MILANI COMPARETTI, Lorenzo
– Nacque a Firenze il 27 maggio 1923 da Albano Milani e da Alice Weiss. La sua era una famiglia di possidenti e intellettuali di forte impronta laica. Il padre, un chimico con grandi interessi letterari, dovette fondamentalmente occuparsi dei suoi molti poderi intorno a Montespertoli, con al centro la villa di Gigliola e il castello di Montegufoni.
A Firenze i Milani abitavano in una palazzina, accanto ad altre della famiglia, ricca di libri, opere d’arte e reperti archeologici del nonno paterno del M., Luigi Adriano, che di archeologia e numismatica era stato docente e che aveva sposato Laura Comparetti, morta nel 1913. Quella casa fu il luogo dove il M. crebbe e studiò con insegnanti di varie nazionalità insieme con il fratello maggiore Adriano, che divenne medico, e con la sorella minore, Elena. Imprescindibile per il clima culturale nella famiglia fu il ruolo del bisnonno del M., il senatore Domenico Comparetti, grande filologo, grecista e latinista. Dopo la sua morte, nel 1927, la famiglia del M. ne acquisì il cognome aggiungendolo al proprio. La moglie di Comparetti, Elena Raffalovich, ebrea ucraino-francese, fondò in Italia i giardini d’infanzia fröbeliani.
Il nonno materno del M., Emilio Weiss, veniva da una famiglia ebrea boema trasferitasi a Trieste, dove lavorò come commerciante e coltivò le sue passioni letterarie e l’amicizia con Italo Svevo (A.H. Schmitz). In quella città nacque e visse i suoi anni giovanili Alice, che lì fu allieva dell’amico di famiglia James Joyce e conobbe, tramite il cugino Edoardo Weiss, gli studi di S. Freud. Agnostici e anticlericali entrambi, i genitori del M. si erano sposati nel 1919 con il solo rito civile. La famiglia viveva tra Firenze, le sue tenute e la residenza di Castiglioncello, che non era solo un luogo di vacanza, ma pure di fitte relazioni con le famiglie Olschki, Valori, Pavolini, Castelnuovo Tedesco, Spadolini e dove il M. e gli altri bambini, con Bice Valori e Luca Pavolini, giocavano al teatro con testi scritti per loro da Sergio Tofano.
Nel 1930 le difficoltà della crisi economica condussero il padre a Milano, e il M. alternò la sua presenza in quella città con periodi a Savona, ospite della famiglia Rigutini, a causa di problemi respiratori che a Milano gli rendevano difficile la vita. Più gravosa ancora era la vita, sua e dei fratelli, nella scuola milanese, dove nel 1933-34 il M. frequentò una faticosa quinta elementare, esacerbata dall’isolamento nel quale viveva a causa delle posizioni della famiglia sulla religione.
Tanto acuto fu il problema che – erano i mesi di consolidamento del regime nazista in Germania – i genitori del M. decisero di sposarsi con il rito religioso (29 giugno 1933) e di battezzare i loro figli a Gigliola. Il battesimo fu registrato come avvenuto nell’anno di nascita, e il pievano lo annotò con il doppio cognome, che alla nascita nessuno di loro aveva ancora.
Proseguiti gli studi privatamente, il M. fece l’esame per entrare al ginnasio e poi al liceo milanese G. Berchet, che frequentò dopo un periodo trascorso nelle scuole dei barnabiti. I tempi del liceo furono caratterizzati dalla sua scarsa resa scolastica, dall’intrecciarsi di rapporti con compagni di classe come Oreste Del Buono, Saverio Tutino, Enrico Baj e dai dissidi con il padre, col quale sosteneva di non voler fare le scelte tradizionali della famiglia e di non volersi laureare. Spinto dalla necessità di uscire dalla scuola il prima possibile, cercò di anticipare anni scolastici senza riuscirci e concluse il liceo nel maggio del 1941. Mantenne la posizione espressa al padre e non si iscrisse all’università, proponendosi al pittore Hans Joachim Staude, sensibile alla cultura orientale e al buddismo, come suo allievo a Firenze; con Staude restò fino al settembre 1941 per poi iscriversi all’Accademia di Brera a Milano, dove tenne in affitto uno studio fino alla primavera del 1943. Quella che Staude definiva «la necessità di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come un’unità dove ogni parte dipende dall’altra» (cit. in Fallaci, pp. 51 s.) fu dal M. tradotta in ricerca del senso dei riti liturgici, che iniziò a studiare con l’occhio del pittore e che giunse a esaminare dal punto di vista filologico. I cartoni dei disegni e i manoscritti su quegli studi furono distrutti dal M. stesso contestualmente alla maturazione della sua scelta religiosa, compiuta subito dopo il ritorno della famiglia, nel 1943, a Firenze, dove i Milani Comparetti si trasferirono con l’idea che la città non sarebbe stata bombardata. Nel momento della crisi e della caduta del fascismo, quando molti degli amici del periodo milanese giungevano alla scelta dell’impegno antifascista – O. Del Buono era in un campo di concentramento, S. Tutino era entrato nel Partito comunista italiano (PCI) ed era capo partigiano in Val d’Aosta – la scelta del M. di convertirsi al cattolicesimo non fu compresa né da quegli amici, né dalla famiglia, che non partecipò alla cerimonia della consacrazione. In poco tempo questo atteggiamento generalmente mutò e la madre, pur in una differenza di posizioni che permarrà, gli resterà vicina sino alla fine.
Il 12 giugno 1943 il M. aveva ricevuto la cresima dall’arcivescovo di Firenze cardinale Elia Dalla Costa, che in quegli anni apriva alle istanze del cattolicesimo sociale di Giorgio La Pira e, il 9 nov. 1943, entrò nel seminario arcivescovile fiorentino di Cestello sancendo la sua scelta con un gesto netto: la rinuncia alla propria quota del patrimonio familiare.
Il primo, duro, periodo fu fortemente condizionato dagli avvenimenti successivi all’armistizio (8 sett. 1943), quando il M. si muoveva tra la sede del seminario e le residenze della sua famiglia, che riuscì a sfuggire ai pericoli del conflitto e alla persecuzione degli ebrei a Firenze. Ripreso il seminario, che qualche anno dopo definirà «una immensa frode» (lettera a Bruno Brandani in Fallaci, p. 86), il M. manifestò da subito la sua indisponibilità ad accogliere passivamente gli insegnamenti e la ritualità, da lui considerati non più proponibili: «si ha sempre l’impressione di essere in un manicomio […] non c’è più nessun indizio che possa far pensare in che secolo siamo, né in che paese. Difatti stiamo zitti in latino» (Lettere alla mamma …, 1973, n. 2).
Nelle discussioni con alcuni docenti – in particolare con Mario Tirapani, l’insegnante di Sacra Scrittura – il M. si lanciava nelle sue osservazioni critiche verso un metodo tutto volto alla ricerca delle attribuzioni più che all’analisi dei testi con gli strumenti della filologia; esprimeva inoltre la sua avversione verso una disciplina costruita su atti rituali esteriori e che già per il M. di quel periodo doveva essere invece tutta interiore. Subito dopo la conclusione del corso scriveva della necessità «che ognuno pensi da sé a rettificare la sua intenzione e che se anche per caso si siede senza essersi fatto il segno della croce, può darsi che la croce che ha dentro sia più austera e più grande e più umiliante che quella che s’è dimenticato di tracciare per l’aria» (ibid.).
Al Cestello il M. visse il passaggio al dopoguerra: in occasione del referendum del 1946, nonostante la posizione filomonarchica del cardinale Dalla Costa, esplicitamente si espresse a favore della Repubblica insieme con Raffaele Bensi, l’uomo che era stato la sua guida e che fu per il M. il diretto contatto con G. La Pira. Ordinato sacerdote il 13 luglio 1947, qualche mese dopo la morte del padre (2 marzo 1947), il M. fu inviato l’8 ottobre come cappellano nella parrocchia di S. Donato a Calenzano, abitata da circa 1200 persone in prevalenza di famiglie operaie o contadine, presso Prato.
Era un luogo tra montagna, campagna e città industriale, una società locale dove il M. scrutava gli effetti della crisi del mondo contadino, isolato dalla città o dalla città tentato, e le contraddizioni di comunità dalla forte influenza comunista in anni di affermazione del modello sociale consumista. Il mutare dei comportamenti al momento dei riti e nella vita quotidiana erano oggetto della riflessione del M. e delle sue autonome scelte pastorali, sulle quali elaborava le analisi che vedranno la pubblicazione solo nel 1958.
Per il M. la religiosità dei parrocchiani era azione artefatta, non cosciente, consuetudine necessaria prevalentemente per essere riconosciuti nella comunità. L’abisso delle differenze sociali e la minorità delle classi povere si potevano superare solo con quello che considerava lo strumento fondativo della dignità dell’uomo: la potenza del linguaggio. In mano alle classi povere il linguaggio era per il M. un mezzo «per inchiodare il chiacchierone sulle parole che ha detto» (cit. in Fallaci, p. 125), condizione irrinunciabile per recuperare il difetto di istruzione civile, costruire le condizioni per un’eguaglianza altrimenti irraggiungibile e però presupposto della libertà, in primis della libertà nella scelta religiosa: il percorso della fede per il M. aveva nella cultura un passaggio necessario.
A Calenzano questo progetto doveva trovare la sua forma nella scuola popolare; una scuola «di classe», aperta anche ai non praticanti purché fossero operai o contadini. Costruì da subito la scuola come alternativa al tradizionale proselitismo delle parrocchie e a quello, per lui corrispettivo, delle sezioni comuniste. Arma dell’educatore non era per il M. l’accoglienza, ma la provocazione come azione maieutica; per questo fu decisamente polemico verso le attività ricreative. «La scuola era il bene della classe operaia, la ricreazione era la rovina della classe operaia […] mi perfezionai allora nell’arte di far scoprire ai giovani le gioie intrinseche della cultura e del pensiero e smisi di far la corte ai giovani che non venivano. Non perdevo anzi occasione di umiliarli e offenderli» (Esperienze pastorali, pp. 128 s.). Abbandonò il catechismo tradizionale, traducendolo in termini di storia con il Vangelo come fonte e strutturò, dal 1951, i corsi della scuola popolare serale focalizzandone l’oggetto sul linguaggio e coinvolgendo direttamente circa 130 persone. Il M. vedeva la scuola come la palestra per il risarcimento offerto agli ultimi e non luogo confessionale, nel quale dunque proprio i simboli più forti del cristianesimo, come il crocifisso, potevano non comparire. Gli allievi erano lì per imparare a confrontarsi da pari a pari con gli intellettuali e quei corsi confluivano settimanalmente in conferenze alle quali il M. invitava oratori – come i magistrati Gian Paolo Meucci e Marco Ramat, il direttore del Giornale del mattino Ettore Bernabei, lo storico Gaetano Arfé – che venivano sottoposti al fuoco di fila delle domande e delle critiche. Tutti gli altri eventuali partecipanti dovevano essere solo uditori.
L’esperienza fiorentina catalizzava in quegli anni il conflitto aperto nel mondo cattolico sul rinnovamento della Chiesa e sul rapporto con la laicità e il marxismo, dopo che, il 1° luglio 1949, si era giunti al decreto del S. Uffizio con la scomunica dei comunisti.
Per le elezioni locali del 1951 e, soprattutto, per quelle politiche del 1953 la direttiva vaticana sul voto non contrario alla Chiesa fu dal M. tradotta come necessità di distinguere tra cattolici e non credenti. Solo ai primi, secondo lui, si doveva riferire quella direttiva e a loro indicò di scegliere i candidati della Democrazia cristiana prima che il partito; i non credenti avrebbero dovuto agire inoltre con «criteri strettamente classisti» (Esperienze pastorali, p. 260). Nel 1951, l’anno in cui Giuseppe Dossetti abbandonò la politica, G. La Pira era divenuto sindaco di Firenze e nel 1953, sostenuto dall’arcivescovo E. Dalla Costa, appoggiò l’occupazione delle fabbriche del Pignone arrivando al dissidio con il ministro dell’Interno, suo amico personale, A. Fanfani sulla questione della legalità.
Il M. si trovò così al centro del drammatico conflitto interno alla diocesi e alla comunità di Calenzano, dove la passione verso di lui si traduceva in grande sostegno e in ostilità di pari intensità e politicamente trasversali (M. Tirapani lo accusava di fare il gioco della Sinistra e tra i comunisti gli si attribuiva la crescita dei voti democristiani nella zona).
Sull’episcopato fiorentino intervenne dunque il «partito romano», riferimento del tradizionalismo in Curia rappresentato dal cardinale segretario del S. Uffizio Alfredo Ottaviani: il 12 luglio 1954 Ermenegildo Florit fu nominato vescovo coadiutore e restò per quattro anni al fianco di Dalla Costa, di fatto governando la diocesi al fine di esercitare un’azione frenante nei confronti di La Pira.
Al momento della morte, nel settembre del 1954, di Daniele Pugi, il parroco prevosto di S. Donato, si pose la questione del ruolo del M., al quale doveva essere affidata una parrocchia, nomina complicata anche dalle ostilità di molti parroci verso il Milani. La decisione era nelle mani di Tirapani e fu sancita da Dalla Costa nel novembre: fu il trasferimento a Barbiana, una parrocchia in via di soppressione nei pressi di Vicchio nel Mugello, alle pendici del Monte Giovi, dove il M. giunse il 6 dic. 1954.
Si trattava di qualche casolare «su una collina abitata soltanto dal vento» (Balducci, p. 75) e da circa 100 persone distribuite tra campi e boschi, senza strade né elettricità, da dove la residua popolazione tendeva a trasferirsi in pianura; fu un esilio che il M. accettò con quella che più tardi definirà «ribellione obbedientissima» (cit. in Fallaci, p. 291) e che con il suo tipico, diretto, linguaggio scrisse di aver accolto «nonostante fosse palese a chiunque che vi ero confinato come finocchio e demagogo ereticheggiante e forse anche confesso visto che non avevo reagito» (Lettere alla mamma …, 1973, n. 84). Anche in questo caso il M. accompagnò la svolta con una forte decisione simbolica, presa il secondo giorno a Barbiana: l’acquisto della sua tomba in quella terra.
Non interruppe i rapporti con gli allievi di Calenzano, con i quali stava raccogliendo i dati delle loro ricerche sul territorio, e iniziò con gli abitanti di Barbiana a lavorare per la costruzione della strada, la canalizzazione dell’acqua, la formazione, anche lì, della scuola popolare. Sul tema dell’acqua scrisse sul Giornale del mattino la sua Lettera dalla montagna, che Bernabei collocò in prima pagina (15 dic. 1955) e nella quale poneva il problema dei limiti della proprietà privata. Diede vita in poco tempo a una scuola totale, che avrebbe impegnato i ragazzi per l’intera giornata e per tutto l’anno. Alcuni caratteri dell’esperienza calenzanese furono qui radicalizzati: la limitatezza del luogo, le difficoltà di movimento, il sempre più difficile stato di salute del M. favorirono la costruzione di un rapporto esclusivo con i ragazzi di Barbiana, ma contestualmente spinsero il M. ad ampliare i confini tanto di quella quanto della precedente esperienza: l’attività della scuola avrebbe dovuto integrare i materiali raccolti a Calenzano perché fossero pubblici. Preparò dunque un’opera scritta «esclusivamente per i preti» (lettera a G. Arfé, 5 maggio 1958, in Fallaci, p. 560) del cui carattere dirompente era conscio. Ne predispose dunque accuratamente la pubblicazione, sin dal 1955, cercando sostegni fuori dalla diocesi di E. Florit, ma appoggiandosi ancora a Dalla Costa, dal quale ottenne il nihil obstat. Per l’introduzione al libro, dato in lettura a La Pira, fu in primo luogo coinvolto, tramite Bensi, l’arcivescovo di Milano G.B. Montini, che declinò l’invito; la richiesta fu invece accolta dall’arcivescovo di Camerino Giuseppe D’Avack. Pubblicato dalla Libreria editrice fiorentina, Esperienze pastorali iniziò a circolare dopo le elezioni politiche del 25 maggio 1958 «perché vogliamo trovare i preti un po’ meno distratti e (quelli cattivi) un po’ meno cattivi» (ibid.).
Si tratta dell’opera principale del M., di cui esprime compiutamente il pensiero e che chiaramente ne descrive l’azione.
Il M. partiva da studi statistici costruiti su dati raccolti con metodi induttivi giudicati innovativi da Luigi Einaudi nella lettera scritta a commento del libro nel marzo del 1959 (in Fallaci, pp. 511-517), come la descrizione dei letti nelle case utilizzata come indicatore dell’organizzazione delle famiglie.
Ne venne un’opera di amplissimo respiro, con il valore e il limite di trarre con rigore conclusioni generali dall’analisi di una situazione locale, ciò che la rende a tratti profetica e a tratti integralista. Radicalmente critico nei confronti della predicazione come rito, «il frutto della stupidità del sei e settecento» (p. 84), il M. esamina il rapporto, sia dei fedeli sia dei non credenti, con la liturgia e la sua deformazione in termini di necessità profane, spingendosi fino alla negazione del primato delle azioni umane sulla Grazia. La monetizzazione dei comportamenti sociali («in pratica il regalo non è che una forma di prestito a più o meno lunga scadenza», p. 67), innestata nell’assenza di cultura civica di base e nella privazione dello strumento del linguaggio nei più poveri, prepara secondo il M. una società in cui le diseguaglianze si inaspriranno ma saranno dissimulate. La diffusione della tecnologia – il M. analizza la velocità nei trasporti, la comunicazione, l’aspirazione alla liberazione dai lavori domestici, la possibile futura crisi demografica – in una società diseguale allarga il divario tra ricchi e poveri sia per la sproporzione di tale espansione tra i ceti, tutta favorevole ai più ricchi, sia perché «la povertà dei poveri non si misura a pane, a casa, a caldo. Si misura sul grado di cultura e sulla funzione sociale» e «la distinzione in classi sociali non si può dunque fare sull’imponibile catastale, ma su valori culturali» (p. 209). Secondo il M. si profilava un futuro di sviluppo ma non di progresso, idea chiave che più di un decennio dopo fu al centro della riflessione di Pier Paolo Pasolini. Tale stato di cose imponeva per il M. la necessità di un’educazione finalizzata a trasmettere gli strumenti per decidere se sovvertire quel modello di valori, di fronte al quale i contadini e gli operai sono senza parole. La mera alfabetizzazione serve, secondo il M., a leggere giornali scritti con la «tecnica della bugia onesta», quella per cui «il lettore deve uscire dalla lettura del “suo” giornale confortato, tranquillizato, evirato» (p. 215). I nuovi mezzi di comunicazione come la televisione hanno inoltre secondo il M. nuovi, intrinseci, vizi che per esser superati devono essere tenuti presenti. Il primo viene dalla loro dimensione economica: «Cinema e televisione dipendono ambedue per loro natura da organizzazioni molto costose. Era fatale dunque che dovessero cadere in mano a dirigenti la cui unica preoccupazione fosse quella di contentare gli spettatori. Ma è appunto qui che si distingue il maestro dal commerciante. Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e mutare i gusti dei suoi clienti» (pp. 137 s.); il secondo dalla loro velocità: «Lo spettatore è sempre guidato per mano a velocità vertiginosa, senza che abbia mai il tempo di prender respiro. S’abitua a intendere fulmineamente e si disabitua a riflettere» (p. 154). Per il M. era la strada verso la scristianizzazione: tra i ceti poveri avrebbe solo generato fratture nel linguaggio comune allontanando la possibilità di scegliere se «essere santi o dannati» (p. 200).
Con Esperienze pastorali il M. si trovò al centro di un accesissimo dibattito nazionale. Alle recensioni favorevoli (Arfé in Il Ponte, 1958, n. 109), ai giudizi problematici ma solidali (I. Montanelli, in Bortone, p. 118; in Fallaci, p. 148), al sostegno diretto di La Pira e di Primo Mazzolari (in Bortone, pp. 114, 118), che dal 1949 aveva pubblicato articoli del M. sulla rivista Adesso (come Franco, perdonaci tutti, comunisti, industriali e preti, il 15 nov. 1949) si contrapposero interventi contrari della Settimana del clero (14 settembre) e soprattutto del periodico gesuita La Civiltà cattolica (20 sett. 1958), sul quale Angelo Perego analizzò in termini radicalmente negativi l’opera del M., ritenuta carica di ossessioni e di contraddizioni. Nei giorni in cui moriva Pio XII (il 9 ottobre) e veniva eletto papa, il 28 ottobre, il cardinale A. Roncalli (Giovanni XXIII) questo articolo, al quale si aggiunsero le posizioni del sostituto presso la segreteria di Stato della S. Sede Angelo Dell’Acqua e di E. Florit, preparò l’intervento della Congregazione del S. Uffizio, che il 10 dic. 1958 ordinò il ritiro del libro e ne proibì ristampe e traduzioni (L’Osservatore romano, 20 dic. 1958).
D.M. Turoldo, che con il M. aveva discusso del libro in corso d’opera, fece in seguito riferimento alle questioni teologiche poste da Esperienze pastorali, sostenendo del M. che: «era di origine ebrea […], sebbene fosse illuminato grazie alla grande cultura sua personale e della famiglia da cui proveniva […] ma al fondo era un convertito con radici ancestrali ebraiche. Quel tanto di Nuovo Testamento che compare nel libro è venuto fuori dalle nostre discussioni» (p. 53).
La decisione del S. Uffizio divenne un caso politico e portò all’intervento del giornale del PCI L’Unità (L. Pavolini, 21 dic. 1958) e al consolidarsi di una fitta rete di relazioni intorno alla sua esperienza di Barbiana, alla quale in quegli anni si legarono, tra gli altri, A. Capitini, Elena Brambilla Pirelli, le famiglie Ichino e Gentiloni. Da allora il M. fu protagonista delle contrapposizioni in seno alla Chiesa e al cattolicesimo italiano e nel confronto con i partiti della Sinistra.
La censura non impedì la circolazione di Esperienze pastorali nella cultura italiana: l’opera ebbe vasta risonanza, tra la borghesia cattolica, in chi vi vedeva l’indicazione verso un profondo rinnovamento della Chiesa e della società. Nonostante il primo giudizio critico di Roncalli, quando era ancora cardinale, molte delle riflessioni del M. sarebbero state inoltre del tutto compatibili con l’ispirazione del concilio Vaticano II. Tutto ciò favorì l’apertura e la partecipazione della scuola di Barbiana alla vita nazionale.
Il M. e i ragazzi di Barbiana analizzavano la stampa e si applicavano alla scrittura collettiva dei loro commenti: si preparavano così al confronto serrato con personalità politiche, sindacali, intellettuali che, come e più che a Calenzano, erano lì invitate alla maniera del M., ovvero intensamente sottoposte alla valutazione critica dei suoi allievi, cosa che generava adesioni e contrasti. I suoi ragazzi, per lui divenuti «l’ottavo sacramento», venivano stimolati ad affrontare quel contraddittorio e a scriverne. Il risultato di questo processo era ciò che portavano davanti agli insegnanti della scuola pubblica per superare gli esami, così come i viaggi e il lavoro in Europa che il M. organizzava per loro avvalendosi dei suoi sostenitori.
Da quel tipo di lezioni venne uno degli episodi più significativi della vita del M., che lo portò davanti a un tribunale penale.
G. La Pira, rieletto sindaco a Firenze nel 1961 a tre anni dalla caduta della sua precedente giunta, propose nel novembre di quell’anno una proiezione pubblica del film sull’obiezione di coscienza Non uccidere (Tu ne tueras point), di C. Autant-Lara, la cui visione era stata proibita. Il conflitto che ne derivò fu acuito dal procedimento contro il primo obiettore italiano, G. Gozzini, e contro padre E. Balducci, accusato di apologia di reato per aver difeso Gozzini.
Il dibattito fu all’attenzione del M. da allora, ma il suo intervento arrivò solo nel 1965, quando su La Nazione (12 febbraio) comparve l’Ordine del giorno dei cappellani militari nel quale l’obiezione di coscienza era considerata «un insulto alla Patria e ai suoi caduti» ed «espressione di viltà». Il M. diffuse in diverse centinaia di copie la sua Risposta ai cappellani militari … che, inviata a vari giornali, fu pubblicata soltanto dal periodico comunista Rinascita, diretto da L. Pavolini (6 marzo 1965).
Il M. applicava all’obiezione al servizio di leva la sua idea di obbedienza verso la legge in rapporto alla coscienza, la relatività del concetto di patria e il rispetto della Costituzione sia nell’articolo sul ripudio della guerra offensiva sia su quello relativo al sacro dovere della difesa della Patria, che dunque non può comportare per il M. la violazione di altre patrie. Il M. metteva in discussione che la difesa della patria potesse coincidere con la guerra, ma oltrepassava anche quei limiti: «io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri […] e almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto» (L’obbedienza …, pp. 25 s.).
Dopo la denuncia per apologia di reato da parte di un gruppo di ex combattenti, il M. e Rinascita furono rinviati a giudizio e, a Roma, ebbe inizio il processo. Furono mesi di grande virulenza contro il M., durante i quali non mancarono anche minacce di morte. La sua natura intransigente, la durezza del suo operare, la nettezza del suo linguaggio fecero parlare di «violenza del non violento» (La Nazione, 2 apr. 1965); l’obiettiva convergenza, in questa battaglia, con un organo del PCI favorì inoltre la critica al M. come «prete rosso» (Lo Specchio, 21 marzo 1965) e, ancora, la polemica non poté che peggiorare i rapporti con l’arcivescovo Florit – formalmente nominato alla diocesi fiorentina il 19 marzo 1962, dopo la morte di Dalla Costa – il quale intimò al M. di abbandonare quella sua autonomia di azione, che lo avrebbe potuto condurre a una sospensione a divinis.
All’udienza, il 30 ott. 1965, il M. non poté essere presente per l’aggravarsi della leucemia, che s’era manifestata almeno dal 1960, ma in quei giorni aveva lavorato alla sua autodifesa, la Lettera ai giudici portata in tribunale dall’avvocato d’ufficio A. Gatti. È il testo noto come L’obbedienza non è più una virtù.
Dopo una secca presa di distanza da Rinascita («non meritava l’onore d’essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza», p. 35), il M. focalizzò la questione sul rapporto tra la legge e la giustizia («la tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste», p. 39) e sul ruolo dell’educatore che forma le nuove generazioni allo scopo di portarle al miglioramento della legge «di cui si ha coscienza che è cattiva» (p. 41). Il voto la può mutare, ma di una legge che impone all’individuo un’azione iniqua si deve pagare la sanzione disobbedendola. Da Socrate al processo di Norimberga, il M. legava la disobbedienza alla responsabilità (che sintetizzava con il suo I care affisso nella scuola di Barbiana) e l’obbedienza verso la legge ingiusta alla «più subdola delle tentazioni» (p. 51).
Entrava inoltre nel dibattito sulla guerra atomica, segnalando l’inadeguatezza delle categorie come attacco e difesa su cui l’umanità aveva sino ad allora parlato di guerra: «È noto che l’unica “difesa” possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa venti minuti prima dell’ “aggressore”. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa» (p. 58).
Dopo una richiesta di otto mesi di reclusione, in primo grado si giunse all’assoluzione con formula piena (15 febbr. 1966), ma l’appello mutò il verdetto, emesso il 28 ott. 1967, dopo la morte del M.: Pavolini fu condannato a cinque mesi di reclusione.
Il M. continuava ad essere tormentato dalla malattia, ma fu in quegli ultimi mesi di vita che produsse l’opera sua più nota, la Lettera a una professoressa scritta dopo la bocciatura di due ragazzi di Barbiana all’esame di Stato. Quasi immobilizzato per la severità della leucemia, il M. diresse otto dei suoi allievi nella scrittura del libro, che fu pubblicato a Firenze, ancora dalla Libreria editrice fiorentina, nel maggio del 1967.
I circa 460.000 studenti respinti annualmente dalla scuola dell’obbligo, nella quasi totalità provenienti da famiglie operaie e contadine, erano il dato di partenza della Lettera; l’estensione, nel 1962, dell’obbligo scolastico a otto anni di corso e a quattordici di età e l’art. 3 della Costituzione erano il contesto normativo in cui quel dato era analizzato. Ne veniva la necessità di affermare un orientamento radicalmente nuovo che tenesse conto della centralità dello studente e delle profonde diseguaglianze di partenza, non trattabili con l’apparente neutralità del sistema di valutazione; era dunque la diseguaglianza di giudizio che poteva equilibrare le possibilità di ciascun allievo. L’obbligo scolastico doveva essere un lungo momento di preparazione all’eguaglianza, con educatori totalmente dedicati a superare una colpevole scuola, dalla Lettera considerata «un ospedale che cura i sani e respinge i malati» (p. 20). Con un tono molto duro, talvolta sprezzante, verso il corpo insegnante e, anche qui, con conclusioni di carattere integralista – come l’idea di un educatore celibe al fine di essere completamente dedicato alla sua opera –, la Lettera esprimeva tuttavia, con una forza senza precedenti, la strutturale incapacità di applicare la Costituzione nella scuola italiana. Proprio la scuola dell’obbligo era invece – secondo la Lettera – il luogo nel quale si potevano rimuovere alla radice gli ostacoli al «pieno sviluppo della persona umana», e tra gli strumenti necessari a tal fine vi dovevano essere l’abolizione della bocciatura e il tempo pieno.
Nei giorni in cui usciva la Lettera, l’aggravamento della malattia costrinse il M. a trasferirsi, il 25 apr. 1967, presso la madre nella casa di Firenze, dove fece distruggere una parte dei suoi documenti e ordinò ai suoi allievi di chiudere la scuola.
Il M. morì a Firenze il 26 giugno 1967; poco dopo fu sepolto a Barbiana.
Accolta come un’opera «più simile a una fucilata che ad un saggio» (Avvenire d’Italia, 11 giugno 1967), la Lettera a una professoressa ebbe grande diffusione negli anni in cui nella scuola superiore e nelle università iniziava la contestazione studentesca, di cui fu considerata un manifesto. La fortuna dell’opera, proseguita nei decenni successivi con la diffusione internazionale di più di venti milioni di copie, fu legata al grande impulso dato al rinnovamento della scuola, e portò all’identificazione del M. con essa. In tempi recenti le posizioni critiche verso la Lettera si sono concentrate sulle presunte responsabilità, pure di natura politica, del M. stesso sulla crisi dell’istruzione in Italia (Berardi; S. Vassalli, Don Milani, che mascalzone, in La Repubblica, 30 giugno 1992). È venuto invece da La Civiltà cattolica (6 ott. 2007) il recupero della sua figura.
«Cattolico alla maniera dantesca», come lo definì il suo amico Agostino Ammannati (in Fallaci, p. 277), per il M. la politica era in realtà una rigorosa prosecuzione della sua teologia e l’attività pastorale imperniata sull’identificazione del sacerdote con l’educatore, totalmente e dogmaticamente votato al primato degli ultimi fino al confine della dimensione tragica. Di sé scriveva: «io al mio popolo gli ho tolto la pace. Non ho seminato che contrasti, discussioni, contrapposti schieramenti di pensiero. Ho sempre affrontato le anime e le situazioni con la durezza che si addice al maestro. Non ho avuto né educazione, né riguardo, né tatto […] avrò seminato zizzania, ma insegno anche a chi mi darebbe fuoco» (Esperienze pastorali, p. 146).
Fonti e Bibl.: Nel Fondo Lorenzo Milani la madre del M. e M. Ranchetti raccolsero gran parte della documentazione del M., che nel 1974 fu affidata all’Istituto per le scienze religiose Giovanni XXIII, a Bologna; l’inventario del fondo è a cura di G. Battelli (L’epistolario di Lorenzo Milani - Inventario e regesto, in Cristianesimo nella storia, 1980, vol. 1, pp. 495-530); a Vicchio di Mugello, nel Centro di Documentazione Don Milani, sono conservati articoli e tesi sul Milani. Un primo nucleo di lettere del M. fu pubblicato in Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Milano 1970 (ed. aggiornata Cinisello Balsamo 2007) e in Lettere alla mamma, a cura di A. Milani Comparetti, Milano 1973; lettere del M. e a lui dirette, insieme con alcuni articoli del M. stesso, sono pubblicati in appendice alla monografia di N. Fallaci, La vita del prete L. M. Dalla parte dell’ultimo, Milano 2005, pp. 511-593. L’edizione più accurata delle lettere alla madre è in L. Milani, Alla mamma: lettere 1943-1967, edizione integrale annotata, a cura di G. Battelli, Genova 1990 (dello stesso curatore Lettere alla madre, Genova 1997). Altre lettere, scritti e lezioni del M. in Lettere in un’amicizia, a cura di G.C. Melli, Firenze 1977; Don L. M. e la scuola di Barbiana. Scritti linguistici, a cura di A. Bencivinni, Napoli 1978; Il catechismo di don L. M.: documenti e lezioni di catechismo secondo uno schema storico, a cura di M. Gesualdi, Firenze 1983; Il Vangelo come catechismo, Firenze 1997; L’obbedienza non è più una virtù e gli altri scritti pubblici, a cura di C. Galeotti, Roma 1998 (con la Risposta ai cappellani militari, la Lettera ai giudici e l’articolo postumo, Un muro di foglio e d’incenso, scritto nel 1958, non accolto dalla rivista Politica ma pubblicato da L’Espresso il 19 maggio 1968); G. Pecorini, Don M.! Chi era costui?, Milano 1996 (in particolare pp. 211-391); I care ancora. Lettere, progetti, appunti e carte varie inedite e/o restaurate, a cura di G. Pecorini, Bologna 2001; La parola fa eguali. Il segreto della scuola di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Firenze 2005; G. Scirè, Il carteggio don Milani - Gozzini, in Rivista di storia del cristianesimo, 2005, n. 2, pp. 517-540; S. Tanzarella, Gli anni difficili. L. M., Tommaso Fiore e le «Esperienze pastorali», Trapani 2007 (con il carteggio tra il M. e Fiore); Un libro inopportuno, a cura degli allievi di San Donato, Firenze 2008, pp. 119-213 (con il carteggio tra il M. e Cesare Locatelli e gli articoli de La Civiltà cattolica). Ulteriori indicazioni sugli scritti del M. sono nel sito della Fondazione Don Lorenzo Milani (http://www.donlorenzomilani.it/). La notevolissima bibliografia sul M. può essere tracciata solo per alcuni riferimenti: numerosi sono i siti web – a partire da quello del Centro Formazione e ricerca Don Lorenzo Milani e Scuola di Barbiana (http://www.barbiana.it/opere.html) – da cui è possibile ricavare dati bibliografici e notizie sulle numerose traduzioni degli scritti del M. in varie lingue e sulle opere cinematografiche (di E. Lorenzini nel 1963, P. Tosini nel 1975, I. Angeli nel 1976, Andrea e Antonio Frazzi nel 1997) e documentaristiche dedicate al Milani, come il video-saggio Lorenzino - don Milani, di A. Melloni. Nell’edizione Lettera a una professoressa. Quarant’anni dopo, a cura di M. Gesualdi e della Fondazione Don Lorenzo Milani (Firenze 2007) sono pubblicati articoli e testimonianze sull’opera dal 1967 al 2007; indicazioni di articoli sul M. sono in M. Moraccini, Don L. M. nei mass-media. Catalogo bibliografico 1950-1997, Milano 1999 (http://www.moraccini.it/). Don L. Milani. Atti del Convegno … 1980, Firenze 1981; Don L. M. tra Chiesa, cultura e scuola. Atti del Convegno … 1983, Milano 1983; R. Berardi, Lettera a una professoressa. Un mito degli anni Sessanta, s.l. 1992; E. Balducci, L’insegnamento di don L. M., a cura di M. Gennari, Roma-Bari 1995; M. Lancisi, La scuola di don L. M., Firenze 1997; M. Ranchetti, Scritti diversi, II, Chiesa cattolica ed esperienza religiosa, Roma 1999, pp. 115-119, 135-150; D.M. Turoldo, Il mio amico don M., Bergamo 1997; G. Guzzo, Don L. Milani. Un rivoluzionario, un santo, un profeta o un uomo?, Soveria Mannelli 1998; M. Di Giacomo, Tra solitudine e Vangelo: 1923-1967, Roma 2001; A. Bencivinni, Don M.: esperienza educativa, lingua, cultura e politica, Roma 2004; N. Fallaci, La vita del prete L. M. …, cit. (con postfazione di M. Gennari); E. Martinelli, Don L. M.: dal motivo occasionale al motivo profondo, Firenze 2007; A. Santoni Rugiu, Don Milani. Lezioni di utopia, Pisa 2007; S. Tanzarella, Gli anni difficili … cit.; M. Bortone, Tra parola e conflitto: la comunicazione in don L. M., Roma 2008; L’apocalisse di don M., introduzione e cura di M. Gennari, Milano 2008; Don M. fra storia e memoria. La sua eredità quarant’anni dopo. Atti del Convegno, Firenze … 2007, a cura di C. Betti, Milano 2009; R. Perri, Presenze femminili nella vita di don L. M.: tra misoginia e femminismo ante litteram, Firenze 2009.
M. Di Sivo