Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Céline, scrittore francese celebre per il romanzo Viaggio al termine della notte, esprime nelle sue opere una visione disperata e sarcastica dell’esistenza, attraverso uno stile realistico e aspramente colloquiale, particolarmente apprezzato dalla critica. Figura controversa per l’acceso antisemitismo e le accuse di collaborazionismo, ha composto pagine che rispecchiano con drammatica intensità l’angoscia contemporanea, perseguendo costantemente un’ardita invenzione linguistica.
Il senso della catastrofe
Louis Ferdinand Céline
Viaggio al termine della notte
È cominciata così. Io, avevo mai detto niente. Niente. È Arthur Ganate che mi ha fatto parlare. Arthur, uno studente, un fagiolo anche lui, un compagno. Ci troviamo dunque a Place Clichy. Era dopo pranzo. Vuol parlarmi. Lo ascolto. -Non restiamo fuori! mi dice lui. Torniamo dentro!-. Rientro con lui. Ecco. -Sta terrazza, attacca lui, va bene per le uova alla coque! Vieni di qua-. Allora, ci accorgiamo anche che non c’era nessuno per le strade, a causa del caldo; niente vetture, nulla. Quando fa molto freddo, lo stesso, non c’è nessuno per le strade; è lui, a quel che ricordo, che mi aveva detto in proposito: - Quelli di Parigi hanno sempre l’aria occupata, ma di fatto, vanno a passeggio da mattino a sera; prova ne è che quando non va bene per passeggiare, troppo freddo o troppo caldo, non li si vede più; son tutti dentro a prendersi il caffè con la crema e boccali di birra. È così! Il secolo della velocità! Dicono loro. Dove mai? Grandi cambiamenti! Ti raccontano loro. Che roba è? È cambiato niente, in verità. Continuano a stupirsi e basta. E nemmeno questo è nuovo per niente. Parole, e nemmeno tante, anche le parole che son cambiate! Due o tre di qui, di là, di quelle piccole...- Tutti fieri allora d’aver fatto risuonare queste utili verità, siamo rimasti là seduti, incantati, a guardare le dame del caffè.
L.F. Céline, Viaggio al termine della notte, Milano, Corbaccio, 1992
Céline: con questo pseudonimo ispirato al nome materno è conosciuto il medico e scrittore Louis-Ferdinand Destouches, considerato uno dei più grandi scrittori francesi del Novecento. La qualità della sua scrittura si rivela già nella tesi di laurea in medicina La vie et l’oeuvre de Philippe Ignace Semmelweis (1924), dalla quale emerge la tendenza all’autobiografismo, insieme al dolore della solitudine e dell’incomprensione espresso attraverso un linguaggio emotivo che prelude ai grandi romanzi. Dall’altra parte si rivela decisiva l’esperienza della prima guerra mondiale, alla quale partecipa come volontario, per descrivere poi nel Carnet du cuirassier Destouches l’angoscia del nulla: “Spesso ho pianto, preso da un’immensa disperazione, malgrado i miei diciassette anni; ho sentito di essere vuoto, di non trovare in me nulla dell’uomo che per lungo tempo avevo creduto di essere. È allora che nel fondo di quell’abisso ho cominciato a studiare il mio animo” (Note in “Herne”, 1965). Dalla disillusione sorge la consapevolezza del tormento di vivere, quasi un programma esistenziale indissolubilmente congiunto alle ragioni dell’arte: “[…] Ciò che voglio prima di tutto è vivere una vita colma d’incidenti che, spero, la Provvidenza vorrà mettere sulla mia strada e non finire come tanti che hanno fissato un solo polo di continuità amorfa su una terra e in una vita di cui essi non conoscono i meandri e che permetta di farsi un’educazione morale. Se proverò le grandi crisi che la vita mi riserva, forse, sarò meno infelice di un altro, perché voglio conoscere e sapere”.
Si sviluppa in questi anni il senso della catastrofe che domina il primo romanzo Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932), accolto come un capolavoro da molti critici – da Elie Faure a Louis Aragon, da André Gide a Lev Trockij, dalla “NRF” all’“Humanité” – e vincitore del premio Renaudot. In queste pagine si manifestano il disagio esistenziale, la ribellione estrema, l’ostilità anarchica contro tutti gli ideali collettivi di uno scrittore che avverte drammaticamente la crisi dei valori in un tempo turbato, con il senso acuto della tragedia e della dissoluzione. Il volto inquieto di Céline, la sua visione sarcastica e disperata della miseria materiale e spirituale si riflettono nella figura del protagonista, il medico Bardamu, il quale esplora un mondo ingiusto che sembra affondare nel buio della disperazione, come attesta l’epigrafe, strofa amara della Canzone delle Guardie Svizzere (1793): “Notre vie est un voyage / Dans l’hiver et dans la Nuit, / Nous cherchons notre passage / Dans le ciel où rien ne luit”. Inizia così il viaggio conoscitivo nei territori devastati dalla guerra, alla scoperta dell’assurdo e del non senso: “Mai m’ero sentito così inutile tra tutte quelle pallottole e la luce di quel sole. Un’immensa, universale presa in giro”. Nel viaggio incessante dalla guerra all’Africa e all’America, sino al ritorno in Francia, si rispecchia l’ansia di conoscenza di un antieroe del tutto disilluso che compie la discesa negli inferi della contemporaneità e dell’io, percorrendo una sorta di itinerario di formazione al negativo che gli manifesta l’incoerenza e l’assurdità della vita, con il tramonto definitivo delle “illusioni collettive”. Al tempo stesso si dissolve la fiducia nell’uomo, del quale viene rappresentata in modo quasi bruegheliano la natura degradata, chiusa in un orizzonte di bassi istinti fisiologici. Prevalgono invece la disperazione e la vanità del tutto, immagine del caos raffigurato da Céline con estrema originalità anche attraverso la costruzione di un linguaggio inedito che attinge all’argot e si rifonde in un dettato sottilmente letterario, per riprodurre un finto parlato plebeo inteso a cogliere la lingua dell’anima e delle cose. È una scrittura cruda e aspramente colloquiale, contraddistinta da sintassi disarticolata, stile ellittico, ritmo rapido e incisivo, uso della punteggiatura con valore emotivo e musicale, uniti a una tendenza alla deformazione grottesca che si trasforma sovente nell’ingiuria, espressione estrema del risentimento nell’arduo equilibrio tra imprecazione e humour tagliente. La parola diviene strumento dell’ironia cupa, tra nausea dell’abiezione e comicità amara, tra angoscia di morte e pessimismo esasperato in propositi nichilisti, presentimento tragico dell’apocalisse.
La ricerca linguistica continua in Morte a credito (Mort à crédit, 1936), romanzo autobiografico che narra l’antefatto del Voyage, perfezionando la trascrizione mimetica dell’oralità per conseguire l’effetto dell’emozione autentica e immediata. Qui il célinismo raggiunge una sonorità e una violenza senza precedenti attraverso la frase spezzata, anzi tritata, in sequenze brevi: è lo style haché, frantumazione stilistica che infrange la struttura classica del periodo anche con il ripetersi ossessivo dei punti di sospensione, a riprodurre l’intensità delirante dell’allucinazione, della collera e della paura che Giorgio Caproni ha cercato di trasporre in italiano. L’invenzione tecnica si congiunge a una costante indagine conoscitiva, studio disincantato della natura umana colta nei suoi eccessi, visione del disordine tragico e grottesco dominato da un oscuro sentimento di annullamento. Nel delirio della parola si accentua l’idea del débraillé, come la definisce Jean-Pierre Richard, ovvero la visione del disfacimento e della decomposizione, mentre l’esasperazione verbale diventa un mezzo di ricerca, di esplorazione della verità, come dice Carlo Bo: “Se dovessimo affidarci a un’ultima immagine, bisognerebbe pensare a Céline come a una vittima della realtà che accetta di trasformarsi in giocoliere, in creatore di spettacoli, in inventore di materiale d’illusione, come a uno che balla su un deserto di rovine e di morte”. Tutto da notare in questo romanzo è il gusto per la trascrizione fantasmagorica, la trasfigurazione fantastica, spettacolare, oltre i confini del delirio visionario.
I pamphlets antisemiti e le ultime opere
Nelle opere scritte dopo il 1936, le tendenze ideologiche all’anarchia assoluta, unite agli atteggiamenti misantropici, fobici, paranoici, conducono Céline a pubblicare, nello sgomento del mondo letterario e politico francese, veementi pamphlets antisemiti, da Bagatelle per un massacro (Bagatelles pour un massacre, 1937), violenta invettiva contro gli ebrei, a La scuola dei cadaveri (L’école des cadavres, 1938) e Les beaux draps (1941). Si tratta di un approdo estremamente controverso, interpretato come un innocuo gioco letterario (André Gide), come un’insorgenza sanguinaria piccolo- borghese (Jean-Paul Sartre), come un episodio di delirio paranoico, come la conseguenza dell’anarchismo “nero”, come pura e semplice degradazione morale. Queste opere condannano inevitabilmente Céline alla fama di “belva”, “mostro”, maudit, mostrando le contraddizioni di uno scrittore non per nulla protagonista di un vero e proprio “caso” che continua a dividere la critica. Non contiene invece pregiudizi antisemiti Guignol’s Band I (Banda dei burattini, 1944), romanzo allusivo alla condizione grottesca dell’uomo, momento di transizione tra l’aggressività del periodo libellista e il vittimismo degli anni dell’espiazione, al quale segue Guignol’s Band II, pubblicato postumo con il titolo Le pont de Londres (1964). In seguito all’accusa di collaborazionismo e di alto tradimento, nel 1945 viene detenuto per 14 mesi a Copenhagen, dove si è rifugiato, per essere poi condannato una seconda volta nel 1950, e infine amnistiato. Il viaggio attraverso il male e la negatività si conclude nella trilogia dedicata alla peregrinazione nella Germania distrutta, testimonianza ambigua e dolente del “crepuscolo degli idoli”: Da un castello all’altro (D’un château à l’autre, 1957), Nord (1960) e Rigodon (1969, postumo). Nel 1951 ritorna in Francia e scrive ironizzando sulla sorte del mondo e su se stesso (Casse-pipe, 1952; Féerie pour une autre fois, 1952; Normance, 1954; Entretiens avec le professeur X, 1955), confermando l’idea di una scrittura per molti aspetti innovativa, soprattutto per la petite musique – il famoso ritmo “staccato” –, ma densa di contraddizioni e aporie, costantemente dominata dal senso cupo della dissoluzione.