COLONNA, Lorenzo Onofrio
Primo degli otto figli - due maschi e sei femmine - di Marcantonio di Filippo e di Isabella figlia ed unica erede dì Lorenzo Gioeni e Cardona, discendente degli Angioini nonché principe di Castiglione e marchese di Giuliana, nacque a Palermo il 19 apr. 1637.
Divenuto contestabile del Regno, nel 1641, il padre e trasferitasi a Roma la famiglia, il C. respira sin dai primi anni la atmosfera satura d'orgoglio che avvolge i Colonna e ne interiorizza, a mo' di valori irrinunciabili, ancor fanciullo il fasto e la protervia. Ritiene un diritto disporre di enormi somme da sperperare, un obbligo del prossimo il dimostrargli l'ossequio più riverente. E, subentrato, nel 1659, quando Marcantonio muore, nel contestabilato al padre, del lusso e della potenza colonnesi diventa il portavoce più significativo, il garante più impegnato. Nel 1660 (facendo tappa a Milano, ove per poco non nasce un duello col principe di Avellino Francesco Maria Caracciolo dal quale il C. esige il titolo d'"eccellenza"; ma, sfidato, si sottrae allo scontro con una previdente deviazione a Venezia) il C. si reca a Madrid per ringraziare il sovrano del conferimento, oltre che dell' "officio" di contestabile del Regno di Napoli, della "dignità" del Toson d'oro. Matura, nel frattempo, il suo matrimonio con Maria Mancini, "la plus folle, et toutefois la meilleure", secondo Saint-Simon, delle nipoti di Mazzarino, "une des plus admirables de son sexe" a detta del Dictionnaire… des précieuses…, dotata "infiniment, d'esprit" a giudizio di madame de La Favette.
Essa è, allora, soprattutto nota per l'appassionato, ma politicamente inopportuno, idillio con Luigi XIV, stroncato con tempestiva durezza dallo zio: "vous m'aimez, vous étes roi, et je pars", avrebbe detto la giovane nello struggente addio al sovrano, e la frase riecheggerà nella Berenice raciniana. Calpestato ogni residuo di speranza, il 9 giugno 1660, dagli sponsali regi, ferita e indurita nell'intimo (sì da commentare la morte dello zio con un brutale "Dieu merci! il est crevé", cit. in L'avènement du Roi-Soleil, a cura di P. Goubert, Paris 1971, p. 15), Maria - pur d'abbandonare la corte ormai per lei insopportabile - accetta, peraltro senza entusiasmo, d'accasarsi con il Colonna. Questi, a sua volta, valuta freddamente il vantaggio in termini d'accresciuta influenza e di consistente dote, che gli può derivare dal patrimonio "francese"; né alla sua vanagloria dispiace di diventare il marito di colei che è stata il grande amore (al punto che avrebbe desiderato sposarla) del più potente sovrano d'Europa. Un po'di grandezza riflessa sarebbe ridondata anche su di lui.
A poco più d'un mese dalla scomparsa di Mazzarino, il quale, ancora il 23 febbr. 1661, aveva annunciato al cardinal Girolamo Colonna, zio del C., che "alli 20… si sottoscrissero le carte matrimoniale fra … nostri nepoti" col consenso beneaugurate anche del re di Spagna, si celebrano, nella cappella del Louvre, l'11 aprile, le nozze essendovi il C. rappresentato dal marchese Angelelli, cui l'ambasciatore spagnolo, impossibilitato a farlo da una violentissima febbre, era stato costretto a trasmettere la procura. La sposa dispone - precisa meticoloso il rappresentante di Venezia Alvise Grimani, che si diffonde pure sulle gioie e i preziosi a lei donati - di 200.000 scudi lasciatile da Mazzarino, di 200.000 franchi, "tutti di contanti in tante doppie spagnuole", donatile dal re che s'è pure preoccupato di "convertir" in 80.000 scudi delle "gioie" a lei pervenute.
Il C., nel frattempo, s'è installato a Milano per predisporle una splendida accoglienza, venendovi, comunque, "mortificato", come avvisa il 6 aprile il residente veneto Tadio Vico, dal rifiuto opposto alla sua richiesta di disporre del "gran cortile" dell'ospedale Maggiore; e, in aggiunta, la sua pretesa gli si dia dell'"altezza", basata sul riconoscimento, da lui vantato, da parte del duca sabaudo, finisce con lo sgonfiarsi e col naufragare nel ridicolo quando s'appura che il titolo, lungi dal provenirgli, come andava cianciando, da Carlo Emanuele II e da sua madre, gli era stato tributato "solo" da degli imbarazzatissimi cavalieri di S. Maurizio i quali non sapevano come, altrimenti, sdebitarsi dell'"eccellenza" con cui il C. li aveva gratificati. Giunta, finalmente, attorno al 20 maggio, Maria (stravolta per il viaggio afflitto da continuo maltempo e funestato, nel passaggio del Sempione, da un gravissimo incidente e inoltre turbatissima dal fosco ritratto del marito fattole dallo zio Carlo Colonna, di per sé incaricato di scortarla), la pioggia scrosciante a dirotto impedisce un adeguato festeggiamento. Il C., comunque, baldanzosamente focoso non ha la sensibilità di prestare un minimo d'attenzione al suo stato d'animo. Incurante della sua stanchezza - così ricorderà ella stessa - e accantonati senza riguardi gli scrupoli della governante a veder della quale era opportuno rimandare a dopo la messa, vuole consumare il matrimonio la notte stessa. E l'indomani - quando lo zio prelato Carlo celebra privatamente le nozze - manifesta, pieno d'orgoglio viriloide, la sua soddisfazione per aver verificato l'inattesa verginità di Maria. "Ne croyat pas - testimonia Ortensia, sorella di questa - qu'il pût y avoir de l'innocence dans les amours des rois". Lietamente stupefatto, dunque, dell'imprevisto dono anatomico, poco gl'importa "de n'avoir pas été le premier maître de son coeur". Gli basta l'esclusiva del corpo. Né avverte nelle nausee e nelle febbri e nei malesseri di lei e, più ancora, nel suo umore cupo e depresso i sintomi preoccupanti di riluttanza e d'allergia nei suoi confronti. Dopo una decina di giorni milanesi in cui si succedono turbinosamente - peraltro senza rallegrare la sposa - feste banchetti "caroselli" "corse all'anello" (e negli ultimi due il C. brilla per valentia), la coppia, con numerosa comitiva (e continua a farne parte, fastidiosissimo e ingombrante, Carlo Colonna), s'imbarca, alla fine del mese, a Lodi, diretta, "per aqua", a Ferrara e Bologna, donde poi prosegue per terra lentamente e fermandosi a lungo a Loreto, dove Maria, costantemente, immusonita, cade ammalata. E, i medici, evidentemente ignari del carattere psicosomatico dei suoi mali, a lungo s'affannano a rimetterla in forze.
Una volta a Roma ("la vacca è attaccata alla colonna" sogghigna sardonico Pasquino), Maria si rinfranca. In fin dei conti diventa padrona di una dimora splendida, degna cornice per le "tapisseries données par Louis XIV" (Stendhal, Correspondance, a cura di H. Martineau − V. Del Litto, III, Paris 1968, p. 422), che se all'esterno l'ha piuttosto delusa, per lo splendore interno è veramente regale. È uno dei più grandi e superbi palazzi di Roma, con molti appartamenti, lussuosamente arredati; e i due grandi di pianoterra sciorinano un'eccezionale pinacoteca, ammirata e invidiata anche a Parigi (Les monumens de Rome…, Paris 1700, pp. 85-88).
Smanioso d'avere subito un erede, il C. si dimostra fervido ed instancabile amatore. Elpidio Benedetti, un addetto all'ambasciata francese nonché agente particolare del re, si premura di spettegolare sull'assiduità del C.: egli "ara il terreno tre volte ogni giorno", scrive a Luigi XIV, ché dà a Maria "il mattino di buon mattino, il buon giorno a mezzogiorno e la buona sera quando va a dormire". La prole non si fa attendere. Dopo una interruzione di gravidanza nascono, infatti, Filippo (1663-1714) il futuro contestabile, e - dopo un altro aborto - Marcantonio (1664-1715), l'uomo d'armi le cui nozze con Diana, figlia di Cristina Paleotti già amante del C., susciteranno scalpore, e Carlo (1665-1739) che diverrà cardinale.
Un matrimonio a tutta prima felice, allietato da figli maschi e nel contempo immerso in un impressionante vortice di divertimenti. Ma non è così: cagionevole di salute, tutt'altro che robusta di costituzione, Maria sopporta con crescente apprensione le gravidanze. La nascita del terzo figlio, poi, mette a repentaglio la sua esistenza. Rimanere incinta diventa per lei un incubo. Donde la decisione di non avere "altri" figli, cui il C., "molto insistendo", lei, finisce coll'acconsentire. "Né da allora - rammemorerà Maria, alludendo alla definitiva interruzione dei rapporti coniugali -, per tutto il tempo che vivemmo insieme, venne mai meno alla sua parola".
Una formalizzazione concordata d'una crisi già in atto, nata da un progressivo inaridirsi dell'attrazione, dall'acuirsi della reciproca diffidenza. Il C. non fa mistero delle sue continue infedeltà: da un'avventuriera, Cristina Paleotti (donna di "poca onestà", informa il diarista napoletano Confuorto, "essendosi sottoposta a diversi signori" prima di sistemarsi col marchese Paleotti, fu "amasia" del C. "per molto tempo"), ha una figlia, Maria (1665-1750); bruciante la sua passione per la principessa Chigi, che sbalordisce organizzando per lei mirabolanti cavalcate. Né la moglie sembra essergli da meno, anche se resta il dubbio possa trattarsi più di una civetteria sospinta sino ai bordi più esposti, per verificare il proprio fascino e compiacersene, che d'effettivi tradimenti. In caso contrario la lista dei suoi amanti sarebbe sconcertantemente nutrita; né sarebbe, allora, una fola la diceria, diffusa a Roma, del frequente penzolare dalle sue finestre di scale di corda, indice eloquente di furtivi incontri notturni. Certo le chiacchiere, alimentate da estemporanei scatti di gelosia del C., continuamente rilanciate dalla disinvoltura, indubbiamente arrischiata, del suo comportamento, le attribuiscono avventure con uomini di tutti i generi, anzitutto con "princes ou neveux de papes", come scriverà, il 14 marzo 1671, il conte d'Alibert al duca di Savoia. Tra i tanti nomi circolanti insieme o via via, si distinguono il cardinal Flavio Chigi che, da lei soggiogato, porta talvolta il "vestito corto alla francese" ed ha pure la carrozza "alla francese"., il duca Ernesto Augusto di Brunswick, Giovan Battista Rospigliosi, l'avventuriero Carlo di Lorena, il supposto avvelenatore della moglie del duca d'Orléans. Si dice altresì Maria indulga ad amoreggiare coi musici alle dirette dipendenze del C., dando, ad esempio, per sicura una sua tresca col contralto Nicola Coresi che per poco il C. non caccia a pedate di casa. Certamente Maria mescola l'amore per la musica con un debole per i compositori: si bisbiglia d'una sua simpatia per Francesco Cavalli, si sospetta d'una sua inclinazione per Alessandro Stradella, col quale, riferisce sconcertato il residente del duca di Modena, si fa spesso vedere "in compagnia… come persone di gran confidenza".
Arduo e, forse, inutile estrarre la verità dal ronzante brusio della affabulazione, distinguere episodi fugaci e relazioni prolungate. Resta il fatto dei sistematici adulteri del C., del gioco civettuolo - e talvolta azzardatamente debordante - di Maria, capricciosamente tesa ad appagare la sua capacità di seduzione a costo di suscitare momentanei furori gelosi nel Colonna: Ma, probabilmente, la coppia è concorde nel concedersi reciproca libertà: lo fa supporre, soprattutto, il protratto soggiorno veneziano del 1666 durante il quale Maria incoraggia le avances d'almeno un paio di patrizi, mentre il C., oltre ad avere un amorazzo con una tal Giovanna (dama di compagnia d'una nobildonna), s'infatua di Ortensia Grimani, nipote del suo ospite Alvise Contarini, ed intreccia una relazione con Pisana Corner, moglie di Marco Contarini. Si ha l'impressione che i due si agevolino a vicenda, s'incoraggino l'un l'altra nelle complicazioni erotiche. E non si sa come giustificare la gelosia che fa andare in escandescenze il C., che Maria assicura d'avere, a sua volta, sofferto. Forse è il caso - se si pensa che Cristina Paleotti, notoria amante del C., è intima amica di Maria - d'interpretarla quale finzione volta a facilitare il recepimento - negli ambienti altolocati in cui i due situano la loro irrequietezza - del loro comportamento. Una gelosia, dunque, recitata con teatrale enfasi maschile da parte del C. ché così vuole la regia calcolata d'una esistenza che si propone come spettacolo mondano, in simmetria coi femminili crucci e dispetti della consorte, per la quale il copione prevede, appunto, reazioni femminee. Entrambi danno scandalo ed entrambi - mostrandosi gelosi - lo diluiscono per renderlo mondanamente digeribile. Così la coppia può rimanere ufficialmente unita agli occhi del suo mondo, per il quale - tutto sommato - recita sino allo spasimo. La tiene - malgrado tutto - avvinta lo sfavillio incessante dell'affermazione in questo che tocca il suo annuo vertice durante il carnevale, la cui scenografia può anche esigere il ripudio delle convenienze e delle reticenze, come avviene in quello del 1668: il C. architetta un carro sbalorditivo ove egli stesso, la moglie, una contessa e un paio di conti fungono da pianeti, mentre Cristina Paleotti, senza maschera, è Venere che, prodiga, lancia confetti al popolo. Né il C. né Maria si preoccupano delle chiacchiere che puntualmente si scatenano; è la buona riuscita della rappresentazione che anzitutto conta, nella quale il C. s'impone, quale, o, almeno, quasi demiurgo. Una dimensione frivola e serissima ad un tempo - lo spettacolo è finzione realizzabile solo a prezzo di una strenua applicazione - che diventa trasparente allegoria nella "parte" che il C. s'assegna nel carnevale dell'anno dopo; egli, nel carro, è Ulisse che tiene al guinzaglio, con piglio trionfatore, i compagni trasformati in porci da Circe, impersonata da Maria. Nel travestimento il C. realizza la sua smania di primato, controlla il ruolo affidato alla moglie nell'atto stesso in cui lo provoca e lo utilizza.
Si può dire, dunque, che siffatte "parti" sono, per il C., impegno e surrogato nel contempo, ché solo in queste si sfoga quella brama di grandezza che altrove non riesce ad esprimere.
Adolescente, altri nobili, che si sentono quanto lui blasonati, non gli danno dell'"eccellenza". Divenuto contestabile, invano pretende lo si chiami "altezza"; senza complimenti gli si fa intendere che l'ufficio non comporta "carattere di principe sovrano". Cocente lo smacco del 1668, quando sembra franare quel privilegio formale che, invece, suo padre e suo nonno erano riusciti, sia pure, con vere e proprie acrobazie, a mantenere; entrambi, infatti, a costo d'evitare d'incontrarlo in occasioni ufficiali, non avevano mai ceduto la destra all'ambasciatore del re cattolico. Ma la corte madrilena, che ritiene disdicevole il contrario essendo il contestabile un feudatario del Regno di Napoli, con un avviso del 26 giugno, stabilisce che il proprio rappresentante a Roma notifichi a tutti i principi feudatari della Corona l'ordine perentorio di rendergli visita e di cedergli, in ogni circostanza, la destra. L'ordine vale per tutti, ma, in realtà, è diretto contro il Colonna. Ad evitargli una dispiegata umiliazione gli si concede - anticipandogli il contenuto della notifica tramite l'arcivescovo di Rodi Gianfrancesco Caetani già nunzio in Spagna - di salvare un minimo la faccia: si presenta in visita di omaggio all'ambasciatore il 25, quasi atto spontaneo, non d'obbedienza al posteriore avviso. Un espediente che male cela la sostanza del gesto: con "passo di suo considerabile prejudicio", rileva il rappresentante veneziano Antonio Grimani, il C. s'è recato in visita, "con prender la mano sinistra et accompagnamento a proporzione, mentre in passato o ha tralasciato le visite o era ricevuto a letto", a ciò costretto dalle "commissioni di Madrid", alle quali, "benché habbi dissimulato il disgusto… ha sforzatamente condesceso". Per quanto blandito con "forme di cortesia" dall'ospite, lo scorno resta, acuito dal fatto che "godono questi altri baroni di veder pregiudicato il contestabile e che non resti… di niente a loro avvantaggiato". Non a caso il C. - cosa del tutto insolita - non presenzia in pompa magna alla tradizionale cavalcata del 29 giugno; sa che gli altri nobili saranno con lui meno rispettosi. Eppure si tratta, per il contestabile, d'un onore e d'un obbligo; al quale il C. si sottrae, "dopo molte negotiationi" accampando il "pretesto" di dover "servire quel giorno il pontefice al solio" e delegando "in sua vece" il fratello "abate" Filippo (1642-1686), il futuro principe di Sonnino che il C. caccerà di casa perché dichiaratamente filofrancese.
Se sul piano del prestigio, allora così abbarbicato ai titoli e alle precedenze, il C. viene bruscamente ridimensionato, non si può dire, tuttavia, possa consolarsi su quello dell'influenza politica reale. Nemmeno a tal proposito la partita si chiude in positivo. Esponente di spicco dell'aristocrazia filospagnola e marito d'una francese non per questo diventa, come vorrebbe, un mediatore in grande. È troppo velleitario e discontinuo. Né condiziona, per quanto mobiliti parentele e conoscenze, l'andamento dei conclavi. È in rapporto con circoli criptocattolici inglesi e con la stessa moglie di Carlo II, ma non ha alcun disegno preciso da proporre. Per quanto ambisca, la frequentazione di personaggi di rilievo, l'amicizia coi principali diplomatici non gli conferiscono spessore politico; lusingano solo la sua vanagloria. Ricco, stracarico di titoli, può fare il prepotente, commettere soperchierie, minacciare la nobiltà più modesta, spadroneggiare per le vie terrorizzando i passanti. Ma sono tutte esibizioni di protervia di chi è privo d'effettiva potenza, di chi non è realmente "sovrano". Il C. avverte che la sua stessa prepotenza è revocabile, condizionata com'è dalla tolleranza dei pontefici, dalla indulgenza, più o meno connivente, dei cardinali nipoti. Può soprintendere, forte del suo rango all'interno dell'aristocrazia, a questioni d'onore, d'intitolazioni, di successioni, d'eredità; può sopire o risvegliare rivalità; può suggerire accordi, conciliazioni, combines matrimoniali, monacazioni. Ma resta un subalterno, anche se rutilante di fasto, anche se irto d'alterigia. Se ne accorgerà quando tenterà d'ostacolare le nozze tra Livia Cesarini e Federico Sforza e sarà costretto ad arretrare di fronte al cardinale Altieri Palazzi che, invece, le vuole.
Solo dentro le coordinate della festa, nell'impazzare del carnevale, le folli spese e le energie fisiche e mentali quivi profuse lo fanno primeggiare, gli concedono la momentanea ebrezza d'una sovranità, fragile e precaria ma anche intensa, costruita sulle modulazioni dell'effimero, afferrata e trattenuta nel ritmo vorticoso e cangiante della mondanità. È il migliore nelle esibizioni equestri, i suoi carri sono i più lussuosi e inventivi, è credibile come pianeta, Polluce, Ulisse. Travestendosi consegue primati altrimenti preclusi. Ma proprio per questo ha bisogno della consorte: nessuna meglio di lei sa mimare la torbida seduzione di Circe, l'irresistibile fascino di Armida. "Mère des amours - la rimpiangerà d'Alibert - son palais était celui d'Armide". Grazie a lei, in effetti, il palazzo del C. è divenuto il punto nevralgico della vita mondana romana ch'essa ha scosso dal suo sonnacchioso torpore con la verve scintillante della sua personalità, con l'inesausta febbrile sua voracità di divertimento. Nella dimora del C. si concentrano le feste, gli spettacoli, le veglie, il gioco, le galanterie. Continua l'affluenza di forestieri altolocati di passaggio. Persino i parigini più schizzinosi ed esigenti vi si sollazzano. Mancano, essi lamentano, "bals" e "reduicts" nella greve e sciroccale e torpida Roma barocca. Per fortuna c'è palazzo Colonna, unico faro effervescente a garantire la possibilità di divertimento. "Sans cette maison - asserisce Jacques de Balbeuf - les étrangeres et sourtout les français passeroient fort mal leur temps". Perennemente aperta la sua soccorrevole porta "pour les honnêtes gens"; si entra e si esce "quand on veut; on y danse, on y joue, on y cause et on y passe assez bien la soirée". Principe senza scettro, il C., tra le luci del suo palazzo, si staglia quale signore delle notti romane; ne è una sorta di re grazie alla consorte che brilla come autentica regina. Essa ha "del sale in testa", dello "zuccaro nella bocca", come riconosce persino la penna malevola di Gregorio Leti (B. Sultanini, Il puttanesimo romano… con… dialogo tra Pasquino e Marforio…, Londra 1669, pp. 233-234). La sua presenza imprime una svolta al costume, influenza abbigliamenti e comportamenti. Lancia ed impone la moda "francese", che dilaga ad onta del tuonare pontificio contro la sua "immodestia" e "vanità"; un magistero che sopravvive alla sua partenza ché Innocenzo XI dovrà prender atto "che la maggior parte delle donne vestono alla francese, portando la metà delle braccia nude e il petto scoperto", come scrive, il 25 ott. 1679, a Torino Paolo Negri (cit. in G. Monadi, I teatri di Roma…, Napoli 1928, p. 55). Ma alla lunga "il giuoco e le feste… perpetue in casa nostra" (così Maria) non bastano ad occultare il logorio della coppia; finiscono essi stessi col diventare logoranti.
Le simmetriche connivenze e le complici complementarità degli splendori mondani non sono più coperchio bastevole a celare il vuoto della reciproca indifferenza. I due non si sopportano più. Con l'esaurirsi degli artifici che lo reggono, lo spettacolo scade. Sbrecciata la diga del mutuo rispetto, i litigi si fanno quotidiani, degenerano talvolta, specie per il trascendere del C., sino all'alterco. Le sue parole - dirà del C. Maria - erano "tali che avrei preferito il silenzio" e i suoi "atti di disprezzo" frequenti e triviali; e, se Maria è colta da violentissima colica, il C. ne ascolta "imperturbabile" i gemiti la "notte intera". Senza più freno ormai la sua avversione per la consorte. Questa teme addirittura per la sua vita: donna superstiziosa, è impressionata da minacciose predizioni; con memore angoscia ricorda gli oscuri casi di mogli scomparse e assassinate che le sono stati narrati a proposito della plurisecolare vicenda dei Colonna - e le riaffiora vivido alla memoria quanto le ha detto, nel viaggio da Parigi a Milano, del C. lo stesso zio.
In preda al terrore, Maria sospetta che il C. voglia avvelenarla. Perciò, il 29 maggio 1672, approfittando di una sua temporanea assenza, fugge, imbarcandosi a Civitavecchia alla volta della Provenza. Un abbandono clamoroso, uno scandalo inaudito - "cessate… tutte le voci delle altre novità", non si parla d'altro, informa il rappresentante veneto Pietro Mocenigo - che detronizza il C. dai suoi fastigi mondani. Ferito nell'amor proprio, colpito nel prestigio, cerca di soffocare sul nascere lo scandalo, ma è vano l'inseguimento della flottiglia da lui fatta salpare. Deve perciò fronteggiarlo in pieno. Un impegno indefettibile che sconvolge e ossessiona la sua esistenza, un cruccio non lenito dagli amori (la governante dei figli diventa la sua amante; s'incapriccia della "canterina" Angela Maria Voglia, la "Giorgina", peraltro ostacolato dalla madre della ragazza), un tormento non allentato dalle cavalcate, dalle feste, dalle mascherate.
Subito solidali con lui la Curia e le ambasciate, unanimi nel giudicare immotivato l'abbandono del tetto coniugale, godendo la fuggitiva di tutti i "commodi" e dell'"affluenza delle fortune". La fuga diventa un bizzoso "capriccio") suggerito, forse, dalla "scarsa salute" oppure - ma è una spiegazione questa smentita dall'"horreur" per il convento (C. de Saint-Évremond, Oeuvres…, IV, Amsterdam 1726, p. 190) sempre manifestato da Maria - da "una pia meditatione" che l'ha indotta a ritirarsi dal "mondo", quasi preda di un mistico raptus. Nessun addebito al C. che l'ha, costantemente e sin troppo, colmata di "tenerezze".
Forte di siffatta solidarietà, egli può mobilitare la S. Sede e le diplomazie. Già il 4 giugno il cardinal Paluzzi Altieri dà conto dell'accaduto a Francesco Buonvisi nunzio a Colonia, aggiungendo che l'"espediente desiderato" dal C. è far "chiudere in un monastero" la colpevole. "Se capitasse in queste parti", assicura il nunzio, così sarà fatto. Anche per Buonvisi "la fuga della moglie" è "tanto più condannabile", poiché il C. non solo non le ha dato "nessuna causa", ma anzi l'ha trattata "sempre come una regina". Lo scatto ribelle viene irretito nella logica feroce di un copione inderogabile che prevede per la rea il rientro pentito o la definitiva recinzione nel chiostro e impone al marito (pur gratificato da numerose avventure, pur "cavalcante" con lusso in ogni occasione, pur organizzatore e anche ideatore di complicate e splendide mascherate tra cui spicca quella del 1677 raffigurante "I cavalieri del diavolo ammaestrati dalla gelosia") la maschera dell'afflitto con il punto d'onore obbligatorio del recupero o della monacazione di Maria. Una parte che il C. tetramente fa propria e che svolge conseguentemente. Il 7 agosto, si rivolge a Colbert: esige "justice" a "réparation à l'honneur… de familles… intèressées dans la fuitte", pretendendo che lo stesso re di Francia s'adoperi, appunto, "ou a faire revenir ma femme en Italie… ou à la faire mettre dans un couvent". Una richiesta caldeggiata dal pontefice, condivisa dai governi e dallo stesso Luigi XIV, dalla quale traggono origine indagini accurate, rapporti di agenti, informazioni di spioni prezzolati, interventi d'ambasciatori, suggerimenti di prelati, profferte d'altolocate mediazioni. La fuga della contestabile diventa così un imbarazzante caso internazionale.
Ufficialmente deplorata, Maria è, tuttavia, oggetto anche d'una curiosità non priva di partecipe simpatia. L'irrequieto vagare, in Francia, Fiandra, Germania, della principessa errante che Luigi XIV rifiuta di ricevere, che lo zelante governatore d'Anversa addirittura arresta, il suo provvisorio soggiornare ora in conventi ora in palazzi amici si presta, in effetti, a far affiorare nei suoi confronti accenni di comprensione se non altro femminile: "la connétable - così alla figlia, il 16 nov. 1672, madame de Sévigné - a eté retrouvée sur le Rhin dans un bateau… elle s'en va je ne suois ou, dans le fond de l'Allemagne".
Senza tregua l'incalza il rancore vendicativo del Colonna. All'inizio del 1673, saputala alloggiata a Torino nel convento della Visitazione, scrive a Carlo Emanuele II insistendo per una vera "clausura senza divertimenti", ribadendo, nelle successive missive, che i suoi giorni non debbono trascorrere "fuori dal monastero". Poiché il duca, invaghito di lei (non si sa sino a che punto ricambiato), di fatto le rende piacevole il soggiorno piemontese, tanta "benevolenza" suscita non solo la collera del C., ma pure vibranti rimbrotti del pontefice. Maria - questo il disegno sistematicamente perseguito dal C. - deve essere a tal punto soffocata dalla coazione alla monotonia monacale, a tal punto esasperata dal divieto di contatti coll'esterno da cedere. Perciò, allorché il duca le concede l'accogliente sistemazione nel palazzo del principe di Carignano, non solo protesta con lettere stizzite, ma ottiene, da parte del Re Sole, una secca ingiunzione a Carlo Emanuele di por fine ad un'ospitalità così confortevole. Sentendosi insicura è, allora, Maria stessa che preferisce, nell'ottobre, lasciare il Piemonte e riparare alfine, nel luglio del 1674, a Madrid dove il duca s'affretta a mettersi in contatto con lei tramite il suo rappresentante Roberto Solaro, latore delle sue missive "pour la bizarre Colonna, qu'on peut dire… avoir eté Colliona et non Colonna, de ne pas vouloir rester dans més etats".
Non ha, tutto sommato, torto: a Madrid le pressioni del C. per un rigido controllo della condotta della moglie sono molto più dirette. Egli stesso, intestardito a spuntarla sulla sua riottosità, insignito, ancora nell'ottobre del 1677, del viceregno d'Aragona, si trasferisce, nell'estate del 1678, coi tre figli in Spagna; e qui, risiedendo molto più a Madrid che a Saragozza, ha modo di meglio sfoderare tutta la sua autorità ed influenza. E sembra averla vinta ché Maria - in seguito anche al severo divieto di Luigi XIV a Pierre de Villars, suo rappresentante, d'ospitarla dopo una sua ennesima sortita "de son couvent" - si adatta, in un primo tempo, ad abitare presso di lui, a patto, comunque, della totale separazione dei rispettivi appartamenti. Il C., però, incapace di rispettare a lungo le modalità dell'accordo, inferocito dagli ostinati dinieghi opposti alle sue reiterate proposte di ripresa piena della vita in comune (Maria ha addirittura ribrezzo di lui e, a detta della moglie dell'ambasciatore francese, gli preferisce, per quanto sia avvenente, un bruttissimo gentiluomo spagnolo), la fa rinchiudere, nell'ottobre del 1680, nel castello di Segovia. Donde essa, disperata, si appella, il 30, al segretario di Stato cardinal Cibo e allo stesso pontefice accusando, più ancora che il carattere impulsivo e violento del marito, la mala suggestione su di lui esercitata da un pessimo consigliere quale Francesco Resta, un pluriomicida condannato a morte a Roma che il C., ad onta delle richieste d'estradizione romane caldeggiate dal nunzio e condivise dallo stesso sovrano, non solo tiene presso di sé e protegge, ma prepone, in certo qual modo, al personale al suo servizio. La situazione è incancrenita; vano tentare ancora la carta della riconciliazione; d'altronde Maria, pur di essere sottratta alla segregazione (per liberarla dalla quale s'adopera anche la regina), pare, finalmente, meno recalcitrante al velo.
Rimessa la decisione al papa, questi, l'11 febbr. 1681, indirizza un breve all'arcivescovo di Toledo, ove, a suo modo, risolve l'irreparabile dissidio. Vi destina Maria - peraltro dispensata dal noviziato e dall'obbligo del coro, nonché agevolata dalla concessione d'una, domestica al monastero e il C. all'Ordine dei cavalieri di Malta. Il che comporta, per lui, il dovere, lievissimo, di portare la relativa croce; omessi, per il resto, i voti di povertà e castità, gli è pure evitato l'onere delle "caravane". La prima - che, comunque, eviterà il più possibile d'indossare la veste e sguscierà, con abile pertinacia, dalla scadenza della pronunzia dei voti - entra, così, il 15 febbraio, nel convento madrileno della Concezione; e il secondo, dopo le nozze, del 20 aprile, del primogenito Filippo con Lorenza, figlia del duca di Medina Coeli Gianluigi della Cerda Aragona, parte, di lì a qualche giorno, con la famiglia, alla volta di Roma. Impietrita dall'astio, Maria rifiuta di vederlo; ed egli si imbarca lasciandola - così madame d'Aulnoy - "dans un dénuement voisin de la misère". Con siffatta soluzione papale i destini dei due si separano definitivamente.
L'immagine del C. non si risolve, comunque, totalmente nel sordido e gretto rancore con il quale rincorre la moglie, né va completamente inchiodata all'agghiacciante soddisfazione di saperla rinchiusa in cella mentre egli è libero di proseguire nelle sue rapaci incursioni amorose e nella sua ingorda propensione a tutti i generi di divertimenti. Né, ancora, il C. è solamente l'altero "grande di Spagna", anche se le testimonianze sull'ottuso rigonfiamento del suo orgoglio abbondano cogliendolo quale colui - così il ministro sabaudo Carlo Emanuele Pianezza - che "si picca d'esser di più, abbenché suddito del re Cattolico" e che, pertanto, "non si contenta di essere trattato come gli altri grandi". Balugina, in questo personaggio tra i più arroganti e indisponenti della Roma barocca, un accenno, sia pure torbido, di magnificenza e sin di grandezza. La pittura, la musica, il teatro del tempo hanno in lui un interlocutore capace d'intendere e suggerire, un fruitore dall'onnivoro e disponibile eclettismo, un mecenate sollecitante e prodigo, un amateur estroso e competente. La passione per le arti è una costante vibrantemente autentica nella vita del C., che fu altresì lettore appassionato della Liberata. Maniaco della scena in tutte le sue forme (dalla commedia alla farsa, dalle marionette all'opera in musica, dalla pantomima alla mascherata), possiede un prezioso codice di pulcinellate, dà agio a Filippo Acciaiuoli (che in casa sua è una sorta di factotum in fatto di rappresentazioni) di sbizzarrirsi nelle più strepitose invenzioni scenotecniche, mette a disposizione del melodramma l'altissimo palcoscenico del suo teatro privato, protegge e fa rappresentare Carlo Sigismondo Capace, ama sia Pulcinella che don Pasquale, si contorna di musici e teatranti, vagheggia addirittura - quando contrappone al teatro di Tordinona il proprio in Borgo, in piazza Scossacavalli - di trasformarsi in impresario realizzante, con grandi spese e con ancor più grandi guadagni, un'attività teatrale continuata di vasto e ambizioso respiro. Fautore entusiasta della musica drammatica, stipendia per qualche tempo il giovane Alessandro Stradella che nel suo palazzo dispone di un'ampia stanza zeppa di strumenti per lavorare a proprio agio: per il C. egli compone l'Accademia d'amore, azione scenica destinata al carnevale del 1665; e due sue favole eroiche e altre due eroicomiche sono rappresentate, nel 1674-77, nel teatro del C. in Borgo. È inoltre, il C. che capeggia la fronda musicale della nobiltà romana di contro alle prescrizioni pontificie; è soprattutto suo merito se i divieti non soffocano la vita delle scene romane. Pure spiccatissimo, vivace, personale lo amore del C. per la pittura, assiduo il suo impegno nell'arricchimento della galleria del suo palazzo, per il quale s'avvale come adviser di Lelio Orsini, buon conoscitore della produzione cinque-secentesca. Lungi dall'essere un collezionista meramente ricettivo, l'insolita natura di molti soggetti, l'allusività a vicende familiari inducono a supporlo intento e partecipe.Un gran numero d'artisti lavora per lui, dai bamboccianti ai cultori del genere storico, da Salvator Rosa a Francesco Martinetti, da Gaspard Dughet a Gianfrancesco Rinaldi, a Pier Francesco Mola a Carlo Maratta. Predilige, comunque, il fondersi di mitologia e paesaggio e, incurante della critica del tempo e su questa in anticipo, impone in tale direzione il suo gusto. Suo preferito Claude Lorrain, di cui è committente per quasi vent'anni; e s'avverte nell'ultima fase dell'artista - quella inclinante verso una purificata e rinfrescata classicità commentata da una ricca orchestrazione paesaggistica - l'ombra stimolante del Colonna. Acquirente, nel 1662, del Paesaggio con la fuga in Egitto, nel 1669 d'Egeria che piange Numa, il C.commissiona a Lorrain otto scene mitologiche tra le quali il cosiddetto Castello incantato e Ascanio che colpisce il cervo di Silvia. Ed il Tempio di Venere, commissionato dal C. - sposo appena abbandonato - nel 1672, sembra quasi, nel suo maestoso equilibrio d'alberi e architettura, un auspicio di sognante assorta imperturbabilità, un appiglio per impetrare la pace dell'indifferenza. Forse il C. ha invocato allora, dal pennello un soccorso cui aggrapparsi per non lasciarsi completamente avvitare nella perversa spirale del puntiglio vendicativo impostogli dalla velenosa maledizione del suo rango sociale.
Una volta reinsediato nel suo splendido palazzo, la presenza del C. è ancora di spicco nelle scadenze goderecce dell'aristocrazia: nel 1682 spende 4.000 scudi "per dar divertimento alla nuora", incurante il festeggiamento coincida con la morte d'una sorella "monaca in un monasterio di Marino"; nel 1684 sovrintende alla "biscia" ossia ad un "ballo" di ventiquattro cavalieri cui assistono, stipate in carrozze disposte a "theatro", numerose e plaudenti le dame. Frequenti le rappresentazioni dovute al suo impulso, da Chi è cagione del suo mal piange se stesso di Acciaiuoli ai Giochi troiani di Capace, dal Pompeo e dal Silenzio d'Aridrate di Nicolò Minato alla Tessalonica d'ignoto; anche nel 1685, pur nell'imperversare delle severe proibizioni di Innocenzo XI, nel teatro Colonna si recita il melodramma L'Arianna, d'ignoto.
Tuttavia il C. è uomo ormai stanco, dalla vigoria appannata. Nel 1684 ha una crisi di soffocamento, soffre di palpitazione. E finisce con l'indulgere a sempre più prolungati e tranquilli soggiorni campestri. Nella temporanea luogotenenza a Napoli, dal 21 nov. 1687 al 27 genn. 1688, tra la morte del viceré marchese del Carpio e l'arrivo del successore, pur non rinunciando alla caccia, agli "spassi e trattenimenti", pur giocando la notte alla "ombra", pur facendosi subito raggiungere da "una dama… sua amasia", il C. dà prova d'applicazione agli "affari di governo"; sì che il residente veneto Antonio Maria Vincenti rimarca la sua diligenza "nel dar le publiche udienze" ad "ogni conditione di persone" nonché l'attenzione da lui dedicata all'"affare importante della nuova moneta", lo scrupolo con cui ascolta le "discrepanti opinioni de' ministri".
Non mancano, tuttavia, i rilievi: la prima rosa di nomine dei suoi più diretti collaboratori è ispirata da sfacciato favoritismo; non appena avvisato della nomina del nuovo viceré, si dà "a far denari per ogni banda", specie a "far tratte fuora di regno" di grano orzo suini e "altro". Accusa non infondata se nel 1691 si considereranno compensati coi 19.000 ducati, corrispondenti a sei "mesate" di viceré, corrispostigli i crediti vantati dagli eredi dalla regia corte. Ma vanno, d'altronde, riconosciute al C. una certa fermezza nei confronti della nobiltà la prudente linea di condotta volta a non squilibrare i fattori del coerente disegno avviato dallo scomparso viceré; e non manca di saggezza nel sostituire il caporuota della Vicaria, nell'ordinare al riluttante Francesco d'Anna l'accettazione della nomina ad eletto del Popolo.
Tornato a Roma, il comportamento del C. - mentre la sua salute s'aggrava, afflitto com'è da "più generi d'indisposizioni" - s'addolcisce sino alla mitezza e all'accentuata carità, quanto mai generosa con le giovani popolane povere e pericolanti. E, obbedendo ad un impulso di resipiscenza, raccomanda, nel testamento, ai figli la madre; e giunge ad adoperare nei suoi riguardi espressioni tenere e riguardose. Quando muore, a Roma, il 15 apr. 1689, d'"idropisia", il dolore della città è "universale", a testimonianza, forse esagerata, dell'"esistente" veneto Giovanni Lando; manifesto, attesta l'ambasciatore francese, il cordoglio del papa, il quale, se all'inizio del pontificato era inorridito di fronte alle "violences… désordres et même quelques assassinats" del C., aveva poi finito con l'apprezzarlo sì ch'era divenuto "une espèce de favori".
Tra le sue benemerenze - evidentemente in mancanza d'altre, più cospicue, da celebrare - Antonio Bulifon esalta la pulitura di un "condotto", risalente ancora all'imperatore Claudio, in Abruzzo; una "lodabile impresa", si commuove Bulifon, che aveva comportato il lavoro di venticinque uomini per un quadriennio. È certo che la scomparsa del C., concomitante con quella, del 19 aprile, di Cristina di Svezia (già rivale soccombente di sua moglie in fatto di modanità), segna un duro colpo per le scene romane, defraudate d'un tratto dei loro più prestigiosi promotori e mentori. Quanto a Filippo, subentrato al padre nel contestabilato, pare ereditarne più l'accanimento in questioni di precedenza (G. Castellani, Una questione di cerimoniale alla corte pontificia…, in Strenna dei romanisti, XXV[1964], pp. 113-118) che la trascinante e prodiga grandiosità mecenatesca.
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