LORENZI
Famiglia di scultori, originari di Settignano, presso Firenze, e attivi nel corso del Cinquecento in Toscana, che ebbe tra i suoi rappresentanti di maggior rilievo Stoldo di Gino e Giovanni Battista (Battista del Cavaliere).
Di Gino, o Giovanni (Borghini), non si conoscono le date di nascita e di morte, ma è noto il nome del padre, Antonio. Sarebbe stato, secondo alcuni, fratello di Domenico, da cui nacque lo scultore Giovanni Battista; furono suoi figli Antonio e Stoldo, nati rispettivamente intorno al 1525 e al 1533-34. Noto anche come "Gino intagliatore" (Wallace, p. 120), non è chiaro se tenne bottega a Settignano o a Firenze, dove è documentato tra il maggio e il luglio del 1524, quando compare nei libri di pagamento relativi ai lavori per la cappella medicea in S. Lorenzo.
In qualità di aiuto di Michelangelo riscosse settimanalmente, per undici settimane e ancora per tre nel dicembre dello stesso anno, 4 grossoni (pari a 28 soldi) al giorno, compenso che superava di gran lunga quello attribuito agli altri aiutanti nel cantiere. Secondo Wallace - il quale ricorda da un lato la sua familiarità con Domenico Fancelli, che potrebbe averlo raccomandato a Michelangelo, e lo ritiene dall'altro responsabile dei dadi alla base della tomba di Lorenzo de' Medici (pp. 120-124) - Gino può forse identificarsi con quel Giovanni d'Antonio che accompagnò Michelangelo a Venezia nel 1529.
Solo in via ipotetica egli sarebbe inoltre da riconoscere nel "Gino di Antonio scharpellino" che riscosse 10 scudi, pagati in cinque partite dal 5 ottobre all'11 nov. 1549, per la lavorazione iniziale di un blocco di marmo sotto la supervisione di Niccolò Pericoli, detto il Tribolo. Il blocco potrebbe essere servito per la realizzazione dell'Esculapio, commissionato per l'omonima fontana della villa medicea di Castello allo stesso Tribolo (Holderbaum, p. 369), portato a termine alla sua morte tra il 1553 e il 1555 dal figlio di Gino, Antonio, suo stretto collaboratore (Wright, II, pp. 678-680), e poi disperso, ma già identificato nella statua attualmente nel giardino di Boboli (Holderbaum; Keutner lo attribuisce a Stoldo) o, a ragione, in quella oggi conservata, insieme con la vasca, in palazzo Medici Riccardi (Keutner), attribuita appunto ad Antonio, cui più plausibilmente, e presupponendo un errore nella citazione del nome, potrebbe essere ricondotta la documentazione del 1549 (Holderbaum).
Figlio di Gino, Antonio fu allievo e collaboratore del Tribolo.
Se nacque attorno al 1525 (Utz, p. 64, n. 25), è improbabile che possa identificarsi con quell'"Antonio [(] scharpellino" che a partire dal 1( giugno 1534 e fino al successivo 10 ottobre ricevette diversi pagamenti per l'esecuzione di una perduta fontana realizzata su disegno del Tribolo, cui era stata commissionata da Cristofano Rinieri per la sua villa La Canovaia (Wright, I, pp. 88-91).
Insieme con Pierino da Vinci (Goldenberg Stoppato) fu l'artefice della Tomba di Matteo Corte per il Camposanto di Pisa, portata a compimento tra il 1544 e il 1548 su disegno del Tribolo.
Holderbaum (pp. 369 s. n. 4), che riferisce come l'opera risulti conclusa entro l'aprile 1548, sostiene che fu eseguita a Firenze; solo una volta terminata sarebbe stata portata a destinazione e alloggiata sotto la probabile supervisione di Luca Martini, nobile letterato fiorentino, e forse dello stesso Tribolo, che il 17 genn. 1549 è documentato a Pisa (ibid.). L'ipotesi per la quale Antonio sarebbe stato affiancato dal fratello Stoldo e da Pierino da Vinci (Lazzarini, p. 77) non è in alcun modo verificabile.
Oltre che lo stemma con le insegne Medici-Toledo in piazza Cairoli (1546-49: Scultura a Pisa(, p. 38), a testimoniare l'attività pisana di Antonio starebbe il progetto, realizzato ancora con Pierino da Vinci, per la tomba del giurista Francesco Vegio (Pisa, Opera del duomo, depositi), la cui esecuzione, databile alla metà del secolo, è tradizionalmente attribuita a Francesco Ferrucci, detto del Tadda (Scultura a Pisa(, pp. 259-261).
A partire dalla primavera del 1549 Antonio è documentato nella villa medicea dell'Olmo di Castello dove avrebbe lavorato, oltre che al già ricordato Esculapio, alla Fontana grande o di Ercole e alla Fontana del labirinto o di Venere insieme con gli altri artisti della bottega del Tribolo, cui spettò il disegno generale del giardino e il modello di ciascuna delle due opere, portate a termine negli anni successivi alla morte del maestro.
Le registrazioni di pagamento (dal 1549 al 1553 per la Fontana di Venere e dal 1553 al 1556 per quella di Ercole: Wright, II, pp. 678-680) sono troppo generiche per poter individuare con certezza le responsabilità di Antonio in ciascuna opera; gli si ascrivono tuttavia, con datazione al 1549 circa, il disco con le teste di pipistrello e il rocchetto terminale della fontana con quattro maschere femminili (ibid., I, p. 181), per il quale è stato però avanzato anche il nome del fratello Stoldo (C. Acidini Luchinat, La fontana di Fiorenza, appunti di letture iconografica e formale, in Fiorenza in villa, a cura di C. Acidini Luchinat, Firenze 1987, pp. 26 s.).
Terminato l'impegno per la villa medicea, nel dicembre 1556 ricevette la commissione per l'esecuzione dei busti marmorei di Leone X e del Duca Lorenzo (Firenze, Palazzo Vecchio) che concluse probabilmente nel 1559, sebbene l'ultimo pagamento per quello di Lorenzo si dati all'agosto 1563 (Frey, III, p. 169). Nel 1560 completò il busto di Giuliano de' Medici iniziato da Alfonso Lombardi, pendant dei suoi insieme con quello di Clemente VII, eseguito dallo stesso Lombardi (Holderbaum, pp. 369 s., n. 4).
Autore, in occasione dei funerali di Michelangelo (1564), di una statua della Scultura, perduta (Frey, II, p. 47), l'anno successivo partecipò alla realizzazione degli apparati per le nozze tra Francesco I e Giovanna d'Austria figurando tra gli artisti all'opera nell'arco dei Tornaquinci (due figure d'imperatori e un'arme, perdute: ibid., III, pp. 222, 243) e per l'arco della Religione al canto della Paglia (Vasari, VIII).
Tra le altre sue opere si ricordano, citate da Vasari (VII), la fontana nel giardino dei semplici di S. Marco (acquistato da Cosimo I nel 1545), ultimata entro il 1568 (Wiles, p. 71), così come gli ornamenti per la Fontana dell'Appennino a Castello (1565 circa), nonché, nella medesima villa, per gli animali della Grotta (1567 circa), dove operò al contempo anche il Giambologna.
Di un certo rilievo fu il rapporto con Benvenuto Cellini, che nel testamento (1550) lo incaricò di realizzare il tondo in mezzo rilievo progettato per la propria tomba: opera non più realizzata a seguito della decisione di Cellini, testimoniata dal codicillo del 1555, di eseguire il tondo a fresco (Calamandrei, p. 70).
Sulla base di una tale relazione, è stato proposto Antonio come l'artista che ultimò il Busto di Cosimo I (San Francisco, Fine Arts Museum), descritto come non finito nell'inventario dei beni di Cellini (Pope Hennessy, 1985, p. 218): ipotesi tuttavia più di recente scartata a favore del Giambologna (Ritratto di un banchiere del Rinascimento. Bindo Altoviti tra Raffaello e Cellini [catal., Firenze], a cura di A. Chong - D. Pegazzano - D. Zikos, Milano 2004, pp. 442 s.).
Antonio morì a Firenze il 19 sett. 1583 e fu sepolto nella chiesa della Ss. Annunziata, nella tomba comune dell'Accademia del disegno, di cui era stato membro e nel 1569 camerlengo (Frey, III, p. 218).
Il figlio Giovanni, del quale non sono noti ulteriori riferimenti biografici, nel luglio 1624 stile pisano (1623) risulta erede dei beni del cugino carnale Gino di Stoldo (Fanucci Lovitch, p. 129); mentre un altro figlio, Francesco, morì diciassettenne precedendo di pochi giorni (15 settembre) il padre (Schmidt, p. 77).
Gino di Stoldo, nato a Firenze il 19 luglio 1566 (ibid., p. 80 n. 34), fu inizialmente attivo, rimanendovi quattro anni, nella bottega pisana del cugino paterno Giovanni Battista, che alla morte di Stoldo lo aveva sostituito nei lavori per il duomo (ibid., n. 35). La sua attività pisana, in particolare di restauratore, è abbastanza documentata.
Entro il febbraio 1592 ricompose nell'omonima chiesa l'altare di S. Ranieri realizzato da Andrea Guardi (1451-61) per il duomo (Scultura a Pisa(, p. 25); nel 1596 risulta tra gli artisti attivi a Pisa sottoposti all'Accademia del disegno (Fanucci Lovitch, p. 5). Fu inoltre l'artefice (1604-09), insieme, tra gli altri, con Cosimo Cioli, della sostituzione nel duomo dei marmi danneggiati durante l'incendio del 1595. In tale occasione rifece completamente la base dell'acquasantiera realizzata nel 1517 da Girolamo detto Rossimino da Carrara.
Se i rapporti tra Gino e l'Opera del duomo sembrano interrompersi nel 1605, a partire da quella data egli è documentato in diverse altre chiese e conventi pisani.
Sempre come restauratore operò tra il 1606 e il 1623 nella chiesa di S. Maria della Spina; per l'"operaio" di questa chiesa, Cesare Borghi, eseguì inoltre un altare in S. Frediano (Scultura a Pisa(, p. 247, n. 21). Tra il 1608 e il 1609 risulta attivo nella facciata della chiesa di S. Matteo (ibid.), mentre nell'aprile 1610 stile pisano (1609) si impegnava con il convento di S. Antonio per costruire una cappella nella chiesa, secondo il disegno che egli stesso aveva presentato (Fanucci Lovitch, p. 128). Il suo nome compare, inoltre, tra gli stimatori dei lavori eseguiti da Domenico di Francesco Cioli nella chiesa del monastero di S. Bernardo (ibid.).
Nel luglio 1624 stile pisano (1623) Gino risulta essere morto da circa due mesi, senza figli.
A quella data il cugino Giovanni di Antonio, suo erede, rivolse al granduca una supplica per avere l'autorizzazione a intentare una causa al fine di ottenere l'eredità contro la vedova, Margherita del Setaiolo, sposata da Gino il 2 marzo 1615 (ibid., p. 129). Dal documento si apprende che, oltre agli strumenti del mestiere e a diversi pezzi di pietre, Gino possedeva alcuni beni immobili, tra cui una casa a Pisa, in via S. Maria, dove aveva abitato con due zie (Ippolita e Domitilla). Nella supplica si elencavano alcuni lavori eseguiti da Gino per Pisa, a San Miniato, Buti, Calci; per Carlo Lanfranchi; e nella bottega di Nicola Mecherini (ibid.).
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