Lorenzo Valla
Lorenzo Valla è una delle figure più rappresentative dell’Umanesimo italiano: egli dà vita a un progetto di profondo rinnovamento pratico e teoretico che, pur non privo di anticipazioni, non ha riscontro in altri umanisti per ampiezza, incisività e novità. Strumento principale nell’attuazione del progetto è l’ermeneutica filologica, la quale, basata sull’idea della storicità del linguaggio, diventa in Valla il mezzo più idoneo a scoprire la storia dei rapporti tra gli uomini, liberandoli da pregiudizi, falsità e deformazioni. Nuovo modo di guardare al mondo umano, per l’umanista la filologia costituisce anche una possibilità di agire su di esso e una forma originale di passione civile.
Lorenzo della Valle, detto comunemente Valla, nasce a Roma nel 1407 in una famiglia di origine piacentina, attiva presso la curia pontificia (il padre è avvocato concistoriale e lo zio materno segretario apostolico). Si forma in un ambiente di indirizzi e ideali umanistici, senza seguire un regolare curriculum di studi universitari; ha come maestri Leonardo Bruni, che lo perfeziona nella lingua latina, e Giovanni Aurispa, suo precettore di greco. A vent’anni si distingue per l’opuscolo, oggi perduto, De comparatione Ciceronis Quintilianique, nel quale opponeva all’imitazione esclusiva di Cicerone la propria stima per Quintiliano, teorico della retorica; da questo opuscolo fino all’ultimo scritto tutta l’opera sua è una continua, ardente polemica contro idoli antichi e nuovi, che non riposa solo sul suo temperamento provocatorio, ma anche sul mutamento culturale in atto all’epoca.
Nel 1430, fallito il tentativo di succedere allo zio nella carica di segretario apostolico, lascia Roma per la Lombardia, dove resta fino al 1433, insegnando per due anni retorica nello Studio di Pavia. In questo periodo compone e divulga le prime due redazioni del famoso dialogo intitolato, prima, De voluptate, poi De vero bono (nell’ultima più tarda revisione, De vero falsoque bono); frequenta inoltre il circolo umanistico pavese-milanese, dal quale mutua l’opposizione all’esegesi giuridica medievale in nome del metodo storico-filologico, che subito esprime con veemenza in un pamphlet (Epistola de insigniis et armis) contro il giurista Bartolo da Sassoferrato, accusato di spiegare il diritto romano senza alcun riguardo per la storia, la cultura e la lingua latine.
Costretto a lasciare Pavia per l’aspra reazione dei giuristi, dopo brevi soggiorni a Milano, Firenze e Genova e dopo un ulteriore, infruttuoso, tentativo di ottenere una sistemazione a Roma presso il nuovo pontefice Eugenio IV, si reca al servizio del re Alfonso V d’Aragona (prima a Gaeta, poi a Napoli), trascorrendo qui dodici anni fecondissimi (1435-47). Nei primi quattro compone il De libero arbitrio, con il quale apre nell’età moderna il problema della libertà umana; stende le prime redazioni dell’opera sua filosofica più ambiziosa e rivoluzionaria, la Dialectica; scrive le fortunatissime Elegantie lingue latine. Al 1440 appartiene la celebre orazione sulla pseudodonazione dell’imperatore Costantino; di poco posteriore è il dialogo De professione religiosorum. Oltre a numerose lettere e ad alcune traduzioni dal greco (le Favole di Esopo e parte dell’Iliade), compone nel 1445 i Gesta Ferdinandi regis Aragonum. Ma il periodo napoletano è anche contraddistinto da accese polemiche contro umanisti (Antonio da Rho, Antonio Beccadelli, Bartolomeo Facio) e da non innocue controversie con ecclesiastici di corte, teologi e vescovi del regno. A causa di queste e dello scontro con il predicatore francescano Antonio da Bitonto sulla composizione del Credo, Valla è chiamato davanti al tribunale inquisitoriale di Napoli, ma è salvato dall’intervento del re Alfonso.
Divenendo sempre più difficile la sua posizione a corte, egli compie un ulteriore tentativo per ritornare a Roma, segnato dall’Apologia pro se et contra calumniatores ad Eugenium papam IV (1446), ma vi riesce solo nel 1448, con il nuovo pontefice Niccolò V, che lo nomina scriptor apostolicus, gli dà l’incarico di tradurre Tucidide e, nel 1450, gli assegna la cattedra di retorica nello Studio. Nello stesso anno presenta al pontefice le Adnotationes in Novum Testamentum, che arditamente inaugurano la revisione critica della Volgata. Anche nell’ultimo periodo della sua vita non mancano polemiche e invettive (celebri gli Antidota in Pogium). Nel 1455 Callisto III lo nomina segretario apostolico e canonico della basilica di San Giovanni in Laterano. Le ultime due opere, il sermone De mysterio Eucharistiae, originale per il deciso rifiuto di spiegazioni teologiche dei dogmi religiosi e la forte connotazione mistico-escatologica, e l’Encomium sancti Thomae Aquinatis, pronunciato pochi mesi prima della morte (avvenuta il 1° agosto 1457), nel quale polemizza contro le deformazioni scolastiche della religione, chiudono l’agonismo di tutta una vita.
Facendo proprie le preoccupazioni umanistiche di rinnovamento morale e insieme la rivalutazione filosofica di Epicuro immanente all’indirizzo filologico dell’Umanesimo, nel primo dei suoi scritti a noi pervenuti, il dialogo De vero bono, Valla dispiega una concezione etica dalla carica rivoluzionaria: avverso alla netta contrapposizione di corpo-anima, carne-spirito, convinto dell’impossibilità per l’uomo di vivere secondo la pura ragione naturale, egli rielabora la nozione epicurea di voluptas e arditamente la pone come la più alta finalità umana anche in senso religioso, ossia come quel «sommo» o «vero bene» atto a instaurare un rapporto tra l’umano e il divino.
Nell’economia del dialogo – diviso in tre libri e costituito dai discorsi di tre principali interlocutori, nell’ordine, lo stoico, l’epicureo, il cristiano – viene così ad assumere un ruolo determinante l’intervento dell’‘epicureo’, che difatti occupa la parte quantitativamente più rilevante del dialogo intero. A lui Valla affida innanzitutto la difesa della natura e dei sensi contro la denigrazione ascetica di entrambi compiuta dall’interlocutore ‘stoico’ – la natura dell’epicureismo valliano è provvidenziale e benigna, ben diversa da quella operante a caso, ignara d’ogni finalità, di Epicuro. La maggior parte del primo libro è un’esaltazione della bontà del piacere fisico («omnis voluptas bona est»), della spontanea gioia di vivere, in cui la celebrazione dei «beni esteriori» creati dalla natura per l’uomo fa tutt’uno con quella delle gioie che essi procurano ai cinque sensi.
Attraverso l’interlocutore ‘epicureo’ Valla mostra anche l’insussistenza dell’honestas-sommo bene, della virtù premio a se stessa, propugnata dagli stoici, prendendo in esame proprio quei gesti famosi degli eroi della Roma repubblicana (Attilio Regolo, Quinto Mucio Scevola, Catone Uticense, Metello Pio Scipione ecc.) che gli umanisti suoi contemporanei erano tornati a esaltare come esempi di perfezione politico-morale; egli li libera dal velame mitico-retorico e li riconduce alle più semplici e universali ragioni della condotta umana, che raccoglie in una sola legge, quella dell’«utilità», definita come «ciò che è senza danno o, comunque, maggiore del danno stesso», e perciò generatrice di piacere e con esso identificata: «coloro dei quali si fa menzione, non hanno avuto alcuna considerazione dell’onestà, ma solo dell’utilità, alla quale vanno riferite tutte le cose» (De vero bono; trad. it. in Id., Scritti filosofici e religiosi, a cura di G. Radetti, 1953, p. 114); «l’amor di patria non va inteso come amore dell’onestà e della libertà romana, ma come amore della propria salvezza e del proprio onore nella patria libera» (p. 118). In tal modo viene a ricondurre la storia romana a impulsi di potenza, autorità, dominio, come farà ben più esplicitamente nell’orazione sulla falsa donazione di Costantino, con limpido precorrimento di Niccolò Machiavelli.
La virtù è concepibile soltanto quale mezzo per il raggiungimento del piacere, essenziale alla vita stessa dell’uomo; perciò non può essere, come vogliono gli stoici, il vero bene, che è fine e non mezzo. Essa è azione, la qualità della quale è relativa alle specifiche circostanze, nel principio della ricerca del maggior vantaggio, non solo individuale, ma anche collettivo – l’edonismo valliano è soprattutto ‘cinetico’ e legato al mondo delle relazioni umane, in ciò differente da altre rivalutazioni umanistiche dell’epicureismo nei termini di un piacere tutto interiore, dell’atarassia del saggio (Radetti 1955, pp. 602-603).
Insieme all’ideale stoico della virtù per la virtù Valla fa esplodere dall’interlocutore ‘epicureo’ anche l’ideale aristotelico della vita contemplativa, concepito in base alla statica nozione di Dio come puro intelletto. Innanzitutto rifiuta la vulgata distinzione di un piacere dei sensi e della mente, sia sulla base di una ragione legata alla sua teoria del linguaggio – se il nome è unico, unica è anche la res da esso indicata – sia in virtù di una concezione armonica, unitaria della natura e della conoscenza umana, in cui corpo e anima collaborano a vicenda per procurare l’uno all’altro la voluptas, la quale quindi è unica. Inoltre, si meraviglia che Aristotele, pur definendo l’uomo «animale politico», esorti a imitare la vita degli dei, che certo non svolgono attività civili; solidale con il movimento umanistico, Valla ritiene che l’uomo valga proprio per queste, per la sua capacità di istituire una società, rispettare leggi, svolgere pubblici uffici, collaborare con i suoi simili. Infine, con il solito gusto di strappare ogni velo agli atti umani, sfata anche il mito della contemplazione come desiderabile per se stessa e disinteressata: poiché contemplazione è progresso nell’apprendere, cioè attività comportante fatiche, essa sarà rivolta a un vantaggio o piacere, quale può essere il conseguimento della gloria; se concepita come fine a se stessa, non arreca che angoscia e disperazione.
I punti fondamentali dell’intervento ‘epicureo’ sono trasferiti nella stessa vita cristiana dal terzo interlocutore, perché neppure Dio si serve senza speranza del premio. La virtù-onestà cristiana non si pone come fine in sé – sarebbe ardua, dura, aspra –; e neppure quale mezzo per il conseguimento di utilità terrene; essa è gradino alla beatitudine celeste, la quale non è altro se non voluptas. Dio è amato non per se stesso – afferma arditamente Valla contro tutta una consolidata tradizione teologica –, ma in quanto causa efficiente della nostra beatitudine. Il fine ultimo è sempre il nostro piacere. Il cristianesimo viene in tal modo presentato come la forma più perfetta di edonismo, come il coronamento e la giustificazione della naturale tendenza umana a seguire e conquistare il piacere. Questa concezione rivela il suo lato polemico nel rinnovato attacco allo stoicismo da parte dell’interlocutore cristiano, che ora si allarga alle sue infiltrazioni più o meno dirette nel cristianesimo, precisamente, da un lato, all’ascetismo del monachesimo medievale, spregiatore della natura, dall’altro all’intellettualismo etico e al dottrinarismo teologico del De consolatione philosophiae di Boezio, ritenuto responsabile, con la sua opera di mediazione tra mondo greco e latino, d’aver immesso nel cristianesimo elementi pagani inconciliabili con la sua ispirazione più profonda. Il dialogo si conclude con la prefigurazione dei godimenti celesti, tratteggiati con estremo realismo e intesi in forma ‘sensuale’ per l’insistenza sulla resurrezione della carne.
Il De vero bono è senza dubbio uno dei documenti più significativi della filosofia del Rinascimento italiano, per il riscatto straordinario della voluptas – il disvalore per antonomasia secondo una plurisecolare tradizione filosofica e religiosa –, per il netto rifiuto di una svalutazione manichea del corporeo, per la tendenza a fondare la morale sull’osservazione psicologica, sui motivi reali delle azioni umane.
La rivendicazione di una nuova morale ‘umana’, capace di soddisfare l’‘uomo intero’, non è disgiunta in Valla dall’esigenza di un rinnovamento anche in campo religioso. Già presente nel De vero bono, tale esigenza diviene più decisa nel De libero arbitrio, dove prende la forma di una rivolta contro il connubio filosofia-teologia propugnato da Boezio e perpetuato dalla scolastica: connubio giunto per Valla, nel suo esito finale, non solo a creare un linguaggio incomprensibile, ma anche a esasperare le aporie della ragione umana e a smarrire il senso autentico del messaggio evangelico. Per mostrarne il fallimento, egli sceglie una questione importantissima – la compatibilità o meno di prescienza divina e libertà umana –, sulla quale il Medioevo latino si era arrovellato proprio per conciliare logica umana e fede in una divinità onnisciente e giusta. E la riprende dalla soluzione di Boezio: Dio, conoscendo tutto in un eterno istante semplicissimo, conosce il futuro come presente, senza quindi necessitarlo nel suo accadere. Questa soluzione, che aveva attraversato i secoli ed era stata adottata da Tommaso d’Aquino, è per Valla «immaginaria ed artificiosa», perché invoca una forma di conoscenza estranea all’esperienza umana; in altre parole, è astratta, senza valore pratico per la vita morale e religiosa dell’uomo. Viene rifiutata anche la soluzione elaborata da Giovanni Duns Scoto in alternativa a quella boeziano-tomista, la quale, lungi dal risolvere il problema della libertà umana, lo aggraverebbe, spostandolo sull’onnipotente volere divino, al quale l’uomo non può certo sottrarsi. Valla esprime icasticamente questa convinzione con una favola: Sesto Tarquinio, recatosi a consultare l’oracolo di Delfi, si sente predire la ignominiosa cacciata da Roma per i suoi misfatti e una misera fine. Alle sue proteste per il crudele destino riservatogli, Apollo, il veggente ovvero la prescienza divina, risponde di non esserne colpevole, essendo le sorti decise unicamente dalla volontà di Giove, la quale «come ha creato rapace il lupo, timida la lepre», così ha dato a Sesto «un animo malvagio e non emendabile». Segue il grido di disperazione e di ribellione di Sesto contro la divinità, che lo vuole malvagio:
E perché mio è il delitto piuttosto che di Giove? Se non posso agire che male, perché Giove mi condanna, per il suo crimine? Perché mi punisce senza mia colpa? Ciò che faccio non lo faccio per libero arbitrio ma per necessità: come posso oppormi alla sua potente volontà? (De libero arbitrio; trad. it. in Id., Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 272).
La disperata protesta, che chiude la prima parte del dialogo, ha la funzione di mostrare l’irresolubilità speculativa del problema della libertà umana e la vanità del tentativo, perpetuato dalla scolastica, di raggiungere filosoficamente Dio. Di qui la soluzione alternativa nella seconda parte del dialogo: alternativa, perché originata dall’esigenza di interiorizzare e ‘disintellettualizzare’ l’esperienza religiosa, e perciò tutta centrata sul vivere cristiano, sull’esercizio delle tre fondamentali virtù della fede, speranza e carità, che riaprono la comunicazione degli uomini con Dio, aiutandoli a credere nella bontà delle scelte divine, a sperare nella salvezza universale promessa da Cristo e a non disperare di una riforma interiore.
Il De libero arbitrio conosce la sua maggiore risonanza nella prima metà del Cinquecento quando, in seguito all’avvento della Riforma, si scatena il dibattito teologico sul libero e sul servo arbitrio. Erasmo da Rotterdam (De libero arbitrio, 1524), senza dubbio impressionato dalla favola di Sesto Tarquinio, che presa a sé non costituisce certo un’affermazione di libertà, lancia contro il dialogo l’accusa di precorrere la negazione luterana del servo arbitrio (anche se di fatto ne mancano i presupposti, cioè la contrapposizione radicale tra carne e spirito e l’asservimento dell’uomo a Satana). Martino Lutero (Tischreden, 1532) e Giovanni Calvino (Institutio christianae religionis, 1536) ne esprimono invece giudizi positivi. Più tardi, Gottfried W. von Leibniz mette in evidenza l’importanza filosofica del dialogo, che riassume e in parte traduce nella terza parte degli Essais de théodicée (1710); gli rimprovera però il difetto di «aver tagliato il nodo» piuttosto che scioglierlo; parte quindi dagli interrogativi di Sesto rimasti senza risposta e continua la favola, cercando di conciliare libertà umana e attività provvidenziale di Dio con la sua teoria dei mondi possibili (il «Sesto cattivo» è l’unico compossibile nel migliore dei mondi possibili scelto da Giove per la creazione). In verità, la caratteristica del dialogo valliano consiste proprio nell’esplicita rinuncia a dare una soluzione speculativa al problema della libertà umana di fronte a Dio, nella convinzione (questa, sì, di sapore preluterano) che la ragione umana non può né deve misurare con il suo metro la divinità; d’altra parte l’ironia di Voltaire nel Candide (1759) contro la tesi (autenticamente leibniziana) del «dottor Pangloss», secondo la quale viviamo nel migliore dei mondi possibili, darà ragione, indirettamente, alla convinzione di Valla.
Non lontano dallo spirito animatore del De libero arbitrio è il dialogo De professione religiosorum, in cui la discussione, tra Valla e un frate francescano, si svolge intorno a uno dei problemi teologici più caratteristici del costume religioso medievale: il valore dei voti pronunciati dai membri degli ordini regolari, ossia l’eventuale superiorità meritoria di quanti hanno scelto una vita che li distingue da quella degli altri credenti.
Il dialogo si allinea, per un verso, alla pubblicistica antifratesca di parecchi umanisti del Quattrocento che, legata a un’intuizione originale dell’uomo, all’emergere di una nuova classe culturale e a una rinnovata coscienza civile, accusa di ipocrita superbia e nullità sociale i membri degli ordini religiosi, valorizzando di contro il lavoro, la funzione sociale della ricchezza, la partecipazione alla vita civile. Per un altro verso, però, esso va oltre i termini della comune polemica per proporre una ben precisa concezione della vita religiosa, che intacca le stesse basi teologiche sulle quali si sostiene la vita conventuale. Sin da principio, infatti, Valla mette in questione la liceità, da un punto di vista religioso, del voto stesso, cioè della promessa a Dio e del giuramento che dovrebbe confermarla, appellandosi al Vangelo di Matteo (5, 33-37). Il giuramento è un’aggiunta superflua all’impegno che ogni cristiano ha di tener fede ai comandamenti e di esercitare la carità, quindi nulla aggiunge al valore e al merito dell’esercizio della virtù, la quale ci può essere dappertutto e al grado massimo, dentro e fuori gli ordini religiosi. Non costituiscono una prerogativa e un privilegio neppure i tre voti di obbedienza, povertà e castità, anzi dietro essi si celano o debolezza o ipocrisia:
In realtà ogni specie di voto, ogni impegno, ogni giuramento, ogni legge infine, e la professione religiosa è una legge, è stata escogitata per paura, ossia per parlare più esplicitamente, per i malvagi (De professione religiosorum; trad. it. in Id., Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 422).
Il voto di obbedienza nasce dal non saper concepire la vita umana che sotto il profilo di una subordinazione gerarchica e, in definitiva, dal non saper comandare a se stessi. Gli altri due voti dipendono dal pensare che vivere virtuosamente sia possibile soltanto in certe condizioni esterne, nella povertà o nella castità invece che nella ricchezza o nel matrimonio. Rifiutando una validità morale e religiosa per se stessa a una qualsiasi condizione esterna di vita, Valla sostiene che anche le ricchezze, quando siano strumenti per una vita più utile agli altri uomini e per un più efficace esercizio della carità cristiana, non sono affatto impedimento alla virtù, mentre può esserlo la povertà, che rende incapaci di porgere aiuto agli altri, quando non sia addirittura un’astuzia per procurarsi dagli altri e senza fatica l’indispensabile per vivere. Un analogo atteggiamento egli assume di fronte al voto di castità, da un lato ricorrendo ai testi di san Paolo in lode della santità del matrimonio e contro la soverchia esaltazione della verginità sessuale, dall’altro denunciando la corrente ipocrisia del celibato ecclesiastico e attribuendolo a una situazione storica e non a una necessità religiosa assoluta. Ne deriva la conclusione che lo stato religioso non è uno stato consolidato di superiorità etica: «la professione religiosa non rende migliori gli uomini, come non li rende il diaconato, il sacerdozio, l’episcopato, il papato» (p. 424). Così anche in questo opuscolo si afferma l’esigenza di un cristianesimo tutto interiore, adesione attiva al messaggio evangelico, di fronte alla quale poca importanza hanno le diverse condizioni degli uomini, ma moltissima la purità dell’intenzione e l’efficacia dell’azione morale; nello stesso tempo si ribadisce quel rispetto e accettazione piena della natura data da Dio agli uomini perché la usino e non perché la neghino, già affermati nel De vero bono e che qui rendono più decisa la polemica contro l’ascetismo monastico.
Oltre alla riforma morale e religiosa Valla progetta ed edifica un nuovo sistema del sapere, che ha il suo centro in una concezione del linguaggio dalla straordinaria energia critica e innovatrice, elaborata sull’Institutio oratoria di Quintiliano.
Il linguaggio è un prodotto umano, creato con un insieme di segni convenzionalmente, ma non arbitrariamente, ritenuti di volta in volta idonei per identificare le cose in modo chiaro e comunicabile. La prima lingua, nata nella storia, si è diversificata secondo le differenze delle società civili e delle loro culture, con due conseguenze fondamentali: ogni lingua nasce nell’uso, compresa la sua stessa formalizzazione grammaticale; ciascuna è per i membri di uno stesso popolo un ineludibile vincolo d’intesa, tale da non poter essere scisso o obliterato, inviolabile come le leggi. Nell’opera di Valla ritorna più volte l’immagine quintilianea, del resto destinata a fortuna presso gli umanisti italiani, della lingua come moneta d’uso corrente, che fonda legittimamente i commerci. Come chi batte moneta falsa reca danno alla comunità, perché ne intacca le transazioni commerciali, così chi non rispetta le caratteristiche d’uso del proprio sistema linguistico, impedisce e falsifica la comunicazione, minando vita civile e patrimonio culturale (Regoliosi 2003, pp. 97-108).
Questa concezione della lingua come prodotto storico e tessuto connettivo della società, porta con sé rilevanti conseguenze: l’ermeneutica filologica, per la quale la parola diventa documento da esaminare criticamente e collocare storicamente; il ripensamento originale del concetto di verità, intesa come evidenza di un significato, trasparente e univoco rapporto tra parola e cosa; il richiamo costante alla consuetudo loquendi, cioè al valore significante del sermo romanus non deformato dal bastardo e corrotto latino medievale, richiamo che viene a fare tutt’uno con l’esigenza di concretezza e chiarezza di pensiero; il primato della retorica, considerata come scienza del linguaggio con funzione interpretativa e veritativa (alla quale deve sottostare la filosofia stessa, se vuole attribuirsi la qualità di discorso vero). Tale primato si rispecchia nella costante valorizzazione della figura del retore, con la quale Valla si fa fervido interprete dell’istanza etico-civile dell’Umanesimo italiano.
Il «vero retore» assomma in sé conoscenza della lingua e tutela del patrimonio linguistico di un popolo, competenza morale, conoscenza dell’animo umano, impegno pedagogico-politico connesso con un forte senso dell’onestà interpretativa delle cose; anzi, è costantemente impegnato per la verità e per essa combatte senza paura di parlare, perciò è «come pastore e guida del popolo» (Laffranchi 1999, pp. 6-10, 29-35). Con questi presupposti, unitamente alla convinzione del linguaggio quale via maestra per la comprensione della realtà, Valla mette in atto una riforma generale del sapere basata sulla vis significandi o vis verborum, sull’intendimento del preciso significato delle parole; nasce così la Dialectica, ossia l’opera intitolata, in prima redazione, Repastinatio («nuova zappatura» o «potatura») dialectice et philosophie e, nell’ultima, Retractatio («correzione») totius dialectice cum fundamentis universe philosophie.
La Dialectica si presenta come una disamina critica dell’Organon aristotelico-scolastico (primo libro, logica dei termini; secondo, logica proposizionale; terzo, argomentazioni sillogistiche), ma di fatto viene a essere un nuovo ‘organo’ oppure ‘metodo’ che investe tutte le scienze.
Nel primo libro sono sottoposti al vaglio critico della vis significandi i termini fondamentali del discorso teorico della scolastica (logico, metafisico, fisico, psicologico, etico, teologico): crollano in questo modo le strutture portanti dell’aristotelismo scolastico e subentra una visione del mondo che riflette le strutture del linguaggio abituale, legata all’esperienza sensibile e al senso comune. Valga come esempio del nuovo metodo la repastinatio dei sei trascendentali e delle dieci categorie. Riguardo ai trascendentali (ens, aliquid, res, unum, verum, bonum) – così chiamati dalla scolastica per il carattere della massima universalità –, con una precisa analisi semantico-grammaticale Valla mostra la risoluzione di tutti nell’unico termine res. Il primo e fondamentale, ens, è un participio passato dalla forma verbale a quella nominale e come tale si risolve nel pronome che si cela in esso, cioè in id quod est, ossia in ea res quae est. Risulta quindi inutile, mutuando la sua vis significandi da res, incapace inoltre di determinare alcunché e di essere fonte di universalità. Analogamente unum, verum, bonum, essendo nomi che al singolare indicano sempre una qualità, non possono trascendere le categorie e, lungi dall’indicare dimensioni ontologiche della realtà, sono pensabili solo con riferimento a un soggetto concreto, per cui si risolvono in quaedam res, vera res, bona res, senza poter essere convertibili tra loro e con l’ens; anche aliquid non significa altro che aliqua res (Repastinatio dialectice et philosophie, ed. G. Zippel, 1° vol., 1982, pp. 11-41). Con la discussione sui trascendentali e con quella connessa sui sostantivi astratti in -itas (quiditas, perseitas, hecceitas ecc.) e i termini esse ed essentia l’umanista colpisce soprattutto le grandi metafisiche scolastiche dell’essere, mostrando contro di esse che un errore linguistico ha originato costruzioni astratte, in cui resta sconosciuto sia l’individuo sia il primo principio.
Parimenti drastica è la riduzione delle dieci categorie che l’analisi semantico-grammaticale porta a tre: substantia, qualitas e actio. La sostanza, conformemente all’etimologia della parola, è ciò che «sta al di sotto» delle qualità variabili e mutevoli della cosa, dando a queste unità ed esistenza; ha carattere individuale, ma di essa non può essere fornito alcun esempio, perché «non è percepibile, a differenza di qualità ed azione» (quia non apparet ut qualitas et actio); i termini homo o lapis indicano già una sostanza con determinazioni qualitative (Repastinatio, cit., 2° vol., 1982, p. 364). Quindi parlare della sostanza è sempre parlare delle sue qualità e azioni (se presenti). La qualità è la determinazione statica, mentre l’azione è quella dinamica, vera e propria operazione, attività che scaturisce dalla sostanza o dalla qualità: a esse si riducono le restanti sette categorie aristoteliche degli accidenti; così «grande», «figlio», «armato», «in piedi», «nel foro» sono tutte descrizioni qualitative, al pari di «grasso», «calvo»; il tempo, essendo lo «scorrere della vita» è azione, egualmente il «patire», perché è un sentire attivo da parte dell’anima (Repastinatio, cit., 1° vol., pp. 134-56).
La repastinatio delle categorie provoca la critica di una serie di nozioni aristoteliche, fondamentali a un tempo sul piano metafisico e fisico: l’accidente inteso come accadimento, l’ilemorfismo, i concetti di materia prima, privazione e natura, il binomio potenza e atto. L’assurdità di quest’ultimo, in particolare, viene mostrata facendo appello alla consuetudo loquendi, all’uso linguistico consueto e familiare, perché nessuno direbbe mai che un pezzo di legno è un armadio in potenza, bensì che può diventare un armadio («hoc lignum potest effici arca»), e neppure che esso è armadio in atto, perché né il legno «agisce» il suo essere armadio, né tanto meno il carpentiere «agisce» un armadio, ma lo «fa» o lo «costruisce» (pp. 127-29).
All’interno della trattazione della categoria della sostanza, Valla compie anche una radicale «correzione» dell’albero logico di Porfirio, che lo porta a dedicare un capitolo a quella sostanza incorporea increata che è Dio, nel quale, da un lato, affronta il problema della terminologia trinitaria, dall’altro critica il linguaggio della teologia naturale d’impostazione aristotelica. Riguardo al primo punto, ridà al termine persona l’originario significato qualitativo contro quello sostanziale attribuitogli da Boezio, intendendo la Trinità come rapporto tra più proprietà/qualità indisgiungibili da un’unica sostanza eppure distinte tra di esse. Il ripristino del significato qualitativo di persona avrà grande importanza presso gli antitrinitari dell’età della Riforma, Michele Serveto e gli eretici italiani, che esplicheranno sul piano teologico tutta l’energia critica e innovatrice dell’ermeneutica filologica valliana (Gaeta 1955, pp. 90-100). Riguardo al linguaggio teologico d’impronta aristotelica, l’umanista ne mostra i paradossi, in piena coerenza con l’avversione per la teologia speculativa scolastica e il nuovo modello di «discorso» su Dio, non più logico-deduttivo-sillogistico, ma retorico-epidittico, dispiegati in altre opere (Regoliosi 2003, pp. 122-27).
Nel secondo e terzo libro della Repastinatio, che a differenza del primo sono espressamente dialettici, Valla trasforma la dialettica medievale da disciplina della correttezza formale dell’argomentazione in arte al servizio del retore, l’unico che traduce le argomentazioni del dialettico nella realtà concreta. Difatti, per lui la dialettica è «una specie di conferma e confutazione», quindi semplicemente parte di una delle cinque parti della retorica, l’inventio. In questa prospettiva gli argomenti vengono valutati secondo la loro utilità, effettività e persuasività piuttosto che in termini di validità formale: per l’oratore non è tanto importante la forma di un argomento, quanto se esso funziona, cioè se convince l’avversario o il pubblico. La finalità retorica attribuita alla dialettica si colloca nell’orizzonte etico-civile della cultura umanistica che dà valore al dibattito pubblico, al confronto di idee, alla comunicazione e punta a un sapere utile, capace di educare moralmente gli uomini e di guidarli nella complessa e mutevole realtà fatta di rapporti sociali, fenomeni ed eventi quasi mai comprensibili e dominabili con ragionamenti apodittici. Così Valla sminuisce l’importanza del sillogismo aristotelico che considera inadatto a essere impiegato dagli oratori in quanto non riflette il modo naturale di parlare o argomentare: ne elimina la terza figura, riducendone le forme valide a otto. Di contro dà rilievo alle forme di argomentazione che non si lasciano costringere nella camicia di forza del sillogismo, in particolare a quelle che fanno sorgere l’aporia o la sospensione di giudizio, quali il dilemma, i paradossi e il sorìte (l’argomento del ‘mucchio’); al riguardo mostra come sia possibile svelarne il carattere sofistico ricorrendo non a una più profonda conoscenza delle regole logiche, bensì a un esame del significato e dell’uso delle parole e dei contesti nei quali occorrono (Lorenzo Valla, 2010, pp. 417-42).
La Dialectica è una delle opere dell’Umanesimo italiano che ha pesato di più sulla formazione del pensiero moderno. Non solo ha alimentato la critica antidogmatica degli eretici del Cinquecento giungendo fino a Thomas Hobbes, ma attraverso i testi pedagogici e metodologici di Rudolf Agricola, Erasmo, Juan Luis Vives, Pietro Ramo ha investito tutta la discussione europea su retorica e logica, raggiungendo, sia pure per nascosti sentieri, le Regulae ad directionem ingenii di René Descartes e le Institutiones oratoriae di Giambattista Vico (Laffranchi 1999, pp. 303-33).
L’opera valliana rimasta più celebre per l’applicazione dell’ermeneutica filologica è la De falso credita et ementita Constantini donatione (1440). Nata in un momento di forte tensione religiosa e politica, che vede, su un versante, lo scisma di Basilea con l’elezione dell’antipapa Felice V, sull’altro l’acuirsi della contesa, anche militare, per il regno di Napoli tra Alfonso d’Aragona, alla cui corte Valla si trova, e il pontefice Eugenio IV, sostenitore di Renato I d’Angiò, l’opera è uno scritto di battaglia, senza esclusione di colpi, uno strumento di pressione sull’opinione pubblica, destinato a contestare il diritto del pontefice di considerare il regno di Napoli come suo feudo e quindi di concederne l’investitura.
Contro la donazione di Costantino, per tutto il Medioevo, fin dai tempi di Ottone III, si erano levate le voci sia dei difensori dei diritti imperiali sia degli spiritualisti, con argomentazioni volte a provare più l’invalidità giuridica dell’atto che la sua inautenticità (quest’ultima mai veramente dimostrata). Solo sette anni prima di Valla, nel fervido clima intellettuale del concilio di Basilea, Niccolò da Cusa (De concordantia catholica, III) aveva formulato forti riserve sulla pretesa donazione, con ragioni di ordine strettamente storico-fattuale, bibliografico (nessuna menzione del Privilegium Constantini nelle fonti più antiche e attendibili), evitando però di entrare nel merito del contenuto e della forma del testo e, soprattutto, lasciando impregiudicata la questione di ciò che con quel testo si voleva provare. Valla invece vuol fare esplodere il testo e le sue conseguenze storiche.
Coerentemente con la propria idea dell’ars rhetorica come disciplina critica e interpretativa impegnata nella difesa della verità, egli dà all’opera la struttura letteraria dell’orazione articolandola nelle cinque parti canoniche (exordium, narratio, argumentatio, refutatio, peroratio). A parte il valore epocale dell’argumentatio, dove è provata la falsità del Privilegium, anche la narratio e la refutatio sono di grande interesse, perché vi è tratteggiata, seppure di scorcio, una dottrina della politica dagli accenti originali, capace di dare nuova tonalità agli argomenti ripresi dalla tradizione giuridica imperiale-anticurialista e dalla polemica religiosa contro la mondanizzazione della Chiesa.
La narratio è dedicata a mostrare l’inverosimiglianza storica della donazione, a partire da Costantino ‘uomo politico’ e dalla coesione politica interna dell’impero romano a quel tempo. Secondo Valla l’uomo politico, che ha in pugno il potere, ha una mente, una direttrice d’azione e una finalità diversa dal ‘privato’, perché caratterizzata dallo spirito di potenza e, come tale, volta unicamente all’accrescimento del potere, indispensabile per la conservazione del potere stesso. Risulta quindi inconcepibile che abbia ceduto tanta parte del suo dominio un uomo come Costantino, che aveva condotto guerre di conquista, che si era impadronito del potere senza badare ai mezzi e che di esso era debitore alla sua fazione, all’esercito che lo aveva imposto all’impero con la forza delle armi. Né può valere il motivo della conversione al cristianesimo, perché è atto più religioso conservare intatta la propria autorità, per esercitarla da cristiano, anziché abdicare (se poi Costantino voleva proprio abdicare, avrebbe dovuto restituire la libertà ai popoli soggetti, anziché sottometterli a un altro padrone).
Fin da subito ritorna l’attenzione ai moventi e agli impulsi delle azioni umane manifestata nel De vero bono, la quale nel corso dell’orazione si precisa come chiara intuizione delle forze reali, puramente umane, che muovono e attuano la storia, entro una vicenda tutta terrena in cui non è più possibile nessuna giustificazione teologica o finalistica. Ciò viene in chiaro, dapprima, nei discorsi che l’umanista immagina siano rivolti a Costantino dai parenti e dal portavoce del senato e del popolo romano, per dissuaderlo dalla donazione (ammessa per via puramente ipotetica la sua volontà di donare). Difatti, se Dante Alighieri (Monarchia, III, 10, 5) aveva dichiarato illecita la donazione costantiniana, richiamandosi all’essenza stessa dell’impero, alla sua necessità razionale e provvidenziale in quanto simbolo e strumento dell’unità del genere umano, Valla, nei discorsi dissuasori, si appella a motivi di stretta opportunità politica: dal punto di vista del diritto, il potere dell’imperatore è una mera usurpazione, nata e perpetuata nella violenza; riecheggiano più volte nell’orazione i motivi anticesariani e antimperiali dell’Umanesimo quattrocentesco. Unica sua giustificazione è la necessità di un potere centrale forte, capace di difendere i cittadini dagli attacchi esterni.
La donazione viene quindi condannata da Valla, non tanto perché rinuncia a una missione imperiale voluta da Dio, com’era per Dante, quanto perché attentato alla sicurezza dello Stato romano, che vedrebbe diminuite pericolosamente le proprie forze e sarebbe affidato, per tanta parte, ad amministratori impreparati e incapaci. Con un evidente anacronismo l’umanista fa dire al senato e al popolo romano che essi sono pronti a destituire Costantino qualora manchi al suo dovere: «Abbiamo messo a custodia dell’ovile un cane: se egli vuol fare la parte del lupo, lo cacciamo o lo uccidiamo» (De falso credita et ementita Constantini donatione; trad. it. in Id., Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 299).
Valla mostra di concepire come dinamico il rapporto principe-sudditi e in questo punto particolare del testo si riferisce più che alla classica questione del potere legittimo o tirannico del principe a «un problema di equilibrio di forze politiche che l’azione degli uomini nella storia instaura e rovescia senza posa» (Radetti 1950, p. 329): quando il principe non adempie più alla sua funzione di tutela e difesa di un popolo, il suo titolo è ipso facto estinto, come quello dell’imperatore romano quando non riuscì più a difendere le province invase dai barbari, e queste furono necessitate a scegliersi governi propri, acquistando in tal modo, anche per il futuro, il diritto all’indipendenza.
Ora, ammessa di nuovo per via puramente ipotetica la decisione di Costantino di donare, resta inconcepibile l’accettazione da parte di papa Silvestro I, perché l’esercizio del potere imperiale sarebbe stato in contraddizione con il suo ministero di vicario di Cristo e con la dimensione evangelica della Chiesa paleocristiana. Con il discorso che fa pronunciare al pontefice, immaginandolo nell’atto di rifiutare il preteso dono di Costantino, Valla delinea, mediante numerose citazioni neotestamentarie, la missione puramente spirituale del pastore di anime, che conquista i cuori al «regno dei cieli» con la sola «spada della parola di Dio» e che quindi non può fare alcuna concessione alla potenza mondana. Contrapponendo imperium a evangelium, egli esprime la convinzione dell’impossibilità per il cristianesimo di conservarsi tale quando abbandoni il piano della pura spiritualità e voglia essere qualcosa di diverso dalla semplice predicazione della parola di Dio; con ciò prepara il lettore al leitmotiv della penultima parte dell’orazione.
La parte centrale, che contiene la probatio, si sviluppa come esame linguistico, sintattico, antiquario, passo per passo, del testo del Privilegium Constantini, inserito, a partire dall’11° sec., nelle Paleae o aggiunte al Decretum di Graziano. Ignoranza della struttura dello Stato romano; anacronismi e contraddizioni; errori e imperfezioni nei riferimenti geografici; ignoranza della funzione e della materia di oggetti pur indicati con fin troppo insistente minuziosità; vocaboli con un significato non in uso nel 4° sec. oppure assolutamente inadeguati a ciò che vorrebbero significare; volgarità stilistiche impensabili sotto la penna di uno «scriba dei Cesari»; imitazioni palesi del linguaggio scritturale peraltro ignoto a Costantino: tutto questo costituisce prova chiara e innegabile che quel documento è un falso («questo discorso non è di Costantino ma di qualche stolto chierichetto, che non sa cosa dire né come dirlo», De falso credita et ementita Constantini donatione; trad. it. in Id., Scritti filosofici e religiosi, cit., p. 347). Forte per la dimostrata falsità, nella refutatio Valla scende sul terreno giuridico per confutare le pretese che, nonostante il falso documento, il papato potrebbe far valere invocando le conferme della donazione costantiniana fatte nei secoli dagli imperatori e, a un tempo, il «beneficio della prescrizione», cioè il lungo e pacifico possesso. Riguardo alle prime egli ritiene che siano state fatte solo per convenienza, per opportunità politica, non essendo l’imperatore latino altro che una creatura del papato; così la prima conferma storica gli appare frutto di una collusione del carolingio Ludovico I il Pio con il papa Pasquale I e l’ultima, recentissima, a opera dell’imperatore Sigismondo, frutto di un ricatto di Eugenio IV nei confronti di un uomo vecchio, ormai senza seguaci e quasi morto di fame (pp. 360-62).
Tuttavia, anche riconoscendo queste conferme, anzi ammettendo per ipotesi addirittura l’esistenza e la legittimità della stessa donazione costantiniana, il papato non può avanzare alcuna pretesa né sui territori perduti né su quanto tuttora possiede. Nel mondo politico, che ha per legge la forza e la conquista, c’è infatti per Valla un «vero titolo» che «nessun numero d’anni, per quanto grande, può abolire» (p. 369): non un diritto di signoria o di dominio, ma il diritto naturale di ogni popolo a rivendicare la propria libertà non appena o comunque possa farlo.
Riguardo ai territori perduti, riproponendo la sua concezione della storia come vicenda tutta umana, e perciò variabile e sempre aperta, egli può affermare che le stesse conquiste dei Romani non hanno creato alcun titolo permanente, alcun diritto non perituro di fronte ai popoli sottomessi e privati della loro libertà con la forza delle armi, perché «nessun delitto poté essere tanto grave da far sì che dei popoli meritassero un’eterna schiavitù» e perché «non è legge di natura che un popolo soggioghi un altro popolo» (p. 365) – diversamente da Dante, ancora una volta, e precorrendo Machiavelli, Valla guarda al dominio romano nella sua realtà, cioè in termini di potenza; per lui la persistenza della romanità è nella sfera della cultura, riassunta nella lingua, più che in quella politica (Regoliosi 1993, pp. 63-83). Un diritto nato con la forza vale finché dura la forza; venuta meno questa e perduto il possesso, è perduto anche il diritto, nel caso specifico il diritto del successore di Costantino, ossia il papato, sui popoli emersi dalla caduta dell’impero romano. Uno dei motivi di maggior sdegno di Valla nei confronti della politica pontificia sembra essere proprio la pretesa di attribuire una giustificazione giuridica o addirittura morale e religiosa alle proprie aspirazioni di dominio politico:
Tu reclami degli uomini, animali non solo liberi ma signori degli altri, che si sono rivendicati in libertà con la forza delle armi, e li reclami non con la forza stessa delle armi, ma con argomentazioni giuridiche, quasi tu sia un uomo e quelli delle bestie. Né puoi dire che i Romani giustamente abbiano portato la guerra alle altre nazioni e giustamente le abbiano spogliate della libertà (De falso credita et ementita Constantini donatione; trad. it. in Id., Scritti filosofici e geligiosi, cit., p. 365).
Riguardo poi all’attuale possesso del Patrimonio di San Pietro, a nulla può valere l’assenza di una conquista vera e propria e la lunga durata; la violenza che non ci fu all’inizio, c’è ora nella pretesa di mantenere un potere tirannico e inviso, per cui si ricade sotto la legge comune di tutte le dominazioni: la forza non può pretendere di diventare diritto e al potere tirannico è lecito ribellarsi:
Se le altre nazioni che sono state sotto Roma hanno il diritto di crearsi un re o di mantenere la repubblica, molto di più è lecito questo al popolo romano, specialmente contro la recente tirannide del papa [...]. La Chiesa Romana, essi dicono, ha il diritto di prescrizione per i suoi possessi [...]. Taci, lingua scellerata: la prescrizione che si dà delle cose mute ed irrazionali, tu l’applichi all’uomo, e possedere questo come schiavo quanto più a lungo dura tanto più è detestabile (pp. 368-89).
Valla sente così fortemente questo diritto naturale alla libertà nella sfera politica da metterlo in rapporto con la liberazione dalla tirannia del peccato a opera di Cristo:
Nel tempo della grazia il Cristiano sarà sottoposto ad una servitù eterna dal vicario di Cristo, di colui che ci ha redenti dalla schiavitù? Che dico, sarà anzi riportato in schiavitù dopo essere stato liberato ed essersi, da tempo, conquistata la libertà? (p. 364).
Tanto viva è in lui la fiducia nelle capacità di vita civile dell’uomo che, a differenza di quanto avverrà in Lutero, la «libertà del cristiano» non comporta una svalutazione delle opere; la vita interiore della fede, che è vita di libertà e autonomia, non si contrappone alla carnale schiavitù dell’uomo che è «nel giro del mondo», anzi deve potersi accompagnare a una partecipazione alla vita politica in libertà. Lontano da ogni forma di pessimismo, Valla non approda a una teoria della soggezione all’autorità secolare, all’affermazione della criminalità di chi rifiuta di piegarsi a essa, come farà il Lutero degli scritti contro i contadini: proclama piuttosto il diritto di ribellione in nome della libertà che mai si prescrive. In tal modo egli viene a riproporre quella visione dinamica del rapporto principe-popolo già abbozzata nella narratio: quando il principe pretende di governare contro il volere del popolo, quando non ha più il consenso, il suo potere diventa illegittimo e il popolo ha sempre il diritto di rivendicare la libertà:
Di nostra volontà siamo venuti a te, Sommo Pontefice, perché ci governassi; di nostra volontà ci allontaniamo ora da te, affinché più non ci governi [...]. Ma tu pretendi di governarci contro la nostra volontà, quasi fossimo dei pupilli, noi che forse potremmo più saggiamente governare te. Aggiungi a ciò le ingiurie tanto frequentemente fatte a questa città da te o dai tuoi magistrati [...] l’ingiuria ci costringe a ribellarci (p. 371).
La perorazione si apre attribuendo al papato (di nuovo con limpido precorrimento del Machiavelli) un influsso deleterio sull’Italia e altri Paesi – «vediamo che la rovina e la miseria di tutta l’Italia e di molte province è derivata da questa sola fonte» (p. 372) – e si chiude invocando un intervento pacifico dei principi e dei popoli cristiani su Eugenio IV, affinché abroghi il Privilegium Constantini, inizio della potenza papale e della falsificazione della prassi del vicario di Cristo. In linea con le esigenze di una riforma religiosa vive a quel tempo e portate avanti soprattutto dal Concilio di Basilea, Valla auspica un papato e una Chiesa che, ritornando alla dimensione evangelica originaria, siano istituzioni universali di fraternità e pace tra i popoli. Con ciò egli viene anche ad auspicare una moralizzazione della vita politica in tutto il mondo cristiano a opera di una Chiesa disancorata da ogni interesse mondano e tutrice soltanto di un ideale di giustizia e libertà umana.
L’orazione valliana ebbe una notevole eco per tutto il Quattrocento, ma la sua maggiore incidenza fu all’inizio del secolo successivo, con l’avvento della Riforma. In Germania fu edita nel 1518 da Hulrich von Hutten, con un’ironica lettera a Leone X, ristampata un anno dopo, e fu tradotta già nel 1520; ben presto divenne nelle mani di Lutero un’arma da guerra contro il papato. Se con essa Valla non aveva inteso affatto mettere in discussione il primato del pontefice romano quale capo indiscusso e indiscutibile della cristianità, Lutero si servì della falsità del Privilegium per additare il pontefice romano come l’anticristo, ovvero per portare avanti l’autonomia giuridica e spirituale della nazione germanica nell’ambito della cristianità. La diffusione e la fortuna del testo valliano continuarono nel Seicento in tutta l’Europa protestante intrecciandosi con le linee di propagazione del pensiero di Marsilio da Padova, riproposto come un paradigma per la polemica antipapale e anticlericale (Paganini 1999, pp. 517-23).
Opera omnia, Basileae 1540, 1543 (rist. anast., con aggiunta di testi supplementari, con una premessa di E. Garin, 2 voll., Torino 1962).
Edizioni critiche delle opere esaminate nel saggio:
De vero falsoque bono, ed. M. De Panizza Lorch, Bari 1970.
De falso credita et ementita Constantini donatione, hrsg. W. Setz, Weimar 1976.
Repastinatio dialectice et philosophie, ed. G. Zippel, 2 voll., Padova 1982.
Dialogue sur le libre-arbitre, éd. J. Chomarat, Paris 1983.
De professione religiosorum, ed. M. Cortesi, Padova 1986.
Per le traduzioni delle opere De vero falsoque bono; De falso credita et ementita Constantini donatione; De libero arbitrio; De professione religiosorum; Apologia ad Eugenium papam IV; Encomium sancti Thomae si veda Scritti filosofici e religiosi, a cura di G. Radetti, Firenze 1953 (rist. Roma 2009).
G. Radetti, La politica di Lorenzo Valla, «Giornale critico della filosofia italiana», 1950, 29, pp. 326-34.
F. Gaeta, Lorenzo Valla. Filologia e storia nell’Umanesimo italiano, Napoli 1955.
G. Radetti, La religione di Lorenzo Valla, in Medioevo e Rinascimento. Studi in onore di Bruno Nardi, Firenze 1955, pp. 597-620.
G. Antonazzi, Lorenzo Valla e la polemica sulla donazione di Costantino, Roma 1985.
M. De Panizza Lorch, A defense of life: Lorenzo Valla’s theory of pleasure, München 1985.
M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla. Elaborazione e montaggio delle “Elegantie”, Roma 1993.
M. Laffranchi, Dialettica e filosofia in Lorenzo Valla, Milano 1999.
G. Paganini, Thomas Hobbes e Lorenzo Valla. Critica umanistica e filosofia moderna, «Rinascimento», s. II, 1999, 39, pp. 515-68.
S. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo, riforma e controriforma. Studi e testi, Roma 2002.
M. Regoliosi, Il rinnovamento del lessico filosofico in Lorenzo Valla, in Lexiques et glossaires philosophiques de la Renaissance, éd. J. Hamesse, M. Fattori, Louvain-la-Neuve 2003, pp. 97-127.
Pubblicare il Valla, a cura di M. Regoliosi, Firenze 2008 (censimento dei manoscritti e delle edizioni a stampa del 15° e 16° sec.).
L. Nauta, In defense of common sense: Lorenzo Valla’s humanist critique of Scholastic philosophy, Cambridge (Mass.) 2009 (con bibl. prec.).
Lorenzo Valla. La riforma della lingua e della logica, Atti del Convegno nel VI centenario della nascita, Prato (4-7 giugno 2008), a cura di M. Regoliosi, 2 voll., Firenze 2010.