Lorenzo Valla
Lorenzo Valla, benché non sia giurista, può a ragione considerarsi come l’umanista che per primo ha avviato una riflessione critica sul metodo della scienza giuridica medievale e sul suo valore effettivo, ponendola a paragone con quella romana. Ciò che lo distingue dagli altri umanisti è il suo interesse verso la lingua del diritto e la sua ferma convinzione che la giurisprudenza classica, conoscibile attraverso i frammenti raccolti da Triboniano nel Digesto, rappresenti un modello culturale di valore assoluto, anzitutto per la qualità del latino utilizzato, al contrario della scienza giuridica del suo tempo, da Valla disprezzata per la lingua adottata, così come per il metodo scolastico impiegato, ancor prima che per i contenuti elaborati.
Lorenzo della Valle, detto comunemente Lorenzo Valla, nasce a Roma, da famiglia piacentina, nel 1405 o nel 1407. Dopo aver compiuto studi umanistici a Roma e a Firenze (1419), non riuscendo a impiegarsi come sperato presso la curia papale – nonostante che il padre Luca fosse stato avvocato concistoriale e che nella famiglia materna il nonno Giovanni Scribani e lo zio Melchiorre avessero ricoperto importanti uffici curiali – si reca a Piacenza e poi a Pavia, dove insegna retorica nello Studio (1431).
Costretto a lasciare la città nel 1433 per il suo scontro con i giuristi, si sposta a Milano e poi in altre città, per entrare infine, nel 1435, al servizio di Alfonso d’Aragona, re di Napoli. Superato l’ostracismo per aver sostenuto la falsità del constitutum Constantini (1440), sotto il pontificato di Niccolò V si trasferisce a Roma per i buoni uffici di Nicola Cusano e del cardinale Bessarione e diviene scrittore apostolico (1448). In polemica aperta con Poggio Bracciolini, e da questi contrastato con ogni mezzo, è nominato infine segretario pontificio da Callisto III nel 1455. Dal 1450 inoltre insegna retorica nello studium romano. Muore nell’Urbe nel 1457.
Il lascito valliano più rilevante, per l’elaborazione di un’idea umanistica intorno alla giurisprudenza, si identifica con il suo sincero apprezzamento per la lingua della scienza giuridica romana, di cui offrono prova i frammenti del Digesto. L’interesse di Valla non è rivolto al diritto in sé: egli non sembra coglierne il valore ordinante della realtà sociale, così come non svolge valutazioni tecniche sul contenuto degli istituti giuridici o sulle teorie elaborate dai giureconsulti classici. Il suo giudizio verte tutto sull’elemento formale (e in fondo estrinseco) della proprietà linguistica, cioè sulla precisione, univocità semantica e nitidezza concettuale delle parole usate dalla iurisprudentia romana; la lingua del diritto in tal modo non resta confinata nel ghetto delle lingue tecniche, come efficace ma elitaria Fachsprache, bensì diviene per Valla modello da studiare e imitare, poiché mette in risalto le potenzialità del latino, che si segnala per la sua elegantia, cioè la sua precisione e chiarezza sul piano lessicale, postulando un nesso inestricabile tra lingua latina e scienza.
Il giudizio ampiamente positivo sul modo di esprimersi dei giuristi romani e, più in generale, sulla loro cultura viene espresso con nettezza nel proemio al III libro delle Elegantiae linguae latinae (già presente nella prima redazione dell’opera, del 1441, mentre la terza e definitiva risale al 1449), dove Valla tesse un sentito elogio dei giureconsulti antichi, modello di bello stile e di proprietà di linguaggio, contrapponendoli alla rozza e barbara dottrina medievale, priva di qualsiasi valore scientifico. La polemica verso i giuristi medievali qui svolta è diretta e durissima: l’alibi del tecnicismo copre una crassa ignoranza, tanto che costoro non sono in grado di comprendere gran parte delle prescrizioni dello ius civile romano.
Valla stesso si dichiara disposto a imparare i rudimenti della scientia iuris e non teme di affermare – riecheggiando e attualizzando la celebre asserzione della Pro Murena secondo cui Cicerone, volendo, sarebbe potuto diventare giureconsulto in tre giorni – di essere in grado di sostituire integralmente in soli tre anni la Glossa ordinaria di Accursio con un apparato di glosse di gran lunga più utili, perché fondate su un sapere umanistico e quindi ben più saldo e affidabile di quello medievale.
La profonda stima per i giureconsulti classici non impedisce però a Valla di contestarne in alcuni casi le scelte lessicali, in riferimento a passi nei quali a suo avviso hanno fatto uso improprio o errato di un termine, ovvero lo hanno confuso con un altro analogo ma di significato diverso: si tratta dei capp. XXXV-XXXVI, In Iustinianum, e XXXVIII-LXIV, In iurisconsultos (ricavati gli uni dal Codex e gli altri dal Digesto), del VI libro delle Elegantiae. Tale atteggiamento critico privo di ogni reverenza verso gli antichi autori gli verrà sovente rimproverato, ed egli risponderà – per es. nell’Antidotum in Facium (1447) – ribadendo la sua alta considerazione dei giuristi romani e rivendicando a sé il merito e la capacità di aver additato apertamente i loro errori e le loro contraddizioni, in omaggio alla verità e alla scienza. Illuminanti sono anche alcuni passi dell’Antidotum I in Pogium (1452) in cui rintuzza le critiche di Bracciolini, esplicando il suo pensiero sui giuristi, antichi e moderni.
A più riprese, del resto, Valla prenderà posizione su temi di precipua rilevanza giuridica (nonché politica ovvero teologica), e lo farà sempre con grande indipendenza intellettuale ed estrema lucidità critica, forte di una preparazione culturale che gli consente di smantellare luoghi comuni e false certezze, ponendo a nudo lacune, errori e pseudoverità. Forte di conoscenze che spaziano dalla logica alla storia, dalla teologia alla filologia, Valla smonta pezzo per pezzo con precisione e metodo le tesi avversarie, dimostrando, testi alla mano, l’ignoranza dei contraddittori e la giustezza delle proprie tesi. L’amore di verità, la passione per l’affermazione di una scienza rinnovata e depurata dalle scorie del Medioevo, il gusto per la polemica congiurano nel far sì che Lorenzo si lanci in diatribe sempre nuove, non solo in campo letterario, linguistico e filosofico, ma anche giuridico.
I bersagli polemici della sua intransigente battaglia contro ogni residuo della ‘barbarie’ medievale, nelle diverse manifestazioni che essa ha assunto in campo giuridico, sono senz’altro degni dell'altissima considerazione di sé manifestata in ogni occasione da Valla, ma proprio per questo implicano uno scontro che giocoforza trascende il puro piano della querelle culturale sul quale, nonostante tutto, egli pensa di potersi mantenere, coinvolgendo aspetti legati di volta in volta al prestigio di ceto dei giuristi, all’esercizio del potere temporale della Chiesa, all’autorità del magistero ecclesiastico in campo teologico, con una importanza lato sensu ‘politica’ della posta in gioco che forse sfugge alla sua piena percezione.
Si tratta, in primo luogo, di rispondere alla spudorata e scandalosa pretesa dei giuristi bartolisti di affermare la superiorità della loro scienza sul sapere letterario-filosofico degli antichi, di cui si nutrono gli umanisti.
Nel febbraio del 1433, a Pavia, dove insegna eloquenza nello studium cittadino, uno stimato giureconsulto dichiara di fronte a Valla che un qualunque scritto di Bartolo da Sassoferrato – nella specie il trattato De insigniis et armis (edito nel 1358) – vale per certo di più dell’intera opera di Cicerone. Ritenendo tale asserzione una provocazione del tutto priva di senso comune e contraddetta dall’evidenza, egli risponde sottoponendo a critica serrata l’operetta di Bartolo nella Epistola contra Bartolum, stesa a suo dire di getto in una sola notte, in preda allo sdegno per l’infimo livello, nella forma e nella sostanza, della pagina bartoliana.
Il giudizio negativo sul grande maestro medievale è radicale e senza appello: ne emerge un autore che difetta di logica, privo di una preparazione culturale accettabile, che si esprime in un latino intollerabile. Valla investe Bartolo con un repertorio di pesanti contumelie che indigna i giuristi. La reazione della universitas iuristarum allo scritto, divulgato sotto forma di lettera a Catone Sacco (ma poi pubblicato come se fosse indirizzato ad Angelo Decembrio), è decisa e pericolosa per Valla: egli deve fuggire precipitosamente per evitare di essere malmenato (come racconta Bartolomeo Facio nelle sue Invettive), poiché ha osato criticare e dileggiare quello che ormai è divenuto l’intangibile nume tutelare dei doctores iuris. La disavventura pavese del Valla è indicativa di una ormai piena incomunicabilità tra cultori delle humanae litterae e giureconsulti: questi ultimi infatti non ritengono di dover mettere in discussione e riformare dalle fondamenta il loro sapere tecnico, per rispondere a critiche che appaiono loro puramente formali e, dunque, trascurabili.
La posizione di Valla, in questo senso, appare esemplare, in quanto fondata sulla questione della lingua; i suoi rilievi non toccano il contenuto degli istituti giuridici, ma si appuntano unicamente sul latino scadente e ‘gotico’ e sulla insoddisfacente formalizzazione (in quanto fondata sulla logica scolastica) dei ragionamenti svolti dagli esperti del giure. Il tono spregiativo e offensivo impiegato da Valla, consono al genere letterario dell’invettiva ma inusuale e inaccettabile per i giuristi, posto il ruolo sociale e politico da loro rivestito, aggiunge pietre al muro che ormai si erge tra costoro, potenti esponenti dell’establishment politico-culturale, e i letterati umanisti.
La seconda occasione di intervento su una questione di rilievo giuridico, oltre che politico, è relativa alla dimostrazione della falsità della cosidetta donazione di Costantino, cioè dell’atto con il quale l’imperatore cristiano avrebbe conferito alla Chiesa il primo nucleo del suo dominio territoriale e il diritto di esercitare su di esso un’autorità sovrana, a scapito del potere laico. Valla si concentra dunque non più su un testo scientifico, ma su un documento recante traccia di un negozio giuridico dalla fondamentale importanza politica. Fondandosi sull’analisi testuale storico-filologica dell’atto e sui dati inoppugnabili che se ne possono trarre, egli può affermare che il constitutum è senza dubbio un falso. Il rilievo di tale asserzione appare subito evidente: pur se in genere i giuristi non avevano mai fondato anzitutto sulla ‘donazione’ le pretese della Chiesa all’esercizio del potere temporale, mostrando anzi sovente (specie i civilisti) serie perplessità su quell’atto, le collezioni di norme canoniche sin dall’11° sec. avevano valorizzato quel testo, inserito infine in una delle paleae del Decretum Gratiani (can. 14, Dist. 96) a opera di Paucapalea.
La stesura dell’orazione De falso credita et ementita Constantini donatione (1440) avviene nel momento in cui Valla si trova a Napoli presso Alfonso d’Aragona, e lo scritto si può qualificare certo come una operazione di disturbo a fini politici, ispirata dal re, allora in contrasto con papa Eugenio IV per la sua investitura al trono. Di fatto l’occasione contingente che induce Valla ad affrontare la questione passa in secondo piano di fronte alla mole e alla qualità delle argomentazioni portate a sostegno della tesi della falsità del constitutum pseudocostantiniano.
Al di là delle ricadute politiche contingenti, l’operazione culturale valliana accredita in modo eclatante e definitivo l’efficacia di un metodo filologico capace di sgombrare il campo da ogni ipocrisia e tatticismo con la forza di una dimostrazione inattaccabile; il mondo del diritto deve prendere atto che la prima operazione da compiere su qualsiasi testo proveniente dal passato è la previa verifica (con gli strumenti della storia e della filologia) della sua autenticità, laddove i giuristi avevano sempre risolto problemi di questo tipo sfruttando piuttosto le potenzialità dell'attività di interpretazione, più o meno creativa.
Un altro caso nel quale Valla sfida l’autorità costituita attraverso la revoca in dubbio dell’autenticità di un testo – di natura prettamente teologica ma dal valore anche giuridico – concerne la vicenda della disputa accesasi a Napoli nella primavera del 1444 con il predicatore minorita fra Antonio da Bitonto intorno alla formula del Simbolo apostolico della tradizione latina, a giudizio di Valla erroneamente fatta risalire direttamente agli apostoli (che avrebbero composto il Credo un versetto ciascuno). L’intera vicenda è rievocata da Valla nel IV libro degli Antidota in Pogium (1453).
Il tema, oltre all’evidente e primaria rilevanza teologica, assume anche i contorni di un contenzioso giuridico, perché il brano isidoriano sottoposto a critica (Ethymologiae, VI, 16, 4) è stato inserito senza obiezioni da Graziano nel suo Decretum (can. 1, Dist. 15), e ha quindi assunto anche valore propriamente normativo e vincolante, in quanto divenuto parte integrante di quella raccolta di canoni. Contestando la veridicità del testo, Valla pone in dubbio automaticamente anche l'attendibilità della Concordia grazianea, minandone la forza normativa e la vincolatività, riconducendo la compilazione alla sua natura di collettore di fonti varie, incapace di attribuir loro una patente di autenticità e un valore precettivo maggiore e diverso da quello originariamente posseduto. In gioco è dunque la possibilità di analizzare liberamente il Decretum Gratiani come un qualsiasi altro testo da sottoporre a verifica, cioè come un prodotto storico composito, mero contenitore di fonti che, come tale, non può fornire certezze sulla verità o falsità dei testi in esso confluiti, da accertarsi di volta in volta con una lettura filologicamente appropriata; su tale base Valla indirizza una Epistola ad collegium iurisconsultorum neapolitanorum (perduta), per promuovere la revisione sul punto del Decreto.
Ancora una volta, Valla si impegna nella rivendicazione per lo scienziato della piena libertà nella ricerca della verità, senza ostacoli e divieti di sorta, come risulta dalla Apologia pro se rivolta a Eugenio IV (1445) e dalla connessa e coeva Defensio¸ nella quale rivendica la sua posizione antiaristotelica e soprattutto antiscolastica. La sua idea alta e un po’ ingenua del ruolo della scienza si scontra però con le ragioni della politica e della salvaguardia dell’ortodossia cattolica (con la connessa impalcatura filosofica scolastica): alla sua proposta di un pubblico dibattito fa da contraltare la citazione davanti al tribunale dell’Inquisizione con l’accusa di eresia (orchestrata probabilmente dal vescovo giurista Alfonso Borgia, come ritorsione per l’attacco alla donazione di Costantino, sfruttando la riconciliazione tra il papa e l’aragonese dopo la pace di Terracina, con l’appoggio di un teologo, il vescovo Juan García: giurisprudenza e teologia sono così simbolicamente unite nel combattere il metodo antidogmatico di Valla). Egli può sottrarsi al processo solo in virtù dell’intervento del sovrano, che impone l’interruzione della procedura inquisitoria e avoca a sé la giurisdizione sul caso. Lo sventato processo sancisce comunque implicitamente il principio per cui i materiali confluiti del Decretum non possono essere sottoposti a verifiche testuali di taglio filologico, ma solo a interpretazioni giuridiche, rinviando sine die lo scioglimento dei dubbi sollevati da un approccio umanistico a quelle fonti.
Conformemente ai suoi interessi e alle sue competenze, Valla giunge quindi ogni volta a occuparsi di questioni di diritto passando dall’esame di un testo, che egli sottopone al vaglio della sua acribia per verificarne, a seconda dei casi, l’autenticità ovvero la sensatezza e la bontà del contenuto: si tratti di testi normativi o scientifici, essi sono allo stesso modo analizzati e criticati senza alcun riguardo per l’autorità che li ha posti e per le conseguenze che possono derivare dal rivelarne la falsità o l’insipienza. In nome del dovere del sapiens di votarsi alla ricerca della verità, Valla si getta temerariamente in contese assai rischiose, incurante del prezzo che tale libero esercizio della ragione critica possa esigere, nella totale insofferenza del principio d’autorità, sotto qualunque forma si presenti, offrendo tanto ai giuristi che agli umanisti una lezione di probità intellettuale e d’indipendenza di giudizio.
Opera, nunc primo [...] in unum volumen collecta [...], Basileae 1540 (in partic. Elegantiarum libri VI, pp. 3-235; Pro se et contra calumniatores ad Eugenium IIII Pont. Max. Apologia, pp. 795-800 [ma 804]; Antidoti in Pogium, ad Nicolaum Quintum Pontificem Max., lib. IV, pp. 325-66); rist. anast. in Opera omnia, a cura di E. Garin, 2° vol., Torino 1962.
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Opera omnia, a cura di E. Garin, 2 voll., Torino 1962.
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