MEDICI, Lorenzo
de’ (Lorenzino). – Nacque a Firenze il 22 marzo 1514 da Pierfrancesco (il Giovane) di Lorenzo e da Maria di Tommaso Soderini, primo di quattro figli, con Giuliano, nato nel 1520, Maddalena e Laudomia. Per il suo aspetto esile, fu chiamato e conosciuto con il diminutivo Lorenzino.
Il padre discendeva dal ramo cadetto della famiglia che, nel corso delle vicende politiche fiorentine, si era schierato a favore delle libertà popolari contro Piero de’ Medici assumendo la denominazione di Popolani con il nonno del M., l’omonimo Lorenzo, nel 1494. Dopo una giovinezza trascorsa dissipando il patrimonio familiare, Pierfrancesco aveva sposato nel 1511 Maria, appartenente a un’antica famiglia, i Soderini, di tradizione repubblicana. A Maria spettò il compito di riordinare il patrimonio familiare, convincendo il marito a trasferirsi nella villa di Cafaggiolo, dove Pierfrancesco diresse i propri affari e amministrò le terre sue e del cugino Giovanni de’ Medici (Giovanni dalle Bande Nere).
Il padre del M. morì nell’agosto 1525, lasciando un debito di 8000 ducati d’oro; a capo della famiglia restò, come esponente più anziano, Giovanni, anche se di fatto fu il prete Giovanni Francesco Zeffi, entrato in servizio nel 1515 come maestro del M., ad assumere la direzione della casa. Zeffi, letterato mediocre, non si dimostrò all’altezza della vivace intelligenza del M., ed è quindi probabile che questi provvedesse da solo alla propria educazione, grazie a una profonda inclinazione agli studi e in particolare alle «umane lettere, le quali egli, che ingegnosissimo era, apparò con incredibile agevolezza» (Varchi, p. 251).
Nel dicembre 1526, a causa della discesa delle truppe imperiali verso Roma, il M. e suo fratello Giuliano insieme con Zeffi, Cosimo, figlio di Giovanni e futuro duca (Cosimo I), e il suo precettore Pier Francesco Riccio si rifugiarono a Venezia. La scelta del luogo fu probabilmente suggerita da Maria Salviati, moglie di Giovanni e madre di Cosimo, che confidava nella benevola accoglienza della Repubblica, al servizio della quale il marito era morto combattendo (1526). I giovani Medici, ospitati dalla famiglia Cappello, furono introdotti nell’ambiente veneziano, dove frequentarono uomini di lettere e artisti. Il M. compì viaggi di istruzione a Treviso con Marco Antonio Gondi, a Padova e a Vicenza con Cosimo; nell’agosto 1529 si recò a Bologna con i cugini Alessandro, figlio naturale di Clemente VII, e Ippolito di Giuliano de’ Medici per assistere all’incoronazione di Carlo V da parte del papa (24 febbr. 1530).
Nell’aprile 1530 il M. si trasferì a Roma, dove, grazie all’amicizia di Filippo Strozzi e alla protezione del pontefice, trascorse quasi quattro anni, nei quali poté dedicarsi all’approfondimento degli studi classici. Nell’autunno 1532 tornò con il papa a Bologna; ma i rapporti con Clemente VII si guastarono quando questi gli negò la completa restituzione di un prestito di 6600 scudi che l’avo Lorenzo aveva fatto alla Camera apostolica. Tornato a Roma, mosso forse dall’invidia per i più fortunati parenti, una notte di primavera del 1534 danneggiò i bassorilievi dell’arco di Costantino e trafugò alcune statue del foro.
L’atto di vandalismo suscitò l’ira di Clemente VII che lo definì «l’infamia e ’l vituperio della casa de’ Medici» (ibid., p. 252), mentre il letterato F.M. Molza scrisse un’orazione per condannare l’iconoclasta (Oratio habita in Senatu Populi Romani contra Laurentium Medicem, in F.M. Molza, 1750, pp. 201-218). Il gesto è stato interpretato dagli storici come premonitore del tirannicidio: «Lorenzino mozzando le teste dei Cesari […] presagiva l’atto libertario con cui avrebbe tolto dal mondo un altro Cesare» (Simoncelli, 2006, p. 170).
Costretto a lasciare la città, il M. fece ritorno a Firenze nel marzo 1534 e si legò alla corte del cugino, il duca Alessandro, del quale seppe rapidamente conquistarsi il favore. Consapevole che dalla sua benevolenza dipendeva il proprio futuro, egli «seppe con esso così ben fingere, e così ben si sottomesse al duca» (Varchi, p. 253) da fargli credere di poter ottenere preziose informazioni sugli esuli repubblicani. In realtà, il M. nutriva un odio sempre più radicato contro Alessandro, colpevole ai suoi occhi di soffocare le tradizionali libertà cittadine. Questo convincimento, secondo Varchi, unito all’ammirazione per gli eroi tirannicidi della classicità, quali Lucio Giunio Bruto e Marco Giunio Bruto, alimentò il suo desiderio «intensissimo di farsi immortale» spingendolo all’azione (ibid., p. 262). Nel dicembre 1535 accompagnò Alessandro a Napoli, dove Carlo V avrebbe espresso il suo giudizio sul contrasto tra la delegazione dei fuoriusciti fiorentini e lo stesso Alessandro.
Tornato a Firenze nel marzo 1536, lavorò alla commedia d’ispirazione classica Aridosia, incentrata sulle vicende dei fratelli Marcantonio e l’avaro Aridosio, e sulla diversa educazione da loro impartita ai figli. Nel testo, il M. seppe fondere modelli classici come l’Aulularia e la Mostellaria di Plauto e gli Adelphoe di Terenzio, con i modelli della commedia contemporanea come la Mandragola di N. Machiavelli. L’opera, fra i migliori esempi del teatro cinquecentesco di ispirazione classica, fu commissionata dal duca per le sue nozze con Margherita d’Austria e messa in scena con successo il 13 giugno 1536; fu più volte pubblicata nel corso del secolo (Aridosio comedia…, Lucca, V. Busdrago, 1549; Venezia, M. Pagan [forse 1550], Firenze, F. Giunti, 1593). Anton Francesco Doni nella sua Libraria seconda dà notizia anche di una tragedia intitolata Fiorenza di cui non resta altra traccia.
Nel frattempo la vittoria di Cosimo nella causa per la divisione del patrimonio familiare aggravò la situazione finanziaria del Medici. Continuò nondimeno a condividere i capricci del duca e fu proprio una delle tante trasgressioni a offrirgli l’occasione propizia per ucciderlo.
Alessandro si era invaghito di Caterina Soderini Ginori, parente del M., il quale promise di organizzare un incontro. Il M. agì nella notte tra il 5 e il 6 genn. 1537 insieme con il fedele servitore Michele del Tavolaccino detto Scoronconcolo. Nella Storia fiorentina, B. Varchi ricostruisce i dettagli dell’evento, affermando di averne udito il racconto dal M. stesso (p. 250). Convinto il duca ad attendere la donna da solo, il M. lo sorprese con un colpo sferrato al petto, al quale seguirono le pugnalate mortali inferte da Scoronconcolo.
Il M. fuggì quindi da Firenze insieme con il suo servitore e si rifugiò a Bologna, dove informò dell’accaduto l’esule Silvestro Aldobrandini. Si recò poi a Venezia sotto la protezione di Filippo Strozzi, il quale «chiamatolo il lor Bruto, gli promisse che farebbe che Piero e Ruberto suoi figliuoli prenderebbono per moglie le due sue sorelle» (ibid., p. 259): quelle unioni, tuttavia, sarebbero avvenute solo nel 1539, all’indomani della morte per suicidio di Filippo. Nella casa degli Strozzi il M. ricevette le visite e gli elogi di Iacopo Nardi, di Iacopo Sansovino, di Varchi e di Girolamo Borgia, che gli dedicarono componimenti poetici inneggianti al «nuovo Bruto toscano» (ibid., p. 288). Si aggiunsero le lodi degli esuli Giorgio Dati, Paolo Del Rosso e Giovambattista Strozzi, mentre lo zio Bindo Altoviti lo soccorse con la somma di 500 scudi. Molza scrisse in suo onore un appassionato epigramma, che cancellava la precedente condanna (ibid., pp. 288 s.; Martini, p. 10). Per eternare il suo gesto il M. commissionò una medaglia che lo raffigurava su un lato in abito romano – si tratta dell’unico ritratto coevo del M. –, mentre sull’altro apparivano il berretto frigio simbolo della libertà e la data del tirannicidio.
Ma l’esultanza per la morte del tiranno fu di breve durata: già pochi giorni dopo da Firenze giunse la notizia del conferimento a Cosimo del titolo di capo e primario della città (a settembre avrebbe ricevuto il titolo ducale). Filippo Strozzi consigliò allora al M. di dirigersi a Mirandola, dove il conte Galeotto Pico era pronto a offrirgli protezione. Lì il M. trascorse il mese di gennaio raccogliendo truppe che Strozzi avrebbe dovuto condurre contro Firenze e pianificando l’occupazione di Pisa. Convinse intanto la sua famiglia a lasciare la residenza di Cafaggiolo e a cercare riparo a Bologna presso gli Strozzi.
Non mancarono le critiche mossegli da alcuni fuoriusciti sul comportamento tenuto dopo l’attentato: Varchi scrisse che «nessuna congiura non fu mai né meglio pensata innanzi al fatto […], così nessuna non fu mai peggio maneggiata né più vilmente dopo il fatto» (ibid., pp. 260 s.). Il M. rispose da Venezia con una lettera all’amico Francesco de’ Medici, nella quale difese il momento scelto per l’uccisione e la successiva fuga (in Apologia e lettere, pp. 83-88). La lettera fu fatta circolare privatamente dal M. ed è considerata un’anticipazione dell’Apologia.
Il 6 febbr. 1537, a bordo di una nave veneziana e munito di lettere per l’ambasciatore francese Jean de la Forest, il M. salpò per Costantinopoli, dove doveva probabilmente contribuire al negoziato dell’alleanza franco-ottomana in funzione antiasburgica. A Costantinopoli si trattenne alcuni mesi e fu ricevuto più volte da Solimano il Magnifico.
Nel frattempo a Firenze fu dichiarato ribelle e il 24 aprile fu promulgato il bando che stabiliva una ricompensa di 4000 fiorini d’oro per «chiunque l’ammazzasse» e la concessione di una ricca pensione, nonché l’esenzione dalle tasse per l’autore della cattura (Varchi, p. 307). Ad agosto il M. rientrò a Venezia, dove lo attendevano una serie di gravi notizie: la disfatta subita a Montemurlo dai fuoriusciti e il provvedimento di Carlo V che lo dichiarava «traditore di sua maestà» (ibid., p. 356), escludendolo da ogni possibilità di perdono. La sua casa fiorentina era stata saccheggiata, mentre il governo veneziano iniziava a nutrire dubbi sull’opportunità dell’ospitalità offertagli.
Alla fine di settembre si trasferì a Lione, protetto dalla potente nazione fiorentina nella città. Qui, probabilmente all’inizio di ottobre, fu ricevuto dal re, Francesco I, che gli offrì la sua protezione e gli elargì 400 scudi, mentre Luigi Alamanni gli dedicò alcuni versi (in Ferrai, 1891, pp. 286 s.). A novembre accompagnò il re in Piemonte, dove fu avvistato dagli emissari di Cosimo I, attenti a seguirne ovunque le tracce.
Nei mesi successivi seguì gli spostamenti della corte francese finché, nel gennaio 1539, si stabilì a Parigi, dove tentò di nascondere la propria identità usufruendo dell’ospitalità di Giuliano Buonaccorsi, tesoriere del re, e talvolta anche di Benvenuto Cellini, che aveva conosciuto alla corte di Alessandro. Il rappresentante mediceo presso la corte di Francia Alfonso Tornabuoni, vescovo di Saluzzo, scrisse da Parigi al sovrano toscano che «di Lorenzo […] non si sa in questo paese cosa nessuna di lui, pensasi che sia rinchiuso in un collegio in Parigi» (lettera del 24 febbr. 1539, ibid., pp. 472 s.). Potrebbe trattarsi del Collège des Lombards o del Collège de France, dove avrebbe ripreso gli studi greci e latini sotto la guida del professore di greco Giacomo Toussain (ibid., p. 295).
Messo in guardia da alcuni conoscenti, nel giugno 1541 il M. fece arrestare a Lione il capitano Francesco da Bibbona, accusandolo di premeditare il suo omicidio: l’uomo fu tuttavia liberato poco dopo per mancanza di prove, come dimostra la lettera scritta dal M. allo stesso Bibbona il 16 luglio (Apologia e lettere, pp. 90 s.). Intanto si era trasferito presso lo zio Giuliano Soderini a Saintes, non lontano da La Rochelle, dove trascorse alcuni mesi relativamente tranquilli, interrotti solo da nuove missioni diplomatiche affidategli da Piero Strozzi, tra cui una a Venezia all’inizio del 1542, insieme con Luigi Alamanni, per verificare la disponibilità della Repubblica ad allearsi con la Francia. Rientrato a Parigi, forse nuovamente ospitato presso un collegio di studi, vi soggiornò fino alla fine del 1544.
In quel periodo compose la sua opera più nota, l’Apologia, nella quale spiegò con rigorosa chiarezza i motivi che lo avevano legittimato a uccidere Alessandro e a fuggire da Firenze. Il M. si dimostra ormai consapevole della sua sconfitta e di quella dei repubblicani, ma si difende affermando «l’ingiudicabilità a posteriori degli eventi» (ibid., p. 13): il suo obiettivo è quello di lasciare una testimonianza indelebile dei fatti, per evitare che altri possano stravolgere il suo gesto. Costruito sullo stile dell’oratoria classica, il testo trae ispirazione anche dai moderni I. Nardi, Coluccio Salutati (De tyranno) e soprattutto Machiavelli. L’Apologia sancisce quindi, sulla scia dell’umanesimo civile fiorentino, il diritto dei cittadini al rovesciamento di un regime politico giudicato tirannico. L’opera ebbe diffusione manoscritta fino al 1723, quando fu edita nell’ottavo tomo del Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae (Leida 1704-23).
Nel settembre 1544, dopo la morte di Giuliano Soderini, il M. maturò la decisione di rientrare a Venezia, dove lo attendeva la sua famiglia, con la quale si sistemò nello splendido palazzo degli Strozzi a Cannaregio.
A Venezia si legò ai numerosi esuli fiorentini, Lorenzo Gori, Gino Capponi, Paolo Del Rosso, Cesare Baccelli, Scolaio Saltarelli e Luca Albizzi, con i quali frequentava assiduamente la casa del nunzio apostolico Giovanni Della Casa (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 2966, c. 29; 2967, cc. 248r, 290r). Molto diverso invece fu il rapporto con Pietro Aretino, anch’egli ospite della Serenissima, che in più occasioni espresse condanna e disprezzo per il tirannicida. A Venezia ritrovò anche Cellini e conobbe Elena Barozzi Centani. Il legame con la gentildonna, dal quale sarebbe nata postuma Lorenzina, lo trattenne a Venezia, nonostante la situazione si facesse per lui sempre più pericolosa.
Dopo un primo attentato andato a vuoto nell’autunno 1546, nel quale fu coinvolto accidentalmente Giovanni Della Casa, nella cui gondola si sospettava la presenza del M., la morsa contro di lui si strinse ancora di più. I dispacci dell’ambasciatore mediceo Pier Filippo Pandolfini riportavano con accuratezza gli spostamenti del «traditore» – dal suo trasferimento nel rio di S. Polo, ai suoi incontri con gli ambasciatori stranieri –, che le spie incaricate da Cosimo di tenerlo sotto stretta sorveglianza riferivano. Vi era il timore che il M. potesse fuggire; molti esuli infatti, delusi dalla posizione neutrale di Venezia nei confronti dell’Impero, tornarono in Francia. Tra loro anche Piero Strozzi, che abbandonò la Serenissima con la famiglia nel gennaio 1548, lasciando solo e privo di protezione il M., al quale il governo veneziano non aveva concesso il salvacondotto per partire. Intanto, giunse a Venezia Giovanfrancesco Lottini, incaricato da Cosimo I di organizzare l’uccisione del M., e forse anche quella di Leone Strozzi, mentre già da alcuni mesi l’agente del duca Girolamo del Vezzo stava a sua volta pianificando l’attentato. Lottini si valse di altri due toscani, Bebo da Volterra e Francesco da Bibbona, i quali si apprestarono a colpire.
Il 26 febbr. 1548 il M. cadde vittima dei loro pugnali.
Una memoria redatta da Francesco da Bibbona permette di ricostruire l’esatta dinamica dei fatti: dopo un lungo appostamento presso la dimora del M., i due sicari lo videro uscire scortato da Giovambattista Martelli e dallo zio Alessandro Soderini «l’un dietro all’altro come le grue» (in Del Vita, p. 61) e dirigersi alla chiesa di S. Polo, dove i tre sostarono brevemente. Uscito il M. accompagnato solo dallo zio, i sicari li pedinarono fino al palazzo della Centani a S. Tomà. Il primo a essere colpito fu Soderini che, ferito mortalmente, morì qualche ora dopo, mentre il M. fu ferito da Bebo con una pugnalata alla tempia, e poi finito da Francesco da Bibbona.
Gli assassini trovarono rifugio presso l’ambasciatore cesareo don Juan de Mendoza, che organizzò la loro fuga a Piacenza. La reazione della Repubblica veneta fu pressoché nulla, anche perché il Consiglio dei dieci fu presto a conoscenza che i due assassini godevano della protezione dell’Impero. La notizia della morte del M. fu accolta con soddisfazione da Carlo V e da sua figlia, la vedova di Alessandro Margherita d’Austria. Cosimo I scrisse a Pandolfini di voler conoscere tutti i dettagli dell’azione, per poter ricompensare degnamente coloro che avevano «fatta sì santa opera di levare questa peste dal mondo» (Del Vita, p. 76). Nonostante le proteste degli Strozzi e dei Soderini, la morte del M. non suscitò quell’eco che anni prima si era levata per celebrare il suo tirannicidio, con l’eccezione dell’amico Giovanni Della Casa che ne lamentò la morte con il cardinale Alessandro Farnese. Non resta memoria di onoranze funebri e non è improbabile che sia stato sepolto in terra sconsacrata.
La personalità del M. e la sua tragica vicenda ispirarono numerose opere drammatiche e diversi testi letterari. Già nel 1548 comparve come anonimo protagonista nella XII novella della seconda giornata dell’Eptameron di Margherita di Navarra, alla quale egli stesso a Parigi, nel 1539, aveva descritto il tirannicidio. Nel Seicento anche il teatro inglese si appropriò del suo personaggio con The revenger’s tragedy di Cyril Tourneur e The traitor di James Shirley (1631), mentre lo spagnolo Diego Jiménez de Enciso si ispirò al M. nell’opera Los Medicis de Florencia (1622). Ma è alla fine del Settecento e soprattutto nel corso dell’Ottocento che il M. conobbe una straordinaria fortuna letteraria. Dopo la mediocre tragedia di M. Rastrelli (1780), La morte di Alessandro de’ Medici, V. Alfieri compose il poema l’Etruria vendicata (1789) nel quale celebrò l’eroismo del Medici. Seguirono Lorenzino di Giuseppe Revere (1839), Lorenzino de’ Medici di Luigi Leoni (1843) e l’opera musicale di Giovanni Pacini, Lorenzino de’ Medici (1845), opera fortemente celebrativa. Anche in Francia il M. attirò l’attenzione di scrittori come Louis Bertrand, con la tragedia Laurent de Médicis (1839), e Alexandre Dumas padre con Lorenzino (1842), entrambi affascinati dagli aspetti romanzeschi della sua vita; Alfred de Musset, ispirato dal testo di George Sand, Une conspiration en 1537 (1831), compose uno dei suoi capolavori con il dramma storico Lorenzaccio (1834), dove indagò il carattere del M. evidenziandone l’ambiguità e la complessità. Tra Ottocento e Novecento la figura del M. ha continuato a ispirare opere letterarie e musicali e il film Lorenzino de’ Medici (1935) di Guido Brignone.
Opere. Numerose le edizioni dell’Apologia, tra cui L’Apologia e l’Aridosio, con prefazione di M. Bontempelli, Milano 1916; Aridosia, Apologia, Rime e Lettere, a cura di F. Ravello, Torino 1917; Orazioni scelte del secolo XVI. Apologia di Lorenzo de’ Medici, a cura di G. Lisio, Firenze 1957, pp. 133-185; Apologia e lettere, a cura di F. Erspamer, Roma 1991.
Fonti e Bibl.: Firenze, Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore, Registri battesimali, reg. 8, c. 72; Arch. di Stato di Firenze, Carte Strozziane, Serie I, bb. 10, cc. 130, 223-230 (epitaffio per il M. di Giovanni Aldobrandini); 95, cc. 41 (copia della lettera del M. a Francesco de’ Medici), 114-121 (Rime di Varchi al M.); 100, cc. 14v-15v (lettera di Bernardo Cavalcanti, sett. 1537); Serie III, bb. 30, cc. 12-13 (copia di lettera a Filippo Strozzi del 15 febbr. 1537 sul viaggio a Costantinopoli); 95, cc. 149v-150r; 97, cc. 33v-34r; 101, cc. 21v-22r, 27r-29r, 34-35, 42v; 135, cc. 21-22; Mediceo del principato, 9, cc. 393r, 448v, 462r, 463v, 469r, 471r, 481r, 490 (lettere di Cosimo I sulla morte del M.); 332, cc. 2-4; 336, c. 84r; 351, c. 544r (lettera del M. a Francesco da Bibbona del 16 luglio 1541); 384, cc. 21, 26, 27, 30, 31, 39, 71, 215, 220v, 256r (lettere da Venezia di Girolamo del Vezzo 1547-48); 3093, cc. 29, 34r, 35v, 36r, 38r, 40r, 46r, 48r, 50r, 55v, 58v, 61v, 68v, 72v, 77rv, 82v, 87r, 110r, 114v, 122v, 128v,132v, 137rv, 164r, 167v, 178v, 183r, 187v (dispacci da Venezia di Bernardino Duretti sull’attività del M. nel 1537-39); 2699, cc. 29r, 47v-48r, 199r (dispacci da Venezia 1545-46); 2967, cc. 248r, 290r, 453r, 455r, 566r, 583r, 587r, 599r, 654r, 704r, 714r, 716r, 746r, 720r, 729r (dispacci da Venezia di Pier Filippo Pandolfini, 1546-48); Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 8461 (copia dell’Apologia, sec. XVI); Lettere di principi le quali si scrivono o da principi o a principi o ragionano di principi, III, Venetia 1577, pp. 162v-166v; S. Ammirato, Istorie fiorentine, parte seconda, Firenze 1641, pp. 435-439; B. Segni, Storie fiorentine, 1527-1555, Augusta 1723, pp. 146, 199, 205, 209 s., 227, 245, 314; Filippo de’ Nerli, Commentarj de’ fatti civili occorsi dentro la città di Firenze dall’anno 1215 al 1537, Augusta 1728, pp. 286-290, 294; F.M. Molza, Delle poesie volgari e latine, a cura di P.A. Serassi, II, Bergamo 1750, pp. 201-218; Id., Orazione… contro Lorenzino de’ M. recata dal latino in italiano da Giulio Bernardino Tomitano accademico fiorentino, Treviso 1801; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, Firenze III, 1844, pp. 134, 151-154, 250-262, 279 s., 288 s., 307 s., 356; I. Nardi, Istorie della città di Firenze, Firenze 1888, II, pp. 243, 281-284, 288, 314, 317-319; G. 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E. Stumpo