GUALTIERI, Lorenzo (Lorenzo Spirito)
Nacque a Perugia da Cipriano, notaio di prestigio, e da Andrea Matteucci, che morì quando il G. era ancora in tenera età. In assenza di documenti certi, sulla base di alcuni indizi che si possono raccogliere dai suoi scritti la data di nascita del G. può essere posta con buona approssimazione intorno al 1425. Il nome Spirito con il quale è più comunemente noto fu presumibilmente in origine un soprannome (impostogli per la vivezza dell'ingegno, opina Oldoini): negli Annales decemvirales perugini (cit. in Salza, 1901, p. 285) viene detto "vulgariter nuncupatus Spiritus", ovvero "Laurentius alias Spiritus", o "Laurentius decto Spirito".
A Salza (1901) e alla Iraci si deve la segnalazione dei luoghi delle opere del G. che permettono di risalire alla data di nascita: un sonetto contenuto nel manoscritto H.64 della Biblioteca comunale Augusta di Perugia, databile al 1461, nel quale egli dichiara di essere alla metà della sua vita; un cenno nel Publico in cui il poeta afferma di essere trentenne (ma resta il dubbio se l'indicazione vada riferita al momento in cui si immagina l'azione, il 1452 secondo la data che si legge nel ms. Barb. lat. 3719 della Biblioteca apost. Vaticana, o a un momento della composizione, ultimata dopo il 1458); la notizia di aver assistito "giovinecto", con il padre, alla presa di Assisi, nel 1442, a opera di Niccolò Piccinino.
Il padre aveva le sue case nel sobborgo di S. Pietro, nelle parrocchie di S. Stefano e S. Silvestro. Fu per due volte notaio dei Priori e incaricato di numerose ambascerie, tra cui una nel 1444 a Milano, presso Niccolò Piccinino, della quale il G. dà ampia narrazione nel cap. LXXIII dell'Altro Marte. Morì tra la fine del 1461 e l'inizio del '62, lasciando sei figli maschi, che ebbero tutti impieghi di rilievo nel Comune di Perugia.
I biografi sono concordi nell'attribuire al G. un generico apprendistato di studi di impronta umanistica, presto abbandonato per intraprendere la carriera delle armi. A tale periodo giovanile è attribuibile il volgarizzamento degli ultimi cinque libri delle Metamorfosi di Ovidio, del quale B. Guthmüller ha riconosciuto l'autografo in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli (Mss., XIII F.35) e descritto la rarissima stampa perugina del 1519 (pp. 213 s.). Si tratta di una traduzione in terzine in cui il racconto di Ovidio viene frazionato in una serie di capitoli. La versione è composta in un volgare che conserva sostanziosi tratti dialettali, pur nel tentativo di avvicinarsi a uno standard letterario toscanizzante: oltretutto, indipendentemente dalla volontà dell'autore (morto da oltre vent'anni), il testo fu sottoposto dal curatore della stampa a un'ulteriore revisione linguistica di adeguamento ai modelli letterari correnti.
Destinato al mestiere della milizia, il G. assistette giovinetto, insieme con il padre, alla presa di Assisi e quindi militò, forse sotto Niccolò Piccinino (morto nel 1444) e certamente sotto il figlio di questo Iacopo, che seguì in diversi fatti d'armi, in particolare contro gli Sforzeschi nelle devastazioni operate nel territorio di Siena (1452-54), che descrisse da testimone oculare nel lungo poema in capitoli ternari Altro Marte.
A poco prima del 1458 deve datarsi l'abbandono della milizia e il ritorno in patria, forse ostacolato da accuse di maldicenza ed empietà rivoltegli da Bartolomeo Vitelleschi, governatore di Perugia nel 1457.
G.B. Vermiglioli pubblicò (1823) un memoriale, che dichiarava in suo possesso, in cui il G. implora una riduzione della pena a lui inflitta in quanto "hominem maledicum contemptorem ordinamentorum Sanctae Matris Ecclesiae et derisorem et illusorem fidei catholicae" (p. 152) e ne dedusse che il G. era stato autore di "libelli e di poesie infami e satiriche". Di scritti di tal fatta non resta però traccia, a meno che non si debba pensare al Libro di sorti, di cui non è nota la data di composizione, ma che è generalmente riferito agli ultimi anni del G. (e neppure Il Publico dovrebbe essere stato divulgato prima dell'anno successivo).
Nel 1458 comunque il G. risulta essere capitano della guardia del palazzo dei Priori in Perugia, incarico che gli fu confermato anche per l'anno successivo. Entrato nei favori della più potente famiglia perugina, fece parte, nel novembre del 1458, del seguito di Braccio Baglioni, che si recava a Milano in visita a Francesco Sforza. Nel febbraio del 1459 e del 1460 partecipò alle giostre indette da Braccio in onore di Margherita Montesperelli. Ma certamente, come egli stesso racconta, fu di nuovo in stretto rapporto con Piccinino in occasione del viaggio da Milano a Napoli (1463): dal lamento in terzine che compose per la morte a Napoli nel 1465 del suo antico capitano apprendiamo che egli lo accompagnò almeno per una parte del viaggio e certamente assistette ai festeggiamenti con cui Piccinino fu accolto al suo passaggio da Faenza.
Dopo l'abbandono della professione delle armi e il ritorno a Perugia il G. si dedicò più intensamente all'attività letteraria, con due poemi strettamente legati alla sua esperienza militare e politica e con una ricca produzione lirica, confluita poi in raccolte organiche.
Al 1458 va ricondotta la composizione del poema-lamento in 16 capitoli ternari, Il Publico.
Il manoscritto barberiniano che ne conserva copia reca la data del 1452, ma si tratta certamente, come ha dimostrato la Iraci, della data in cui si compie l'azione narrata, la prosopopea di un'affranta Perugia che denuncia la corruzione e il malgoverno della città e profetizza eventi che si compiranno di lì a sei anni. La precisione con cui sono annunciati la morte di Alfonso V d'Aragona, l'assunzione al trono pontificio di Pio II e la guerra di Ferdinando d'Aragona contro Giovanni d'Angiò dimostra senza dubbi che la profezia è pronunziata post factum: si tratta di eventi del 1458, che è dunque terminus post quem, che peraltro presuppone la rapida composizione e divulgazione di un'opera che, per la sua natura, non può rinunciare a presentarsi come di stretta attualità.
Il poema riprende ampiamente diffusi topoi dell'imitazione dantesca. Il poeta si finge caduto in un sonno che lo rimuove dai tormenti amorosi, nel quale gli appare una donna di nobile aspetto che lo ha scelto come figlio prediletto per renderlo portavoce delle sue doglianze. È Perugia che rievoca i suoi fasti passati (a partire dalle leggende sulla fondazione a opera di esuli troiani) per far vieppiù risaltare la condizione presente, in cui la pace civile è spenta per via delle fazioni che la dividono, delle lotte e dei dissensi che quotidianamente la lacerano. La condizione di Perugia tende a essere assimilata a quella dell'Italia intera: la situazione è ormai senza speranza e il G., unico cittadino onesto, può solo fuggire per ottenere almeno una personale salvezza. Il poeta si predispone all'esilio, mentre Perugia annuncia sei anni futuri di sventure, a far tempo dalla caduta di Costantinopoli. L'ombra svanisce e, nell'ultima parte del poema, il G. assume in prima persona la parola per rivolgere ai suoi concittadini aspre rampogne e denunciare la diffusa corruzione che ha portato alla rovina la città e l'ha allontanata dall'antica morigeratezza e dai sobri costumi del passato. Il calco dei canti danteschi di cui è protagonista Cacciaguida giunge fino alla proclamata assunzione, da parte del poeta, del compito di richiamare i concittadini corrotti alla via della virtù attraverso l'esternazione della visione che gli è stata per grazia riservata. Per questo suo carattere aspramente politico il Publico non fu mai dato alle stampe, né se ne conoscono autografi.
Al 1463 il G. stesso assegna la conclusione dell'altro grande poema storico-politico, composto da 101 capitoli ternari, l'Altro Marte, dedicato sotto tale data a Iacopo Piccinino nell'autografo della Biblioteca civica di Verona (Mss., 1241-1242) e sottoscritto dallo stesso autore.
Con quest'opera, concepita al culmine delle fortune militari e politiche di Piccinino, il G. assume il ruolo di celebratore delle gesta di una famiglia di comandanti di ventura, potenziali aspiranti a un principato. Il poema termina in maniera alquanto brusca, con la narrazione di eventi del 1463, e con l'annuncio di ulteriori accrescimenti ("Me offerisco nel tempo advinire, / avendo già più carta apparecchiata, / secondo ei tempi, mettermi a finire"). Si può ritenere che la composizione del poema fosse già stata avviata durante gli anni della militanza del G. sotto le insegne di Piccinino e quindi via via aggiornata con la cronaca dei nuovi avvenimenti: al punto in cui si interrompe appare ancora ben viva l'aspettativa di ulteriori successi del condottiero; perciò la brusca conclusione e la rinuncia all'aggiornamento (probabilmente retrodatata dall'autore stesso, per farla apparire indipendente dagli eventi successivi) sono, molto probabilmente, conseguenza della disgrazia di Piccinino, assassinato a Napoli nel 1465. Piuttosto che interrompere l'andamento trionfalistico del poema e snaturarne l'impianto encomiastico, il G. dovette preferire lasciare l'opera imperfetta e dedicare alla sventura politica di Piccinino (tradito dai suoi antichi protettori) il lungo lamento che compare in testa al poema nelle edizioni a stampa.
L'Altro Marte è diviso in tre parti di disuguale ampiezza. La prima, che si estende per 29 capitoli, narra gli esordi militari di Niccolò Piccinino, in particolare la sua militanza sotto il comando di Braccio da Montone, di cui sono narrate le gesta fino alla morte. All'inizio del poema l'autore ricorre a una invenzione mitologica per rappresentare l'origine della vocazione militare del giovane Niccolò, nato di umile origine: il dio Marte appare al fanciullo e lo spinge ad abbracciare la professione delle armi. Ma il seguito del poema evita simili contaminazioni e svolge la propria materia secondo un rigoroso ordine cronologico, quasi annalistico. Dal trentesimo capitolo il protagonista assoluto è Niccolò, divenuto capo delle schiere ed erede della parte braccesca, le cui azioni militari sono accuratamente descritte, fino alla morte avvenuta nel 1444. Con il capitolo settantaquattresimo si narrano infine le gesta dei due figli di Niccolò, Francesco, seguito fino alla morte, e quindi Iacopo fino alla presa di Sulmona del 1463. Si tratta dunque prevalentemente di una narrazione storica versificata, di grande importanza per la minuziosità con cui sono narrati particolari che anche scritti ex professo storiografici ignorano. Di alcuni degli avvenimenti, d'altronde, il G. si dichiara testimone oculare, per altri certo dispone di fonti di informazione primarie. Il poema fu stampato a Vicenza, da Simone Bevilacqua, nel 1489 (Indice generale degli incunaboli, 9136).
Contemporaneamente alla composizione di queste opere di argomento storico-politico, il G. avviò anche una cospicua produzione di carattere lirico-amoroso: accenni al suo stato di vittima d'amore sono già presenti in alcuni tratti autobiografici del Publico e dell'Altro Marte, ma egli intese anche cimentarsi in una integrale imitazione petrarchesca, che prevede il doppio impegno verso il poema in terzine modellato sui Trionfi e la raccolta in forma di canzoniere di liriche composte alla spicciolata lungo il corso degli anni.
Il manoscritto autografo H.64 della Biblioteca comunale Augusta di Perugia contiene nella prima parte un poema in ventuno capitoli ternari, che reca una esplicita subscriptio: "Finito il libro chiamato e intitulato Finice composto e facto per me Lorenzo Spirito da Peroscia nel mille quattrocento sexantauno" (c. 66v).
Vi si narrano l'ascesa del poeta al cielo di Venere e le visioni di cui qui fruisce. L'autografo, che è unico testimone del poema, è mutilo del primo quaderno e il testo inizia con le ultime dieci terzine del terzo capitolo, quando il poeta, con la scorta di una guida di cui non è dichiarato il nome, si trova già nei cieli, di dove volge gli occhi alla Terra, valle di miserie colma di ogni male. Al termine dell'ascensione l'autore è accolto dalla donna amata, Fenice appunto, unica tra tutte le donne mai create, che lo guida nel regno di amore, promettendogli qui dimora eterna. Venere presenta ai due amanti tre donne, Fama, Italia e Perugia, che proclamano l'eccellenza di Fenice su tutte le donne mai state al mondo. Venere quindi congeda il poeta che, prima di tornare sulla Terra, è invitato a trattenersi nel cielo della Luna dove conoscerà il premio che gli spetta per la sua fedele militanza amorosa. Mentre assiste all'incoronazione di Fenice, al culmine del gaudio, si ridesta improvvisamente dalla sua visione. L'ultimo capitolo è un congedo nel quale il poeta licenzia il libro, inviandolo a divulgare nel mondo l'eccellenza della sua donna e a intercedere presso di lei affinché accolga il suo servire.
Lo stesso manoscritto contiene nella seconda parte, ugualmente autografa, una raccolta di liriche di argomento amoroso che rappresenta la prima forma di quello che si può definire il Canzoniere del G., nello stato in cui si trovava a una data vicina a quella apposta in calce alla Finice e costituito allora da 209 sonetti, 4 canzoni, 2 sestine e 1 capitolo in terza rima. Lo stesso Canzoniere è rappresentato nella forma più ampia dal ms. 232 della Biblioteca comunale Classense di Ravenna, ugualmente autografo e appartenuto ad Antonio da Montalcino, altro, più rozzo, petrarchista umbro, amico e corrispondente del G., databile post 1481 (l'ultima data esplicita che vi si legge) e, a giudizio di I. Baldelli, per le caratteristiche della scrittura (confrontata con altri autografi sicuramente di età tarda), addirittura post 1485. Baldelli riconosce inoltre tracce di assetti intermedi nei sonetti del G. trascritti da frate Francesco Florenario nel ms. 249 della Biblioteca comunale di Cortona.
Il Canzoniere, nel suo accrescersi negli anni, tende sempre più ad assimilarsi al modello petrarchesco (il manoscritto classense aggiunge anche alcune rime in morte), ripercorrendo una vicenda amorosa di cui sono date precise scansioni temporali, nell'alternanza di speranze e delusioni, con la rappresentazione della sofferenza per la lontananza (a cui talora il poeta è costretto per le sue incombenze pubbliche), e con la tendenza a una rappresentazione meno astratta della vicenda amorosa, che prevede la presenza di un marito geloso (di cui è fatto anche il nome, Simone) e di un "affronto" subito dal poeta, troppo assiduo corteggiatore, da parte della donna per istigazione del marito (così impietosamente descritto, sotto la data del 17 febbr. 1468, dalla Cronaca perugina pubblicata da O. Scalvanti: "la donna de mastro Simone medico […] passando Spirito de ser Cipriano de Gualtiere suo amatore glie bugliò un bacino pieno de merda in sul capo, de modo che tutto lo imbrattò e puzzava che non li se podea stare appresso: e questo lo fece perché tutto el dì la seguitava e non la podea lassare stare"). Il manoscritto perugino del Canzoniere è inoltre un importante documento da un punto di vista storico-linguistico perché sul suo testo base, a forte impronta perugina nella fonetica e nella morfologia, si stratificano correzioni dello stesso autore che tendono ad avvicinarlo alla lingua letteraria e poi la sistematica revisione linguistica di un anonimo che, nel 1526 e in vista di un'edizione poi non realizzata, provvide a un integrale adeguamento alla norma bembiana.
Il G. trascorse tutta l'ultima parte della sua vita a Perugia, occupandovi una posizione di prestigio, comprovata dai numerosi incarichi e ambascerie che gli vennero affidati: nel 1470 a Firenze al seguito di Rodolfo Baglioni, nel 1471 a Fermo, più tardi a Ferrara, come egli stesso dichiara in un sonetto del Canzoniere, tanto da ottenere anche più volte il priorato, nel 1472, nel 1480, nel 1485 e nel 1488. Tra il 1472 e il 1473 fu podestà di Tolentino, come egli stesso informa nella subscriptio del ms. D.5 della Biblioteca comunale Augusta di Perugia, contenente una copia autografa dell'Altro Marte. Dal Comune di Perugia gli fu affidata la trascrizione e redazione di documenti pubblici (un elenco di questi autografi si legge nei contributi di Baldelli e Cecchini), grazie alle sue capacità di amanuense (e anche di miniatore), documentata da due copie del Filocolo di Boccaccio (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 4813; Perugia, Biblioteca comunale Augusta, Mss., B.35) e dai numerosi autografi delle sue stesse opere: un codice dell'Altro Marte di sua mano fu per esempio donato da Braccio Baglioni a Niccolò da Correggio quando nel 1471 fu a Perugia al seguito di Borso d'Este (è il ms. XIII C.32 della Biblioteca nazionale di Napoli).
All'ultimo periodo della vita Salza (1901) riferisce la composizione dell'opera più fortunata del G., il Libro di sorti, capostipite di un genere che avrebbe goduto di una certa diffusione anche nel secolo seguente, e più volte stampato, anche in traduzioni, fino al '600.
Si tratta di un gioco di divinazione, nel quale, attraverso una serie di tavole preliminari e col lancio di tre dadi, si viene inviati a una terzina responsiva di uno dei venti capitoli che chiudono l'opera, messi in bocca ad altrettanti "profeti". Il codice della Biblioteca naz. Marciana di Venezia (Mss. it., IX.87) conserva l'opera in redazione autografa, miniata dall'autore stesso con la subscriptio: "Qui finiscono le sorte facte e composte per mano di me Lorenzo Spirito da Peroscia e recopiate per mia propria mano, finite a dì 10 de gennaio 1482"; dello stesso anno è la princeps, di cui è noto un solo esemplare custodito nella Stadtbibliothek di Ulm, realizzata a Perugia dal tipografo tedesco Stephan Arnds.
Nel 1485 al G., riconosciuto "virum providum et licteratum gravem", fu affidato l'incarico di ufficiale "ad conservationem et augumentum introytuum camere conservatorum et subsidii focularis" (Annales decemvirales, ad annum, cit. da Salza, 1901, p. 290), che assunse dal 10 genn. 1486 e mantenne fino alla morte. Nel 1496 indirizzò al Comune una petizione (pubblicata da Salza, 1901, p. 291) affinché gli fosse affiancato in quell'ufficio il figlio Ovidio: la supplica fu accettata, ma il G. fruì solo per poco del beneficio, giacché venne a morte il 1° maggio dello stesso anno, come Vermiglioli poté desumere da una memoria nell'archivio dell'ospedale di Perugia (1813, p. 181).
Pochissime e del tutto occasionali le edizioni moderne di scritti del G. (a parte gli stralci pubblicati soprattutto da Vermiglioli e dalla Iraci): pochi testi lirici sono pubblicati in Rime di Francesco Coppetta ed altri poeti perugini, scelte con alcune note di G. Vincioli, Perugia 1720, I, pp. 21-27; un elenco di pubblicazioni per nozze con testi del G. si legge in Iraci, pp. 77 s. Una ristampa anastatica della princeps del Libro di sorti è stata pubblicata a Perugia nel 1980.
Fonti e Bibl.: L. Jacobilli, Bibliotheca Umbriae, sive De scriptoribus provinciae Umbriae, Fulginiae 1658, pp. 175-177; A. Oldoini, Athenaeum Augustum in quo Perusinorum scripta publice exponuntur, Perusiae 1678, p. 202; G.B. Vermiglioli, Memorie di Jacopo Antiquarj e degli studi di amena letteratura esercitati in Perugia nel secolo decimoquinto, Perugia 1813, pp. 179-183; Id., Bibliografia storico-perugina, Perugia 1823, pp. 146-153; Id., Biografie degli scrittori perugini, Perugia 1828, II, pp. 296-330; A. Calmo, Lettere, a cura di V. Rossi, Torino 1888, pp. 456-459; V. Cian, Giochi di sorte versificati del sec. XVI, in Miscellanea nuziale Rossi-Teiss, Trento… 1897, Bergamo 1897, p. 85; A. Salza, L. Spirito G. rimatore e venturiere perugino del secolo XV, in Raccolta di studii critici dedicata ad Alessandro D'Ancona, Firenze 1901, pp. 277-294; Cronaca perugina inedita di Pietro Angelo di Giovanni, II, a cura di O. Scalvanti, in Boll. della R. Deputazione di storia patria per l'Umbria, IX (1903), p. 58; M. Iraci, L. Spirito G., Foligno 1912 (recensioni: T. Parodi, in La Nuova Cultura, I [1913], pp. 507-511; e, con nuovi contributi, A. Salza, in Giorn. stor. della letteratura italiana, LXIV [1914], pp. 191-209); I. Baldelli, Correzioni cinquecentesche ai versi di Lorenzo Spirito, in Studi di filologia italiana, IX (1951), pp. 39-122; G. Cecchini, Gli ultimi autografi di Lorenzo Spirito, in Perusia. Riv. d'arte, cultura e turismo, luglio 1952, pp. 3 s.; I. Baldelli, Altri autografi di L. Spirito G., in Studi di filologia italiana, XIII (1955), pp. 363 s.; B. Guthmüller, Un altro autografo di L. Spirito G., in Studi e problemi di critica testuale, II (1971), pp. 213-221; Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del Cinquecento. La corte il mare i mercanti. La rinascita della scienza. Editoria e società. Astrologia magia e alchimia, Firenze 1980, p. 426; A. Biondi, Introduzione, in S. Fanti, Triompho di fortuna, Modena [1983], pp. 5, 17; R. Pasanisi, L. Spirito e la sua "Finice", in Esperienze letterarie, XV (1990), pp. 83-96; E. Mattesini, L'Umbria, in L'italiano nelle regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino 1992, p. 526; V. Rossi, Il Quattrocento, a cura di R. Bessi, Padova 1992, p. 388; M. Santagata, Fra Rimini e Urbino: i prodromi del petrarchismo cortigiano, in M. Santagata - S. Carrai, La lirica di corte nell'Italia del Quattrocento, Milano 1993, pp. 47 s., 57, 63, 69, 73; V. Formentin, La "crisi" linguistica del Quattrocento, in Storia della letteratura italiana (Salerno), III, Il Quattrocento, Roma 1996, p. 192; E. Pasquini, Letteratura popolareggiante, comica e giocosa, lirica minore e narrativa, ibid., pp. 854 s.; L. Nadin, Carte da gioco e letteratura fra Quattrocento e Ottocento, Lucca 1997, pp. 36-44.