GAMBACORTA, Lorenzo (Lotto)
, Lorenzo (Lotto). - Uno dei numerosi figli di Gherardo di Andrea Gambacorta, nacque a Pisa intorno al 1360. Per intercessione dello zio Pietro Gambacorta, signore di Pisa dal 1369 al ‘92, papa Urbano VI nel gennaio 1381 lo nominò arcivescovo della città, dove succedette a Bernabò Malaspina. A quella data il G., all’incirca ventenne, necessitò di speciali dispense per l’età e per il fatto di essere in possesso dei soli ordini minori, pur essendo già canonico e rettore della chiesa di S. Giorgio dei Tedeschi in Pisa. Dopo avere ottenuto la consacrazione a Roma, tornò a Pisa dopo il 28 marzo 1381; nell’aprile successivo fu presentato dal capitolo all’arcivescovado e il 22 dello stesso mese pontificò per la prima volta nella primaziale.
Non possediamo attestazioni documentarie di rilievo circa la sua attività pastorale nella diocesi di Pisa: le serie degli atti conservati negli archivi ecclesiastici cittadini non offrono infatti che elementi indiretti relativi all’amministrazione della diocesi, mentre la coeva cronachistica pisana e toscana che accenna al suo operato concorda nell’indugiare quasi esclusivamente, biasimandoli, sugli aspetti più terreni del suo comportamento. L’anonimo cronista pubblicato dal Muratori, per esempio, che dei congiunti di Pietro Gambacorta, e in particolare dei figli di Gherardo, ha tramandato un ricordo dalle tinte fortemente negative, ne sottolinea il carattere prepotente e battagliero, tutt’altro che consono al ruolo di prelato che il G. rivestiva. Dedicandogli una breve rubrica, il cronista osserva che «signoreggiò spiritualmente, e mondano fue troppo, e tenne la chericìa di Pisa in grandi affanni di poner loro di molte gravezze» (XV, col. 1078). Un altro cronista, Ranieri Sardo, ricorda del G., all’epoca della signoria di Pietro Gambacorta, soltanto la partecipazione alla delegazione che accolse a Vico Pisano Urbano VI proveniente da Lucca (23-26 sett. 1388), soffermandosi di sfuggita sui movimenti dell’arcivescovo in fuga da Pisa al momento dell’assassinio di Pietro Gambacorta a opera di Jacopo Appiani (1392). L’odio della cittadinanza nei confronti del G. era in quegli anni arrivato a tal punto che, scrive sempre l’anonimo cronista pisano, se «se elli fusse stato giunto, sarebbe stato tagliato a pezzi» (col. 1078).
Con la caduta del regime signorile dello zio Pietro, il G., al pari degli altri congiunti che riuscirono a sfuggire alla vendetta della parte avversaria, si allontanò da Pisa, rifugiandosi probabilmente in una delle rocche del territorio pisano; la diocesi, grazie a un provvedimento straordinario del capitolo della cattedrale, fu governata per mezzo di un suo vicario, il canonico piacentino Fiorenzo dei Salvi, fino al settembre 1394. Il governo della città di Firenze, dove forse il G. trovò rifugio per breve tempo dopo la fuga, gli suggerì anche di ritornare nella propria sede, come risulta dagli atti delle Consulte e pratiche, ma questa soluzione era resa ormai impraticabile dai rapporti molto tesi che si erano venuti a creare, negli anni del dominio di Pietro, tra il capitolo cittadino e l’arcivescovo. Del resto il nuovo governo pisano, rivolgendosi a papa Bonifacio IX per chiedere la designazione di un nuovo presule, non esitò a definire il G. ribelle armato del Comune, un «indignus pastor», colpevole di «scelera et infanda demerita» (Banti, 1971, p. 113). Sul finire del 1394, in effetti, egli fu sostituito a Pisa da Giovanni da Pontremoli e fu quindi trasferito da Bonifacio IX, con il consenso del Senato veneziano, alla diocesi di Treviso, dove la sede vescovile si era resa vacante per la traslazione a Massa Marittima di Niccolò Beruti, inviso al clero locale per i suoi tentativi di riforma.
L’11 nov. 1394 il G., sebbene in non perfetto stato di salute, fece il suo ingresso a Treviso mettendosi subito all’opera: raccolse di lì a poco a sinodo tutto il clero, consapevole della situazione precaria in cui versava la diocesi. È probabile che egli abbia maturata a Venezia (dove si era stabilito per un breve periodo prima di entrare in diocesi e dove possedette una casa propria) l’idea del sinodo, del quale non possediamo gli atti; e certo tuttavia che furono emanate norme non nuove che avevano la funzione di richiamare il clero all’osservanza dei canoni disciplinari caduti in disuso. Durante la sua permanenza a Treviso, il G. avrebbe ottemperato in sostanza all’obbligo della residenza in diocesi, fatti salvi alcuni periodi trascorsi prevalentemente a Venezia e altri in cui, come vedremo, si impegnò in prima persona nelle imprese guidate dai propri congiunti contro Jacopo Appiani.
Nel giugno del 1396 la compagnia di Bartolomeo da Prato al servizio di Firenze, unita a una brigata di cittadini ostili al dominio dell’ Appiani, invase il territorio pisano: stando al cronista pisano Ranieri Sardo (p. 264) c’erano notizie sicure sulla partecipazione a quell’impresa dei figli di Gherardo Gambacorta, «Giovanni e domino Lotto». Ancora nel luglio successivo, a quanto pare dalla narrazione dello stesso cronista, il G. in persona prese parte a una scaramuccia tra gli uomini della brigata e i soldati pisani, approfittando dell’ occasione per appiccare il fuoco a Calci nelle case di alcuni suoi nemici. Sul finire di quell’anno il G. si trovava comunque di nuovo a Treviso, come attestano alcuni atti relativi all’amministrazione della diocesi. Nel luglio 1398 fu a Bologna, non sappiamo per quale ragione. Tra la fine del 1399 e il 1400, in non buone condizioni di salute, ottenne dal papa la facoltà di testare. Il G. continuava intanto a seguire le vicende politiche della città natale, dove nel 1399 ebbe fine il governo dell’Appiani. Tra l’ottobre 1405 e il novembre 1406, all’epoca del dominio di Giovanni Gambacorta, suo fratello, sulla città di Pisa, rimase lontano da Treviso, trattenendosi nella città toscana fin che Giovanni ne resse il governo contro i Fiorentini: fu proprio il G., sembra, a trattare con questi ultimi per conto del fratello la resa di Pisa, ormai stremata dall’assedio, sul finire del 1406; la partecipazione diretta a queste azioni gli valse presso alcuni cronisti la fama di traditore, al pari del fratello Giovanni. Nei capitoli di resa della città di Pisa, stipulati tra Giovanni Gambacorta e il governo fiorentino, si prevedeva, tra l’altro, che al G. spettasse la sede vescovile di Firenze, per l’assegnazione della quale il Comune fiorentino avrebbe dovuto adoperarsi presso il pontefice; i Fiorentini si impegnavano inoltre, qualora entro il termine di un anno il G. non avesse ottenuto la designazione auspicata, a garantirgli una rendita di 1200 fiorini, da sospendere al momento dell’assegnazione della sede vescovile (Corazzini, p. 149). Questi disegni, però, non si concretizzarono, ed egli dopo qualche mese fece ritorno a Treviso dove riprese la sua attività pastorale.
Se è possibile dire che i periodi trascorsi dal G. a Treviso furono complessivamente lunghi, e che l’attività in diocesi fu per alcuni aspetti piuttosto sollecita, certo gli nocquero per un verso le assenze e per l’altro l’uso che aveva di circondarsi di uomini di fiducia, spesso portati con sé dalla sua città natale ma non graditi al clero e alle istituzioni locali per il loro comportamento, in molti casi arbitrario e poco corretto; non avendo ricevuto la consacrazione episcopale, egli dovette ricorrere a collaboratori esterni anche quando aveva bisogno di aiuto per i «pontificalia», particolarmente per il conferimento degli ordini maggiori. Questo insieme di circostanze, unitamente alla difficoltà del G. a staccarsi dagli interessi di parte e a perseguire una linea d’azione costante e incisiva, fecero si che egli non riuscisse gradito al clero trevigiano: un suo successore, Giovanni Benedetto, nell’accennare alle concessioni fatte dal G. ai serviti di Castelfranco, usò queste parole: «de licentia non bone memorie domini Lotti de Gambacurtis» (citato in Pesce, p. 203).
Il G. mori a Treviso nel settembre del 1409.
Ebbe un figlio illegittimo di nome Mario, che fu elencato tra gli ostaggi da parte dei Gambacorta nei capitoli della resa di Pisa del 1406. Come altri membri del proprio casato, predilesse i monaci della certosa di Calci, dove gli era riservata una celletta affacciata sul chiostro e dove tuttora è conservato lo stemma della famiglia sormontato dalla mitra vescovile.
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