TIEPOLO, Lorenzo
TIEPOLO, Lorenzo. – Figlio terzogenito del doge Giacomo (1229-49) e della sua prima moglie, probabilmente Maria Storlato, nacque a Venezia presumibilmente nei primi anni del XIII secolo.
La sua prima menzione risale all’ottobre del 1243, quando comparve fra i consiglieri del padre in qualità di membro del Minor Consiglio in un atto con il quale Giovanni arcivescovo di Ragusa risolse un contenzioso con il Comune di quella città dalmata. Nuovamente consigliere ducale nel 1247, fu nominato poco dopo, vivente il genitore, conte di Veglia, carica alla quale dovette tuttavia rinunciare nel 1260, a seguito della restituzione dell’isola ai suoi antichi signori.
La scomparsa del padre non fece venire meno le sue fortune. Nel 1253 intervenne infatti con funzioni direttive, assieme a Marco Ziani figlio del doge Pietro (1205-29), nel torneo indetto per festeggiare l’elezione al dogado di Ranieri Zeno. Quattro anni più tardi, nel 1257, gli fu affidato il comando di una flotta inviata a San Giovanni d’Acri, capitale del Regno di Gerusalemme, per rompere l’assedio al locale quartiere veneziano che era stato attaccato l’anno prima dai rivali commerciali genovesi e dai loro alleati.
Nel settembre del 1257, dopo che era stata stretta un’alleanza difensiva e offensiva con i pisani e ottenuto l’appoggio di altri protagonisti del regno crociato, il capitano veneziano inflisse una prima dura sconfitta ai liguri, avviando l’occupazione del loro quartiere e distruggendo le fortificazioni che lo difendevano. I genovesi tentarono immediatamente la riscossa partendo dalla città amica di Tiro, ma furono nuovamente sconfitti, sia pure in maniera non decisiva da Tiepolo il mese successivo.
Le sorti del conflitto rimasero a lungo incerte, ma poi, dopo una serie di scontri dall’esito alterno, la flotta di Tiepolo, rinforzata da altre navi inviate dalla madrepatria al comando di Andrea Zeno, riportò nel giugno del 1258 una decisiva affermazione su quella nemica nello specchio di mare di fronte ad Acri, provocando conseguentemente la resa di lì a poco delle forze genovesi che ancora resistevano in città e la loro pressoché completa evacuazione.
Al rientro dalla spedizione, secondo una tradizione, sorta peraltro in età moderna, Tiepolo avrebbe trasportato a Venezia due colonne riccamente decorate che si trovano tutt’oggi in piazza S. Marco poco distanti dalla facciata meridionale della basilica omonima. I manufatti, noti come ‘pilastri acritani’ costituirebbero parte del bottino del saccheggio del quartiere genovese di Acri. Studi recenti tendono però a ipotizzare piuttosto una provenienza costantinopolitana delle colonne in questione. Oltre ai pilastri Tiepolo avrebbe portato in patria la cosiddetta pietra del bando, un tronco di colonna in porfido collocata sempre accanto alla basilica, andata tuttavia distrutta a seguito del crollo del campanile nel 1902.
Qualche anno più tardi, nel 1261, Tiepolo ricoprì la carica di capitano di Negroponte, la massima autorità veneziana presente nell’isola di Eubea. Nell’estate di quell’anno ricevette l’imperatore latino Baldovino II, il patriarca costantinopolitano Pantaleone Giustiniani e il podestà veneto Marco Gradenigo, fuggiti dalla capitale dell’Impero, dopo che il 25 luglio Costantinopoli era stata riconquistata dal generale Alessio Strategopulo in nome dell’imperatore di Nicea Michele VIII Paleologo.
Nei mesi successivi, dopo aver inviato come prima risposta le navi a sua disposizione contro i nemici, Tiepolo si impegnò per creare un fronte comune antibizantino fra i potentati latini della Grecia meridionale e insulare, da lui ben conosciuti anche per i suoi rapporti di parentela con la famiglia Ghisi, da tempo insediatasi in alcune isole dell’arcipelago delle Cicladi. In quell’ambito contribuì attivamente, fra l’altro, alla conclusione di un accordo, da egli stesso sottoscritto quando era ormai scaduto dalla carica, stipulato il 15 maggio 1262, che poneva fine alle controversie sorte fra il Comune di Venezia, i signori feudali di Negroponte e il principe di Acaia Guglielmo II di Villehardouin, che era stato da poco tempo liberato dai Bizantini dopo alcuni anni di prigionia. Fu molto probabilmente allora che quest’ultimo sovrano lo nominò proprio uomo ligio e gli concesse in feudo le isole di Sciato e Scopelo nelle Sporadi settentrionali, possedimenti poi mantenuti dai suoi discendenti.
Rientrato in patria, nella primavera del 1264 Tiepolo fu eletto fra i membri del Maggior Consiglio in rappresentanza del sestiere di San Polo in cui risiedeva, ma dopo pochi mesi vi rinunciò per assumere la carica di podestà di Padova, da lui mantenuta per un anno intero fino alla metà del 1265, in un’epoca nella quale, dopo il crollo del regime di Ezzelino III da Romano, le maggiori città dell’entroterra veneto erano spesso rette da podestà di provenienza veneziana. Durante il suo mandato, Tiepolo si adoperò con un’intensa attività legislativa a sanare i guasti causati dalla lunga dominazione di Ezzelino.
Terminata la sua esperienza padovana, nel 1266 fu coinvolto in un grave episodio. Come ricorda il doge cronista Andrea Dandolo (Andreae Danduli ducis Venetiarum Chronica, a cura di E. Pastorello, 1938-1958, p. 314), egli fu gravemente ferito da Leonardo e Giovanni Dandolo, appartenenti a una famiglia da tempo in contrasto con i Tiepolo, per ragioni personali e politiche, a partire dall’elezione ducale del 1229 nella quale il padre Giacomo aveva sconfitto Marino Dandolo, figlio del doge Enrico (1192-1205). Tiepolo sopravvisse però all’aggressione, si ristabilì e, preferendo allontanarsi dalla città lagunare, accettò la carica di podestà di Fermo nelle Marche, ricoperta fino ai mesi centrali del 1267.
Ritornato a Venezia, non fu coinvolto nelle trattative diplomatiche in corso da tempo a Roma, con il sostegno di papa Clemente IV, fra i rappresentanti dei Comuni di Genova e di Venezia nel tentativo di trovare un accordo che ponesse fine allo stato di guerra in atto fra i due Comuni dai tempi degli scontri nell’Oriente crociato. Malgrado fosse stato designato per recarsi presso il pontefice egli declinò l’incarico. Molto probabilmente la decisione, riportata dal cronista contemporaneo ed estimatore del futuro doge Martino Canal (M. da Canal, Les estoires..., a cura di A. Limentani, 1972, pp. 264 s.), fu dettata dalla volontà di non trovarsi assente da Venezia quando si fosse dovuto procedere all’elezione di un nuovo doge, approssimandosi per ragioni di età e di salute la scomparsa di quello in carica.
Ranieri Zeno morì il 7 luglio 1268 e sedici giorni dopo fu eletto al suo posto Tiepolo con venticinque voti a favore su quarantuno grandi elettori, il cui numero già nel 1249 era stato aumentato di una unità per evitare il rischio che potesse ripetersi un risultato di parità come accaduto nel 1229.
L’elezione fu seguita da notevoli festeggiamenti soprattutto da parte del ceto mercantile e dalle corporazioni di artigiani che sfilarono in corteo, perché ben ricordavano la politica a loro favore seguita dal padre di Tiepolo durante i suoi vent’anni di governo e speravano, come infatti avvenne, che il doge neoeletto ne seguisse le orme.
Il suo primo provvedimento, dopo la riappacificazione con i Dandolo suoi feritori, fu infatti la ratifica, ad appena una settimana di distanza dall’insediamento, della tregua raggiunta faticosamente pochi giorni prima della morte dal suo predecessore con Michele VIII Paleologo. Due anni più tardi, il 22 agosto del 1270, nella neutrale Cremona fu raggiunto un accordo simile con il Comune di Genova. Sia nel primo come nel secondo caso si trattava di semplici tregue di durata quinquennale che però avevano il pregio di porre fine almeno momentaneamente alla guerra diretta contro l’Impero bizantino e la città tirrenica e che furono rispettate per l’intero dogado di Tiepolo, salvo episodici casi di pirateria messi in atto soprattutto dai rispettivi alleati.
Gli effetti delle due intese si fecero subito sentire, perché i veneziani poterono rientrare a Costantinopoli e riprendere i traffici che erano stati interrotti per le vicende belliche, come dimostra fra l’altro il fatto che già all’indomani della stipulazione della tregua con i Bizantini Tiepolo poté inviare una carovana di navi mercantili in Oriente scortate da galee per fare fronte alla penuria di granaglie dovuta alla carestia che colpì l’Italia settentrionale nel 1268, con il rifiuto da parte dei Comuni normalmente fornitori di provvedere agli abituali rifornimenti, a cui il doge rispose imponendo rappresaglie nei loro confronti. Nel 1271 furono inoltre stipulati nuovi accordi commerciali con potentati che in quegli anni stavano assumendo maggiore importanza economica rispetto al passato, come il Regno armeno di Cilicia e quello di Tunisi. Per queste ragioni il doge respinse decisamente le richieste di prendere parte a una nuova crociata per la riconquista di Costantinopoli avanzate più volte da Carlo I d’Angiò e da papa Gregorio X, anche se nel Concilio di Lione del 1274 gli inviati di Tiepolo ribadirono pubblicamente i diritti della loro città sull’Impero di Romania.
Nel settore nord-adriatico la politica di Tiepolo fu anch’essa coronata dal successo con la dedizione delle comunità situate lungo la costa occidentale istriana di Umago e Cittanova che, sia pure formalmente soggette al patriarcato di Aquileia, entrarono a fare parte del dominio veneziano fra il 1269 e il 1270.
Nel versante italiano il doge non ebbe invece altrettanto successo. Dopo le rappresaglie del 1268, le relazioni con le comunità dell’entroterra si mantennero spesso tese per via dell’espansione patrimoniale condotta da privati cittadini e istituti religiosi veneziani nei territori di questi Comuni e del controllo esercitato sulle vie fluviali padane con l’imposizione di pedaggi sui transiti. L’episodio più grave fu il conflitto che oppose Venezia a Bologna a partire dal 1270, per la navigazione sul Po di Primaro, l’allora ramo principale del grande fiume. Dopo inutili contatti diplomatici, fra scontri terrestri e fluviali con esiti alterni, a cui parteciparono anche altre città romagnole, la vertenza si concluse nell’agosto del 1273 con un trattato che di fatto riconosceva lo status quo. Venezia conservava la sua egemonia sulla linea padana e l’anno dopo estendeva il suo controllo su Cervia, importantissimo centro di produzione del sale.
Morì il 16 agosto 1275 e fu sepolto nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo, nella tomba che tutt’oggi si conserva dove si trovavano già le spoglie del padre Giacomo e del fratello Giovanni.
Aveva contratto un primo matrimonio con Agnese, probabilmente figlia di Giovanni di Brienne re di Gerusalemme (1210-25; Loenertz, 1975, pp. 44 s.) e poi imperatore di Costantinopoli (1231-37), oppure di un principe balcanico. Rimasto vedovo, aveva sposato in seconde nozze Marchesina, figlia di Geremia Ghisi, da cui aveva avuto due figli: Giacomo e Pietro. Il primo, che ricoprì varie cariche pubbliche, avrebbe sposato una figlia di Stefano Subich, conte di Bribir e bano di Dalmazia in nome di Bela IV re d’Ungheria, e concorse, risultando sconfitto, all’elezione a doge del 1289 dalla quale uscì vincitore Pietro Gradenigo. Pietro, meno noto, fatto sposare dal padre a una nobildonna vicentina, fu conte di Ragusa e nel 1275 difese la città dagli attacchi del re di Rascia.
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