CAMPEGGI, Lorenzo
Nacque a Bologna nel 1574; studiò diritto civile ed ecclesiastico a Bologna e a Pisa, dove si addottorò. Intrapresa la carriera ecclesiastica, ottenne la carica di primicerio della cattedrale di Bologna, ma ben presto si trasferì a Roma, dove Paolo V lo ammise tra i referendari delle due Segnature. Si impratichì così degli affari della Curia pontificia alla scuola del cardinale Maffeo Barberini, il futuro Urbano VIII, allora prefetto della Segnatura di giustizia, il quale avrebbe poi prescelto il prelato bolognese, come numerosi altri suoi collaboratori negli uffici della Segnatura, quale esecutore dell'intensa attività diplomatica da lui fermamente diretta una volta asceso al pontificato, nel 1623.
Ma già durante i pontificati di Paolo V e di Gregorio XV il C. ottenne vari importanti incarichi amministrativi: fu governatore di Iesi, di Fano, di Spoleto, di Ancona e infine della Campagna romana: lasciò quest'ultimo incarico per assumere, nel giugno del 1622, quello di segretario della Congregazione dei vescovi e dei regolari. L'elezione al pontificato del Barberini lo destinò ben presto a più rilevanti incombenze.
Già nel concistoro dell'8 dic. 1623 il C. fu elevato da Urbano VIII alla dignità episcopale (gli fu assegnata la diocesi di Cesena) e il 23 marzo dell'anno seguente fu nominato nunzio a Torino. Sostituiva il vescovo di Savona Pierfrancesco Costa, della cui azione in difesa delle prerogative ecclesiastiche nel ducato sabaudo in Curia si era assai malcontenti: le istruzioni al C. lamentavano infatti che per essere il Costa "quasi nella decrepità, le cose della iurisdittione habbiano trascorso più oltre del dovere a favore del temporale, laonde fa duopo che V.S. vada riacquistando il perduto, ma con destrezza" (Relazione di una nunziatura in Savoia, p. 451).
In realtà il compito del nunzio si presentava denso di difficoltà: il duca di Savoia Carlo Emanuele I che, come annotava Bernardino Campello, uditore del C. sia a Torino sia, in seguito, ad Urbino e a Madrid, "avido di gloria e di dominio, volge macchine grandi e pensieri più vasti della sua sorte" (ibid., p. 460), non intendeva deflettere dall'opera di riconquista delle prerogative del potere civile, che, approfittando del torbido periodo della guerra, sia il clero locale, sia la Curia romana, avevano saputo abilmente distrarre in proprio favore: un programma già largamente realizzato quando il C. assunse la nunziatura, con una serie di energiche iniziati limitatrici della giurisdizione dell'Inquisizione, delle esenzioni fiscali dei beni ecclesiastici, delle immunità conventuali e addirittura della prerogativa romana di nominare i titolari delle sedi episcopali, alla quale il duca contrapponeva l'offerta di un diritto di raccomandazione.Al C. non rimase dunque che tentare di fronteggiare per quanto poté, nel triennio che durò la sua permanenza a Torino, le iniziative regaliste delle magistrature sabaude, ed in effetti a Roma si rimase abbastanza soddisfatti dello zelo e dell'energia dispiegati dal prelato bolognese; ma sostanzialmente egli non riuscì ad ottenere alcun decisivo vantaggio e il contrasto rimase, anche dopo la sua partenza, aperto e vivissimo tra le corti di Torino e di Roma. Tra gli altri compiti del C., assolti sempre con zelo, sebbene senza determinanti successi, fu quello di reprimere, con l'aiuto del potere temporale, gli eretici di Pinerolo e di fronteggiare il dilagare del calvinismo, appoggiando la diffusione delle missioni dei cappuccini e dei barnabiti e promovendo le iniziative della Congregazione de Propaganda Fide, in questo favorito dall'appoggio del duca, "zelantissimo della religione catholica e perpetuo nemico de gl'heretici", come annotava ancora il Campello (ibid., p. 461).
"Uno dei più gravi affari della nunziatura" (ibid., p. 486)fu quello del quale fu protagonista il principe di Masserano e marchese di Crevacuore Francesco Filiberto Ferrero Fieschi, i cui stati, feudi della Chiesa, erano da gran tempo sconvolti dalle contese del principe con i vassalli, sostenuti questi esplicitamente dal duca di Savoia. La contesa, che si conduceva da gran tempo, era poi ancor più invelenita dall'interessato appoggio che, contro i vassalli e contro Carlo Emanuele I, il Ferrero Fieschi aveva ricevuto e, al tempo della nunziatura del C., continuava a ricevere dagli Spagnoli del governatore di Milano, duca di Feria. Il nunzio fu quindi impegnato a sventare il pericolo di un massiccio intervento degli Spagnoli negli stati del principe, il quale avrebbe sicuramente provocato anche l'intervento di Carlo Emanuele I. Tale preoccupazione divenne pressante quando il Ferrero Fieschi, nell'impossibilità di opporsi alle violenze dei suoi vassalli, abbandonò i suoi feudi "con minacciare pubblicamente - come scriveva alla segreteria di Stato il C. con un dispaccio del 18 luglio 1625di voler condurre gli Spagnoli a distruggere li suoi avversari" (ibid., p. 492).Impegnato direttamente nel contrasto per le ragioni feudali della S. Sede su quei feudi, il C. si prodigò per sventare la minaccia, e vi riuscì ottenendo tra i contendenti una tregua di due mesi, in capo alla quale gli Spagnoli, impegnati nel conflitto per la successione del Monferrato, dovettero rinunziare ad intervenire in favore del principe di Masserano, consentendo così al C. forse il più importante successo della sua nunziatura sabauda.Da questa il C. fu richiamato nel 1627, destinato a sostituire il cardinale Berlingherio Gessi nel governo del ducato di Urbino che - ancora vivente il vecchio duca Francesco Maria Della Rovere, e in attesa della morte, con la quale quello Stato in mancanza di eredi diretti sarebbe stato devoluto alla S. Sede - era di fatto esercitato dalle autorità ecclesiastiche.
Soltanto in apparenza questo nuovo incarico del C. poteva essere considerato di minore rilievo rispetto a quello precedente. In effetti, sebbene già da alcuni anni Urbano VIII si fosse garantito, con trattative condotte presso il Della Rovere e sollecitando l'appoggio degli Spagnoli e dei Veneziani, dalle pretese che sul ducato avanzavano i Fiorentini e l'imperatore, e sebbene la stessa corte di Firenze, diplomaticamente isolata, e l'imperatore, bisognoso dell'aiuto finanziario della S. Sede per la lotta contro i principi luterani, si fossero indotti a riconoscere l'ammissione fatta da Francesco Maria dei diritti feudali della Chiesa sul ducato, il pontefice non cessava di preoccuparsi della possibilità che quelle pretese rinascessero al momento della morte del duca. Troppa importanza egli attribuiva all'annessione del ducato allo Stato ecclesiastico, per affidarne il governo, ceduto negli ultimi anni dal duca, a un personaggio di secondo piano. Il ducato infatti, incuneato tra le province ecclesiastiche di Romagna e delle Marche, ricco di città importanti come Pesaro, Fano e Senigallia, che avrebbero dischiuso allo Stato della Chiesa nuove possibilità di traffici marittimi, veniva considerato di tanta importanza agli effetti del potenziamento temporale dello Stato romano, che Urbano VIII respinse energicamente la proposta di farne una signoria separata per il nipote Taddeo Barberini. Egli dispose invece che fossero assunte tutte le possibili cautele d'ordine amministrativo e militare per impedire che la devoluzione fosse compromessa al momento opportuno e il C. fu di queste misure l'attento e solerte esecutore.
Per aumentare il prestigio del C. presso le popolazioni del ducato, Urbano VIII dispose il suo trasferimento dalla diocesi di Cesena a quella di Senigallia, ufficialmente stabilito l'11 dic. 1628. In sostanza il C. poté svolgere il proprio compito in modo abbastanza tranquillo, sebbene il vecchio duca, che dal dicembre 1624, rinunziando al governo dello Stato, si era rifugiato in Castel Durante, non smettesse di affliggerlo con interminabili querimonie su quelle misure che, ritenute opportune dal C. per garantire la devozione delle popolazioni alla S. Sede, costituivano un attentato alla sua autorità di principe ancora formalmente sovrano: così la decisione di attribuire alla Camera apostolica il pagamento delle milizie ducali, così la richiesta ai funzionari dello Stato di impegnarsi a prestare giuramento di fedeltà al governo pontificio alla morte del Della Rovere. Ma sostanzialmente i timori di Urbano VIII si dimostrarono infondati e quando il duca morì, il 28 apr. 1631, la devoluzione dello Stato alla S. Sede poté essere realizzata senza alcuna difficoltà.
Nella primavera dell'anno successivo il C. venne prescelto dal pontefice come nunzio straordinario presso il re di Spagna Filippo IV, mentre analoghe missioni venivano affidate da Urbano VIII al governatore di Roma Girolamo Grimaldi, inviato alla corte di Vienna, ed al maestro di camera Francesco Adriano Ceva, che andò ad affiancare il nunzio ordinario Alessandro Bichi alla corte di Parigi.
Lo scopo di questa triplice missione era di operare un nuovo tentativo di accordo tra i due rami della casa d'Asburgo e la corte di Luigi XIII per la realizzazione di una lega difensiva contro il re di Svezia Gustavo Adolfo, i cui successi contro gli Imperiali minacciavano di tradursi in undanno irreparabile per tutti i paesi cattolici e lasciavano temere, dopo l'accordo tra gli Svedesi e i Grigioni, un'offensiva dei luterani contro la stessa Roma. La missione dei tre nunzi straordinari fu in realtà accolta con molto scetticismo nelle corti: e se in Francia la denuncia dell'alleanza svedese, così come era imposta dal piano diplomatico barberiniano, appariva ineffettuabile nel momento in cui si preparava l'offensiva decisiva contro la morsa asburgica, in Spagna la posizione di neutralità della Curia appariva tanto poco corrispondente alla difesa degli interessi cattolici ai quali si richiamava - poiché si asteneva da qualsiasi misura contro l'oggettivo sostegno dato dalla corte di Parigi agli eretici - da rafforzare gli antichi sospetti di simpatie filofrancesi del papa e quindi provocò le più negative reazioni.
Al momento in cui il C. raggiunse Madrid, nell'estate del 1632, affiancandosi al nunzio ordinario Cesare Monti, che dal gennaio successivo sostituì nella rappresentanza permanente, il più vivo risentimento animava la corte spagnola contro Luigi XIII, il quale aveva appena invaso la Lorena. In attesa di essere in grado di passare ad una aperta offensiva contro la Francia, il Consiglio di Stato aveva deciso di sostenere sino in fondo Gastone d'Orléans contro Luigi XIII, anzi si erano date disposizioni alle squadre navali spagnole nel Mediterraneo di aggredire la flotta francese alla prima occasione favorevole. In queste condizioni la mediazione del C. difficilmente avrebbe potuto avere successo.
Infatti sin dai suoi primi contatti con il sovrano e con il conte duca di Olivares, egli ottenne repliche estremamente fredde, se non addirittura sprezzanti. L'Olivares gli fece osservare che le intenzioni pacifiche di Filippo IV trovavano un ostacolo insuperabile nell'aggressività della Francia, che sosteneva esplicitamente gli eretici tedeschi e fiamminghi contro la casa d'Asburgo, che aveva invaso la Lorena, che aveva occupato Pinerolo in violazione del trattato di Cherasco. L'Olivares mostrò di ritenere responsabile lo stesso pontefice di tanta aggressività poiché, se Urbano VIII avesse energicamente condannato la politica francese di sostegno agli eretici e di violazione degli accordi, il Richelieu non avrebbe osato spingersi così avanti. In definitiva l'Olivares poneva come condizione irrinunciabile ad un accordo con la Francia la rinunzia di questa a tutti i vantaggi conseguiti nelle ultime vicende, e innanzitutto la rinunzia a Pinerolo. In realtà il C. sapeva bene che su queste basi non si sarebbe potuto procedere sulla via di una pacificazione con la corte di Parigi, poiché il riconoscimento della situazione acquisita al momento era posta come, condizione essenziale per l'apertura di trattative dal Richelieu. Egli dovette quindi limitarsi, in questa prima fase della sua missione, a difendere la posizione di neutralità del pontefice, a ricordare a Filippo IV ed ai suoi ministri tutto l'impegno posto da Urbano VIII nel sostenere con rilevanti rimesse di aiuti finanziari la campagna contro gli eretici di Germania, rinunziando ad entrare nel merito delle condizioni poste dalla corte spagnola per l'apertura di trattative e cercando così di non pregiudicarne la possibilità.
Il tentativo del C. era dunque ancora alle battute preliminari quando la notizia della morte di Gustavo Adolfo sembrò modificare profondamente la situazione. Così come contemporaneamente si faceva a Roma, e contro i consigli dei diplomatici francesi e veneziani a Madrid, il C. diede pubbliche manifestazioni di giubilo per la scomparsa del grande nemico, partecipando ai festeggiamenti decisi in questa occasione dalla corte spagnola. Non soltanto il nunzio riteneva di doversi rallegrare per la morte dell'inarrestabile esponente dell'eresia, ma anche riteneva che questo avvenimento dischiudesse finalmente la via ad un accordo con la Francia, fatta questa più remissiva dal venir meno del potente alleato. In questa prospettiva gli sembrava verosimile che anche la corte spagnola si inducesse a sfruttare diplomaticamente questa momentanea superiorità. In effetti l'Olivares si mostrò questa volta assai ben disposto verso le profferte del nunzio: pur rinnovando le proteste contro la Francia e insistendo perché Urbano VIII uscisse dalla sua posizione di neutralità, proclamò fermamente le intenzioni pacifiche della corte spagnola e si disse pronto ad iniziare contatti preliminari con la Francia, e addirittura si mostrò incline all'idea di un congresso tra le tre Corone cattoliche. Il C. si lasciò ingannare completamente da queste manifestazioni di buona volontà dell'abile ministro. Per un momento egli credette seriamente che la sua missione fosse per ottenere i migliori risultati ed indusse la segreteria di Stato a condividere tanta ingenua fiducia.
In realtà la notizia della morte del re di Svezia non aveva fatto che alimentare l'animosità della corte di Madrid verso la Francia: Filippo IV e i suoi ministri ritennero che fosse venuta l'occasione per sferrare un colpo decisivo contro la grande rivale. Un dettagliato piano militare e diplomatico fu approntato dai consiglieri del sovrano per approfittare nel migliore dei modi della circostanza favorevole, isolando la Francia, alimentandone i contrasti interni, colpendo i suoi alleati, premiando i suoi nemici, secondo il programma espresso dal conte duca d'Olivares nel Consiglio di Stato del 9 genn. 1633. Alla realizzazione di questo programma politico furono rivolte alcune importanti misure militari che avrebbero permesso una ferma resistenza degli Spagnoli nello Stato di Milano in caso d'attacco francese su quel fronte, mentre al cardinale infante, al governatore di Milano e al Wallenstein veniva affidato l'incarico di una massiccia offensiva dai Paesi Bassi, e mentre dal canto suo l'imperatore avrebbe dovuto inviare una armata in Francia e la flotta spagnola avrebbe dovuto attaccare la Provenza.
Le possibilità di guadagnare tempo per realizzare questo complesso piano, che inconsapevolmente la diplomazia pontificia gli offriva con le sue proposte di trattative, apparivano perciò preziose all'Olivares: del resto egli aveva troppo precise informazioni sulle intenzioni diLuigi XIII, di cui si conoscevano gli accordi con il conte d'Egmont per una offensiva francese nelle Fiandre che alleggerisse la pressione spagnola contro gli Olandesi, per credere che i negoziati avessero qualche possibilità di realizzazione. In questa situazione il C., come del resto tutti gli altri nunzi impegnati sugli altri fronti diplomatici, era predestinato al ruolo di vittima della preminenza della ragion di Stato sulle esigenze della fede e dell'unità cattolica di cui nel suo ostinato utopismo la diplomazia pontificia si rifiutava di prendere atto.
In realtà, una volta rientrati gli entusiasmi suscitati da quelle incongrue speranze di pace, la diplomazia pontificia cominciò lentamente a rendersi conto di quanto scarse fossero le armi di cui poteva disporre contro quelle delle corti. Come scriveva al C. l'8 ott. 1633 il cardinale Francesco Barberini, segretario di Stato, per confortarlo dei continui attacchi che da parte spagnola venivano mossi alla neutralità di Urbano VIII, "a me pare che dopo haver usato inutilmente tutti li mezzi humani per metter in chiaro la candidezza delli pensieri di S. B., dobbiamo ricorrer meramente all'aiuto di Dio e di San Pietro, non con imprecationi ma con humillissime preghiere, che mutino in meglio i cuori de' principi e loro ministri (Leman, p. 317).
Le pressioni della corte spagnola per ottenere la sostanziale adesione del pontefice alla politica della casa d'Austria si andavano facendo in effetti sempre più pressanti. Dapprima la diplomazia pontificia era stata costretta a respingere il progetto di una partecipazione di Urbano VIII ad una lega italiana il cui fine doveva essere l'esecuzione dei trattati di Ratisbona e di Cherasco, vale a dire la rinunzia della Francia a Pinerolo; poi, attraverso il C. ed i rappresentanti spagnoli a Roma, la corte di Madrid spinse ancora più innanzi le proprie pretese: contro il re di Francia ed i suoi ministri, colpevoli di sostenere i principi luterani dell'Impero, gli Svedesi, i calvinisti e di meditare con questi nemici della vera religione la rovina dell'Impero e degli elettori cattolici, e poi di tutte le potenze cattoliche, il papa aveva il dovere di ricorrere a tutte le risorse spirituali e temporali, di condannare esplicitamente il re di Francia, addirittura di scomunicarlo insieme con tutti i suoi complici, ed infine di prendere parte alle iniziative politiche e militari di una lega alla quale avrebbero partecipato la Spagna e l'Impero, oltre ai minori Stati cattolici di Germania e d'Italia.
Gli ostinati rifiuti del pontefice a queste proposte non facevano che rendere più difficile la posizione del C. presso la corte spagnola; e d'altra parte l'Olivares sapeva approfittare della evidente posizione di inferiorità del diplomatico pontificio per esercitare anche per mezzo suo le più fiere pressioni su Urbano VIII perché almeno contribuisse in maniera sempre più rilevante ad aiutare finanziariamente la guerra contro gli eserciti tedeschi: ma i risultati di queste pressioni, sebbene Filippo IV ottenesse dal papa il consenso a pesanti esazioni straordinarie a carico del clero spagnolo e sebbene lo stesso pontefice si impegnasse nel marzo del 1634 a un nuovo contributo di 200.000 scudi, continuavano a lasciare insoddisfatta la corte di Madrid. E quando il C., nel novembre del 1633, dopo la notizia delle vittorie ottenute in Germania dal Wallenstein, e poi ancora nei primi mesi dell'anno seguente, tornò nuovamente ad insistere con Filippo IV e con il conte duca perché l'ambasciatore spagnolo a Parigi, il Benavides, fosse autorizzato a trattare per un congresso di pace, non ne ebbe che le più esplicite ripulse: ancora una volta il re e il favorito attribuirono ogni responsabilità dei mali che affliggevano la Cristianità agli eretici e ai loro alleati e riproposero una lega alla quale partecipasse anche il pontefice come l'unico possibile mezzo per riguadagnare la tranquillità al mondo cattolico.
Ormai alla corte spagnola la decisione di rompere gli indugi e di muovere in guerra aperta contro la Francia era largamente maturata, e con essa assumevano nuova forza le pressioni su Urbano VIII. Ma la Curia romana continuava a ritenere che "l'altre dimostrazioni rigorose contro il re e il cardinale di Richelieu sono rimedi più potenti del male, che da un prudente medico non devono mai adoperarsi", come scriveva Francesco Barberini al C. il 4 marzo 1634 (ibid., p. 352). In realtà le speranze di pace tra le Corone cattoliche riposavano, secondo la diplomazia barberiniana, sul fatto che i Francesi "non si fidano in effetto d'eretici e particolarmente di Suezzesi e che desiderano potersi con sicurezza distaccar da essi, ma che questo non possono fare senza haver certezza d'una buona amicitia con la casa d'Austria e che, mostrandosi questa lontana dalla pace, esser necessario che essi si tenghino in amicitia con l'eretici, poiché non possono in alcun modo essere nemici degl'uni e degl'altri in un medesimo tempo" (ibid.).
Sulla base di questa argomentazione il C. condusse i suoi ultimi inani tentativi, in corrispondenza con l'iniziativa nuovamente assunta dalla Curia pontificia nella primavera del 1634 per un congresso di pace tra le potenze cattoliche da tenersi sotto la presidenza del papa a Roma, mentre le trattative con le potenze protestanti con le quali Urbano VIII non intendeva prendere contatti diretti avrebbero dovuto essere condotte in altra sede. Alla corte spagnola si era più che mai convinti della necessità di una guerra contro la Francia, ma numerosi motivi sconsigliavano una decisione immediata in tal senso: in primo luogo le finanze dello Stato avevano urgente bisogno, per le necessità belliche, di essere rinsanguate da un arrivo di oro americano che era in forte ritardo; in secondo luogo una grave crisi aveva colpito le massime gerarchie degli eserciti asburgici con la morte del duca di Feria nel gennaio precedente e con la scoperta del tradimento del Wallenstein: e anche a questo occorreva porre riparo. Considerando che "el estado universal es hoy el mas peligroso que esta monarchia ha alcanzado" (ibid.), l'Olivares era indotto ora alla massima prudenza, della quale nuovamente si illuse di poter approfittare il C. per affiancare vantaggiosamente le proposte di pacificazione che contemporaneamente erano portate avanti con qualche apparenza di successo dal Bichi alla corte di Francia.
Secondo il C. un compromesso avrebbe potuto essere raggiunto sulla base della rinunzia da parte di Luigi XIII all'occupazione della Lorena e alla alleanza con i principi luterani, in cambio del definitivo riconoscimento dell'occupazione francese di Pinerolo e dell'investitura al re cristianissimo dei tre vescovati renani. La replica di Filippo IV fu che egli avrebbe potuto consentire all'insediamento francese in Pinerolo soltanto in cambio di analoghi vantaggi strategici in Piemonte: poiché la cosa avrebbe avuto il significato di vanificare la presenza francese a Pinerolo, questa era in effetti una controproposta che equivaleva ad un rifiuto. E del resto l'idea stessa di un congresso di pace con il papa in figura di mediatore è ben lontana dal guadagnare le simpatie spagnole: alla corte di Madrid si insiste perché il papa esca dalla sua posizione di neutralità condannando pubblicamente (l'ultima proposta spagnola è quella che da Roma si invii a Parigi un cardinale legato col compito di ammonire severamente quel sovrano) l'appoggio dato dai Francesi agli eretici, tanto più che mentre a Parigi si continuano a professare le più pacifiche intenzioni nuovi accordi sono stati recentemente conclusi con gli Olandesi, il 15 apr. 1634.
Tutta l'estate di quell'anno passò in una ridda di proposte e controproposte tra il C. e i ministri spagnoli che non scalfirono minimamente le posizioni reciproche. Del resto la notizia della vittoria riportata sugli Svedesi a Nordlingen dal cardinale infante viene per opposti motivi a rafforzare sia la corte di Madrid sia quella di Parigi nel giudizio che soltanto le armi ormai avrebbero potuto decidere della contesa.
Lo stato avanzato della stagione impedisce tuttavia l'immediata apertura delle ostilità: così l'inverno del 1634 e la primavera seguente dimostrano che la diplomazia pontificia non ha ancora esaurito la propria enorme riserva di ottimismo, dando luogo al più incredibile capitolo della storia diplomatica barberiniana, il grottesco progetto di una lega generale delle potenze cattoliche per una crociata contro il Turco. Colpito dalla notizia che il sultano ha deciso l'esclusione dei cattolici dai luoghi santi a vantaggio degli scismatici, Urbano VIII rilancia così la proposta di un congresso di pace delle potenze cattoliche a Roma per decidere uno sforzo comune contro l'eterno nemico della Cristianità, proprio nel momento in cui gli statisti hanno vinto, sia a Parigi sia a Vienna sia a Madrid, le ultime riserve e titubanze e hanno di fatto rinunziato alla parola in favore dei militari.
Con comprensibile sfiducia il C. è così costretto a ritornare ad insistere presso il conte duca per ottenerne l'adesione ai nuovi fantasiosi programmi pontifici. L'Olivares non si prende neppure più cura di inventare difficoltà, anzi mostra per mesi un paziente interesse alle proposte del nunzio apostolico, guardandosi bene naturalmente dal muovere un solo passo nella direzione desiderata da Urbano VIII. Del resto la conquista di Treviri da parte degli Spagnoli e l'invasione della Valtellina da parte dei Francesi vengono ben presto a dispensarlo da un più esplicito atteggiamento.
È anzi lo stesso C. a dover ancora difendere la posizione di neutralità del pontefice quando il governo spagnolo, sottolineando il pericolo di guerra che può derivare alla penisola dall'invasione della Valtellina, si rivolge ad Urbano VIII e agli altri principi italiani per chiedere non "que se declaren enemigos del rey de Francia ni rompan la guerra con el, sino solamente que se unan con el rey nuestro señor en no consentir que aya guerra en Italia, sea quien fuere el que la moviere, pues en Italia no ay razon de guerra" (ibid., p. 594). Anche in questa forma attenuata l'impegno antifrancese richiesto dalla corte di Madrid è inaccettabile per Urbano VIII, ma gli Spagnoli vedono in questo ennesimo rifiuto del papa una ulteriore prova di cattiva volontà, di larvato ma efficace appoggio alla Francia.
Dopo la dichiarazione di guerra del 19 maggio 1635 il C. rimase a Madrid, continuando nei propri compiti di nunzio permanente; ma la sua posizione rimase difficile a causa del risentimento spagnolo contro il pontefice che non poteva non riflettersi contro il suo più vicino rappresentante. Morì a Madrid l'8 ag. 1639.
Fonti e Bibl.: B. Campello, Relazione di una nunziatura in Savoia (1624-1627), a cura di F. Pagnotti, in Arch. della R. Soc. rom. di storia patria, XVI (1893), pp. 447-500;A. Leman, Urbain VIII et la rivalité de la France et de la Maison d'Autriche de 1631 à 1635, Lille-Paris 1920, passim;L.von Pastor, Storia dei papi, XIII, Roma 1931, passim;B. Katterbach, Referendarii utriusque Signaturae, Città del Vaticano 1931, p. 240.