lombardismi
Prescindendo qui dalle relazioni di D. con i territori ‛ lombardi ', e dal suo giudizio sulle parlate di essi, per cui v. LOMBARDIA, diremo che una certa conoscenza dei volgari settentrionali si coglie a volte, qua e là, oltre che nel De vulg. Eloq., anche nelle opere volgari di D., dove egli fa esplicito riferimento a caratteristiche espressioni o forme settentrionali. Sono questi i l. più sicuri, in quanto espressamente voluti e dichiarati dallo scrittore. In If XVIII 60-61 Venedico Caccianemico afferma che il luogo dov'egli si trova (la prima bolgia infernale) è così pieno di Bolognesi che tante lingue non son ora apprese / a dicer ‛ sipa ' tra Sàvena e Reno, designando così i suoi conterranei con una forma linguistica loro peculiare, sipa per ‛ sia ' (congiuntivo presente del verbo ‛ essere '). E in If XXVII 19-21 un romagnolo, Guido da Montefeltro, riconosciuta l'Origine lombarda di Virgilio dal suo linguaggio, così gli si rivolge: O tu a cu' io drizzo / la voce e che parlavi mo lombardo, / dicendo " Istra ten va, più non t'adizzo ".
Le ragioni dell'anacronismo linguistico presente in quest'ultimo passo e la stessa interpretazione della frase ‛ lombarda ', attribuita a Virgilio, sono variamente discusse; pare assodato comunque che almeno il primo avverbio, istra, " ora ", sia una schietta forma settentrionale: si ricordi, fra l'altro, l'" insta " del Serventese romagnolo 2 (cfr. Contini, Poeti I 879). Si potrebbe aggiungere qui l'arzanà de' Viniziani, in If XXI 7; ma con questo e con esempi analoghi siamo al limite tra il lessico vero e proprio e la designazione toponomastica, ovviamente legata a forme locali.
A parte questi l. riflessi, che sono o possono considerarsi vere citazioni fra virgolette, non è escluso che altre forme o vocaboli provenienti dall'Italia settentrionale si siano insinuati meno palesemente negli scritti danteschi. Gli antichi commentatori definiscono lombardi (o romagnoli) vocaboli come mo, barba, burlare, veggia, lacca, ecc. E i grammatici e i filologi che dal Cinquecento in poi parteciparono alle dispute sulla lingua, specialmente quelli appartenenti alla cosiddetta corrente ‛ italianista ' (Trissino e seguaci), insistettero sulla tesi dei l. (e, in genere, dei dialettalismi) della Commedia, che calzava con la loro interpretazione della discretio teorizzata nel De vulg. Eloquentia.
La tesi, nella sua formulazione più ampia, fu subito ribattuta dal Machiavelli e dai Fiorentini, che, pur ammettendo in D. qualche l., ribadirono la sostanziale fiorentinità della sua lingua; e oggi gli studiosi riconoscono la fondatezza di quest'affermazione. Non che nella lingua letteraria fiorentina o toscana del tempo fosse teoricamente impossibile immettere dialettalismi, anche ‛ lombardi '; ve ne introduceva, per es., Francesco da Barberino, contemporaneo di D. e anch'egli dimorato a lungo nell'Italia settentrionale. Ma, in linea generale, il dialettalismo, per essere accolto dal poeta toscano, doveva essere già nobilitato da una tradizione illustre, come, tipicamente, quella siciliana; e nell'Italia del nord, dominata ancora dalla lirica francese o provenzale, tradizioni poetiche di alto stile, salvo il cenacolo bolognese e romagnolo, erano pressoché inesistenti.
Date queste premesse, non dobbiamo aspettarci d'incontrare l. spiccati nelle liriche dantesche. In effetti, dei possibili settentrionalismi delle Rime, il più rilevato è un conosciuda (in rima con chiuda e druda) al v. 19 del sonetto doppio Se Lippo amico se' (XLVIII), scritto forse e inviato all'amico fiorentino dalla Bologna del Guinizzelli e di Onesto.
La sonorizzazione è qui particolarmente evidente e singolare per un testo toscano: tutt'altra cosa sono forme come savere, Rime XL 1, XLII 3, XLVII 1, ecc.; servidore, Vn XII 13 34; amadore, XLII 13, ecc., diffuse e tradizionali nel linguaggio poetico duecentesco e spiegabili come gallicismi o, talora, come arcaismi toscani. Sempre in tema di sonorizzazione, si può aggiungere qui che anche gli esemplari figo e sego, " seco ", della Commedia (If XXXIII 120 e Pg XVII 58, ambedue in rima e il primo in bocca a un romagnolo), non sono del tutto estranei all'area toscana e mediana: v. Parodi, Lingua 229-230, e R. Urciolo, The Intervocalic Plosives in Tuscan (-P-, -T-, -C -), Berna 1965, 82-83, 169. Un altro sospetto l. delle Rime (LIX 6), ‛ lagare ', " lasciare " (e in una rima dubbia, VIII 2; cfr. ediz. Contini), si ritrova anch'esso, sporadicamente, in Toscana, specialmente a Siena.
Una maggiore disponibilità all'ingresso dei l. è da supporre, pregiudizialmente, nella Commedia, assai più aperta a un lessico variegato ed eterogeneo. Ma anche qui è difficile raggiungere, nei casi singoli, la certezza. Partendo dai presupposti cui si accennava sopra, il Parodi ha mostrato a più riprese che i creduti settentrionalismi potrebbero essere in realtà vocaboli indigeni della Toscana, oppure provenire dal francese o dal provenzale, o spiegarsi in qualche altro modo. Così barba, " zio " (Pd XIX 137), è non solo veneto, ma " di parecchie altre regioni ", e poté essere " perfino toscano "; a provo, " appresso ", " vicino " (If XII 93), si trova, è vero, nei dialetti lombardi, ma " è più probabile che Dante e i suoi contemporanei lo abbiano preso direttamente dal francese "; ancoi, " oggi " (Pg XIII 52, XX 7, XXXIII 96), può venire dall'Alta Italia, ma anche dal provenzale; co, " capo " (If XX 76, XXI 64, Pg III 128, Pd III 96), riconosciuto per l. dal Machiavelli, da Iacopo Mazzoni, ecc., si ritrova in Rustico di Filippo e oggi, pare, in qualche dialetto toscano periferico; brolo, " giardino " e, figuratamente, " ghirlanda di fiori " (Pg XXIX 147), particolarmente diffuso nell'Italia settentrionale e definito con insistenza l. dagli antichi commentatori, " forse entrò pure in Toscana "; e roffia, " oscurità ", " impurità " (Pd XXVIII 82), nel quale alcuni studiosi hanno sospettato una fonetica romagnola, si ritrova, con un significato un po' diverso, in antichi statuti toscani.
Può darsi che lo scetticismo del Parodi sia, in qualche punto, eccessivo, e che qualcuno di questi vocaboli sia effettivamente giunto nella Commedia attraverso i volgari settentrionali. Il Folena ha avvertito che il presupposto su cui si fondava il Parodi " va certamente riveduto e sottoposto a verifica attenta e sistematica ": non è infatti inverosimile che la realtà che circondava D. al momento della stesura della Commedia abbia potuto " esercitare qualche peso e determinare alcune scelte soprattutto nei settori del lessico più concreto e tecnico ". E, per parte sua, ha cominciato col fornire alcune precise indicazioni, osservando che il gordo (v.) di If XVIII 118 e Pg XX 107 (restaurato ora dall'ediz. Petrocchi al posto del precedente e vulgato ingordo) rappresenta " un caso probabile di forma d'area settentrionale "; e " settentrionalismi di livello usuale, non certo di mediazione letteraria ", andrebbero considerate " voci quali scàrdova (Inf. XXIX, 83), baratto ‛ barattiere ' (Inf. XI, 60) e probabilmente burchio (Inf. XVII, 19), scranna in sedere a scranna (Par. XIX, 79) e stizzo (Inf . XIII, 40, Purg. XXV, 23) e varie altre, come voci e locuzioni marinaresche (per esempio nel concretissimo e tecnico corredo alla descrizione dell'arsenale veneziano, Inf. XXI, 7-15) per le quali certo un patrimonio indigeno fiorentino non poteva sovvenire e l'orientamento geografico appare piuttosto adriatico, cioè veneto e romagnolo, che tirrenico, cioè pisano e ligure ". Una tale ipotesi di lavoro, così diversa da quella del Parodi, può certamente condurre, sia pure a prezzo di delicate verifiche puntuali, a una valutazione sensibilmente più ottimistica del contributo offerto dai dialetti settentrionali al lessico della Commedia.
Non sarà inutile infine ricordare che le vicissitudini della trasmissione del testo hanno talora introdotto in manoscritti o edizioni della Commedia preparate in ambiente settentrionale (dove, com'è noto, la circolazione del poema fu subito assai larga) 1. estranei all'originale dantesco. Ancora il Folena ha mostrato come il baràtro di If XI 69 diventi spesso in codici settentrionali barat(t)o, perché interpretato come estensione metaforica dell'indigeno barat(t)o, " vaso ", " cesta " (ad esso poi effettivamente collegato per via etimologica). Altre volte il permanere di un l. spurio è dovuto a ragioni diverse: il lome di If X 69 (in rima con nome e come), conservatosi fino a oggi per amor di rima perfetta e tradizionalmente spiegato come bolognesismo fonetico, è stato escluso dal più recente editore, il Petrocchi, che, restaurando lume, preferisce ammettere, qui come altrove, una rima di tipo ‛ siciliano '.
Bibl. - Per i passi del De vulg. Eloq., sui volgari settentrionali v. MARIGO, 92-94, 114-132, e l'ediz. a c. di P.V. Menegaldo, Padova 1968, 19 e 23-26; contributi sull'argomento possono trovarsi nelle miscellanee commemorative raccolte a cura delle varie regioni e città dell'Alta Italia, per es. Studi danteschi, a c. della R. Deputazione di Storia patria per le Provincie di Romagna, Bologna 1921; D. e la Liguria. Studi e ricerche, Milano 1925; D. e la cultura veneta, Firenze 1966; D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, ecc.
Sui l. in generale: N. Zingarelli, Parole e forme della D.C. aliene dal dialetto fiorentino, in " Studi Filol. Romanza " I (1884) 144-163; G. Agnelli, La Lombardia e i suoi dialetti nella D. C., in " L'Alighieri " III (1891) 377-400, IV (1892) 1-22 e 99-114; Parodi, Lingua 203-300; H. Kuen, Sprachen und Dialekte in der ‛ Göttlichen Komödie ', in " Deutsches Dante-Jahrbuch " XXXIV-XXXV (1957) 63-95; G. Folena, Geografia linguistica e testi medievali, in Atti del Convegno internazionale sul tema: Gli atlanti linguistici. Problemi e risultati, Roma 1969, 204-214. In particolare sul sipa di If XVIII 61: G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1916, 106; M. Corti, Emiliano e veneto nel ‛ Fiore di virtù ', in " Studi Filol. Ital. " XVIII (1960) 53-54; su Istra ten va... di If XXVII 21: Pagliaro, Ulisse 433-465. Per il problema particolare dei l. infiltratisi, fin dalle origini, nella tradizione della Commedia cfr. Petrocchi, Introduzione 218 ss., 413 ss.