Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nato in Estonia ed emigrato negli Stati Uniti, Louis I. Kahn è uno dei protagonisti della cultura architettonica del Novecento. Attraverso le tappe più significative della vita e del lavoro dell’architetto, si ricostruisce la natura della classicità che distingue l’opera matura di Kahn, e se ne riconoscono gli elementi caratteristici, quali, ad esempio, il rigore della geometria, il sapiente uso dei materiali, il ruolo fondamentale svolto dalla luce nella modellazione di spazi e volumi.
A servizio delle istituzioni
Nato in Estonia, da famiglia ebrea, ed emigrato negli Stati Uniti all’età di soli cinque anni, Louis Isadore Kahn è tra i principali protagonisti della cultura architettonica del Novecento. Raggiunta la fama nel 1951, con la costruzione del nuovo edificio per la Yale Art Gallery (New Haven), Kahn realizza nei 20 anni successivi riconosciuti capolavori, tra i quali vanno ricordati il Richards Medical Research Building a Philadelphia (1957-1965), il Salk Institute for Biological Studies a La Jolla (1959-1965), la biblioteca per la Phillips Exeter Academy a Exeter (1965-1972), il Kimbell Art Museum di Fort Worth (1966-1972), l’Indian Institute of Management ad Ahmedabad (1962-1974), il complesso del Parlamento a Dacca (1962-1974). Una monumentale eloquenza contraddisitingue tali opere, concepite per accogliere, come egli stesso spiega ripetutamente, le principali “istituzioni” degli uomini. È nel corso degli anni Cinquanta, infatti, che Kahn matura la convinzione che il fondamento dell’architettura coincida con la concezione di spazi al servizio delle istituzioni, spazi non soltanto funzionali all’attività che in essi si svolge, bensì concepiti per accogliere e testimoniare i principali valori che regolano e fondano la società civile: “Uno dei presupposti del mio lavoro è rappresentato dalla consapevolezza che ogni edificio appartiene a un’istituzione dell’uomo. Osservo con la più profonda venerazione le aspirazioni dalle quali è scaturito il formarsi delle istituzioni e la bellezza delle interpretazioni che ne ha dato l’architettura [...]. Le aspirazioni dell’uomo, ciò che le ispira, sono l’inizio del lavoro dell’architetto [...] La più potente di tutte, l’ispirazione che fonda l’esprimere, è all’origine di qualunque forma di espressione artistica. E l’arte è il linguaggio di Dio” (conferenza tenuta al Politecnico di Milano nel 1967). Da simili aspirazioni, e non già da esigenze funzionali e strutturali, trae allora origine il lavoro di Kahn, che si afferma per la radicalità delle domande che lo sostengono e lo accompagnano. Pochi architetti, infatti, si sono interrogati con altrettanta insistenza sul “perché” e il “come” del loro fare, interpretando peraltro in maniera magistrale inquietudini condivise dai più impegnati colleghi contemporanei.
Tra l’Ordine e il Progetto: lo spazio dell’arte
Conclusi gli studi alla Pennsylvania Academy of Fine Arts a Philadelphia, è soprattutto l’amicizia che, dai primi anni Quaranta, lo unisce a Oscar Stonorov e George Howe a stimolare decisive riflessioni circa il senso e le finalità dell’architettura; il primo è curatore, tra l’altro, del primo volume dell’opera completa di Le Corbusier, il secondo è autore, insieme a William E. Lescaze (1896-1969), del Philadelphia Saving Fund Society, nonché direttore del dipartimento di architettura della Yale University, dove Kahn insegna dal 1947 al 1954. Significativo, al proposito, il saggio Ordine, pubblicato su “Perspecta” nel 1955, il cui ermetismo tradisce l’ostinazione con cui Kahn si impegna a definire quelle che egli considera le due “anime” del fare artistico, da allora continuamente indagate negli scritti: l’Ordine, vale a dire il “Cosa”, e il Progetto, vale a dire il “Come”. Mentre quest’ultimo è necessariamente vincolato alle circostanze (“Nel Progetto risiedono i significati del dove, con cosa, del quando, con quanto”), il Cosa, al contrario, preesiste alla consapevolezza dell’individuo e viene descritto come ciò che non è soggetto a divenire, vale a dire “ciò che è”. Nel problematico “intervallo” che viene in tal modo a definirsi, è forse possibile collocare l’intera opera di Kahn. Ed è un vero e proprio corpo a corpo quello che l’architetto ingaggia con il tempo e la materia (le “circostanze”, appunto), nel tentativo di rendere percepibile la distanza che separa le opere degli uomini da un Ordine intangibile ed inesprimibile. L’architettura è, infatti, per Kahn null’altro che manifestazione di una perdita e di un rimpianto; ciò nonostante, all’Inizio, e alla “meraviglia” che esso suscita, non è lecito rinunciare. “I risultati non sono mai all’altezza dell’aspirazione dello spirito a essere”, si legge infatti in Forma e Progetto, “anche una costruzione deve iniziare nell’incommensurabile e passare attraverso il misurabile per essere. È l’unico modo in cui si può costruire; l’unica via che rende reale il costruire passa attraverso il misurabile. Bisogna seguire le leggi, ma, alla fine, quando una costruzione diviene parte del mondo vivente, comunica qualità incommensurabili. Termina il progetto fatto di quantità, di mattoni, di metodi costruttivi, di ingegneria e lo spirito del suo esserci inizia a manifestarsi”. L’“incommensurabile” costituisce allora il riferimento dell’intera opera di Kahn e ciascun edificio prende forma in quanto costruzione volta a identificare precisi “luoghi” (luoghi di culto, dimore o altre istituzioni); vale a dire, spazi dell’essere, che devono esprimere la verità della loro origine e natura. “Se questo pensiero muore”, egli conclude, “muore l’architettura”. Ciò detto, geometria, struttura e luce costituiscono gli strumenti di cui l’architetto si avvale nel comporre spazi così immaginati.
Geometria, struttura, luce
La geometria, innanzitutto, distingue la ricerca di Kahn sin dai primi anni Cinquanta. Le figure elementari del cerchio e del quadrato, in particolare, si ripetono con insistenza in schizzi e planimetrie, rivelandosi, al contempo, strumento di controllo del processo progettuale e poetica soglia tra “incommensurabile” e “misurabile”: la geometria, infatti, reca in sé la compiutezza dell’idea iniziale, opponendo un infaticabile lavoro di resistenza al “consumo” cui il tempo sottopone ogni fare. Eloquente, in questo senso, il monumentale complesso del Palazzo dell’Assemblea di Dacca: nei prospetti esterni sovradimensionate aperture ripetono le tre forme fondamentali del triangolo, del rettangolo e del cerchio, che già individuano la planimetria del centro legislativo, serrando in un’inscalfibile sintassi l’intero organismo architettonico.
Massima cura è rivolta inoltre, da Kahn, alla scelta e alla lavorazione dei materiali. Il calcestruzzo armato faccia a vista, ad esempio, si impone per raffinatezza di lavorazione negli edifici dei laboratori del Salk Institute, rasentando la perfezione nelle volte a cicloide che scandiscono il profilo del Kimbell Museum. Allo stesso modo, il laterizio viene adottato con magistrale perizia nei muri perimetrali della biblioteca di Exeter (con esiti, invece, meno felici nell’Institute of Management di Ahmedabad, verosimilmente a causa dell’inesperienza della manodopera locale), consentendo di individuare nella concretezza costruttiva un aspetto non trascurabile dell’opera dell’architetto di Philadelphia.
Alla luce naturale, infine, Kahn affida un ruolo insostituibile nella modellazione di spazi e volumi, dando così prova di aver maturato la lezione appresa nel corso del soggiorno romano all’Accademia Americana (dal dicembre 1950 al febbraio 1951). Le massicce pareti, che contraddistinguono gli interventi degli anni Sessanta (dalla chiesa unitariana di Rochester sino al centro legislativo in Bangladesh), sono concepite per proteggere i luoghi delle Istituzioni ma, allo stesso tempo, consentono alla luce di scivolare all’interno, modificandone la percezione nel corso del giorno. La luce cala dall’alto, si insinua tra le aperture prive di vetro dei muri esterni (opportunamente studiate sin dal 1961, con il progetto per il Consolato americano di Luanda, in Angola), generando suggestivi effetti chiaroscurali. Luce e ombra animano con tecnica inconfondibile gli edifici di Kahn, i quali si offrono al visitatore non soltanto come una magistrale lezione costruttiva ma anche come indicibile esempio di poesia. Struttura e luce, come anticipato, concorrono nel definire le qualità dello spazio architettonico, che si impone come indiscusso protagonista. Esso è al centro delle riflessioni di Kahn almeno dalla fine degli anni Cinquanta, quando, con il progetto per la chiesa unitariana di Rochester, vi aveva individuato “l’inizio dell’architettura”. “Con lo spazio inizia l’architettura”, si legge infatti in Lo spazio, la strada e il patto tra gli uomini del 1971: “È il luogo della mente. Quando ti trovi in uno spazio, con le sue dimensioni, la sua struttura, la sua luce, tu rispondi al suo carattere, al suo spirito; capisci che tutto ciò che l’uomo propone e realizza diventa una vita”. Lungi dall’essere un mero principio compositivo, lo spazio, in tal modo definito, si carica di valenze simboliche che alludono a una personale filosofia, pazientemente messa a punto nel tempo a partire dall’inquietudine provata al cospetto del Pantheon, visitato in occasione del viaggio a Roma del 1950. Lo studio dell’architettura romana costituisce un passaggio cruciale nella formazione di Kahn. Osservando le antiche rovine, egli apprende, infatti, una lezione complessa e nell’Antico individua la “fonte” (e non già un “modello” alla maniera degli allievi dell’École des Beaux-Arts) di inesauribili domande circa l’origine e il senso di ogni fare. Ridisegnando gli edifici di Adriano (riscoperti, in seguito, sulle tavole di Piranesi, ampiamente note negli ambienti della University of Pennsylvania, dove Kahn insegna dal 1955), egli elabora, per la prima volta, quell’idea di architettura intesa come ricerca intorno alle istituzioni, cui darà forma nei lavori maturi. Ed è la perfezione senza tempo del Pantheon che le sue opere continuamente ambiscono a rievocare: si osservino, al proposito, i maestosi vuoti, attorno cui si organizzano gli ambienti della biblioteca di Exeter o del Palazzo dell’Assemblea di Dacca. Nello spazio del monumento romano (“finalmente liberato dalla schiavitù del servire”), Kahn avverte, infatti, quella aspirazione originaria che preesiste e ispira ogni suo fare di costruttore e che tuttavia l’architettura (in quanto luce “consumata”) può soltanto aspirare a esprimere. “Quando l’edificio è lì completo e in funzione, sembra voglia parlare dell’avventura del suo farsi. Ma tutto ciò che narra del servire rende questa storia di scarso interesse. Quando l’uso si esaurisce e la costruzione diviene una rovina, ritorna a essere percepibile la meraviglia del suo inizio” (Architettura: silenzio e luce, 1970). Una meraviglia intorno alla quale Kahn non cesserà d’allora in avanti di interrogarsi e che costituisce la linfa sotterranea che nutre l’intera sua opera.