MAZZOCCHI, Lorenzo
MAZZOCCHI (Mazzochi, Mazzocchio), Lorenzo. – Nacque a Castelfranco Veneto, nella Marca trevigiana, intorno al 1490 in una famiglia benestante, originaria del Padovano, che si estinse poco tempo dopo la sua morte.
Entrò giovanissimo, probabilmente all’età di nove anni, nell’Ordine dei servi di Maria, nel convento di S. Giacomo nella sua città. Seguì un periodo di formazione riguardo al quale sono pervenute poche notizie. Prese gli ordini sacri in data ignota (probabilmente nel 1514). Compì studi filosofico-teologici alla Sorbona di Parigi, dove si addottorò intorno al 1520. Il M. si sarebbe adoperato in questo periodo anche per riorganizzare gli studi del suo Ordine in Francia, erigendo vari collegi e dirigendone altri, anche nella stessa Parigi.
Molto intensa sembra fosse in questi anni la sua attività di predicazione, resa ancora più vigorosa dalle prime espressioni della riforma luterana e dai suoi primi segni di diffusione in Italia. Già il 28 ott. 1520 il M. pronunciò un vibrante discorso antiluterano nella cattedrale di Ferrara e nel 1524 predicò la quaresima in S. Maria Nuova a Firenze. Nello stesso anno risulta reggente dello Studio della Ss. Annunziata di Firenze, carica che conservò fino al 1526. Nel 1525 fu nominato «predicatore in chiesa e cantore in cappella» della Ss. Annunziata e tenne un sermone nel duomo della città.
Al termine del suo mandato come reggente il M. iniziò un periodo di residenza presso il monastero cistercense (badia di S. Salvatore) a Settimo, nei pressi di Scandicci, dove insegnò teologia. Non sono chiare le ragioni di questa permanenza nel convento di un altro Ordine religioso, si trattò con ogni probabilità di un allontanamento dovuto a dissapori con i frati della comunità fiorentina, dove comunque tornò nel 1527. Successivamente fu accolto nella famiglia di Gian Matteo Sartorio, vescovo di Santa Severina in Calabria. I monaci della badia di S. Salvatore diedero espressamente il loro consenso alla partenza del M., circostanza che autorizza a pensare che la sua permanenza a Settimo non fosse stata volontaria. Quando, nel 1532, Sartorio fu trasferito alla diocesi di Volterra, il M. lo seguì, ricevendo la nomina a vicario generale; ma nel luglio 1533 sembra avesse già lasciato il servizio del vescovo, visto che lo si trova residente nel convento della Ss. Annunziata di Firenze. Si chiuse così un periodo di circa sette anni di assenza del M. da un convento dell’Ordine. Papa Paolo III lo nominò poco tempo dopo predicatore apostolico e penitenziere universale, dotato di vasti privilegi (cfr. Giani, p. 196). Passò poi in Francia, dove fece una vasta campagna antiereticale.
Nel 1540 il M. fu nominato priore della comunità servita di Firenze e l’anno successivo rivestì nuovamente la carica di reggente dello Studio della Ss. Annunziata. Nel 1542 partecipò al capitolo generale di Faenza come definitore della provincia germanica, dal quale uscì eletto priore del convento di S. Caterina di Treviso e l’anno seguente fu designato predicatore in quella città.
Il 13 dic. 1545 si aprirono a Trento i lavori del concilio ecumenico. Il M. vi si recò, insieme con il priore dell’Ordine Agostino Bonucci, in qualità di «teologo minore». Il 6 genn. 1546 predicò nel duomo della città conciliare nel corso della messa pontificale celebrata dal vescovo di Ivrea, il cardinale Filiberto Ferrero, ma fu nel giugno di quell’anno che il M. poté mettersi in evidenza, in occasione delle discussioni concernenti la dottrina della giustificazione, fulcro dell’eresia luterana. Dopo non pochi intoppi di carattere procedurale i padri conciliari decisero di affidare l’elaborazione di un progetto di decreto sulla questione della giustificazione a una congregazione di teologi, della quale il M. fece parte. Nel corso delle sei congregazioni (22-28 giugno 1546) presero la parola 34 teologi, dei quali 16 appartenevano ai due rami dell’Ordine francescano.
Sollecitati da una serie di sei quesiti di orientamento formulati dai legati, i teologi si trovarono di fronte all’arduo compito di impostare l’intero problema secondo una trattazione sistematica, abbandonando la strada controversistica, che avrebbe comportato di rispondere ai luterani su singole affermazioni e posizioni. Bisognava innanzitutto definire l’essenza della giustificazione, e su questo i pareri non erano unanimi. Si scontravano, infatti, le diverse scuole della teologia cattolica, principalmente la tomista e la scotista, espressione di sistemi divergenti: essenzialmente teocentrico quello tomista, maggiormente attento al lato psichico ed etico del processo di giustificazione, invece, quello scotista. Nelle prime fasi della discussione i teologi concordarono sul fatto che la giustificazione non si esaurisce nella remissione dei peccati o nella non imputazione del peccato, ma pone nell’uomo stesso qualcosa di positivo in modo tale da farlo diventare gradito a Dio, rinnovato, giusto. Circa le cause della giustificazione, i teologi si trovarono sostanzialmente concordi sulla teoria per cui l’uomo prende parte in qualche modo all’atto della giustificazione, cooperando attivamente con la grazia divina. Soltanto quattro teologi dissentirono da questa posizione, asserendo che la volontà umana si comporta in maniera assolutamente passiva di fronte alla grazia: i due eremitani agostiniani Gregorio da Padova e Aurelio da Roccacontrata, il domenicano Gregorio da Siena e il Mazzocchi. Per lui il libero arbitrio «se habet mere passive et nullo pacto active ad iustificationem» (Concilium Tridentinum, V, p. 280). La posizione assunta dai quattro teologi scandalizzò l’assemblea in quanto troppo vicina alla dottrina luterana («non videntur satis catholice locuti», ibid.). Anche all’interno del piccolo gruppo di teologi che si erano espressi per la passività della volontà umana rispetto alla grazia, il M., cui H. Jedin attribuisce tendenze marcatamente nominaliste, fu portatore di una posizione fortemente originale, tanto che A. Massarelli, redattore degli atti delle sedute, riferisce l’impressione generale suscitata dal servita, ossia quella di aver contraddetto nel suo intervento le opinioni di quasi tutti gli oratori precedenti.
Il M. si mise di nuovo in evidenza in concomitanza del «progetto di settembre» sul decreto de iustificatione, il testo preparato dal generale degli agostiniani G. Seripando nel tentativo di trovare un terreno di accordo dottrinale con i luterani. La parte più controversa di questo progetto di decreto fu l’esposizione della dottrina della duplex iustitia, secondo la quale l’uomo si salva per sola fede, ma d’altra parte la fede è impensabile senza le opere. Alla base della dottrina sta la distinzione tra una giustizia immanente all’uomo e concessagli per grazia (iustitia inhaerens), che però resta incompleta, e una giustizia imputata per meritum Christi con la quale Dio, attraverso il sacrificio di Cristo, completa l’insufficiente giustificazione degli uomini. Sostenitori convinti della dottrina proposta da Seripando furono i tre eremitani agostiniani Aurelio da Roccacontrata, Mariano da Feltre e Stefano da Sestino, ma si pronunciarono a favore anche i preti secolari spagnoli Antón Solís e Pedro Sarra, così come il M., che con la sua usuale irruenza e vis polemica nei confronti dei colleghi sostenne, nella seduta del 21 ottobre, la certezza morale della grazia. Per il M. la carità, con le connesse opere, considerata non formalmente ma nel suo profilo entitativo, non è sufficiente per far diventare l’uomo partecipe della beatitudine eterna. L’unico motore del cammino dell’uomo verso Dio è la fede suscitata da Cristo. I due problemi della duplice giustizia e della certezza della grazia sono pertanto collegati: «Se noi non possiamo conseguire una sicurezza sul nostro stato di grazia, il morente non sarà abbandonato alla disperazione, qualora egli non possa rifugiarsi nella giustizia di Cristo?» (in Jedin, p. 294).
La dottrina della duplex iustitia fu lungamente attaccata da Diego Laínez, futuro generale della Compagnia di Gesù, nel suo discorso del 26 ottobre, ma già in precedenza aveva ricevuto confutazione da numerosi teologi. Tutti i domenicani si pronunciarono compatti contro tale dottrina, giudicata pericolosamente nuova e non desumibile dalla Scrittura e dai testi dei Padri, e altrettanto fece il fronte scotista, costituito dai numerosi teologi francescani presenti. Tale fu la sua posizione di minoranza e così forti i sospetti di eterodossia che dovette suscitare, che il M., in quel mese di ottobre, ritenne opportuno scrivere una lettera al presidente del concilio, il cardinale M. Cervini, per difendere la propria posizione e illustrarla meglio (in Concilium Tridentinum, XII, pp. 690-692). Il decreto e i canoni de iustificatione furono infine approvati il 13 genn. 1547, ma l’attività del M. come teologo non terminò lì: diede il suo parere in febbraio nel corso delle discussioni circa il sacramento dell’Eucarestia, mentre il 28 gennaio era già intervenuto per censurare il comportamento di genitori e padrini di battesimo che tralasciano l’istruzione cristiana dei loro bambini. Con il trasferimento del concilio a Bologna e con il successivo ritorno a Trento cessano le notizie sull’attività del M. come teologo minore.
Nel 1554 si celebrò a Verona il capitolo generale dell’Ordine dal quale sarebbe dovuto uscire il nuovo priore generale. Grande pressione fu esercitata dal gruppo dei frati toscani che sostenevano l’elezione di Zaccaria Faldossi, uno dei tre reggenti nominati da papa Giulio III l’anno precedente a seguito della morte del priore generale Agostino Bonucci. Il duca di Firenze Cosimo I de’ Medici, in particolare, fu molto attivo per ottenere l’elezione di Faldossi, un’ingerenza che però fece irrigidire i partecipanti al capitolo, desiderosi di imprimere una svolta all’Ordine nel segno della riforma interna e della correzione degli abusi, moltiplicatisi grandemente negli ultimi tempi. I consensi dall’assemblea s’indirizzarono allora sul M., presente in veste di maestro e lettore di teologia, largamente apprezzato per la sua preparazione dottrinale e per la sua attività al concilio. Il M. divenne il corifeo della reazione contro la candidatura di Faldossi e fu infine eletto quasi all’unanimità. Rimase in carica per il triennio regolamentare, nel corso del quale si sviluppò un certo malumore all’interno dell’Ordine, probabilmente alimentato dalla fazione uscita sconfitta al capitolo generale. L’opposizione al M. si concentrò in particolare su alcuni effetti della sua politica riformatrice e sulla decisione, presa in occasione del capitolo generale, di limitare la durata del priorato generale a soli tre anni, norma confermata nelle Constitutiones fratrum Ordinis servorum Beatae Mariae emanate nel 1556 (Roma, Dorico, 1556, riprodotte in Monumenta Ordinis servorum Sanctae Mariae) e che, secondo alcuni, indeboliva troppo l’autorità del priore generale, procurando nocumento all’intero Ordine. Di questa esperienza del M. rimangono anche il Trattato del triennio del generalato (originariamente conservato presso la biblioteca della Ss. Annunziata di Firenze) e Ecclesiastes nostrorum temporum (lettera circolare ai confratelli, datata 24 genn. 1555, Roma, Dorico, 1555; una copia è oggi conservata a Pisa, presso il convento carmelitano di S. Torpè). Coerentemente con la politica perseguita fino a quel momento, nel capitolo tenuto a Bologna nel 1557 il M. rinunciò alla carica di priore generale. Ricevette, invece, la nomina a priore del convento di S. Marcello a Roma, ma solo grazie all’intervento del vescovo Giovanni Campeggi, che ebbe ragione dell’ostilità creata dal M. stesso intorno a sé nei tre anni di priorato.
Al suo arrivo a Roma il M. fu denunciato al S. Uffizio, che ordinò la sua carcerazione all’interno del convento di S. Marcello. Quasi nulla si sa sulla durata della detenzione, né tanto meno sulle ragioni e sull’oggetto delle indagini a suo carico, di cui non rimane traccia nell’Archivio del S. Uffizio a Roma. Giova però ricordare che, se con ogni probabilità furono l’inimicizia e il risentimento di taluni suoi confratelli, probabili autori della denuncia alla base delle indagini dell’Inquisizione, è pur vero che erano quelli gli anni del pontificato di Paolo IV Carafa, ossia il periodo più aspro della lotta antiereticale e antispirituale in Italia. Le evidenze documentarie non consentono di stabilire se l’inchiesta dell’Inquisizione possa essere messa in relazione con sospetti di eterodossia che il M. aveva destato, diversi anni addietro, al concilio. È tuttavia verosimile che la fine del periodo di detenzione del M., durante il quale si sarebbe dato alla composizione di vari scritti (Carmen consolatorium de ingrato carceris otio; Libelli supplices S. Offici commissario, domino protectori, summo pontifici; Canzoni sopra l’Ave Maria, Regina Coeli, Salve Regina; Inno di ringraziamento per la sua liberazione dal carcere, secondo De Candido un tempo conservati presso il convento servita di Pisa), possa aver coinciso con l’ascesa al soglio pontificio di Pio IV (dicembre 1559) e con l’attenuazione del rigore inquisitoriale da questo propugnata. Nel maggio 1560 il M. presenziò al capitolo generale di Ferrara, nel corso del quale fu nuovamente eletto priore del convento di S. Caterina di Treviso. Nel giro di pochi mesi, però, si ammalò tanto gravemente che, sentendosi ormai vicino alla morte, chiese e ottenne di essere trasportato nella sua cittadina natale.
Il M. morì a Castelfranco Veneto, nel convento di S. Giacomo, l’8 sett. 1560.
Dalle opere degli storici dell’Ordine servita del XVII e XVIII secolo si evince che il M. fu autore di vari scritti di carattere giuridico-istituzionale, filosofico-teologico e anche omiletico e poetico, in gran parte inediti: oltre a quelli già indicati, sono Solutiones physicarum theologicarum et Scripturalium difficultatum (opera un tempo conservata presso il convento di S. Giacomo di Castelfranco Veneto); Dialogus inter spiritum et animam (un tempo presso il convento servita di Pisa); Sermo in anniversario Pisanae capturae coram excelso domino Florentino in cathedrali templo habitus per sacrae theologiae doctorem f. Laurentium Castrofrancanum, lectorem in conventu divae Annunciatae, septimus idus octobris; Conciones quadragesimales, in dominicis per annum et sermones de sanctis; Canzone sopra la Passione di Gesù (queste ultime opere originariamente conservate, secondo De Candido, nel convento servita di Castelfranco); Sermo habitus Bononiae in Epiphaniae coram Clemente VII anno 1530 (un tempo nella biblioteca del convento di Firenze); Epigramma praefixum libro Hyeronimi Amadei contra Lutherum; Heroicum super psalterium, cantica Magnificat et Benedictus nec non «Symbolum» S. Athanasii (quattro sonetti in lingua italiana pubblicati da Morini).
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. generale dell’Ordine dei servi di Maria, Registrum patrum generalium, 26; Registrum provinciae Tusciae (1536-1542), 27; Registrum Augustini Bonucci de Aretio (1542-1553), 29; Registrum Miliovaccae Astensis (1560-1564); Concilium Tridentinum…, IV, Friburgi Brisgoviae 1904, p. 546; V, ibid. 1911, pp. 278, 280, 436, 581-590, 860, 905, 1028; VI, 2, ibid. 1972, pp. 684, 700; XII, ibid. 1930, pp. XXVIII, 690-692; A. Giani, Annalium Sacri Ordinis fratrum servorum B. Mariae Virginis… centuriae quatuor, II, Lucae 1721, pp. 196 s.; P. Bonfrizieri, Diario sagro dell’Ordine de’ servi di Maria Vergine…, Venezia 1723, p. 406; A. Morini, Quattro sonetti inediti, in Il Servo di Maria, VII (1894), p. 410; Monumenta Ordinis servorum Sanctae Mariae, VI, a cura di A. Morini - P.M. Soulier, Bruxelles 1906, pp. 79-107; A. Piermei, Memorabilium Sacri Ordinis B.M.V. breviarium…, IV, Roma 1934, pp. 18-24, 130-132; A. Rossi, Serie cronologica dei r.mi padri generali dell’Ordine dei servi di Maria, Roma 1952, pp. 45 s.; Id., Manuale di storia dell’Ordine dei servi di Maria, Roma 1956, pp. 87-89; L.M. De Candido, Fra L. M. da Castelfranco priore generale e teologo al concilio di Trento, in Studi storici dell’Ordine dei servi di Maria, XIII (1963), pp. 155-192; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, II, Brescia 1974, ad ind.; Gli incunaboli e le cinquecentine della Biblioteca del Convento di S. Torpè (catal.), a cura di S. Turbanti, Firenze 1998.