MERLINI, Lorenzo
– Nacque a Firenze il 13 maggio 1666 da Marc’Antonio e da Maria Caterina Brogi (Baldassari) e fu introdotto in giovanissima età allo studio delle arti probabilmente nella scuola del padre, capo incisore della Zecca granducale toscana, nella quale prese le mosse anche il fratello Cosimo, futuro capo argentiere dei laboratori di corte. Dopo essere passato nel rinomato atelier scultoreo di G.B. Foggini (Baldinucci), dove ebbe modo di aggiornare il suo stile secondo le linee di tendenza più in voga del tempo, il giovane M. eseguì come prima opera un «Cristo di pietra color di carnagione», menzionato con dovizia di dettagli nella sua autobiografia, fonte primaria di informazioni per la «vita» dell’artista redatta nel primo Settecento da F.M.N. Gabburri (Vite di pittori [1719-41], in Firenze, Biblioteca nazionale, Palatini, E.B.9.5, III, cc. 1755-1757: l’autobiografia del M. è alla c. 1756). L’opera, eseguita poco dopo la morte del padre (1688), fu commissionata dal granduca Cosimo III de’ Medici. Dopo questa scultura, oggi perduta o al momento non identificata, il M. realizzò, sotto l’egida di Foggini, una coppia di angeli in marmo bianco per l’arredo scultoreo della cappella Feroni nella Ss. Annunziata a Firenze.
La composizione, databile tra il 1691 e il 1693, fu realizzata come elemento ornamentale per uno dei quattro pennacchi della cappella. Alla commissione attesero indipendentemente, per le parti restanti, gli scultori G. Fortini, A. Vaccà e la coppia A.F. Andreozzi e I. Franchi (Lankheit). Apprezzabile per la buona sintassi esecutiva e per l’originale formula interpretativa, questa, affine e al contempo diversa dalle altre coppie di angeli incluse nella stessa serie, mostra caratteri perfettamente conformati alle linee stilistiche fiorentine del tempo, concilianti, soprattutto, il raffinato linguaggio fogginiano con ampi richiami alla cultura accademica e classicista di matrice romana.
Contemporaneamente a queste prime prove scultoree il M. dette il via anche a un’apprezzata attività legata a progetti architettonici, menzionata nella sua autobiografia, dove egli ricorda, a tale riguardo, che nei primi anni Novanta del Seicento fece «per comando del s.mo gran principe Ferdinando diverse piante di chiese, e monasteri, e altari, palazzi e giardini, quali furono dall’A.S. fatti legare in due libri in carta reale». Oltre a questi si ha memoria di «accrescimenti e restauri» effettuati in palazzo Ginori a Firenze (Ginori Lisci) e nella villa Le Maschere in Mugello, proprietà dei marchesi Gerini. In quest’ultima, insieme con progetti di ristrutturazione, ebbe modo di realizzare interessanti elementi decorativi in stucco, dei quali sopravvivono intriganti figurazioni di erme femminili e ornati con volute, festoni e cartigli di vario tipo (Spinelli, 2003).
Intorno al 1694, anno in cui il suo nome appare citato per la prima volta nei registri dell’Accademia del disegno (Zangheri), il M. realizzò, stando alle fonti biografiche, la bella statua marmorea a figura intera con Cosimo III de’ Medici in abiti «all’antica» per la villa Vitelli Rondinelli a Fiesole, posta in loco nel 1695 (Langedijk).
L’opera, tra i raggiungimenti scultorei più significativi del primo tempo di attività del M., mostra soluzioni formali e stilistiche di chiara impronta fogginiana, con ampi richiami alla scuola romana contemporanea e alla statuaria cinquecentesca, ancora molto importante in quel tempo nel capoluogo toscano.
Nel mese di novembre del 1694 si trasferì a Roma dove si trattenne fino al 1702. Dopo essersi fatto apprezzare, come lo stesso M. scrisse, per raffinati «ritratti di principesse, e dame di cere di colori naturali da collocarsi in scatolette o di zigrino, o di argento», su incarico del generale dei gesuiti ottenne l’ordine di eseguire per la cappella di S. Ignazio nella chiesa del Gesù un «bassorilievo di bronzo lungo palmi 9 e alto palmi 7 romani che contiene la conversione di S. Ignazio, che stando in letto ferito in una gamba da una palla di cannone ricevuta nell’assedio di Pampalona con un libro in mano leggendo le vite de’ santi, li comparve s. Pietro portato da una gloria di angioli».
Condotta tra il 1695 e il 1696 (Enggass), l’opera fu inclusa in un ciclo di importanti rilievi in bronzo dedicati alle storie di s. Ignazio, coordinati con probabilità su disegni di A. Pozzo progettista della cappella, allogati ad artisti di varia provenienza, tra i quali comparivano A. de’ Rossi, P.E. Monnot, P. Le Gros ed E. Fremin (Titi).
Grazie al successo sancito con questa composizione, oscillante stilisticamente tra i retaggi artistici fiorentini e le nuove tendenze artistiche romane, il M. ottenne per lo stesso ambiente, insieme con altri incarichi, la commissione di una Coppia di putti e un Cartiglio con la scritta «Ad maiorem Dei gloria», retribuiti nel 1697 e collocati nella parte alta della cappella (Enggass).
Di poco successivi risultano, sempre sulla scorta della sua testimonianza, un grande bacile d’argento istoriato «con figure rappresentanti la traslazione del corpo di s. Stefano fatta in Pisa dalla religione dei Cavalieri», oggi in Palazzo Pitti a Firenze (Montagu, 1996), e due piccoli rilievi marmorei con La Fede che colpisce l’Eresia e Il disdegno della grandezza terrena, realizzati su modelli di J.-B. Théodon, destinati al Monumento funebre di Cristina di Svezia in S. Pietro (Enggass).
Nel 1698, o poco oltre, sono da collocare il busto in terracotta del Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri nel Museo di Roma a Palazzo Braschi (Di Gioia) e la relativa derivazione in marmo già in palazzo Altieri, oggi nelle raccolte di F.M. Ricci (Montanari).
Caduti nell’anonimato in epoca imprecisata o assegnati erroneamente ad altri maestri, i due busti, ricondotti al nome del M. da Nava Cellini (1982), mostrano ancora una volta un linguaggio stilistico ricco di raffinato eclettismo, mutuato soprattutto dalle scuole toscana e romana. Se tipiche di Foggini e dei suoi seguaci risultano, in effetti, la sagomatura e la definizione anatomica delle figure, proprie di L. Ottoni, figura di punta della ritrattistica scultorea romana in età tardobarocca, appaiono per contro le forti caratterizzazioni espressive dei volti, deferenti, marcatamente, alle svolte attuate in ambito postberniniano presettecentesco.
Riferibile su precise basi documentarie al 1700 (Bellesi, 2008) risulta il raffinatissimo Monumento funebre della marchesa Francesca Calderini Riccardi in S. Giovanni dei Fiorentini.
Menzionata con ricchezza di informazioni nelle fonti biografiche, l’opera, che costituisce il capolavoro dello scultore, fu commissionata dal marchese F. Riccardi, nipote della defunta, e pagata nel 1709. Condotto con notevoli virtuosismi tecnici e formali, il monumento, realizzato in marmi bianchi e policromi distribuiti con sapiente originalità lungo una parete della chiesa, mostra alla sommità l’effigie più che a mezzo busto della gentildonna, ritratta in giovane età e rivestita in vaporosi abiti trinati, contornata armoniosamente da due piccoli geni funerari piangenti. Entro ridondanti elementi ornamentali, sotto il basamento compare la lunga epigrafe dedicatoria, sovrastante con accurata raffinatezza l’arme marchionale della famiglia, ovvero la chiave e la corona. Frutto di un sofisticato linguaggio culturale, la figura dell’avvenente marchesa, seppur sensibile alla lezione romana di Ottoni e di C. Rusconi, sembra contrarre in prevalenza debiti stilistici dal mondo fiorentino, evidenti, oltre che negli ideali richiami neorinascimentali di eco verrocchiesca, nella resa edonistica dell’immagine derivata palesemente dalla conoscenza dei modelli muliebri di ambito fogginiano, non immuni da riferimenti alla statuaria classica e alle novità francesi pre-rocaille.
Insieme con «opere piccole […] d’architettura, di marmo, bronzo, et argento che per brevità tralascio», nello stesso periodo il M. condusse a termine una Medaglia di Innocenzo XII, firmata ma non datata (Vannel - Toderi), e gettò le basi, lo ricorda ancora nell’autobiografia, di una villa per il marchese Prospero Sparapani, seguendone poi la costruzione.
Forte del successo ottenuto nell’Urbe, il M. fece ritorno in patria nel 1702, dove lo attesero allogazioni degne di rilievo. Grazie alla buona fama acquisita da tempo in campo architettonico, oltre alla ristrutturazione e all’ampliamento di palazzo Dati a Firenze, come si apprende dai memoriali antichi lavorò all’edificazione della maestosa villa Orlandini a Poggio Torselli, dove non è da escludere che sia intervenuto anche nell’esecuzione delle decorazioni e delle figure in stucco. A questo tempo, segnato anche dal suo rientro all’Accademia del disegno dove nel 1705 acquisì la qualifica di console (Zangheri), risalgono con probabilità i lavori di ristrutturazione del castello di Montegufoni, proprietà della famiglia Acciaiuoli.
Per questo storico edificio, situato suggestivamente tra le colline della Val di Pesa, egli progettò ex novo anche un affascinante ninfeo, posto alla sommità di una gradinata, dove eseguì, tra fantasiosi rivestimenti in spugne e conchiglie di eco manierista, le statue in stucco bianco raffiguranti Latona con i figli Apollo e Diana e i contadini della Licia trasformati in rane e, ancora, medaglioni istoriati, sempre in stucco, dedicati alle stesse divinità (Sasso).
Testimonianze dei buoni apprezzamenti ottenuti dal M. nel settore della decorazione in stucco si traggono dalle sue stesse memorie. Egli ricorda infatti di aver eseguito per palazzo Da Bagnano a Firenze (oggi Spini Feroni), nel corso del primo decennio del Settecento, oltre a lavori di ristrutturazione architettonica che prevedevano «il trasporto della cappella» con alcuni affreschi di B. Poccetti e una statua con Cristo morto oggi perduta, un fastoso ciclo di decorazioni in stucchi bianchi e dorati all’interno dell’edificio.
A tale riguardo il M. sottolineava che «fabbricata la [nuova] cappella la feci ornare di architettura di stucchi, e feci di mia mano diversi putti, e glorie di stucchi […] in detto palazzo feci [ancora] una ricca arcova di stucchi, et una galleria, et un camino alla francese, dove feci pure di mia mano putti, bassorilievi, e statue di stucco». Distribuita con ricercata eleganza negli ambienti più importanti dell’edificio, la decorazione in stucco di palazzo Da Bagnano, tuttora in ottimo stato e conservata quasi integralmente, si qualifica soprattutto per i brani figurati, che mettono mirabilmente in risalto le candide immagini degli angeli e dei languidi giovinetti e fanciulle, contornate da lucenti ornati dorati, poste in gran parte in prossimità degli affreschi (Spinelli, 1995). Sensibili stilisticamente al linguaggio ornamentale diffuso a Firenze alla fine del Seicento in ambito fogginiano, queste realizzazioni trovano accostamenti lessicali pertinenti soprattutto nelle figurazioni in stucco di G.B. Ciceri e G.M. Portogalli, plasticatori tra i più apprezzati in quel tempo in terra toscana.
Priva di puntuali riferimenti cronologici, ma databile approssimativamente intorno al 1715, sulla traccia delle citazioni biografiche, risulta la commissione delle statue allegoriche per la cappella Orlandini in S. Maria Maggiore (Baldassari). Per questo nuovo incarico, ottenuto dagli Orlandini dopo la buona riuscita della villa di Poggio Torselli, il M. realizzò interamente il marmo con la Purità, lasciando incompiuto, invece, quello con l’Innocenza, poi terminato da G.C. Cateni.
Ultima interessante prova prima del suo definitivo trasferimento a Roma, nonché opera tra i raggiungimenti più intensi del M., la statua con la Purità si qualifica, oltre che per l’alto magistero esecutivo, per la ricercatezza descrittiva della figura, indagata con poetico sentimentalismo, evidente, essenzialmente, nella languida mimica espressiva e gestuale intrise di «amor divino». In posa eretta ed emergente da una scenografica nicchia centinata, la statua, definita con cura edonistica e con notevole attenzione formale, attesta caratteri di stile derivati prettamente dalla cultura classicista fiorentina e romana, ancora con stringenti dipendenze dal lessico di Foggini e della sua scuola e dalla coeva lezione rusconiana.
La lunga permanenza a Firenze non impedì al M. di mantenere saldi i contatti con Roma, tanto che nel 1715, grazie ai successi conseguiti nel capoluogo mediceo, il M. ricorda come fosse convocato nuovamente nell’Urbe dall’«e.mo card.le Ottoboni [dove fu] dichiarato suo scultore». Poco dopo l’arrivo nella città pontificia, dove si trattenne fino alla morte, realizzò per il rinomato porporato una «medaglia da cugnio» con «il ritratto dell’E.mo sig.re card.le», eseguendo al contempo «il modello al naturale in greta da farsi di marmo».
Successivamente a queste opere, oggi non identificate, il M., come si apprende dalle fonti biografiche, fu impegnato in altri incarichi per lavori (non rintracciati) relativi a ornati metallici per alcune carrozze e a un fastoso sortù d’argento, ovvero un trionfo da tavola, commissionati dal cardinale N. Spinola. A questi seguirono opere di vario tipo, anch’esse attualmente non reperibili, tra le quali venivano menzionate una serie di candelieri di rame e alcune statuette d’argento per il cardinale A.F. Zondadari e due «cartellami grottescati» con viticci e cherubini, realizzati in metalli di vario tipo, per padre T. Siliotti, rettore di S. Andrea a Montecavallo della Compagnia di Gesù.
Risale al 1720 l’ultima testimonianza scultorea in marmo oggi nota del M., ovvero il Monumento funebre di Aurora Berti nella chiesa romana di S. Pantaleo. L’opera, mutuata tipologicamente da importanti precedenti scultorei legati soprattutto ai nomi di F. Duquesnoy e di G.L. Bernini, mostra dati stilistici e formali di mediocre qualità, imputabili con probabilità, come è stato avanzato dalla critica (Nava Cellini, 1983), a un largo intervento della bottega.
L’ultimo periodo di attività del M. fu dedicato quasi esclusivamente, come si può dedurre dai memoriali del periodo, alla fusione dei metalli, campo nel quale ottenne, non a caso, la patente di «maestro argentiere» (Bulgari). Per una serie di bronzetti commissionati dall’elettrice palatina Anna Maria Luisa de’ Medici e destinati ai suoi appartamenti in Palazzo Pitti a Firenze egli eseguì, nel 1725, la statua con Tobiolo e l’arcangelo Raffaele, oggi conservata nella Fondazione Gerini a Roma (Maffioli; Casciu, 2006).
Dopo questo gruppo bronzeo, inviato a Firenze lo stesso anno della sua esecuzione (Zikos), il M. attese ad altri importanti incarichi di statue ed elementi decorativi di vario tipo, al momento non identificati. Dopo l’esecuzione di alcuni ornati in metalli dorati destinati all’altare di S. Agnese in piazza Navona, l’artista, sempre sulla traccia delle sue memorie, fu impegnato, oltre che in una statua con S. Nicola da Bari, nell’esecuzione di sei Angeli d’argento con gli strumenti della Passione e di altre opere esemplate su celebri composizioni presenti nella basilica vaticana, tutte destinate al re del Portogallo.
L’ultima notizia sul M., documentato con la famiglia dal 1722 al 1739 al Corso dove ebbe anche la bottega (Bulgari), risale al 1740, anno nel quale figurava ancora nell’elenco degli argentieri cittadini. È probabile che sia morto poco prima del 24 nov. 1745, giorno nel quale il figlio Giuseppe, erede nella guida della bottega, fu ammesso alle prove per ottenere la patente di argentiere (ibid.).
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S. Bellesi