Lorenzo Mossa
Quella di Lorenzo Mossa fu, nel panorama scientifico italiano della prima metà del Novecento, la voce eterodossa di un giuscommercialista che, soprattutto attraverso i riferimenti all’impresa, richiamò l’attenzione sull'intrinseca socialità e storicità del fenomeno giuridico, di un fenomeno che, a suo dire, poteva salvaguardare un'essenziale funzione ordinante solo se emancipato dalla fedeltà a quel modello individualistico di convivenza consacrato dalla codificazione ottocentesca e ipostatizzato dal prevalente abito formalistico e legalistico del pensiero giuridico coevo.
Mossa nasce a Sassari il 29 gennaio 1886, figlio di Antonio, un avvocato penalista piuttosto noto in Sardegna; si laurea in giurisprudenza a Genova nel 1907 sotto la guida del giuscommercialista Ulisse Manara. È però soprattutto il soggiorno torinese, immediatamente successivo, a svolgere un ruolo di rilievo nella sua formazione. A Torino, infatti, egli incontra, divenendone l’«allievo prediletto» (A. Asquini, Lorenzo Mossa, «Rivista di diritto commerciale», 1957, p. 149), Angelo Sraffa, fondatore insieme a Cesare Vivante di quella «Rivista del diritto commerciale» che fu un’autentica «palestra delle più vive energie italiane e […] pedana di lancio dei giovani migliori» (F. Ferrara Jr, Lorenzo Mossa, «Rivista di diritto civile», 1957, p. 5 dell'estratto); proprio su questo foglio Mossa pubblica il suo primo articolo (Sul boicottaggio, 1909, pp. 324 e segg.), e ne rimane per molti anni un collaboratore assiduo, divenendone poi, dal 1938 al 1946, condirettore.
La carriera accademica di Mossa inizia nel 1914 quando, in seguito alla pubblicazione del suo primo lavoro monografico su Il contratto di somministrazione, consegue la libera docenza in diritto commerciale; nel 1917 sale alla cattedra di diritto commerciale nell'Università di Camerino; di qui passa a insegnare a Cagliari, poi a Macerata e, dall’autunno del 1922, di nuovo nella natia Sardegna presso l’ateneo sassarese, dove pronuncia la celebre prolusione dedicata a Il diritto del lavoro, nella quale sono già chiaramente posti i capisaldi di un itinerario teorico che verrà corentemente sviluppato negli anni a venire. Dal 1926 – data dell’altra sua nota prolusione su I problemi fondamentali del diritto commerciale – è, fino al collocamento fuori ruolo, professore ordinario nell'Università di Pisa, città nella quale continua a vivere e a operare fino alla scomparsa, avvenuta il 19 aprile 1957. Dal 1947 è anche socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei.
Non meno rilevante appare, nell’itinerario biografico mossiano, l’impegno profuso come organizzatore culturale; il suo contributo va dall'inaugurazione, nel 1921, della seconda serie della rivista «Studi sassaresi», fino alla fondazione, nel 1947, della «Nuova rivista del diritto commerciale, diritto dell’economia e diritto sociale», che dirige e anima fino alla morte. Dal 1933 è direttore del Centro di perfezionamento in scienze assicurative presso il Collegio di studi corporativi della Scuola Normale superiore di Pisa e nel 1944 dà vita, sempre a Pisa, all’Istituto di studi per la riforma sociale, «che diventa un punto di raccolta di studiosi di vari Paesi» (F. Ferrara Jr, Lorenzo Mossa, cit., p. 6). Insieme a Leonida Tonelli fonda e dirige la collana Saggi in scienze assicurative, che pubblica, dal 1935 al 1942, quattro volumi miscellanei.
Come testimoniato dai numerosi ricordi tributatigli dopo la morte, quella di Mossa fu la tempra di uno studioso infaticabile che ha lasciato, accanto a imponenti lavori monografici, anche una notevole mole di contributi minori per estensione ma assai rilevanti per la comprensione del suo messaggio scientifico (utile è la consultazione della sua bibliografia completa in Studi in memoria di Lorenzo Mossa, a cura di P. Verrucoli, 1961, 1° vol., pp. XVIII-XLVII). A emergere, anche in seguito a un esame sommario dei suoi scritti, è il volto di un giurista costantemente proteso ad allungare lo sguardo oltre i confini nazionali, non solo in direzione della Germania e dei suoi «ammirati mentori tedeschi» (Grossi 1999, p. 1008), i quali, soprattutto attraverso il riferimento al diritto dell’economia, avevano contribuito ad allargare i confini tradizionali del diritto commerciale, ma anche in direzione di altre esperienze giuridiche europee ed extraeuropee, da quelle spagnola e francese a quella svizzera, fino alla sovietica.
Di qui un primo tratto costante della sua vicenda intellettuale: la comparazione o, più in generale, l’attenzione prestata a istituzioni o riflessioni straniere, non costituiva, per Mossa, tanto un'ipotesi di lavoro da fare propria in riferimento a specifiche occasioni di studio o di incontro, quanto l’abito naturale del giurista, e del giuscommercialista in specie, tenuto a confrontarsi con il continuo divenire di un’esperienza, quella legata al mondo economico, che metteva a punto soluzioni e risposte spesso insofferenti al rigido calco dei diritti nazionali e bisognose di un’inquadratura dogmatica che il giurista, più che il legislatore, sembrava capace di dare. La comparazione, dunque, come modo per cogliere il volto del diritto oltre le recinzioni statuali ma anche come fondamentale strumento di lavoro per la scienza del diritto, tenuta a definire la propria identità non rinunciando al dialogo con impostazioni sorte su diversi terreni ideali e culturali.
Non stupisce pertanto che i maggiori lavori monografici di Mossa siano innervati di rinvii alla letteratura straniera, conosciuta e studiata in profondità: si veda, per es., La cambiale secondo la nuova legge, volume uscito in prima edizione nel 1935 con una significativa dedica a Carl Wieland (la seconda edizione è del 1937 e la terza, del 1956, uscirà con il titolo Trattato della cambiale) e intessuto di riferimenti alla dottrina tedesca e francese; ma indicazioni analoghe si ricavano anche dalla lettura dei quattro volumi del Trattato del nuovo diritto commerciale, usciti tra il 1942 e il 1957, e ugualmente corredati di una bibliografia ricchissima nella quale spiccano i riferimenti alla letteratura giuridica d’oltralpe.
Né si trattò di convinzioni espresse soltanto sui libri e dai libri; esse furono accompagnate anche da un impegno fattivo di Mossa in vari progetti per l’unificazione del diritto: egli fu infatti
uno dei delegati dell’Italia alla Conferenza internazionale di Ginevra per l’unificazione del diritto della cambiale e del diritto dello check, e fece parte di commissioni di studio italo-francesi in vista di un diritto comune delle obbligazioni commerciali (1931) e delle assicurazioni (1936) (F. Ferrara Jr, Lorenzo Mossa, cit., p. 6).
Peraltro, questa vocazione di Mossa a superare le strettoie del diritto e della scienza nazionale fu ricambiata dalla considerazione che egli ricevette all’estero e che gli valse alcune importanti lauree honoris causa (a Lione, Francoforte, Salamanca) oltre che numerosi inviti a tenere conferenze, tra le quali si ricordano quelle pronunciate nel 1934 all’Università di Santander, poi raccolte e pubblicate in Italia sotto il titolo unico I principii del diritto economico (in L’impresa nell’ordine corporativo, 1935, pp. 83 e segg.).
E fu l’identica insofferenza per quei processi di nazionalizzazione del diritto che avevano costituito uno dei tratti salienti della giuridicità europeo-continentale ottocentesca, che condurrà Mossa a scrivere, nei primi anni Cinquanta, pagine notevoli sull’edificando spazio giuridico europeo, su uno spazio che sarebbe riuscito, dal suo punto di vista, a conquistare un futuro durevole solo se non si fosse ridotto a essere un mero «castello economico» o una «semplice comunità di difesa» (Di un diritto privato dell’Europa, «Nuova rivista di diritto commerciale, diritto dell’economia, diritto sociale», 1953, p. 5). La sfida da cui nasceva l’Europa, per Mossa, poteva dirsi vinta solo se capace di raccogliere i frutti migliori della comune civiltà – in primo luogo il riferimento alla libertà e alla dignità individuale – proiettandoli in una dimensione solidale, sensibile al problema della «giustizia sociale», l’unica giustizia che, per Mossa, avrebbe permesso di fondare un'autentica comunità europea (p. 7).
Questa esigenza di recuperare un nesso forte tra diritto e giustizia – che rappresentò un’altra caratteristica stabile del lavoro mossiano – fu espressa attraverso il riferimento, frequente e quasi ossessivo, alla natura sociale del diritto. Natura sociale del diritto, per Mossa, significava essenzialmente due cose: che il diritto nasceva dalla società, costituendo una dimensione centrale della sua vita – «trasforma[va] in diritto tutto quello che vedeva», dirà Salvatore Satta ricordandolo (Il professor Lorenzo Mossa, 1957, in Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, 1968, rist. 2004, p. 413) – ma anche che il diritto, nella molteplicità delle sue espressioni, doveva riuscire a incarnare un irrinunciabile ideale sociale, lontano dalle assolutizzazioni individualistiche del diritto ottocentesco.
Gli stessi insistiti richiami, dagli scritti giovanili a quelli tardi, al modernismo o al diritto dell’economia, non traducevano altro che il bisogno di restituire al diritto – come alla dottrina e alla giurisprudenza – la consapevolezza di questo irrinunciabile elemento finalistico, di questo legame indissolubile del diritto con il suo scopo di giustizia (cfr. L. Mossa, Modernismo giuridico e diritto privato, «Archivio di studi corporativi», 1930, poi in Id., L’impresa nell'ordine corporativo, cit., pp. 29 e segg.).
Per tale motivo, la convinzione che il diritto avesse «le sue scaturigini negli aggruppamenti sociali e negli stessi interessi sociali» (I principii, cit., p. 96) non si tradusse mai in un elogio incondizionato alla spontaneità inventiva del sociale, che alla scienza spettava solo di registrare, come non arrivò mai a postulare una generica contrazione della presenza statuale negli ordinamenti novecenteschi. L’antiformalismo e l’antistatalismo di Mossa nascevano piuttosto dalla convinzione che il culto delle forme, unito all'identificazione del diritto con la legge, con il volto dello Stato, avrebbero condannato il diritto e la scienza giuridica ad «atrofizzarsi» (p. 91), a vivere fuori dalla storia, impedendogli di svolgere una qualsivoglia funzione ordinante. Né si trattava di un'impostazione buona solo per affrontare la storia che si era aperta all’indomani della Prima guerra mondiale e le imponenti questioni di revisione ermeneutica che essa aveva posto, ma di un’indicazione generale, utile ad affrontare sotto una luce nuova anche quei temi che sembravano consacrati al più arido dei tecnicismi.
Lo sottolineò con sensibilità Giuseppe Ferri in riferimento agli studi mossiani in tema di diritto cambiario: «di fronte a una tendenza dottrinale ormai assolutamente dominante» che aveva finito per ridurre il problema dei titoli di credito «a una questione di formule», i lavori di Mossa rappresentarono un’autentica «ventata di aria fresca», orientati, come furono, a mettere a fuoco un «sistema improntato esclusivamente alle esigenze dei traffici», un sistema capace di applicare al diritto cambiario la teoria dell’apparenza, vedendo nel titolo di credito non il frutto di una vicenda negoziale, ma, appunto, «un atto di apparenza […] efficiente per sé stesso, al momento del suo sorgere […] verso tutti, verso la generalità» (L’opera di Lorenzo Mossa: le teorie sui titoli di credito, «Nuova rivista di diritto commerciale, diritto dell’economia, diritto sociale», 1957, pp. XV, XVIII e XVII dell’estratto).
Ed è proprio a partire dalla complessità della scommessa epistemologica di Mossa che si spiega il rilievo centrale che ha avuto, nel suo itinerario scientifico, il tema dell’impresa. Dalla prolusione sassarese del 1922 alla fondazione, nel 1947, della «Nuova rivista di diritto commerciale, diritto dell’economia, diritto sociale», chiamata, negli intenti del suo redattore, a «elaborare il diritto commerciale quale diritto dell’impresa» (cit. in Grossi 1999, p. 308), l’intera riflessione di Mossa ha visto nell’impresa il prisma capace di assorbire e riflettere lo spirito del Novecento e la peculiarità delle sfide regolative che esso era chiamato a raccogliere.
Concepibile solo come «organismo di comunione e collaborazione» (L. Mossa, Trattato del nuovo diritto commerciale, 1° vol., 1942, p. 172), l’impresa vagheggiata da Mossa non era una grandezza giuridica qualunque, ma l’osservatorio a partire dal quale mettere a fuoco un'idea nuova di privatezza, lontana dall’individualismo tradizionale e fondata sul rilievo centrale dell’elemento sociale-comunitario. Di un elemento che consentiva, in primo luogo, di inquadrare correttamente il problema del lavoro, rattrappito dal legislatore ottocentesco, e dalla dottrina dominante, nei margini angusti della locatio operarum, e non riconosciuto nella sua veste più autentica di «prodotto della personalità», inscindibilmente legato alla libertà e alla dignità dell’individuo (Il diritto del lavoro, cit., p. 16).
Ma era sempre a partire dall’impresa, vista come società giuridica chiamata a entrare in contatto con gli interessi di altre comunità e della stessa comunità nazionale, che diventava possibile, per Mossa, superare la curvatura potestativa della proprietà, tenuta ormai a farsi impresa creando, in capo al proprietario, veri e propri doveri di sfruttamento produttivo dei beni oggetto del suo diritto (v. soprattutto Trasformazione dogmatica e positiva della proprietà privata, in La concezione fascista della proprietà privata, a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, 1939, pp. 249 e segg.). Per questo l’impresa non doveva coincidere con l’imprenditore, non doveva costituire il terreno di esplicazione della signoria di un nuovo dominus – secondo la prospettiva abbracciata, a dire di Mossa, dal progetto Asquini di codice di commercio del 1940 (v. Trattatto, cit., 1° vol., p. 141) –, ma doveva essere rispettata, in quanto «nucleo di interesse economico, collettivo e di lavoro», «anche contro l’imprenditore, contro il gerente, contro il proprietario» (L’impresa nell’ordine nuovo, s.d., poi in L'impresa nell'ordine corporativo, cit., p. 171).
Quella sociale, dunque – di nuovo un motivo ricorrente della riflessione mossiana – come dimensione chiamata a fondare la necessaria reciprocità di diritti e doveri nei rapporti tra privati, e a salvare, in tal modo, la privatezza dai rischi di una «socializzazione fredda» (Trasformazione dogmatica, cit., p. 258), di una socializzazione, cioè, risultante dal mero incremento di vincoli pubblicistici imposti ex alto e ab externo sul diritto privato. Non che la presenza dello Stato fosse, per Mossa, destinata a ridursi; semplicemente l’impresa poteva costituire il varco per ripensare, insieme ai confini del diritto privato, anche le condizioni dell’incontro tra privato e pubblico sul fronte, cruciale, delle relazioni economiche. Se infatti il diritto e i giuristi non dovevano essere solo i fedeli interpreti del tempo storico che avevano di fronte, ma anche i corifei di un ordine che riusciva a prodursi solo se capace di tenere insieme le tante e contraddittorie spinte di cui si nutriva la realtà novecentesca, era indispensabile non accedere – lo si diceva poco sopra – a una celebrazione acritica delle soluzioni organizzative prodotte dalla dimensione economica, da una dimensione che, lasciata a se stessa, tendeva a produrre impressionanti concentrazioni di potere, insensibili al valore della persona e minacciose, nel loro essere veri e propri Stati nello Stato (v., tra i tanti, I principii, cit., p. 120), per lo stesso potere pubblico.
Poiché era antistorico, secondo Mossa, inseguire il ritorno alla «piccola impresa», bisognava che lo Stato si ergesse, attraverso un suo intervento deciso, a «vigile guardia contro gli abusi dell’economia» non limitandosi a fare semplice «opera di giudice» (pp. 122, 94, 90). Alla (presunta) neutralità dello Stato liberale e alla sua (presuntuosa) rivendicazione del monopolio della produzione giuridica, doveva dunque succedere uno Stato capace di garantire, attraverso il proprio e deciso intervento, il rispetto della strutturazione comunitaria – cioè plurale e solidale – delle relazioni socioeconomiche. Ed era un compito che, secondo Mossa, poteva essere assolto dall’ordinamento corporativo, da quell’ordinamento su cui tanto si discusse nel periodo fascista, e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni di Mossa, realizzare una «felice combustione» tra il rispetto del pluralismo sociale e giuridico e l’altrettanto necessaria presenza attiva dello Stato a garanzia dell’effettività di quel pluralismo (Trattato, cit., p. 183).
Per questo Mossa, che pure non era fascista e che dal fascismo fu anche sorvegliato (cfr. R. Teti, Codice civile e regime fascista, 1990, p. 243), non salutò con favore quel «bombardamento aereo a tappeto» che, alla caduta del regime, colpì l’ordinamento corporativo (L. Mossa, Stato del diritto del lavoro in Italia, «Nuova rivista del diritto commerciale, diritto dell’economia, diritto sociale», 1951, p. 112). Perché infatti il diffuso bisogno di identificare il fascismo, o quanto meno il fascismo giuridico, con il corporativismo, finì per estromettere di nuovo, dagli orizzonti del pensiero giuridico e dello stesso legislatore, il problema, che continuava a esser centrale, del legame tra quegli universi – il privato e il pubblico, il giuridico, il politico e l’economico – che ci si ostinava a considerare separati malgrado le indicazioni di segno opposto che emergevano anche dalla nuova Costituzione repubblicana.
Lo stesso codice civile del 1942, che pure, secondo Mossa, affiancava contraddittoriamente un'idea dell'impresa «generosa e sociale» al volto, aggressivo, della «società capitalistica» (p. 111), avrebbe potuto vivere una vita più sensibile agli ideali sociali se, alla caduta del fascismo, non avesse dovuto fare i conti con una vera a propria «degenerazione liberista della giurisprudenza» (Il diritto del lavoro, il diritto commerciale e il codice sociale, «Rivista di diritto commerciale», 1945, p. 43), unita a una non meno censurabile tendenza del pensiero giuridico a riabilitare confini e steccati che sembravano riportare indietro di mezzo secolo l’orologio degli ordinamenti. Ma questi – a dirlo è Mossa nel 1951 – non potevano essere che rigurgiti di breve respiro, dal momento che sarebbe stata di nuovo l’impresa, intesa come comunità, la presenza «fatale» che avrebbe, «riempi[to] di sé la seconda metà del secolo, come [aveva] riempito la prima metà. Non crediamo si sbagliare» – concludeva Mossa – «additando l’impresa come organo, cellula, centro di interesse e di potenza del diritto commerciale e dell’economia in Europa e dappertutto» (Stato del diritto del lavoro, cit., p. 116).
Il diritto del lavoro, Sassari 1923.
L’impresa nell’ordine corporativo, Firenze 1935.
La cambiale secondo la nuova legge, Milano 1935.
Trasformazione dogmatica e positiva della proprietà privata, in La concezione fascista della proprietà privata, a cura della Confederazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura, Roma 1939, pp. 249 e segg.
Trattato del nuovo diritto commerciale , 4 voll., Milano e Padova 1942-1957.
M. Casanova, Lorenzo Mossa, in Studi in memoria di Lorenzo Mossa, a cura di P. Verrucoli, Padova 1961, 1° vol., pp. XIII e segg.
G. Cazzetta, L’autonomia del diritto del lavoro nel dibattito giuridico tra fascismo e repubblica, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, pp. 511-629.
P. Cappellini, Il fascismo invisibile. Una ipotesi di esperimento storiografico sui rapporti tra codificazione civile e regime, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, pp. 175-282.
P. Grossi, Itinerarii dell’impresa, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 1999, pp. 999-1038.
P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000.
I. Stolzi, L’ordine corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Milano 2007.