LIPPI, Lorenzo
Nacque a Firenze il 3 maggio 1606 da Giovanni di Lorenzo e da Maria Bartolini. La famiglia era di condizione agiata grazie anche all'attività di albergatore del padre, "cittadino a parte" proveniente da Badia a Settimo.
Risulta esemplare la prima educazione del L., divisa fra studi letterari e attiva partecipazione alla vita religiosa cittadina. È l'informatissimo biografo Baldinucci, suo compagno più giovane di gite e dotte conversazioni, a suggerire l'ipotesi di un leggero ritardo nell'esordio dell'attività artistica, aggiungendo che "per ciò fare si accomodò appresso a Matteo Rosselli" (p. 261).
Il L., decenne e orfano di padre (morto nel 1614), si inserì precocemente nella vita religiosa e associativa della Firenze controriformata. Nei libri di Ricordi e partiti della Compagnia dell'Arcangelo Raffaele, detta della Scala, la partecipazione del L. appare di grande rilievo. Dal 1616 al 1657 (d'Afflitto, 2002, p. 30 n. 42), ricoprì numerosi incarichi: fu per due volte governatore e consigliere, per cinque ordinatore di coro e per ben otto cerimoniere.
Nel 1628 collaborò con Baccio del Bianco alla scenografia del Trionfo di David di Iacopo Cicognini. Con Pierfrancesco Silvani soprintese alle prospettive per il Presepio del Natale 1639 e per il Diluvio della Pasqua 1642. Si distinse poi nel donare alla Compagnia alcune sue opere prestigiose, come la grande Crocifissione del 1647, in occasione della festività della santa patrona Maria Maddalena, e nel prestare la propria gratuita attività in interventi di restauro (ibid., p. 30 n. 47). Le fonti ricordano che il L. aderì anche alla Compagnia di S. Benedetto Bianco e a quella di S. Maria della Croce al Tempio, detta de' Neri, per le quali eseguì anche lavori pittorici di notevole impegno.
Convinta fu la sua adesione alla più tipica religiosità fiorentina, venata di ascetismo e di misticismo, ma profondamente improntata allo spirito di carità dei suoi santi più grandi. Fra il suo impegno cristiano e le sue scelte artistiche, soprattutto dal momento della sua conversione al purismo stilistico ispirato alla poetica di Santi di Tito, è possibile e lecito vedere uno stretto collegamento. Lo stesso orientamento pedagogico che contraddistingue su piani diversi l'attività per la Compagnia della Scala, ma anche quella per l'Accademia degli Apatisti (alla quale aderì fin dal 1633: ibid., p. 26), nelle sue dissertazioni di elevato tono etico e morale, è in diretto rapporto con la volontà manifesta del L. di rendere a tutti accessibili i contenuti delle sue composizioni pittoriche.
Baldinucci (pp. 264 s.) lo dice anche dotato di uno "spirito tutto fuoco" e di una "allegra ma però onesta vivacità e bizzarrìa" di cui era egli stesso compiaciuto. Con Salvator Rosa, nel suo soggiorno fiorentino (1642-44), il L. condivise amicizie, interessi letterari (la poesia e la satira) e filosofici di segno stoico (d'Afflitto, 2002, pp. 93s.), il gusto per la burla (Baldinucci, p. 458) e per la recitazione "all'improvviso". La sua vena umoristica si esprimeva, oltre che nell'assidua partecipazione alle "azioni comiche" (ibid., p. 265), nelle sacre rappresentazioni della Compagnia della Scala, che lo videro più volte attore di parti buffe (d'Afflitto, 2002, p. 25). Al suo carattere, "spiritoso ne' motti, bizzarro nelle risoluzioni, nel conversare fiero e vivace" (Baldinucci, p. 458), il biografo dedica più episodi, esemplificativi di un'attitudine scanzonata e burlesca, che rendeva ammissibili, senza sospetto di libertinismo, la facezia, la commedia dell'arte, la passione per il gioco, la satira antibacchettona.
L'apprendistato presso Matteo Rosselli, grande scopritore e sostenitore di talenti, si trasformò presto in una collaborazione di bottega e poi in una relativa autonomia all'interno della stessa, prima di passare definitivamente alla completa emancipazione professionale. Le prime testimonianze artistiche rinvenute si attestano intorno al 1628, sebbene non sia difficile presumere che almeno dal 1626 il L. fosse in grado di assumere incarichi di responsabilità in proprio.
Si collocano in questa fase la serie di tre Apostoli e il Cristo benedicente (Vaglia, chiesa di S. Pietro), documentata al 1628 ed eseguita in collaborazione con Domenico Pugliani, per la compagnia della Madonna della Neve a Vaglia, la S. Caterina d'Alessandria (già Corella, chiesa di S. Martino, ora Dicomano, pieve di S. Maria), firmata e datata 1629, la Madonna che porge il Bambino a s. Francesco, databile intorno al 1630, proveniente da S. Salvatore di Camaldoli di Firenze (Firenze, depositi del Museo Bardini), le due lunette della cappella Bonsi in Ss. Michele e Gaetano a Firenze con S. Francesco che adora il Bambino nel presepe e S. Cristina assistita in carcere dagli angeli, databili al 1632 (Pagliarulo, 1982, pp. 19 s.). L'impronta rosselliana è generale, compositiva e narrativa: le costruzioni, le figure, le pose, appartengono al suo repertorio, ma sono già riconoscibili i caratteri tipici del L. maturo, quali la nitida definizione grafica delle mani e le luminose sottolineature dei profili emergenti degli oggetti e delle architetture nelle ambientazioni delle scene.
Il 1630 rappresenta una tappa fondamentale: è l'anno della sua iscrizione all'Accademia del disegno e della sua prima affermazione pubblica importante per la corte medicea, per la quale eseguì una Predica di Gesù finora non rintracciata (d'Afflitto, 1979, p. 64). La fase precedente e la fase seguente - fino al 1634 circa - segnano gli estremi della sua attività giovanile, così strettamente legata a quella del maestro, da non essere stata riconosciuta per molto tempo dalla critica, che pure ne aveva coerentemente ricostruito il percorso a partire dal Martirio di s. Andrea per San Frediano del 1639, sulla base di elementi costantemente presenti quali le particolari tipologie dei volti, il panneggiare "cartaceo", l'essenzialità della rappresentazione e l'attento studio luministico (Sricchia).
I dati archivistici e i dipinti progressivamente aggiunti al catalogo del L. giovane, correggendo spesso precedenti attribuzioni a Rosselli, Pugliani, I. Vignali o F. Furini, hanno contribuito a delineare quella prima attività di cui si era persa memoria. La ricchezza pittorica, la morbida definizione dei chiaroscuri, le scelte compositive ricalcate su modelli rosselliani, la prosa narrativa costruita con abbondanza di particolari descrittivi del soggetto, la manifestazione eloquente degli "affetti", sono le componenti che, desunte direttamente dal maestro e talvolta da altri più anziani allievi, scompariranno del tutto o avranno diversa formulazione nella sua opera posteriore e più autonoma.
Un nucleo di opere databili fra il 1629 e il 1634 prevalentemente di soggetto biblico e letterario, destinate a stanze di compagnie religiose e a quadrerie di palazzi, dimostra l'ampia gamma di riferimenti culturali del L. e l'articolata organizzazione del suo repertorio figurativo.
Appartengono alla prima attività del L. un S. Filippo battezza l'eunuco, in collezione privata, e il Battesimo di s. Paolo (Londra, Colnaghi) eseguito nel 1632 per la Compagnia di S. Paolo di Notte. La dipendenza da Rosselli appare ancora determinante e sono presenti impacci prospettici e incertezze grafiche. La rappresentazione assolve tuttavia a una funzione narrativa che la gestualità e l'espressione dei protagonisti, intrise di umori furiniani e di suggestioni più intensamente patetiche derivate da Vignali nonché la precisa descrizione dei loro connotati e dell'ambiente, ottengono pienamente. Si affianca un nucleo di tele, la cui cronologia, stabilita in base a pochi elementi documentari certi, si attesta intorno a due date, 1632 e 1634: Cena di Erode (Firenze, depositi di S. Salvi), Sansone e Dalila (Stoccolma, Museo nazionale), Rut e Booz (Firenze, depositi della Galleria Palatina), Tamar rende i pegni a Giuda (Roma, Palazzo di Montecitorio), Angelica e Medoro (Dublino, National Gallery), Tre fanciulli condotti alla fornace (Firenze, Galleria Palatina). Si tratta di dipinti ricchi di spunti teatrali, dalla gestualità delle figure alla composizione, al guardaroba, nei quali si afferma quello stile fiorito molto apprezzato dai committenti e per il quale il L. mise a punto una pittura morbida e vibrante, di grande effetto decorativo. Queste prime importanti realizzazioni furono eseguite forse ancora nella bottega del maestro, dal quale il L. si distaccò probabilmente intorno al 1634, quando aprì uno studio proprio sotto le logge della Ss. Annunziata (d'Afflitto, 2002, p. 53).
Attorno alla data del 1638, recuperata nell'iscrizione dietro una Testa di s. Giovanni Battista in collezione privata, si collocano alcune tele, quali Agar e l'angelo e il Sacrificio di Isacco (San Miniato, Museo diocesano), variamente attribuite nel tempo, nelle quali l'ascendente di Furini affiora in modo chiaro, sostituendosi in gran parte alla forte componente culturale di Rosselli.
Con le prime importanti commissioni ecclesiastiche cittadine, databili fra il 1639 e il 1640, il L. raggiunse una soddisfacente affermazione personale, dimostrando un preciso indirizzo culturale e un orientamento artistico purista divergenti dalle correnti più affermate, di cui si componeva il panorama ricco e variegato della Firenze medicea. Il significativo trapasso di stile, che si verifica nel volger di un solo anno, offre qualche ragione plausibile all'ipotesi di un suo viaggio a Roma, di cui tuttavia le fonti non danno notizia; solo nel regesto biografico, compilato in base alle sue presenze a Firenze, la mancanza di dati nel periodo fra l'ottobre 1636 e l'ottobre 1638 potrebbe indicare una sua assenza dalla città. I risultati di un'evoluzione perfettamente delineata si trovano nella sua opera più nota e citata, il Martirio di s. Andrea, eseguita nel 1639 per la famiglia Eschini, nella chiesa di S. Frediano (oggi Firenze, S. Agata), dove sono presenti scelte luministiche contrastate e un'indagine attenta e meticolosa dei particolari descrittivi dei materiali, delle fisionomie, dei corpi.
Si collocano prima del 1642, un'altra tappa importante del percorso del L., alcune opere di soggetto sacro, biblico e storico, dove l'intento decorativo appare più esplicito, come lo scomparto ad affresco con S. Agata, s. Caterina e s. Cecilia, del soffitto dell'oratorio di S. Francesco dei Vanchetoni a Firenze (1639-40) e il Trionfo di David e il Giacobbe al pozzo, eseguiti per Alessandro Passerini (Firenze, Galleria Palatina).
La pittura morbida e il gusto decorativo delle vesti convivono con elementi arcaizzanti ispirati al linguaggio formale di Santi di Tito, da cui derivano le nitide profilature dei volti e delle mani e la misurata sintassi compositiva, presenti anche nella Vendita della primogenitura (Firenze, seminario maggiore del Cestello: 1642 circa).
La cosciente aspirazione del L. a una individuazione chiara del soggetto costituisce l'elemento determinante delle sue composizioni allegoriche, che all'aprirsi del quinto decennio divengono particolarmente numerose.
Nella prima serie di dipinti, leggere differenze cronologiche segnano un percorso graduale dallo stile giovanile, ancora ricco di esuberanze formali, a quello maturo, sempre più depurato e volutamente semplificato. L'Allegoria dell'Innocenza (Oxford, Ashmolean Museum), la Musa Euterpe (collezione privata), l'Allegoria della Stoltezza umana (Belfast, Ulster Museum) e la Musica (già Busiri Vici, oggi nella collezione Baroni di New York), offrono ancora composizioni colme di riferimenti e particolari destinati a rendere leggibile l'allegoria. Gli oggetti sono descritti con acutezza nella loro consistenza materiale e resi più attraenti e coinvolgenti per l'osservatore dalla loro collocazione all'interno della scena, non priva spesso di notevoli effetti illusionistici. Gli stessi gesti sono espliciti e dimostrativi di un'azione in corso di svolgimento, finalizzati alla chiarezza interpretativa del contenuto. Il clima di bellezza depurata e l'evidenza del significato morale del soggetto sono presenti in due diverse versioni della Giuditta (New York, collezione privata, e Narbonne, Musée d'art) e nella Simulazione (Angers, Musée des beaux-arts). La Fuga in Egitto, del 1642, in S. Agostino a Massa Marittima, e il Martirio di s. Iacopo (Firenze, chiesa del Carmine), dello stesso anno, segnano il definitivo orientamento del L., nel suo percorso di "conversione" artistica, verso la massima semplificazione compositiva e il taglio narrativo della raffigurazione. Deviando dal gusto decorativo derivato da Rosselli e dalle inclinazioni espressive degli "affetti" di Furini e di Vignali, il L. trovò nuove fonti di ispirazione nella tradizione figurativa cinquecentesca, seguendo l'esempio di scelte analoghe operate a suo tempo da Santi di Tito.
Alle tendenze correggesche dei contemporanei il L. contrappose un'indiscussa predilezione per Santi di Tito, un'adesione che giustifica quel suo "genio alla pura imitazione del vero" (Baldinucci, p. 262) come una precisa intenzione puristica. Attraverso Santi di Tito poteva ripercorrere le tappe della grande cultura fiorentina e trovare i modelli di perfetta integrità formale che costituivano la base condivisa del linguaggio artistico. Nella sua vasta produzione di pale d'altare non si registrano variazioni sostanziali da questa linea di interpretazione religiosa, destinata, attraverso il linguaggio arcaizzante e il decantato impianto compositivo, a conseguire il livello più elevato di purificazione formale e il massimo potenziale di devozionalità.
Le tappe, dalla decorazione della cappella Ardinghelli nella chiesa di S. Gaetano con il Doppio concerto di angeli (1642-43) alla grande Crocifissione del 1647, in cui il suo stile raggiunge la massima purificazione formale, eseguita per la Compagnia della Scala (Firenze, Museo di S. Marco), alla Madonna del Rosario (Foiano della Chiana, S. Domenico: 1652), al S. Cristoforo, s. Giovanni Battista e il committente di Colleramole (chiesa di S. Cristoforo) del 1655, alla Madonna che dona il rosario a s. Domenico di S. Martino a Strada del 1658, all'Apparizione del Bambino a s. Antonio (Firenze, chiesa dei cappuccini di Montughi: 1659 circa), all'Assunta e santi della Misericordia di Montelupo conducono in modo coerente alle grandi tele degli anni Sessanta, che rappresentano il culmine dell'arte sacra del L. e che confermano la notorietà raggiunta dal L. in questa produzione. Sono infatti opere destinate a chiese extracittadine non secondarie, come la Madonna dona l'abito ai sette santi (Antella, pieve di S. Maria: 1660), l'Immacolata e santi nell'oratorio di S. Onofrio a Dicomano del 1662, l'Elemosina di s. Tommaso di S. Agostino a Prato del 1662, il S. Antonio da Padova col Bambino Gesù di S. Michele a Montevettolini (1664 circa) e la Trinità di S. Maria a Vallombrosa del 1665, sua opera ultima. Nei quadri di soggetto religioso, destinati a collocazioni private, i criteri formali e compositivi sono del tutto analoghi, si intensifica semmai il clima di devozione, che diviene più intimo e domestico, come nel S. Antonio in adorazione del Bambino Gesù, oggi nell'oratorio di S. Antonio dei Pucci a Montopoli, nella S. Caterina de' Ricci che abbraccia il Crocifisso della cappella della villa di Rignana in Chianti, nella tela ottagona con S. Francesco del Museo del Louvre a Parigi, nel S. Francesco e l'angelo (Trieste, Galleria nazionale d'arte antica), che appartenne al marchese Mattias Bartolommei. Una serie di quattro tele, di grande impegno e dimensioni, destinate a privati di cui si ignorano i nomi e gli intenti, rivelano una concezione tanto stretta da suggerire datazioni molto prossime, dalla seconda metà degli anni Cinquanta ai primi del decennio successivo: Lot e le figlie (Firenze, Uffizi), Balaam e il suo asino (collezione privata), Mosè e Aronne trasformano l'acqua del Nilo in sangue (collezione privata), Sacrificio di Isacco (Pistoia, chiesa dello Spirito Santo). Venerande figure di vecchi patriarchi, impegnate nelle pose e negli atteggiamenti previsti dalle storie narrate dai testi biblici, dominano le scene e svolgono con dignità antica il ruolo assegnato loro da Dio. È presente ancora il taglio teatrale, con soluzioni svolte in primo piano e aperture sul fondo in funzione di scenario, come pura indicazione del luogo dell'azione.
I soggetti profani costituiscono una vera minoranza nell'intero arco della produzione del L.; ma in particolare ciò si conferma per la sua attività tarda.
Le fonti e le opere finora rintracciati si attestano su pochi dati: l'Erminia fra i pastori del Museo Clemente Rospigliosi di Pistoia e le due versioni di Orlando e Isabella nella grotta dei ladroni (una in collezione privata e una già nella collezione Gregori) sono in ogni caso le storie ispirate ai poemi di L. Ariosto e di T. Tasso più rappresentate dal L., replicate in soluzioni compositive variate e di dimensioni assai diverse, tutte appartenenti alla seconda metà del sesto decennio o ai primi anni Sessanta. Vi si riconoscono come sue caratteristiche il rispetto meticoloso del testo poetico e la limpida esecuzione che dà pienamente risalto a tutti gli elementi testuali, segni attesi e riconosciuti dai colti amatori dell'epoca. È del 1663 una ricevuta per due "favole" di Ariosto ricordate da Baldinucci (p. 270) eseguite per M. Bartolommei, finora non rintracciate (d'Afflitto, 2002, pp. 147 s.).
La fortuna del L. presso i committenti fiorentini si deve in gran parte alla sua abilità ritrattistica, sancita anche dal riconoscimento che l'incarico in Austria, presso la corte di Claudia de' Medici, gli aveva procurato.
A Innsbruck, dove soggiornò dall'ottobre 1643 all'aprile 1644, eseguì soprattutto ritratti, quali Claudia de' Medici in abito vedovile, Claudia come s. Cristina, Maria Leopoldina, Isabella Clara e Sigismondo Franz, del Kunsthistorisches Museum di Vienna, e la più celebre, classicistica, Samaritana al pozzo del 1644, sempre al museo di Vienna. Nel contratto stipulato con Claudia de' Medici (Weiss, pp. 173 s.) sono ricordate complessivamente 57 opere eseguite per la corte con l'aiutante Lorenzo Martelli.
Dell'intensa attività di ritrattista del L. restano tuttavia poche altre testimonianze: fra queste, cospicua è la serie genealogica della famiglia Frescobaldi, eseguita intorno al 1650-52 (Solinas, in Frescobaldi - Solinas, pp. 253-258). Nell'Autoritratto degli Uffizi è raffigurato poco più che quarantenne, intorno al 1646-48, con l'espressione viva e ammiccante dello sguardo rivolto verso l'osservatore, in un'autopresentazione che restituisce in pieno il suo spirito arguto. Un caso assai frequente nella produzione del L. è quello del ritratto-protagonista, ossia la personificazione in carne e ossa con una figura biblica o di un santo. La più clamorosa rappresentazione di collegiale interpretazione di famiglia di una scena sacra è quella proposta nel Trionfo di David, eseguito nel 1656 per Agnolo Galli (collezione privata), ricordato da Baldinucci (pp. 271 s.) e documentato negli inventari come "La famiglia del Signor Agnolo Galli" (d'Afflitto, 2002, p. 121). La composizione, stipata di figure e di teste, ritrae i sedici figli e la consorte del committente in una costruzione insolita e arcaizzante. Agnolo e Alessandro Galli, dopo le prime commissioni di soggetti biblici - Sansone e Dalila e Giaele e Sisara del 1630-31 - si rivolsero al L. solo per ritratti della numerosa prole, raffigurata anche nelle vesti di santi e sante, come nella S. Elisabetta d'Ungheria (già Parigi, collezione G. Baroni).
Se le scelte artistiche del L. furono in parte ispirate da orientamenti letterari diffusi in ambito accademico, un rapporto diretto con il classicismo romano poteva provenirgli attraverso Agnolo Galli, che era di fatto il suo protettore. Il comune impegno nella Compagnia della Scala e l'elevato numero di opere eseguite per la sua dimora cittadina lasciano intendere una familiarità di rapporti e, forse, una significativa coincidenza di gusti, derivanti da un dialogo quasi quotidiano. Dalla consuetudine col suo maggior mecenate, legato da lunga amicizia con Cassiano Dal Pozzo, col quale intrattenne per anni una fitta corrispondenza, il L. aveva forse potuto desumere l'equilibrata propensione allo spirito classicistico e l'apprezzamento pressoché esclusivo per l'arte fiorentina del suo tempo, insieme con il culto per le maggiori glorie locali.
Sono da riferire a un ambito strettamente accademico due delle numerose pale della Crusca che, in modo non concorde, gli vengono assegnate (Gregori, in Il Seicento fiorentino. Pittura, pp. 351 s.; d'Afflitto, 2002, pp. 156 s., 286 s.; S. Casciu, in Gregori, 2003, pp. 268-289). La "Pala" di Francesco Ridolfi detto il Rifiorito e la "Pala" di Baldassarre Suárez detto il Mantenuto, all'Accademia della Crusca, a Castello, dipinte negli anni 1650 e 1653, rappresentano uno degli esiti più alti della poetica del L., perfettamente calibrata fra naturalismo pittorico ed evidenza emblematica del concetto. La raffigurazione realistica degli oggetti, particolari spesso presenti in composizioni più vaste, uniti al motto, offrono la sintesi più riuscita di un procedimento che il L. applicò anche ad altri soggetti religiosi e profani, ricercando sempre, anche quando la parola scritta non compare, un registro di comunicazione altrettanto significante e piano.
In un documento del 1655 (d'Afflitto, 2002, p. 157) il L. è menzionato tra i principali pittori della città, con guadagni di 600-700 scudi l'anno.
Il L. morì a Firenze il 14 apr. 1665 e fu seppellito il giorno successivo nella cappella Bartolini nel camposanto di S. Maria Novella.
Il testamento e l'inventario dei beni del 24 luglio 1665 (ibid., pp. 375-377) indicano una condizione sociale ed economica adeguata al ruolo non secondario da lui ricoperto in veste di pittore e di poeta. Ai suoi figli maschi Giovan Francesco e Antonino, avuti dalla moglie Elisabetta Susini, lasciò un patrimonio non indifferente, costituito da beni mobili e immobili. Ma è certamente l'inventario della casa abitata, in via del Ciliegio, l'attuale via degli Alfani, a suscitare interesse per la menzione di settantadue quadri, dei quali non è mai segnalato l'autore. Emerge inoltre il suo gusto di collezionista, testimoniato dalla presenza di una piccola raccolta di curiosità "come nicchi, gessi, christalli, et altre cose simili" (ibid., p. 164), riflesso forse di uno specifico interesse scientifico del L., partecipe del clima fiorentino fortemente improntato allo sperimentalismo dell'Accademia del Cimento. Gli esemplari naturalistici e zoologici sulle pareti della casa potrebbero in ugual misura essere attribuiti alla sua mano e a quella di almeno uno dei suoi giovanissimi allievi, Andrea Scacciati, dei cui inizi si ignora quasi tutto.
In campo letterario la fama del L. è legata al poema eroicomico Il Malmantile racquistato, cominciato prima o durante il soggiorno del L. a Innsbruck, ipotesi che trova conforto nella dedicatoria a Claudia de' Medici, figlia del duca Ferdinando I e moglie dell'arciduca dell'Austria-Tirolo Leopoldo d'Asburgo (quinto di questo nome) presente in tutte le edizioni. L'unico termine sicuro è comunque l'autunno del 1649, data della lettura pubblica dei primi cantari nell'Accademia degli Apatisti.
L'idea del poema è certo tutta fiorentina e trae origine dal castello di Malmantile, sito nei pressi della città sulla via Pisana. Da una tappa all'osteria del luogo o dalla contemplazione del castello da San Romolo, ospite nella villa dei Parigi, cugini della suocera, il L. trasse lo spunto per la sua leggenda (va ricordato però che il matrimonio con Elisabetta Susini avvenne solo nel 1646). Malmantile è l'oggetto del contendere del poema, suddiviso in 12 tratti significativamente denominati cantari, a porsi nella tradizione narrativa in ottave d'origine meno elevata. L'impianto è di matrice eroicomica: secondo Baldinucci il Malmantile volle essere "tutto il rovescio della Gerusalemme liberata". Vi si narra la riconquista del castello, usurpato dalla bruttissima Bertinella, da parte della legittima regina Celidora: ad aiutarla il cugino Baldone, "sir d'Ugnano", che raduna un esercito di ciechi, ghiottoni e ubriachi (allievi, amici, conoscenti del L. celati da anagrammi).
Scoperto è l'intento di piegare l'esperimento tassoniano della Secchia rapita in direzione burlesca. Al contrasto eroicomico tra materia e stile, che consente ad A. Tassoni un continuo intreccio tra grave e faceto, il L. preferisce circoscrivere l'eroico a una struttura esilissima e a poche tessere parodiche, la cui rarità ne intensifica l'efficacia (I, 54; IV, 21; VI, 19 e 37; VII, 21). Su tale impalcatura fa gioco il comico, in tre direzioni: la dispersione della trama epica attraverso episodi, inserimento di novelle e di leggende; la deformazione comica dei moduli epici, con il ricorso alla tradizione di Pulci e Folengo (in particolare il tema della ghiottoneria, spesso accompagnato da prestiti fuori contesto: "la bocca sollevò dal fiero pasto", VI, 49; e pure lo svuotamento di alcuni personaggi canonici come la maga); la costante caricatura linguistica che sceglie, quasi pendant della riduzione municipale dell'azione epica, l'idiotismo, il modo di dire locale e quasi rionale, il proverbio e l'allusione alla contemporaneità fiorentina come tratto dominante e anzi soverchiante, tanto da rendere avvertiti già i contemporanei della difficoltà di intendere il poema fuori di Firenze (lettera di A. Magliabechi ad A. Aprosio, databile al 1671, nel ms. E.II.2 della Biblioteca universitaria di Genova). Presente nel poema, pur se meno di quanto sia stato creduto, è pure una sorta di lingua artefatta detta jonadattica, oggetto di una Cicalata del cruscante O. Ricasoli Rucellai nella quale si cita un'ottava del L., che consiste nel sostituire un vocabolo con un altro che incomincia con lo stesso suono e con il quale, eventualmente, intrattiene un legame concettoso (per esempio: III, 66, 5 spinaci per spie; VII, 10, 8 briccone per brindisi; cfr. Alterocca, pp. 113-119). I contemporanei sottolinearono nell'assoluta prevalenza del momento espressivo del Malmantile l'impiego della "lingua d'oggi delle persone civili", a distanza da ogni possibile operazione "rancida" e "boccaccesca". In un poeta che si vorrebbe d'intenti e di cultura esili, stupiscono in più di un'occasione l'ampiezza dei richiami e la sapienza delle riscritture (in particolare, nel cantare II, quella del trattenimento I, 9 del Cunto di G. Basile); l'abilità nel rinnovare luoghi topici attraverso l'impiego dell'equivoco e del detto fiorentino (come la descrizione del sopraggiungere della notte, X, 5), con una stratificazione concettosa dagli esiti assai raffinati; la parodia dei valori epici rappresa nei proemi di marca ariostesca (il vituperio della guerra al c. IX, l'elogio della codardia al X); la vivezza delle similitudini (IX, 26, 29).
Intitolato dapprima La leggenda delle due regine di Malmantile o Novella delle due regine, successivamente Malmantile recuperato (testimoniato in Mss. ital., cl. IX, 477 [=7091], datato 1671 della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia), il poema ebbe secondo le fonti almeno due redazioni: una prima in sette cantari, accresciuta più tardi fino a dodici su consiglio di amici e accademici. Risalirebbe alla generosità di S. Rosa l'incontro del L. con il Cunto de li cunti, cui si rifanno i cantari II, IV, VII (al Rosa si devono anche prestiti diretti, dalle satire - soprattutto l'Invidia - ma anche da alcuni esiti pittorici, cfr. VI, 50-55), e a Filippo Baldinucci lo spunto per la stesura del cantare VI con la descrizione dell'inferno, ultimo composto, e un aiuto nel "tessimento" e nelle scelte linguistiche. Il Cinelli ricorda anche l'intervento di Francesco Rovai, altro accademico Apatista, e attribuisce all'ultima redazione, oltre allo stesso cantare VI, anche la mostra delle due armate (cantari I e III) e l'episodio delle fate (cantari VII-VIII). Pure se tale cronologia non è ricostruibile con sicurezza, è indubbio che il Malmantile fu oggetto di continuo lavoro di lima (testimoniato dal ms. B.R., 208 della Biblioteca nazionale di Firenze, certamente autografo nelle correzioni e nelle riscritture): e a una sostanziale insoddisfazione, oltre che al timore di ricevere critiche e di offendere persone viventi ridicolizzate nel poema, può essere fatta risalire la strenua contrarietà del L. a concedere che il poema si stampasse. Il Minucci favoleggia, nel Proemio, di un furto notturno del manoscritto, compiuto per convincere l'autore alla pubblicazione. Dall'autografo rubato due copisti avrebbero tratto una copia, poi entrata in possesso del Minucci stesso (infondata l'ipotesi di Alterocca di riconoscere nel ms. B.R., 208 il manoscritto rubato). Dopo il furto il L. si sarebbe affrettato a portare il poema da sette a dodici cantari per rendere inservibile il manoscritto sottratto e si sarebbe convinto a far trarre una copia al Minucci stesso solo per intercessione del cardinale Carlo de' Medici. Ma le notizie del Minucci non sono attendibili, poiché il poema, dopo la morte dell'autore, fu oggetto di una complicata contesa per la pubblicazione, restituita, oltre che dalle prefazioni alle prime due edizioni, dai carteggi di Angelico Aprosio, Antonio Magliabechi, Giovanni Cinelli Calvoli, Agostino Coltellini, Virginio Magi (Genova, Biblioteca universitaria, Mss., E.II.2, E.VI.8, E.VI.15; Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VIII.141, VIII.716; con l'esame diretto dei carteggi va integrata la ricostruzione di A. Neri).
L'impulso alla stampa giunse poco dopo la morte del L., con l'avallo del principe cardinale Leopoldo de' Medici, il quale pregò il Minucci di approntare un commentario che potesse rendere il poema comprensibile anche fuori Firenze. Mentre il Minucci, tra il 1672 e il 1673, compilava il commento (l'autografo a Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VII.207), il poema, già arcinoto grazie a una copiosissima diffusione manoscritta, giunse alle mani del medico G. Cinelli Calvoli, infaticabile e spiantato scrittore-editore, il quale annusò l'affare e tentò una pubblicazione già nel 1672. Poco prima (nel 1671), il Magliabechi aveva inviato notizie del L., la dedica a Claudia de' Medici e alcune ottave del poema all'Aprosio, il quale da quel momento non smise di sollecitarne la stampa e al Magliabechi e al Cinelli, con il quale pure carteggiava. Testimone di questo tentativo è il ms. della Biblioteca nazionale di Firenze B.R. 28, che porta in calce le approvazioni di stampa datate luglio-agosto 1672 (una di esse a firma di Agostino Coltellini, fondatore degli Apatisti) e nel frontespizio la specifica ancora poco spiegata "ad instanza del rev.mo p. Angelico Aprosio Vintimiglia". Il manoscritto appartenne al Cinelli, il quale, come ricorderà nella prefazione alla prima edizione, lo collazionò con l'autografo in pulito appartenuto, sembra, proprio al Magliabechi e sinora non reperibile. La collazione, restituita dalle correzioni del manoscritto, è forse da posticipare di qualche anno: la stampa del 1672 fu infatti impedita dall'intervento del principe cardinale, che preferì proteggere il Minucci e il suo commento. Benché quest'ultimo fosse già terminato nel 1673, il progetto di pubblicazione fu accantonato anche dal Minucci. A forza di fallimenti, a vedere la luce per prime furono proprio le ottave in possesso dell'Aprosio (VIII, 24-32, dove è descritta la biblioteca delle fate), da lui inserite nella Biblioteca Aprosiana (Bologna 1673, pp. 526-532).
Soltanto dopo la morte di Leopoldo de' Medici il Cinelli poté tornare alla carica, questa volta con il convinto appoggio del Magliabechi e dell'Aprosio (forse proprio a questa data potrebbe risalire la collazione del B.R. 28 con l'autografo). Ancora una volta, però, il gruppo raccolto intorno al Minucci riuscì a ostacolare la pubblicazione, negando l'approvazione granducale, tanto che il Cinelli fu costretto a stampare "alla macchia", con il rischio di essere preceduto da una fantomatica stampa a Massa, a cui forse non era estraneo lo stesso Magliabechi (nel resto complice del Cinelli: cfr. il ms. della Biblioteca universitaria di Genova E.II.2, lettera del 13 ott. 1676, ma per contro il ms. E.VIII.716, lettera dell'8 nov. 1676 e passim). Egli chiese all'Aprosio di trovare uno stampatore prestanome, o addirittura uno stampatore da poco deceduto: si trovò infine Giovanni Tommaso Rossi del Finale, presso il quale, con falso luogo di stampa, vide la luce la prima edizione (Il Malmantile racquistato poema di Perlone Zipoli, In Finaro 1676, ma la data è da intendersi ab Incarnatione e il libro uscì di fatto nel gennaio 1677), fondata sul manoscritto cinelliano collazionato col presunto autografo. Il Cinelli intese aggiungervi una pungentissima prefazione "Al cortese lettore" ripiena di allusioni trasparenti al Minucci e ai suoi: ma essa fu intercettata dalla censura e sopravvisse in pochissimi esemplari (Alterocca, p. 154; Biblioteca apost. Vaticana, Rossiani, 6586). L'edizione Cinelli uscì corredata di una vita del L. e di una breve prefazione filologicamente assai scrupolosa (segnala la redazione anteriore di tre ottave, utile per ricostruire i rami della diffusione manoscritta, e le diverse redazioni degli argomenti di A. Malatesti). Il commento del Minucci, invece, giunse ai torchi soltanto nel 1688 (Firenze), inaugurando una tradizione di commenti proseguita da Antonio Maria Salvini (del cui aiuto già il Minucci poté giovarsi, ma che proseguì l'opera postillando fittamente un esemplare dell'edizione Minucci, oggi a Firenze, Biblioteca nazionale, Palatino, C.10.6.13) e da Antonio Maria Biscioni (che incluse il proprio commento e quello del Salvini nella terza edizione, in due tomi, uscita a Firenze nel 1731, e poi con aggiunte nel 1750). La fortuna del Malmantile è testimoniata da una continuazione settecentesca (A. Casotti, La Celidora ovver Il Governo di Malmantile, Firenze 1734) e dalla fama presso i sovrani d'Europa (cfr. A.M. Crinò, Un dono di L. Magalotti a Carlo II d'Inghilterra, Firenze 1955).
Già nella contesa per la prima stampa trovavano espressione due linee interpretative: quella del Cinelli, ricordata dal Baldinucci, che sottolineava l'intenzione parodica nei confronti del poema tassiano, e quella del Minucci, che insisteva invece sulla "bizzarra fantasia" del poeta pittore, che avrebbe composto il Malmantile per i fanciulli, "per mettere in rima alcune novelle raccontate ai bambini dalle donnicciuole" inserendovi proverbi, detti e idiotismi fiorentini "usati ne' discorsi famigliari", con evidente fraintendimento dell'operazione tutta letteraria della riscrittura di Basile (Proemio).
Unica altra prova poetica nota del L. è un enigma licenzioso in forma di sonetto (Vidi un huom, che due cose tonde apriva), manoscritto autografo in uno zibaldone di A. Malatesti (Firenze, Biblioteca nazionale, Magl., VII.219; in Alterocca, p. 205), a testimonianza della relazione quasi cameratesca che univa il L. al Malatesti (autore anche di vari sonetti e di un'epistola autobiografica in terzine dedicati al L., cfr. G. Piccini, Lettera familiare di A. Malatesti a L. L. descrivendogli la sua vita, Firenze 1867).
Fonti e Bibl.: Forlì, Biblioteca comunale, Raccolte Piancastelli, Sez. autografi XII-XVIII sec., ad nomen (ricevuta autografa del compenso per il servizio prestato a Innsbruck, Firenze, 11 maggio 1644); G. Cinelli, Vita dell'autore, in P. Zipoli (L. Lippi), Il Malmantile racquistato, Finaro 1676, pp. n.n.; [P. Minucci], Proemio, in P. Zipoli, Il Malmantile racquistato, Firenze 1688, pp. n.n.; F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno… (1681-1728), a cura di F. Ranalli, IV, Firenze 1846, p. 160; V, ibid. 1847, pp. 261-278, 451, 458-460; A.F. Rau - M. Rastrelli, Serie degli uomini i più illustri nella pittura scultura e architettura…, X, Firenze 1774, pp. 147-151; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (1795-96), I, Firenze 1968, pp. 176 s.; F. De Boni, Biografia degli artisti, Venezia 1840, p. 570; A. Neri, La prima edizione del "Malmantile", in Passatempi letterari, Genova 1882, pp. 63-82; M. De Angelis, L. L. e il "Malmantile racquistato". Studio storico-critico, Avellino 1887; B. Croce, Giambattista Basile e il "Cunto de li cunti", in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari 1911, pp. 73-76; A. Alterocca, La vita e l'opera poetica e pittorica di L. L., Catania 1914; M. Marangoni, in Enc. Italiana, XXI, Roma 1951, p. 239; M. Gregori, Mostra dei tesori segreti delle case fiorentine (catal.), Firenze 1960, p. 44; Id., Nuovi accertamenti in Toscana sulla pittura "caricata" e giocosa, in Arte antica e moderna, 1961, n. 16, pp. 404 s.; Id., "Avant propos" sulla pittura fiorentina del Seicento, in Paragone, XIII (1962), 145, p. 40; G. Heinz, Studien zur Porträtmalerei an den Höfen der österreichischen Erblande, in Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien, LIX (1963), pp. 151 s., 154, 207 s., 218 s.; F. Sricchia, L. L. nello svolgimento della pittura fiorentina della prima metà del Seicento, in Proporzioni, IV (1963), pp. 254-270; H. Langdon, Salvator Rosa in Florence1640-1649, in Apollo, XCIX-C (1974), 9, pp. 191 s.; S. Meloni Trkulja, in Diz. encicl. Bolaffi…, VI, Milano 1974, pp. 446 s.; C. d'Afflitto, Precisazioni sulla fase giovanile di L. L., in Paragone, XXX (1979), 353, pp. 61-76; Id., La "conversione" di L. L., in Paradigma, 1982, n. 4, pp. 111-138; G. Pagliarulo, La devozione della famiglia Bonsi e le commissioni per S. Gaetano di Firenze, in Paragone, XXXIII (1982), 387, pp. 19 s.; P. Bigongiari, Il caso e il caos. Il Seicento fiorentino tra Galileo e il "recitar cantando", Firenze 1982, pp. 121-128 (contiene l'edizione di una biografia manoscritta del L.); E. Chini, La chiesa e il convento dei Ss. Michele e Gaetano a Firenze, Firenze 1984, pp. 141 s., 325; R. Caterina Proto Pisani, Momenti del Seicento fiorentino: il Fontebuoni "ritrovato" di S. Martino alla Palma, S. Pignoni e L. L. in S. Maria all'Antella, in Paradigma, 1985, n. 6, pp. 144-150; C. d'Afflitto, in Il Seicento fiorentino (catal.), Firenze 1986, Biografie, pp. 107-109; Pittura, pp. 339-349; Disegno…, pp. 305 s.; C. Jannaco - M. Capucci, Il Seicento, Padova 1986, pp. 551-553; R. Spinelli, Domenico Pugliani e L. L. alla Compagnia della Madonna della Neve di Vaglia, in Paragone, XXXVII (1986), 437, pp. 35-52; Pitture fiorentine del Seicento (catal.), a cura di G. Pagliarulo - R. Contini, Firenze 1987, pp. 80-84; M. Gregori, in La pittura in Italia. Il Seicento, I, Milano 1989, p. 289; G. Pagliarulo, Dipinti fiorentini del Seicento per la Compagnia di S. Paolo di Notte, in Paragone, XL (1989), 471, pp. 59-62; Id., Appunti fiorentini e alcune ipotesi intorno al soffitto della Madonna dei Galletti a Pisa, in Antichità viva, 1991, nn. 4-5, pp. 34 s.; C. Rosso, Montesquieu e Tassoni: sopra una citazione sbagliata, in Felicità vo cercando. Saggi in storia delle idee, Ravenna 1993, pp. 85-90; S. Casciu, Inediti del Seicento fiorentino in Arezzo, in Paragone, XLV (1994), 529-533, p. 260; K. Eisenbichler, The boys of the Archangel Raphael. A youth Confraternity in Florence, 1411-1785, Toronto 1998, pp. 64, 69, 164 s., 226, 258 s., 268, 342 s.; V. von Flemming, Dissimulazione: L. L., Salvator Rosa und die Krise der Repräsentation, in Diletto e maraviglia. Ausdruck und Wirkung in der Kunst von der Renaissance bis zum Barock, a cura di C. Göttler, Emsdetten 1998, pp. 74-101; F. Toso, Lessicografia genovese del sec. XVIII, in Boll. dell'Atlante linguistico italiano, s. 3, XXII (1998), pp. 93-119; A.-M. Lecoq, Une peinture "incorrecte" de L. L., in Revue de l'art, 2000, n. 130, pp. 9-16; M. Boaglio, Le burlesche metamorfosi di Elena. Proemio e parodia nei poemi eroicomici del Seicento, in Il poema eroicomico. Teoria e storia dei generi letterari, Torino 2001, pp. 54-58; C. d'Afflitto, "Naturale" e tradizione nella pittura religiosa a Firenze, da Cigoli a C. Dolci, in Storia delle arti in Toscana. Il Seicento, a cura di M. Gregori, Firenze 2001, pp. 95-97; S. Ussia, Amore innamorato. Riscritture poetiche della novella di Amore e Psiche. Secoli XV-XVII, Vercelli 2001, pp. 132-138; S. Casciu, in La natura morta italiana tra Cinquecento e Settecento (catal., Monaco di Baviera-Firenze), a cura di M. Gregori - J.G. von Hohenzollern, Milano 2002, pp. 268 s.; C. d'Afflitto, L. L., Firenze 2002; F. Baldassari, La collezione Piero e Elena Bigongiari, Milano 2004, pp. 40-42; A. Colantuono, The cup and the shield: L. L., Torquato Tasso and seventeenth-century pictorial stylistics, in L'arme e gli amori. Ariosto, Tasso and Guarini in late Renaissance Florence. Atti del Convegno… 2001, a cura di M. Rossi - F. Gioffredi Superbi, II, Firenze 2004, pp. 397-417; P. Morel, La figure de la magicienne de l'Orlando furioso à l'art florentin entre Cinquecento et Seicento, ibid., pp. 316-325; D. Frescobaldi - F. Solinas, I Frescobaldi. Una famiglia fiorentina, Firenze 2004, pp. 137-146, 151-155, 157-164, 203-205, 243-258; S. Weiss, Claudia de' Medici. Eine italianische Prinzessin als Landesfürstin von Tirol (1604-1648), Innsbruck-Wien 2004, pp. 173 s., 182, 267, 281; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXIII, p. 274.
-