ANGUILLARA, Lorenzo (detto Renzo da Ceri e Renzo Orsini)
Nato a Ceri (Cerveteri) nel 1475 o nel 1476 da Giovanni, signore di Ceri, e da Giovanna, degli Orsini di Monterotondo, fu considerato dai contemporanei un Orsini, per i molteplici legami familiari e politici che egli ebbe con questa illustre famiglia romana e perché ad essa apparteneva allora la contea di Anguillara, e col cognome di Orsini, ma anche Renzo da Ceri, come egli stesso si firmava, è chiamato dalla maggior parte degli storici. Sposò Lucrezia Orsini, dalla quale ebbe Giampaolo, che fu valente capitano, e Gerolama, entrata poi fra le clarisse col nome di suor Chiara; alla morte di Lucrezia, nel 1508, passò a seconde nozze con Francesca di Giangiordano Orsini d'Aragona, marchesa di Padula, e ne ebbe Lelio. L'A. fu uno dei maggiori condottieri del suo tempo e fu tenuto in grande stima dalla corte pontificia, da quella di Francia, dalle repubbliche di Venezia e di Firenze che lo ebbero al proprio servizio. Fece le sue prime prove durante le lotte della famiglia Orsini contro i Borgia, distinguendosi particolarmente nella difesa di Ceri contro Cesare nel 1503. Il 15 ottobre del medesimo anno, dopo la morte di Alessandro VI, insieme con Bartolomeo d'Alviano, con il fratello Fabio e con altri di casa Orsini, diede l'assalto al Vaticano, tentando di penetrarvi dalla Porta Torrione (Porta Cavalleggeri), per catturare e uccidere il Valentino, che vi si era rifugiato sotto la protezione di Pio III. Fu poi al servizio di Giulio II, di cui fu sempre suddito fedelissimo, tanto da rinunziare, nel 1509, per la proibizione del pontefice, a una offerta dei Veneziani che lo volevano al loro servizio. Ma l'anno successivo il papa, cambiata la sua politica verso Venezia permise che l'A. ne accettasse l'invito (agosto 1510). Combatté al servizio di Venezia sino al settembre 1515 contro Tedeschi, Francesi, Spagnoli, conquistandosi la fama di ottimo comandante di fanterie.
In questo periodo, benché travagliato dal "mal franzoso", compì alcune delle più brillanti imprese della sua carriera di condottiero: sostenne vittoriosamente l'assedio di Treviso contro gli Imperiali (agosto 1511); nel giugno e nel settembre del 1512 tolse Pavia e Crema ai Francesi e nell'anno successivo sconfisse Alessandro Sforza a Soresina (19 maggio) e conquistò Brescia (giugno). Ma l'episodio più notevole di tutta la campagna fu la sua difesa di Crema (1513-14) contro le milizie di Prospero Colonna e di Silvio Savelli: completamente isolato, sprovvisto dei rifornimenti e degli aiuti che il comandante supremo delle forze venete, Bartolomeo d'Alviano, geloso per la fama che l'A. veniva acquistando con le sue imprese, gli lesinava, con soli duemila fanti e mille cavalli, fortificò la città, respinse i ripetuti attacchi degli avversari e con audaci scorrerie li tenne impegnati sull'ampio fronte costituito dai territori di Crema, Brescia, Cremona e Bergamo, che cadde nelle sue mani il 14 ott. 1514. Infine, quando Crema era ridotta alla fame e i cittadini, che avevano sino allora validamente collaborato alla difesa, già meditavano la resa, con una improvvisa sortita notturna e una pericolosa marcia attraverso le paludi, sorprese e distrusse l'accampamento di Silvio Savelli e uccise millecinquecento fanti, costringendo così Prospero Colonna a togliere l'assedio.
In seguito a questi successi il Senato lo nominò governatore generale dell'esercito veneto, con uno stipendio annuo di 30.000 ducati, ma l'A., per l'inimicizia con l'Alviano, col quale nella nuova carica avrebbe dovuto più strettamente collaborare, rifiutò; anzi, nel settembre 1515, malgrado le insistenze dei Veneziani e le pressioni dello stesso re di Francia Francesco I che lo invitava a rimanere al servizio della Repubblica, accettò l'invito di Leone X e tornò a militare nell'esercito pontificio. Il Senato veneto, in segno di stima, concesse in feudo all'A. la terra di Martinengo "con quelle istesse giurisdizioni con le quali la possedeva il signor Bartolommeo Colleoni". Nel 1516 l'A. fu insignito dal pontefice del vicariato di Bieda, nel territorio di Viterbo, e l'anno successivo partecipò come luogotenente di Lorenzo de' Medici alla guerra di Urbino, difendendo Ravenna e Rimini e combattendo a Fano.
Dopo il conclave per l'elezione di Adriano VI, durante il quale aveva garantito l'ordine pubblico a Roma, l'A. passò al servizio di Francesco I e vi rimase sino alla morte, guadagnandosi la stima e l'amicizia personale del re. Per questo l'A. non solo prestò la propria opera di condottiero, ma svolse anche alcune importanti missioni diplomatiche, tra le quali furono particolarmente notevoli quella a Venezia, nel 1523, per indurre il Senato a continuare la guerra contro gli Imperiali, e quella presso Clemente VII, nel 1527, per trattare la concessione del regno di Napoli alla Francia. Nel 1522, per incarico di Francesco I, diresse le forze militari a sostegno della congiura dei fuorusciti senesi e fiorentini contro il governo, in Siena e Firenze, dei cardinali Francesco Petrucci e Giulio de' Medici: ma le incertezze dei fuorusciti e la mancanza di approvvigionamenti e di mezzi bellici costrinsero l'A. a rinunziare all'impresa, nonostante l'occupazione della Val di Chiana, dopo il fallito assalto di Chiusi, Siena e Orbetello. Collaborò con Alfonso I d'Este alla conquista di Reggio Emilia e fu poi col Bonnivet in Lombardia al comando di cinquemila fanti italiani (1523-24). Coinvolto nelle vicende, sfortunate in quella campagna, dell'intero esercito francese, dovette retrocedere in Provenza, ma a Marsiglia, resistendo a un assedio di quaranta giorni, riuscì a bloccare l'offensiva del connestabile di Borbone e del marchese di Pescara, che ripiegarono verso l'Italia (28 sett. 1524). Nella controffensiva francese per la riconquista del ducato di Milano, fu affidato all'A. l'incarico di dirigere insieme con il duca d'Albany, Giovanni Stuart, una spedizione nell'Italia centromeridionale che, mobilitando tutte le forze della fazione Orsini negli Stati pontifici e la fazione "angioina" nel Mezzogiomo, doveva allargare a tutta la penisola il teatro della guerra. La spedizione fu però fermata presso Roma dalla notizia della sconfitta francese a Pavia e l'A. insieme con lo Stuart si imbarcò a Civitavecchia per la Francia (marzo 1525).
Alla ripresa della guerra venne inviato da Francesco I in aiuto a Clemente VII. A capo delle Bande Nere sconfisse gli Spagnoli del de Launay a Frosinone (4 febbr. 1527); attaccò poi il Regno di Napoli, avanzando in Abruzzo e occupando Aquila e Tagliacozzo, ma fu fermato dalla tregua stipulata dal papa col de Launay. Nell'aprile si ritirò a Roma, dove Clemente VII, all'approssimarsi dell'esercito del connestabile di Borbone, che non aveva accettato la tregua, lo incaricò della difesa della città.
Molti cronisti accusarono poi l'A. di non aver predisposto misure sufficienti per impedire il Sacco; e in verità egli sottovalutò il pericolo, forte della sua grande esperienza negli assedi e forse anche per avere di fronte lo stesso avversario sconfitto a Marsiglia; è possibile anche che si lasciasse suggestionare dal mito universalmente diffuso dell'imprendibilità, di Roma. Tuttavia egli fu anche vittima di un seguito di circostanze che diminuiscono di molto le sue responsabilità: malgrado le sue vive esortazioni Clemente VII, dopo la tregua col de Launay, aveva disciolto con enorme leggerezza le Bande Nere e tutti i soldati, di cui l'A. poté disporre, furono quattromila archibugieri radunati in fretta e pochissima cavalleria leggera. Gli mancò inoltre, a differenza degli assedi di Marsiglia e di Crema, la collaborazione della popolazione, ché le vecchie compagnie del popolo erano state disciolte da Leone X e la "turba imbelle, et imperita, raccolta tumultuariamente dalle stalle de' Cardinali et de' prelati e dalle botteghe degli artefici et dall'hosterie" (F. Guicciardini) non fu di alcuna utilità e si scompaginò al primo assalto degli Imperiali. Anzi i Trasteverini impedirono la distruzione dei ponti sul Tevere, ordinata dall'A., temendo di rimanere isolati, nel pericolo, dal resto della città. L'A., del resto, pensava di dover resistere pochissimo tempo, considerando imminente l'arrivo dell'esercito della Lega, il cui comandante, Giovanni Maria della Rovere, si attardò invece a Firenze per ottenere dalla Repubblica la restituzione di San Leo. Le difese che in gran fretta riuscì a predisporre, facendo cingere di trincee il Vaticano, rafforzando le mura della Città Leonina e munendole di artiglierie, non riuscirono a frenare l'impeto degli Imperiali che la mattina del 6 maggio entrarono in Roma.
L'A. dopo essersi invano opposto, spada alla mano, alla fuga generale dei difensori raccogliticci dalle mura e dopo essersi esposto personalmente nella difesa di Porta Settimiana e di Ponte Sisto, si rifugiò in Castel S. Angelo. In seguito alla capitolazione stipulata da papa Clemente VII, egli poté uscire liberamente da Roma ed imbarcarsi a Civitavecchia per la Francia. Una fantasiosa leggenda, accettata anche da A. J. Rusconi e A. Valeri, afferma che l'A. morì di dolore per non essere riuscito ad impedire il Sacco. Invece egli ritornò in Italia, a capo delle forze francesi che con la flotta comandata da Andrea Doria dovevano portare la guerra in Sicilia. Prima tappa della spedizione fu la Sardegna (novembre 1527), dove l'A. riuscì a conquistare Sassari, ma il passaggio del Doria al campo imperiale interruppe l'impresa. Inviato a soccorrere il Lautrec che aveva posto l'assedio a Napoli, tentò di dissuaderlo dal tentativo che la diffusione della peste nel campo francese destinava al fallimento; ma all'ostinato rifiuto del Lautrec si recò negli Abruzzi per reclutare nuove milizie. La notizia della morte del Lautrec e della capitolazione dell'esercito francese lo colse mentre tornava a Napoli con quattromila fanti. Con queste milizie, per incarico dei collegati francesi, fiorentini e veneziani sbarcò da Senigallia in Puglia (ottobre 1528) e fece di Barletta la base di operazioni di una dura guerra di logoramento che impegnò notevoli forze spagnole impedendone la partecipazione alla campagna di Lombardia. Nel gennaio 1529 l'A. fu nominato "Luogotenente Generale del Re Cristianissimo nella Sicilia di qua dal Faro" e deputato "al governo et acquisto de le terre del Regno di Napoli", ma interruppe le operazioni nell'agosto in seguito alla stipulazione della pace di Cambrai. Ritornò allora in Francia e alla corte di Francesco I visse, con vari incarichi militari, sino al 1536, nel quale anno, il 20 gennaio, morì in un incidente di caccia.
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