibaldi, però, esplicò la sua mirabile attività anche in altri luoghi del territorio lombardo (collegio Borromeo di Pavia, chiesa di San Gaudenzio di Novara). Il punto di partenza della sua archittetura è sempre l'arte del Vignola, che interpreta con severità.
La scultura di questo periodo è continuazione diretta di quella quattrocentesca e trova i principali suoi esponenti in Agostino Busti detto il Bambaja, autore del monumento a Gastone di Foix, ora smembrato nel museo del Castello di Milano, e in Andrea Fusina, che lascia monumenti notevoli nel duomo di Lodi. L'efficacia classicheggiante si accentua nella seconda metà del Cinquecento con varî artisti d'altre regioni, finché Annibale Fontana con i suoi lavori a S. Maria presso S. Celso di Milano segna il trapasso dalle forme michelangiolesche a una tendenza pittorica che preannuncia il Barocco.
Sull'efficacia che ebbe Leonardo nel divenire della pittura lombarda, e su quei maestri che si accostarono a lui senza completamente sacrificargli la propria personalità, nonché su coloro che invece, pure essendogli diretti discepoli, meno sembrarono interpretarne lo spirito dell'arte, vedi milano. Del tutto diverso è lo svolgimento della pittura a Brescia e a Bergamo, esposti maggiormente alle influenze veneziane. A Bergamo domina l'arte dinamica e sottile di Lorenzo Lotto, mentre a Brescia tengono il campo Gerolamo Romanino e Alessandro Bonvicino detto il Moretto, ambedue mirabili coloristi, di cui l'ultimo trova un continuatore nel ritrattista Giovan Battista Moroni, nativo della Bergamasca. Intanto, verso la metà del secolo, il manierismo dilaga in tutta la Lombardia: a Cremona con la dinastia dei Campi; a Lodi con Callisto Piazza e seguaci; a Milano con alcune scialbe figure d'artisti, quali Paolo Lomazzo e Ambrogio Figino.
Il Barocco è vigoroso in Lombardia e trova negli arcivescovi Carlo e Federico Borromeo due entusiastici assertori d'ogni forma d'arte religiosa. I due maggiori architetti di questo periodo furono Fabio Mangone e Francesco Maria Richini, i quali lavoravano soprattutto a Milano; e non bisogna dimenticare quanto la Lombardia abbia contribuito con artisti suoi, operanti soprattutto a Roma, allo sviluppo delle forme barocche; col Maderno, coi Fontana, col Borromino.
La scultura barocca trova in questo periodo i massimi suoi centri nel duomo di Milano e nella Certosa di Pavia, ma non dice altro che gusto e facilità decorativa, mentre rimane quasi insensibile all'influsso novatore del Bernini, sebbene questi avesse molti lombardi fra i suoi esecutori. A parte è da ricordare Andrea Fantoni di Bergamo che eleva la scultura in legno dai compiti decorativi a creazioni ricche di fantasia inventiva. Anche il divenire della pittura, nel Seicento, si compendia quasi soltanto nel movimento che si ebbe in Milano attorno alle due auguste figure dei Borromeo e all'Accademia ambrosiana.
Il Settecento vede il Barocco tramutarsi grado a grado nel Rococò e preannunciare nel suo volgere alla fine l'età neoclassica. In questo periodo non sovrasta alcun architetto, ma assistiamo al sorgere di una quantità di ville e palazzi sontuosi in ogni luogo della Lombardia, specialmente in Brianza e presso le rive dei laghi.
La scultura, come nel secolo precedente, non assume caratteri qualitativi che la differenzino da quella delle regioni limitrofe. Alessandro Magnasco, genovese di nascita e milanese d'adozione, con l'arte fantastica che gli è propria domina il campo della pittura a Milano. "Maestri di genere", allora in voga, l'animalista Angelo Maria Crivelli detto il Crivellone e l'arcadico paesista Francesco Londonio. Ma sugli altri eleva il suo potente naturalismo il bresciano Giacomo Ceruti, che sembra anticipare l'Ottocento. Anche del ritratto la scuola lombarda doveva dare un'originale interpretazione con il bergamasco Vittore Ghislandi detto Fra Galgario.
L'arte neoclassica e quella dell'Ottocento trovano, anche più che nei periodi precedenti, il loro centro in Milano, dove l'Accademia di Brera diviene la grande fucina che attira i vecchi artisti e ne prepara dei nuovi. Le grandi personalità del periodo neoclassico e posteriore, Piermarini, Canova, Appiani, Hayez, Giovanni Carnevali detto il Piccio, Cremona, Ranzoni, Segantini, Wildt, appaiono quasi tutte in qualche modo collegate col movimento didattico braidense.
Il recente rinnovamento edilizio di Bergamo e di Brescia ha dato luogo a una larga attività dell'architettura e delle arti decorative.
V. tavv. LXXIX-XCVIII.
Bibl.: F. M. Tassi, Vite di pittori, scultori ed architetti bergamaschi, Bergamo 1793; G. B. Zaist, Notizie dei pittori, scultori ed architetti cremonesi, Cremona 1774; G. L. Calvi, Notizie sulla vita e sulle opere dei principali architetti, scultori e pittori che fiorirono in Milano durante il governo dei Visconti e degli Sforza, Milano 1865; S. Fenaroli, Dizionario degli artisti bresciani, Brescia 1877; S. Monti, Storia ed arte nella provincia e antica diocesi di Como, Como 1901.
Per l'architettura del basso e alto Medioevo e romanica, oltre le classiche opere di A. Ricci, Storia dell'architettura in Italia dal sec. IV al XVIII, Modena 1857-59, voll. 3; di F. De Dartein, Études sur l'architecture lombarde, Parigi 1865; di R. Cattaneo, L'architettura in Italia dal sec. VI al Mille circa, Venezia 1889; traduz. franc., 1891; v. G. Merzario, L'arte lombarda e i maestri Comacini, Milano 1893; G. T. Rivoira, Le origini dell'architettura lombarda, Milano 1902-1908; A. Kingsley Porter, Medieval Architecture, New Haven 1912; id., Lombard Architecture, New Haven 1917; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, I-III, Milano 1901-1904; P. Toesca, Storia dell'arte italiana. Il Medioevo, Torino 1927. Per tutte le altre arti medievali e romaniche, comprese quelle "minori", si vedano le opere citate dal Venturi e del Toesca, nonché, per la pittura e la miniatura in particolare, P. Toesca, La pittura e la miniatura nella Lombardia, Milano 1912; inoltre: G. Ladner, Die ital. Malerei im 11. Jahrh., in Jahrb. d. kunsth. Samml. in Wien, V (1931), pp. 33-160; per la scultura, M. G. Zimmermann, Oberitalische Plastik, Lipsia 1897; A. K. Porter, Lombard Architecture, New Haven 1916; id., Romanesque Sculpture of the pilgrimage Roads, Boston 1923; T. Krautheimer-Hess, Die figurale Plastik der Ostlombardei von 1100 bis 1178, in Marb. Jahrb. f. Kunstw., IV (1928), pp. 231-307; S. Vigezzi, La scultura lombarda, I-III, Milano 1928-1930 (anche per i secoli seguenti). - Per l'architettura del Trecento, v. Toesca, Storia cit. e le numerose opere che si riferiscono alla costruzione del duomo di Milano; per la scultura, A. G. Meyer, Lombardische Denkmäler d. XIV. Jahrhund., Giovanni di Balduccio und die Campionesen, Stoccarda 1893; U. Nebbia, La scultura nel duomo di Milano, Milano 1910 (anche per i sec0li seguenti); per la pittura specialmente P. Toesca, La pittura e la miniatura cit. Per il Quattrocento, si veda A. Venturi, Storia cit., VI e VII, Milano 1908 e 1915; F. Malaguzzi Valeri, Pittori lombardi del Quattrocento, Milano 1902; id., La corte di Lod. il Moro, Milano 1913-23, voll. 4; H. Lehmann, Lombardische Plastik im letzten Drittel des XV. Jahrh., Berlino 1928. - Per la pittura del Cinquecento, v. A. Venturi, Storia cit., IX, ii, iii, iv, Milano 1927, 1928, 1929; W. Suida, Leonardo und sein Kreis, Monaco 1929. Per l'arte del Seicento e del Settecento, in mancanza di opere complessive speciali, v. C. Ricci, L'arte nell'Italia settentrionale, Bergam0 1910; e P. D'Ancona, I. Cattaneo, F. Wittgens, L'arte italiana, III, Firenze 1932. - Per il periodo neoclassico, v. A. Caimi, Delle arti del disegno di Lombardia dal 1777 al 1862, Milano 1862; G. Nicodemi, La pittura milanese dell'età neoclassica, Milano 1915. - Per l'Ottocento, v. E. Somaré, La pittura italiana dell'Ottocento, Milano 1928, voll. 2; S. Vigezzi, La scultura italiana dell'800, Milano 1932.