GABRIEL (Cabriel, Gabrieli, Gabriello), Lorenzo
Nacque a Venezia attorno al 1445 da Giacomo di Zaccaria, del ramo di S. Marina dell'antica famiglia patrizia, e da Maddalena Malipiero, figlia di Pasquale, che fu doge tra il 1457 e il 1462.
I genitori si erano sposati nel 1434 e oltre a lui avevano avuto almeno cinque figli: Giovanni, nato intorno al 1435; Zaccaria (1442-1525), Gabriella, Maria ed Elena.
Il G. venne destinato alla carriera ecclesiastica e nei primi anni Sessanta cominciò a studiare diritto canonico a Padova dove si addottorò una decina d'anni dopo. Nel 1462 ottenne dal papa una grazia espettativa su una prebenda della cattedrale di Treviso e nel febbraio del 1463 entrò a far parte del capitolo della cattedrale di Padova.
La parentela ducale facilitò senz'altro i suoi esordi nella lotta per acquistare una valida dotazione beneficiaria: il legame con l'avo Pasquale Malipiero è infatti richiamato esplicitamente sia nella bolla per l'espettativa trevigiana, sia in alcune "parti" del Senato della fine degli anni Settanta, con le quali si raccomandava agli oratori veneziani presso la Curia romana di anteporlo ad altri candidati nelle segnalazioni al pontefice per la nomina a benefici vacanti. A dispetto, però, del buon inizio e delle prospettive favorevoli fondate sull'appoggio ufficiale della Repubblica, almeno fino al 1484 il G. non sembra essere riuscito ad assicurarsi altre rendite beneficiali particolarmente lucrose, fatta eccezione per un canonicato a Verona. Eppure, molto probabilmente già a partire dagli anni Settanta, il G. aveva giocato anche un'altra carta importante, quella di recarsi a Roma, dove risiedette poi per lunghi periodi, allo scopo di entrare in stretto contatto con la Curia papale e di inserirsi direttamente nel vorticoso meccanismo di assegnazione dei benefici ecclesiastici dell'intera Cristianità.
Il G. entrò ben presto nell'entourage del card. Pietro Foscari ed effettuò il primo tentativo di ottenere una prestigiosa prelatura nella primavera del 1481, quando la morte di Jacopo Zen rese vacante l'episcopato padovano ed egli presentò il proprio nominativo alla "proba" in Senato, insieme con altri ventuno ecclesiastici veneziani, tra i quali si trovava anche il Foscari che uscì vincitore dalla ballottazione e ottenne poi la nomina da Sisto IV.
La carriera del G. rischiò però di interrompersi bruscamente nel maggio del 1483, quando vennero sequestrate a Chioggia alcune lettere inviategli a Roma dal fratello Zaccaria, nelle quali pareva fossero divulgati segreti di Stato.
Già si era verificato il capovolgimento di fronte che aveva visto Sisto IV staccarsi dall'alleanza con Venezia per schierarsi con i suoi antichi avversari. Venezia, colpita dall'interdetto, oltre che sul piano militare, aveva duramente replicato anche alle censure spirituali appellandosi al concilio e prendendo severi provvedimenti contro gli ecclesiastici che non le fossero rimasti fedeli. Aveva perfino instaurato uno stretto controllo sul sistema di attribuzione dei benefici ecclesiastici vacanti, per sottrarlo a ogni influenza della Curia romana.
L'interrogatorio sotto tortura subito da Zaccaria persuase però il Consiglio dei dieci dell'innocenza dei due fratelli, tanto che pochi mesi dopo il G. poté tornare a Padova, dove riprese a presenziare alle riunioni capitolari e a godere delle distribuzioni quotidiane; lì ebbe anche l'occasione di operare saltuariamente come collaboratore dei vicari del Foscari, suo protettore.
La svolta nella carriera del G. coincise con la morte di Vittore Marcello, arcivescovo di Nicosia (Cipro), la cui ricca dotazione beneficiale attirò le brame di molti prelati. Il G. orientò le sue mire sulla pingue commenda di S. Croce a Padova nella quale fu immesso in possesso, il 21 marzo 1484, da Michele Orsini, vicario del Foscari a Padova. La mantenne sicuramente fino alla fine dell'anno, ma la dovette poi abbandonare, quando venne rivendicata dal cardinale Marco Barbo, che esibì bolle papali di incontestabile validità. Il G. difese per un anno intero le sue ragioni spalleggiato dai Dieci, che compirono anche un intervento diretto in suo favore, ma alla fine dovette cedere. Entrò però subito dopo in contrasto anche con il nuovo arcivescovo di Nicosia, Benedetto Soranzo, il quale, nominato nel giugno del 1484 da Sisto IV, solo il 25 agosto successivo ottenne dal Consiglio dei dieci licenza di prendere possesso della sede episcopale, dopo che fu prosciolto dall'accusa di aver passato a Roma, a danno di Venezia, informazioni riservate.
Il Soranzo, infatti, assunse una posizione di netto rifiuto nei confronti delle pretese di ottenere pensioni sulla mensa arcivescovile di Nicosia avanzate dal G. e da un altro ecclesiastico veneziano. Il primo, "favorito per el Foscari et altri" (Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Carte Soranzo, b. 2, c. 679), si dimostrò avversario irriducibile: nonostante già all'inizio di settembre negli ambienti curiali fosse dato per sicuro candidato al vescovato di Bergamo, egli non rinunciò affatto alla rendita su Cipro né volle accettare una sua riduzione; come riferiva il 6 nov. 1484 Ettore Persicino, che curava a Roma gli interessi del Soranzo, la faccenda era "intractabile e dura" tanto che "non si ne potrà trazer sugo alcuno" (ibid., c. 686). Gli appoggi di cui godeva il G. in Curia erano sicuramente assai solidi poiché, nonostante nell'agosto 1485 fosse morto il suo patrono Pietro Foscari, egli riuscì a protrarre molto a lungo la vertenza. A poco quindi erano valse le proteste del Soranzo contro il suo avversario che lo molestava pur avendo avuto "Bergomo che è zardin de Italia cum così pingue et honorata Chiesia". Benché fosse probabilmente "absurdo e dishonesto al dir, che la Chiesia de Bergomo, situada e pingue come l'è, volesse pension de la Chiesia de Cypri, situada tra turchi e mori et men svegnuda ne la miseria" (ibid., b. 1, c. 14), gli equilibri del potere curiale gli erano comunque sfavorevoli.
La vicenda dell'avvento del G. nella sede episcopale di Bergamo, cui si allude nei documenti sopra citati, si aprì nel luglio del 1484, in seguito alla morte di Lodovico Donà, presule di quella città, e si venne in qualche modo a sovrapporre alla vertenza con l'arcivescovo di Nicosia.
Subito dopo la scomparsa del Donà, a Venezia erano partite le procedure per la "proba" e otto concorrenti si erano iscritti in gran fretta presso la Cancelleria ducale. La votazione però non ebbe mai luogo, forse perché a Venezia si temeva di compromettere le trattative di pace ormai ben avviate e perché l'elezione di Innocenzo VIII suggeriva di assumere un atteggiamento più conciliante rispetto a quello tenuto nei confronti di Sisto IV. D'altro canto il G. aveva tutti i requisiti necessari per occupare una sede vescovile che, pur non essendo tra le più ricche della Terraferma, era sicuramente molto importante dal punto di vista politico, dato che il titolare esercitava la sua giurisdizione su un'area posta agli estremi limiti occidentali della Repubblica, al confine con la grande arcidiocesi milanese, in una provincia acquisita da poco più di sessant'anni, sulla quale era indispensabile mantenere uno stretto controllo anche nel settore spirituale.
Il 13 ott. 1484 Innocenzo VIII elevava il G. al vescovato bergamasco.
Il G. si affrettò a espletare gli adempimenti canonici necessari ad acquisire il pieno possesso dell'episcopato. Il 19 dic. 1484 prese i quattro ordini minori e il suddiaconato; il 20 venne ordinato diacono dal vicario Orsini. Ricevette il possesso temporale il 19 apr. 1485, ma solo due anni dopo fece ingresso solenne nella sua diocesi dove, tuttavia, non risiedé in seguito stabilmente - uniformandosi a una prassi largamente diffusa - e continuò a dividersi tra Roma, Venezia e Padova. La povertà delle notizie sul suo episcopato, pertanto, è dovuta non solo alla scarsità delle fonti, ma anche alla sua presenza poco incisiva. In effetti - a parte qualche isolata e sintetica testimonianza che lo designa come vescovo zelante, autore anche di una visita pastorale (Guerrini, p. 82; Dentella, pp. 299-301) - egli è ricordato quasi solo per il suo impegno nel rifacimento della cattedrale di S. Vincenzo. Il suo operato, o quello dei suoi vicari e luogotenenti di cui purtroppo nulla si sa, fu comunque gradito al governo veneziano e ai suoi rappresentanti locali, quali ad esempio Giacomo Orio, podestà uscente di Bergamo, che nel 1503 nella sua relazione di fine mandato al Senato lodò il G., definendolo "aficionado a la Signoria" e disposto a prestare "danari alli bisogni", come riferisce il Sanuto. Non destò alcuno scalpore a Venezia il fatto che il G., nell'aprile 1509, non appena si profilò all'orizzonte la minaccia dell'esercito della Lega di Cambrai in marcia contro la Lombardia di dominio veneziano, aveva lasciato di nascosto - "fense andar a solazo" - la sua diocesi per mettere al sicuro denari e argenterie (Sanuto).
Nei 27 anni del suo vescovato, peraltro, la carriera curiale del G. proseguì con un certo successo: creato segretario apostolico nel 1495, in almeno due occasioni - nel 1504 e 1510 secondo la testimonianza del Sanuto - fu tra i più accreditati candidati veneziani alla porpora cardinalizia. La sua presenza per lunghi periodi in corte di Roma - facilitata dal 1506 dall'acquisto di una casa - insieme con l'età venerabile ne dovettero fare un punto di riferimento importante per molti compatrioti: anche il card. Marco Corner si serviva di lui per le pratiche beneficiali. Il G. mantenne buoni rapporti con altri potenti della Curia e con i papi, in particolare con Giulio II. Tutto ciò non gli bastò però a ottenere quella sede vescovile più importante e ricca alla quale dovette molto probabilmente aspirare, come dimostrano le candidature poste alle "probe" al patriarcato di Aquileia nel 1491, al vescovato di Verona nel 1503 e al patriarcato di Venezia nel 1508. Dalla nomina alla cattedra bergamasca, subito dopo la quale dovette forse rinunciare ai benefici in suo possesso, non si è trovata traccia di altre rendite a lui assegnate, almeno nei domini veneziani, fatta eccezione per un canonicato della sua stessa cattedrale (1492).
A Venezia non si mancava comunque di tener d'occhio il G. la cui età avanzata e gli acciacchi suggerivano al Senato di vigilare attentamente sulle sorti del vescovato bergamasco che non si voleva finisse, alla sua morte, in mani poco sicure: ecco perché negli ultimi anni le lettere degli ambasciatori in Curia riferiscono con puntualità delle sue malferme condizioni di salute, fino a darlo - ma a torto - per moribondo nell'aprile del 1510.
Il G. morì a Padova il 4 luglio 1512.
La sua memoria venne magnificamente onorata dal fratello Zaccaria, procuratore di S. Marco, la cui brillante carriera doveva molto alla disponibilità a fornire prestiti alla Repubblica dimostrata dal G. in occasione della crisi di Agnadello. Zaccaria, infatti, fece costruire nella cappella di S. Maria della Pace, posta nel primo chiostro a fianco della chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, un sepolcro e un altare adornato da una statua marmorea del vescovo, opera di Lorenzo Bregno, dalle armi della loro casa e da un'epigrafe che ricordava il Gabriel.
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