Luca Pacioli
Personaggio dai molteplici talenti, Luca Pacioli, formatosi all’aritmetica commerciale e iniziata parallelamente l’attività mercantile, cambiò presto la priorità dei suoi interessi. Entrato nell’ordine dei frati francescani, si dedicò per lo più all’insegnamento di matematica, algebra e geometria in importanti scuole. Lavorò a stretto contatto con personalità eminenti, tra cui Piero della Francesca, Leon Battista Alberti e soprattutto Leonardo da Vinci. Nella sua Summa, che è parte di un insieme scientificamente interessante di opere scritte nell’arco di un quarantennio, espose dettagliatamente il funzionamento della partita doppia, e fu per questo fatto – del tutto secondario nella sua biografia – che divenne famoso.
Luca Pacioli nacque attorno al 1445 a Borgo San Sepolcro, presso Arezzo; il suo nome si trova anche nella forma di Luca Paciolo o Paciuolo e Luca di Borgo. Diciannovenne, si trasferì a Venezia come precettore nella casa di Antonio Rompiasi, mercante che abitava nel quartiere della Giudecca. Messosi al suo servizio, lo accompagnò in molti viaggi di affari, arricchendo così le proprie conoscenze ragionieristiche e le proprie competenze pratiche nel campo della mercatura. Con il figlio di Rompiasi seguì le lezioni di aritmetica commerciale di Domenico Bragadin, pubblico lettore di matematiche della Repubblica nella Scuola di Rialto. Nel 1468 diventò egli stesso pubblico lettore di matematica e canonico in San Marco; nel 1470 scrisse il suo primo libro di matematica (andato perduto), dedicandolo ai tre figli di Rompiasi.
All’inizio degli anni Settanta, su consiglio di Piero della Francesca, si trasferì a Roma, dove abitò nella casa del famoso architetto, matematico e filosofo Leon Battista Alberti. Tra il 1472 e il 1474 entrò in contatto, forse a Urbino, anche con Donato Bramante e Francesco di Giorgio Martini. In un anno imprecisato tra il 1470 e il 1480 aderì alla regola dell’ordine dei frati francescani minori, diventando per i suoi contemporanei fra Luca di Borgo.
Per il resto della vita si dedicò allo studio e all’insegnamento della matematica in diverse città, tra cui Perugia – dove scrisse per gli allievi un trattato di algebra (1477-78) – e Zara – dove ne scrisse, sempre a scopo didattico, un secondo (1481). Si spostò quindi a Napoli – dove insegnò anche arte militare – e, successivamente, a Padova e a Roma (1489) dove ebbe l’incarico di pubblico lettore alla Sapienza.
Tra il 1482 e il 1492 scrisse il Libellus in tres partiales tractatus divisus, dedicato a Piero Soderini e contenente cinquantacinque problemi sul triangolo, cerchio e poligoni regolari, trentasei problemi sui poliedri regolari e quarantasette su problemi vari di intersezioni tra poliedri (Ulivi 1994, pp. 65-66).
Nel 1493 i suoi superiori dell’ordine dei frati francescani vollero interrompere i suoi continui cambi di residenza, e gli ingiunsero di rientrare ad Assisi: egli obbedì, ma vi si fermò per un solo anno. Nel 1494 tornò a Venezia, dove stampò presso la tipografia di Paganino de’ Paganini la propria Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità (2a ed. 1523), il primo libro stampato di aritmetica e algebra, che proprio per questo ebbe assai ampia diffusione e portò al suo autore grande notorietà.
Tra il 1496 e il 1499 Pacioli lavorò a Milano, stipendiato dal duca Ludovico Sforza (detto il Moro), anche se non risiedette nella sua corte continuativamente. Gli eventi che caratterizzano maggiormente questo periodo della sua vita sono l’amicizia e la collaborazione scientifica con Leonardo da Vinci, che lo accettò «as a teacher and a master» (Duvernoy 2008, p. 39), e la stesura del De divina proportione (1496), che andò in stampa a Venezia nel 1509.
Del periodo 1496-99 è anche il Libellus corporum regularium, in cui Pacioli tratta dei poliedri regolari. Molti contemporanei giudicarono quest’opera un plagio dal Libellus de quinque corporibus regularibus di Piero della Francesca: quest’accusa, ribadita da Girolamo Mancini all’inizio del Novecento, è stata recentemente giudicata inconsistente, perché «Pacioli non aveva alcun bisogno di accrescere la propria fama rubando le idee e le parole di un amico» (Marinoni 1982, p. 8).
Nel 1498 Pacioli scrisse il De viribus quantitatis, la cui unica copia manoscritta è conservata nella Biblioteca universitaria di Bologna. Quest’opera è divisa in tre parti. La prima contiene una raccolta di giochi e problemi matematici e algebrici, più ampia di tutte quelle compilate fino allora, tanto che fu ristampata fino al 17° sec.; tra questi giochi ci sono anche quadrati magici, precedenti quello che Albrecht Dürer incise nella sua Malinconia del 1514, considerato erroneamente il primo mai realizzato. La seconda parte contiene problemi geometrici e giochi fisico-matematici; la terza raccoglie ricette e giochi non di carattere scientifico.
Nel 1499, quando il re di Francia Luigi XII invase il ducato di Milano, spingendo Ludovico il Moro alla fuga, Pacioli e Leonardo trovarono rifugio a Mantova sotto la protezione della marchesa Isabella d’Este, per spostarsi successivamente a Venezia e infine a Firenze.
Attorno al 1500 Pacioli compose in forma manoscritta e in lingua latina il trattato De ludis, da lui chiamato anche Schifanoia e dedicato a Isabella d’Este; di esso fa parte il De ludo scachorum, analisi del gioco degli scacchi con le soluzioni di cento problemi. Quest’ultimo trattato, per secoli creduto perduto, è stato ritrovato nel 2006 a Gorizia dal bibliologo Duilio Contin, nella raccolta del conte Guglielmo Coronini Cronberg; il manoscritto è stato attribuito con piena certezza a Pacioli, sia per la scrittura e le caratteristiche grafiche, sia per lo stile del linguaggio.
Tra il 1501 e il 1502 Pacioli si trasferì a Bologna, e fu nominato membro del gruppo dei lettori del prestigioso Studio bolognese; oltre che a Bologna insegnò anche a Pisa, Firenze, Perugia, e infine fu chiamato da papa Leone X all’Archiginnasio presso la corte pontificia, dove incontrò nuovamente Leonardo.
Cercò con grande impegno, anche con una supplica, di convincere il doge di Venezia a far stampare alcune sue opere, e questo ‘privilegio’ gli venne infine concesso, ma per soli quindici anni (Ulivi 1994, p. 28).
Infine, nel 1509, pubblicò l’edizione latina degli Elementi di Euclide: si tratta di una verifica della traduzione dall’arabo che nel 13° sec. aveva eseguito Giovanni Campano; è andata invece perduta la traduzione manoscritta in italiano della stessa opera.
Nel 1510 fu nominato commissario del convento francescano di Borgo, ma continuò ad avere contrasti con i confratelli, finché non venne a più miti consigli, e finalmente nel 1516 si rappacificò con loro, rinunciando ai suoi privilegi.
Non sono conosciuti con certezza né la data né il luogo della sua morte, anche se la più meticolosa e preziosa biografia di Pacioli situa la morte «tra il 15 aprile e il 20 ottobre 1517, forse a San Sepolcro, ma nessun documento ce ne fornisce la conferma» (Ulivi 1994, p. 31).
Benché di Pacioli rimangano solo tre opere a stampa, qui si terrà conto della sua produzione nell’insieme: la manualistica, i capitoli della Summa (tra cui quello contenente la descrizione della partita doppia) e gli scritti matematici e di puro svago.
Il voluminoso trattato Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, dedicato a Guidobaldo da Montefeltro, non è originale quanto ai contenuti che vi sono solo raccolti e sistematizzati. Si basa infatti sui manuali che Pacioli aveva scritto in precedenza per i propri allievi nelle numerose città dove si trovò a insegnare. La sua esperienza di docente di matematica e geometria gli consentì però di arricchire il trattato di nuove parti, una sulla proporzione dell’architettura in rapporto con quelle del corpo umano e l’altra raffigurante lettere alfabetiche disegnate con riga e compasso.
Sullo sfondo della Summa, che è divisa in Tractati (probabilmente le lezioni, nell’ordine da lui impartite), sono riconoscibili tanti scritti antichi e medievali. Pacioli stesso dichiara di essere debitore di Euclide (vissuto intorno al 300 a.C.), di Severino Boezio (480 ca.-526 ca.), del matematico e astronomo inglese Giovanni Sacrobosco (John of Holywood o of Halifax, fine 12° sec.-1244 o 1256) e del matematico pisano Leonardo Fibonacci (detto Leonardo Pisano, 1175 ca.-1235 ca.), che nel suo Liber abaci (1202) aveva per primo diffuso in Europa le cifre indo-arabe, rendendo più semplici le operazioni di calcolo, e aveva, inconsapevolmente, inserito nei suoi studi la successione ricorsiva (0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, …), cioè una serie in cui ogni termine è la somma dei due precedenti.
È vero che la Summa è un’opera scarsamente originale, ma è pur sempre il primo trattato generale di aritmetica, aritmetica pratica e algebra, e riprende elementi per la costruzione di questi saperi scientifici che per secoli erano stati tralasciati, come, per es., i nuclei dell’opera di Fibonacci. Inoltre, Pacioli vi inserì capitoli che non avevano direttamente a che fare con l’aritmetica e la geometria ma che scivolavano verso il campo dell’economia, e che dimostrano come l’aritmetica e il ragionare con metodo rigoroso possano essere utilizzati proficuamente nel campo degli affari, sia che si tratti della mercatura di una modesta bottega artigiana sia che si tratti di un’impresa di dimensioni maggiori.
A questo proposito è interessante considerare brevemente i contenuti della Distinctio IX della Summa (in Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 47-112), in cui Pacioli definisce (nel Tractatus primus) le società di mercanti, di coloro che sono «gionti insiemi», distinguendole tra compagnie fondate sulla base del conferimento di denaro, di merci («robbe») o di persona. In ogni caso, qualsiasi genere di compagnia svolge attività produttiva e/o mercantile e realizza utili o perdite; in entrambi i casi la ripartizione di utili o perdite va calcolata sulla base del conferimento iniziale e della durata dei conferimenti: «così si chiama tirare ciascun pro rata» (Tractatus primus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 49), a meno che il patto iniziale non stabilisca diversamente.
In ogni regione può avvenire che molte persone non riescano a lavorare «con qualche sudorosa industria» e si trovino costrette a lavorare la terra, pattuendo contratti di locazione, generalmente in soccide, che è una forma complessa di contratto perché non si sa mai per certo se ciò che si «aluoga» al lavoratore sia consumato dall’uso; questo obbliga a rivolgersi ai dotti per averne il parere, con un conseguente aumento dei costi di produzione (Tractatus secundus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 50-51).
In ogni caso, qualsiasi produttore consuma a volte per sé parte del prodotto, e poi accede al mercato con lo scopo di vendere del proprio e acquistare dell’altrui, per migliorare la propria condizione di vita attraverso il «baratto». Questo consiste nello scambio di merce con merce o di merce con denaro (contante o dilazionato); la preoccupazione principale dei contraenti è quella di non essere «imbrattati» e di tener conto del proverbio – allora molto in uso per l’efficacia dell’immagine che rimanda al lettore – che dice: «né per bove, né per vacca non toglier donna matta; la robba va e vene e chi à la moglie matta se la tene» (Tractatus tertius, in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 52).
Con risolutezza Pacioli afferma che non si può accedere ai mercati senza praticare l’abitudine del cambio: «l’aqua della nave mercantescha» è il cosiddetto «cambio reale», e «costumase fare per lettere che sonno chiamate lettere de cambio e intendese sempre che la lettera vada a le parti dove se derizza […] e ch’el pagamento sequa secondo suo tenore e termino» (Tractatus tertius, in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 55). Non è usuraio chi pratica il cambio, perché è lo stesso uso della moneta che lo richiede, visto il fluttuare del valore del denaro sulla base della domanda e dell’offerta; anzi, queste operazioni consentono proprio che i mercanti portino denaro laddove ve n’è scarsità, a vantaggio di dove ve n’è in abbondanza.
La pratica del cambio a volte avviene coinvolgendo ben quattro persone, cioè in presenza di un datore, di un prenditore, di un beneficiario (amico del datore) e di un trattario (amico del traente); questo intricarsi dei rapporti tra più soggetti può prestarsi ad abusi. Ciò avviene se nella lettera di cambio non sono specificati esattamente tutti gli elementi che entrano nell’operazione in atto: la data e il luogo di emissione, i nomi del trattario e del beneficiario, la firma del traente, l’ordine da pagare, la somma, la scadenza in base agli usi delle diverse piazze, alle fiere, alle partenze delle navi, a una certa data – giorno o mese. Tutto ciò è indispensabile, altrimenti «nascono lite, brighe e travagli» (Tractatus quartus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 57).
Nel successivo capitolo Pacioli si occupa del calcolo dell’interesse, chiamato «merito» – dal verbo latino merere –, cioè guadagno, frutto del capitale. Il calcolo dell’interesse obbliga a contabilizzare le cifre in vere e proprie «tavole del merito» (Tractatus quintus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 60).
Nel 15° sec. erano in uso le girate nelle lettere di cambio, ma Pacioli stranamente non ne tratta (Melis 1940), mentre si dilunga nella spiegazione della realtà del «consolare», ossia mescolare tra loro, i metalli nell’operazione del battere moneta:
Peroché la luna produce e genera l’argento morto, del quale intendiamo. E lo sole genera l’oro. De li altri metalli se taci, excepto che del rame quale a conlegare li ditti doi metalli per più convenientia. […] E tutti doi questi metalli [ariento e oro] sonno ditti fissi e immobili perché più resistono al fuoco che null’altro metallo [...] unde ogni volta che se dà a saggiare argento o oro [...] metteralo al fuoco in suo copelleta e fallo bulire. […] E l’oro o vero argento rimane fino e puro (Tractatus sextus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 78-79).
Dal Tractactus septimus al decimus, Pacioli presenta e risolve algebricamente problemi in casi concreti di operazioni economiche: costi di due viaggi, scambi di denari fra due o tre persone, salari ai servitori, prezzo del frumento e del pane, valore di uova e panni, spese e guadagni nel caso di soldati mercenari.
Gli elementi della biografia intellettuale di Pacioli fanno guardare a lui come a un cultore di matematica, geometria e algebra ma anche contabile, ragioniere – come allora si usava dire. Non fu certo un economista, ma preparò un materiale e utilizzò un linguaggio tecnico che poi sarebbero entrati a far parte della scienza economica.
Egli fu un abachista, cioè un esperto nella computistica, un contabile, un tecnico degli affari, un ‘quaderniere’, e da insegnante spiegò ai suoi studenti come fosse possibile risolvere con l’algebra problemi di ordine economico che l’uomo d’affari o l’amministratore si trovavano ad affrontare quotidianamente e continuativamente. A lui, infatti, è stata attribuita dalla maggior parte degli storici la paternità delle regole per la tenuta dei libri a partita doppia, che troviamo nitidamente esposte nel Tractatus undecimus (De computis et scripturis) della Summa,
il celeberrimo Trattato che ha reso immortale il nome del Paciolo. Per la prima volta il metodo della partita doppia, secondo ‘el modo de Vinegia’ veniva divulgato con un’opera a stampa (Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 84).
L’esempio conclusivo di ‘scrittura’ elaborato da Pacioli e riportato da Carlo Antinori (in Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 85) è ripartito su due colonne, così intitolate: «Comme si debbe dettare le partite de’ debitori» e «Comme si debbe dittare le partite di creditori». Questo esempio di scrittura doppia quattrocentesca è esemplificato ponendo come debitore Ludovico di Piero Forestani e come creditore Francesco d’Antonio Cavalcanti; figurano anche i due garanti, Martino di Piero Foraboschi e Simone d’Alesso Bombeni. Questa personalizzazione dei ruoli ci conferma l’impegno e l’abilità di Pacioli come docente della materia.
La paternità della partita doppia a lui attribuita deriva proprio dal fatto che egli fu autore della Summa contenente la descrizione dettagliata del ‘modo veneziano’ di tenere i libri del commercio. Come scrive Antinori: «Tutti gli elenchi cronologici delle antiche opere di ragioneria, in ogni parte del mondo, iniziano con la Summa di Luca Pacioli, dando all’Italia un primato indiscutibile» (Antinori 1961, p. 44, nota 29).
Studi più attenti del pensiero medievale attribuiscono invece questa paternità a Benedetto Cotrugli, che qualche decennio prima di Pacioli aveva scritto Della mercatura et del mercante perfetto (1458), opera che non ebbe diffusione perché lasciata dall’autore in forma manoscritta; solo nel 1573, infatti, per iniziativa di un mercante di Ragusa (od. Dubrovnik), l’opera fu stampata a Venezia.
Qui è doveroso ricordare quanto rilevante fosse il compito svolto dal ‘ragioniere’ o ‘quaderniere’ in secoli in cui la situazione del mercato monetario era a dir poco confusa: il cambio tra once, ducati, carlini, teri, denari, tornesi, tra fiorini fiorentini e sterlini londinesi andava calcolato e tenuto per iscritto con estrema precisione. Alle difficoltà delle operazioni di cambio si aggiungevano quelle legate alla lungaggine e ai pericoli dei trasporti da piazza a piazza. Tutto andava riportato sulla carta con la penna, come fece Cotrugli (Bonamore 1974, cap. 9), e molti sono i testi contabili dei secc. 14° e 15° conservati fino a oggi (Zerbi 1943, cap. 1), ma a Pacioli va il merito di aver insegnato a tenere testi contabili, traducendo la pratica anche in disciplina d’insegnamento.
Aver sottovalutato per tanto tempo le radici italiane della partita doppia, che sono precedenti a Pacioli, dipende molto dal fatto che solo l’opera di quest’ultimo, in quanto a stampa, fu acquistata anche da stranieri ed esportata oltralpe; così, storici del diritto e dell’economia, soprattutto anglosassoni, proprio a Pacioli hanno fatto risalire questa falsa primogenitura. Tommaso Zerbi, ritenuto il più importante storico della ragioneria, è risoluto nell’affermare le lacune della storiografia straniera a tale riguardo e, di conseguenza, il rilievo eccessivo attribuito dalla stessa storiografia alla figura di Pacioli («Non pochi degli scrittori stranieri troppo ignorano dei numerosi testi contabili dei secoli XIV e XV già pubblicati in Italia all’epoca delle rispettive indagini, mentre troppo poggiano su l’autorità del ben poco attendibile Paciolo»; Zerbi 1943, p. 6), pur ammettendo qualche eccezione nei casi di Peter Kats (1929), Ananias Ch. Littleton (1933) e Raymond de Roover (1937).
Quindi Pacioli, sia chiaro, non inventò la partita doppia, ma fu il primo suo divulgatore attraverso l’uso della stampa. Si pensi che a Venezia, dove il primo libro fu stampato nel 1469, alla fine del 15° sec. funzionavano ben duecento tipografie, e qui, dove egli si era formato all’arte della mercatura e dove l’arte tipografica era particolarmente coltivata, Pacioli decise di stampare il proprio trattato. La stampa consentì l’abbassamento del costo delle copie, che erano vendute dai tipografi stessi, e questo ne agevolò la diffusione, che fu di certo dovuta anche alla stima goduta da Pacioli come docente. Fu proprio la mancata diffusione a segnare la sorte degli scritti di Cotrugli. La stessa sorte era toccata a Fibonacci, il quale nel 1202 aveva scritto a mano, in tre copie, il Liber abaci.
Mentre Fibonacci appartiene all’epoca in cui si ha l’«emergence of d.[ouble] e.[entry] practice», Pacioli apre «the double-entry handbook diffusion stage (1491-1586)» (Zan 1994, pp. 263-64), aggiungendo nei suoi scritti qualcosa di più rispetto alla sola diffusione di strumenti già utilizzati nella pratica mercantile. Sotto questo profilo, il prospetto storico di Federigo Melis (1940) è da considerarsi a oggi la ricostruzione più completa della storia della partita doppia.
Vi è un’ulteriore caratteristica della Summa che ne favorì la diffusione, oltre alle ragioni già presentate, e consiste nel fatto che Pacioli decise di scriverla in volgare – mezzo toscano e mezzo veneziano – e quindi di renderla fruibile a un maggior numero di lettori, non necessariamente letterati, interessati a quell’arte; anche se la grafia, gli errori nella scrittura e le abbreviazioni adottate dovettero costituire un problema per chi non aveva direttamente assistito alle lezioni (Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 113).
Si tenga inoltre presente che l’opera in questione è un incunabolo, e questa tipologia di pubblicazione ha limiti tipografici non sottovalutabili, come il lettore potrà verificare consultando i due studi già citati di Antinori e di Esteban Hernández Esteve (1994). Oltre a ciò, molti passaggi sono di difficile interpretazione: Pacioli, per es., usa la parola «gioie», che può essere intesa come «gioielli» ma anche come «pietre preziose» grezze; il termine «pironi», interpretabile come «forchetta» ma anche come «leva», «perno» o «manovella»; il termine «partita», interpretabile come «registrazione» o come «conto» (in Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 116-22).
Si consideri una frase della Summa che illustra più di ogni altra la difficoltà dell’interpretazione di tale testo, soprattutto quando questo dev’essere poi tradotto: ci si chiede se l’ultima parte della frase «formarai la partita in giornale e quaderno per ordine, depennando e segnando in tutti i lochi, che non tescordi, perché al mercante bisogna altro cervello che de beccaria», vada interpretata (e quindi tradotta) come «perché al mercante necessita un cervello diverso da quello di un macellaio», oppure come «poiché al commerciante necessita un cervello sveglio e non di quelli che si vendono nelle macellerie». Molti traduttori stranieri hanno scelto la prima versione, Hernández Esteve la seconda (Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 120-21).
Vi sono elementi rilevanti nella Summa di Pacioli, al di là – come si è detto – della risonanza internazionale avuta dalla sua spiegazione della partita doppia. Uno di questi è certamente l’utilizzo del termine «ragionieri», che dimostra come egli ebbe «un alto concetto delle funzioni» assegnate a chi esercitava questo mestiere: ne tratta come di
uomini che debbono possedere capacità intellettuali e preparazione adeguata ai compiti che debbono svolgere [...] il ragioniere doveva conoscere prima di tutto l’aritmetica per poi potersi dedicare alla soluzione dei problemi computistici e contabili [...] relativi a cambi, interessi, società, ecc. (Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 13-14).
Un buon ragioniere che rende i calcoli chiari e quindi immediatamente leggibili e comprensibili è fondamentale per la saldezza di un’impresa, di qualsiasi dimensione e raggio di azione.
Pacioli dimostra, insomma, «una mentalità aperta ai problemi economici, dalla cui soluzione dipende il progresso delle ‘patrie’ cioè degli Stati» (Antinori, Hernández Esteve 1994, p. 47). Del resto, l’ultimo capitolo della Summa (Tractatus duodecimus, in Antinori, Hernández Esteve 1994, pp. 85-89) affronta proprio il tema della diversità di usi tra i diversi Paesi i cui mercanti esercitano attività commerciale, relativamente a pesi, misure, monete, lettere di cambio, fiere, caratteristiche merceologiche. Nel capitolo ci si dilunga in una descrizione meticolosa di queste diversità riguardo ai principali mercati, tra cui molti italiani (Firenze, Venezia, Genova, Palermo, Roma, Siena, Lucca, Milano, Pisa e altri) e ovviamente i principali stranieri (Lisbona, Parigi, Londra, Montpellier, Barcellona, Valencia, Tunisi, Cipro, Damasco, Costantinopoli e altri).
Per avere un’idea del lavoro svolto, si noti che i vocaboli definiti sono elencati e tradotti da Pacioli in forma molto sintetica, in modo che il manuale possa essere di immediato utilizzo pratico da parte dei mercanti: si va dalla descrizione dell’«aloe patico» (aloe epatico, di cui si dice che proviene dalla Cina, e che una volta rotto ha colore simile al fegato e odore di mirra) a quella del «gengero» (lo zenzero, cui si dedicano ben 5 righe), e via via a quelle delle merci di cui si trattava in quel tempo.
Pacioli attribuiva alto valore sia a chi gli aveva insegnato inizialmente a Venezia «abaco e quaderno», sia a se stesso, che con chiarezza e precisione dava lezioni di quest’arte a tanti allievi e per ciò veniva apprezzato e ricercato. Probabilmente sono proprio gli appunti delle lezioni dei suoi primi maestri veneziani a essere stati inseriti poi, insieme ad altri materiali e a considerazioni personali, nei dodici Tractati raccolti nella Summa; a questi appunti egli aggiunse, raccogliendoli e probabilmente rielaborandoli quando li mise per iscritto, quelli delle lezioni che aveva tenuto in tante sedi accademiche.
Pacioli espose nei capitoli della Summa anche la propria concezione di alcuni fenomeni economici e dei comportamenti dell’uomo d’affari del tempo. Fece questo da frate francescano minore, all’interno di un ordine che proprio negli stessi anni stava fondando i primi Monti di Pietà, i quali ebbero screzi e confronti duri con i poteri forti delle città, ma che in ogni caso giunsero ad accordi per dare inizio alla loro attività di prestito a un interesse ‘giusto’. Considerazioni circa i confini tra lecito e illecito, morale e immorale in merito al livello del tasso d’interesse nelle operazioni di prestito e di cambio, stavano alla base di questa iniziativa che intendeva combattere il prestito usurario e impedire, da un lato, che gli usurai meritassero la sorte eterna dell’inferno, dall’altro che i poveri non potessero accedere al credito a interesse (Parisi 2011).
All’interno di questa operazione dell’ordine francescano minore va inserito quindi anche l’impegno di fra Luca, educatore all’attività mercantile, che trattò con accuratezza le operazioni di cambio, con considerazioni notevoli per quegli anni circa il rapporto tra domanda e offerta di moneta e il fluttuare del corso delle monete.
La letteratura si è solo da poco interessata a questo aspetto di ordine etico della produzione di Pacioli: è stato osservato recentemente come appaia quasi un’ironia il fatto che il primo libro pubblicato in cui ci si occupa di conto del capitale, includendo anche il calcolo dei profitti ricavati dagli affari, sia stato scritto proprio da un cattolico, membro di un ordine religioso che regolava la vita in base al principio cardine della povertà.
Il francescano Pacioli sapeva bene che la motivazione del profitto è l’elemento critico del successo negli affari, e approvava tale situazione. Non solo: conosceva a fondo quali comportamenti riprovevoli tanti uomini d’affari mettevano in atto per raggiungere il successo; essi, infatti, spesso non esitavano a tenere due libri dei conti, uno da mostrare ai compratori e l’altro ai venditori (Fischer 2000).
Pacioli fu legato da profonda amicizia con Leonardo, il quale inserì cinquantanove suoi disegni geometrici nel De divina proportione che l’amico matematico scrisse nel 1496, quando erano ambedue a Milano alla corte di Ludovico il Moro; a quest’ultimo, che lo ospitava, Pacioli regalò la prima delle tre versioni manoscritte dell’opera (risalente al 1498), che, com’era uso in quei secoli, gli dedicò nella prima pagina. Per cinque anni Pacioli e Leonardo vissero, lavorarono e viaggiarono sempre insieme (Hart 2002).
Nella successiva versione manoscritta dell’opera (anch’essa risalente al 1498), Pacioli introdusse un indice, una pagina con una miniatura e una nuova dedica a Ludovico il Moro, in lettere dorate su sfondo porpora. Nella terza pagina attribuì il merito di molti suoi risultati – «cose alte e sublimi quali veramente sono el cimento e coppella de tutte le prelibate scientie e discipline» – allo studio dei libri della biblioteca ducale, cioè a opere di grandi personaggi – tra cui Piero della Francesca e Alberti – che gli furono utili per chiarire a se stesso i principi dell’architettura e della struttura dei corpi. Introdusse inoltre la numerazione dei singoli capitoli e illustrò dettagliatamente «la cosa che si vuole», cioè l’argomento di cui si tratta in ogni capitolo.
Disegni leonardeschi – si è detto – illustrano il testo di Pacioli, perché nessuno nell’arte del disegno superava Leonardo (Geymonat 1977). Pacioli e Leonardo erano compatrioti e amici: Pacioli dichiarò di ammirare la statua equestre scolpita da Leonardo e dedicata a Francesco Sforza, ma soprattutto gli studi matematici, che lo rendevano a lui più simile; d’altro canto, in diversi manoscritti di Leonardo si trovano tracce delle lezioni su Euclide di Pacioli (Sgrosso, in Le vie dei mercanti, 2004, p. 284), e la mano di Leonardo appare evidente in alcuni schizzi dei bellissimi disegni dei poliedri che illustrano la terza stesura del De divina proportione, pubblicata a Venezia nel 1509 insieme ad altri due trattati, il Tractato del’architectura e il citato Libellus in tres partiales tractatus divisus. In questi lavori è visibile l’influsso che su fra Luca esercitò anche l’Alberti (Frings 2002).
Non si deve giudicare strano o fuori tempo che Leonardo sia rimasto attratto dai calcoli di Pacioli, poiché attorno al 1490 egli stesso disegnò a matita la celebre rappresentazione delle proporzioni ideali del corpo umano inscritto in un quadrato e in un cerchio, il cosiddetto uomo vitruviano, conservato nel Gabinetto dei disegni e delle stampe delle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Furono Francesco di Giorgio Martini e il suo trattato di architettura che attrassero Leonardo: in quegli anni Francesco stava iniziando la traduzione di alcune parti del famoso De architectura che Marco Vitruvio Pollione aveva scritto in dieci volumi nella seconda metà del 1° sec. a.C., e che costituisce l’unico documento su argomenti architettonici rimastoci da quell’epoca. L’intuizione che Leonardo attorno al 1490 trasse da trattazioni classiche fu quella di trasferire in un’immagine la logica architettonica, unita al calcolo algebrico e alla geometria nello studio delle proporzioni del corpo umano. Questo trasferimento è descritto, seguendo l’opera di Vitruvio, nei due lunghi capoversi che sono inseriti nel foglio contenente il disegno dell’uomo vitruviano. L’uomo è, insomma, scientificamente proporzionato, e da qui Leonardo passò a considerare un’arte scientifica anche il disegno, un saper vedere ciò che la natura ha compiuto.
È sufficiente leggere qualche estratto dal Libro di pittura per immaginare la concezione dell’arte leonardesca:
molto più farà le proporzionali bellezze d’un angelico viso posto in pittura della quale proporzionalità ne risulta un armonico concento, il quale serve à l’occhio in un medesimo tempo che si faccia della musica à l’orecchio (cit. da Cisternino, in Leonardo, 2009, p. 153).
È così brevemente chiarito il motivo per cui, una volta giunto a Milano e imbattutosi in Pacioli, Leonardo prese a fare riferimento a lui per i quesiti matematici relativi alla sua arte di disegnatore e di pittore. La matematica era considerata da Pacioli la scienza su cui tutte le altre si basano, grazie alla sua astrattezza («abstratione et subtigliezza»), anche se egli era convinto – come Aristotele – che dall’osservazione dei fatti iniziano sempre le considerazioni filosofiche, perché nulla viene capito se prima non è stato percepito attraverso i sensi, soprattutto la vista. Anche Leonardo nel Libro di pittura poneva l’accento su come alla base del ragionamento scientifico stia il saper vedere, su come «nessuna umana investigazione si po’ dimandare vera scienza s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni» (cit. da Perissa Torrini, in Leonardo, 2009, p. 23), e su come anche la pittura sia riportabile a valori matematici da parte dell’artista, perché l’opera d’arte è una «armonica proporzionalità la quale è composta di divine proporzioni». E proprio quest’ultima espressione – divine proporzioni – è tratta dal De divina proportione di Pacioli, il quale la usò per primo.
Dalla matematica, scrive Pacioli, discendono i calcoli attraverso cui sono state costruite fin dai tempi di Archimede le difese militari (rocche, torri, mura, fossi, torrioni, merli); dalla matematica sono derivati anche i ragionamenti teologici e soprattutto qualsiasi calcolo utile per l’architettura (Sgrosso, in Le vie dei mercanti, 2004, pp. 286-87) e per l’armonia musicale. Non potevano quindi non essere d’accordo, Pacioli e Leonardo, sul fatto che ogni scienza si nasconde in questa scienza originaria, superiore e comprensiva di tutte le altre: la matematica. Le figure dei poliedri che Leonardo inserì nel libro di fra Luca sono disegnate in un modo originale, con le facce aperte, in modo da presentare lucidamente l’intera forma del solido, con la visione frontale e quelle retrostanti insieme con quella interna; oltre a ciò, le illustrazioni erano stampate come se fossero costruite in legno. Un’ulteriore caratteristica di questi solidi è la simmetria con cui sono concepiti, che rientra nelle eredità euclidee del Rinascimento italiano.
Nel terzo capitolo del De divina proportione, Pacioli include tra le discipline fondative di ogni sapere, oltre alle tre fondamentali – geometria, aritmetica, astrologia – anche la musica, la prospectiva architettura e la cosmografia. Anche qui emerge il contributo di Leonardo: Pacioli porta a esempio più chiaro di accurata prospettiva architettonica l’affresco dell’Ultima cena, opera che è in grado di esprimere perfino il colloquio degli apostoli tra di loro e di Gesù con loro: «sembra animata da vera vita» (cit. da Sgrosso, in Le vie dei mercanti, 2004, p. 288). Come afferma Augusto Marinoni: «In ciò il Pacioli rappresenta la coscienza del secolo che ha inventato con la Prospettiva e ha creato con la Pittura una straordinaria serie di capolavori» (Marinoni 1982, pp. 9-10; ripreso da Sgrosso, in Le vie dei mercanti, 2004, pp. 288-89). Temi analoghi sono affrontati anche nel citato Tractato del’architectura e nell’Alphabeto dignissimo antico, in esso contenuto.
I successivi capitoli del De divina proportione sono ispirati all’opera di Euclide e di Platone, e trattano ancora una volta della ‘proporzione divina’. È esattamente qui che Pacioli riprende le intuizioni precedenti relative alla ‘proporzione aurea’, applicandole agli argomenti che a lui – uomo di fede – probabilmente più interessavano. Centrale era per lui la dimostrazione che Dio è uno e trino, e che questa verità discende algebricamente dalla definizione della ‘proporzione divina’ detta anche ‘sezione aurea’, indicata dal rapporto che all’interno di un qualsiasi segmento c’è tra due lunghezze diseguali, delle quali la maggiore è medio proporzionale tra la minore e la somma delle due. Così, come la ‘proporzione divina’ è un numero inesprimibile per mezzo di una frazione, è un numero ‘irrationale’, allo stesso modo Dio è inconoscibile per mezzo della ragione umana, non è definibile attraverso espressione verbale né esprimibile sotto forma di quantità.
Le illustrazioni che Leonardo inserì nel libro di Pacioli sono figure che applicano il principio della sezione aurea alla geometria. Alcune di queste sono nitidamente riportate in Le vie dei mercanti (2004): l’ottaedro stellato, l’esaedro stellato a ventisette facce, il poliedro cavo a settantadue facce, e altre. Anche le illustrazioni, colorate in nero e rosso, contenute nel De ludo scachorum potrebbero essere attribuite a Leonardo (D’Elia, Sanvito, in Gli scacchi di Luca Pacioli, 2007).
Oltre a questo aspetto della matematica applicata all’arte, che prese tanti anni della vita di Pacioli e comportò tanto impegno, si deve sottolineare che sotto il profilo della storia della matematica le parti più interessanti dell’opera sono quelle che contengono alcuni esempi di calcolo della probabilità, il primo esempio di calcolo di un logaritmo neperiano prima di John Napier (1550-1617).
Inoltre, il De divina proportione contribuì a destare nella prima metà del Cinquecento un grande interesse per la scrittura dei testi: basti ricordare – tra le altre – le opere (tutte pubblicate tra il 1514 e il 1548) di Sigismondo Fanti, Francesco Torniello, Ludovico degli Arrighi detto il Vicentino, Giovanni Antonio Tagliente e fra Vespasiano (Ulivi 1994, pp. 66-71).
Uno spazio marginale è stato riservato ai contributi di Pacioli riguardo all’ottica e alla sua concezione geometrica, compresi in un periodo denso di sviluppi nell’arte e nell’economia italiane, che però molto riguarda anche lui, com’è stato evidenziato in una mostra tenutasi a Firenze nel 2011-12 (Denaro e bellezza, 2011).
Molto più efficace che qualsiasi considerazione conclusiva, è invitare il lettore a fermare l’attenzione verso un olio su tavola del 1495 – il Doppio ritratto con Luca Pacioli – che ritrae tutti gli aspetti di fra Luca scienziato. Il quadro (esposto nel Museo nazionale di Capodimonte a Napoli) è attribuito a Jacopo de’ Barbari a scopi puramente inventariali, e senza sicurezza alcuna sotto il profilo dello stile e della tecnica pittorica. Esso ritrae Pacioli proprio com’era in quegli anni: con la tonaca da frate francescano, in piedi dietro una scrivania, con una lunga matita nella mano destra mentre disegna una figura geometrica su una tavoletta sul cui bordo è scritto il nome di Euclide; l’altra mano segue il testo sulla pagina sinistra di un libro, che potrebbe essere la sua Summa o una copia della sua versione di Euclide, secondo i discordanti pareri degli studiosi. Sul tavolo sono poggiati gli strumenti tipici di un matematico dell’epoca: un goniometro per la misurazione degli angoli, una penna, una scatoletta, un pezzo di gesso e alcuni compassi; nell’angolo destro c’è un dodecaedro, poggiato su un libro con le iniziali di Pacioli. Appeso di lato, alla sinistra del quadro, appare un rombicubottaedro (un solido convesso formato da diciotto quadrati e otto triangoli), pieno per metà di acqua, come simbolo della luminosità e limpidezza ininterrotta, senza principio e senza fine, della matematica (Perissa Torrini, in Leonardo, 2009). Un uomo più giovane è ritto dietro la spalla sinistra del maestro: potrebbe trattarsi della raffigurazione ideale di uno studente, a simboleggiare il ruolo magistrale di fra Luca (Lauwers, Willekens 1994).
Espressione artistica, elemento geometrico e proporzioni algebriche entrano apertamente nell’arte attraverso il rapporto tra Pacioli e il Rinascimento, trasmettendo l’idea che la conoscenza è un’operazione unitaria. In particolare, la storiografia è concorde nell’ammettere che il tema della corrispondenza tra analisi della ‘sezione aurea’ di Pacioli e uso di essa nella pittura leonardesca è ancora oggi oggetto di alta rilevanza storica e scientifica (Bouleau 1963; Livio 2003). Questi sono sicuramente gli aspetti più interessanti della biografia di Pacioli.
Egli aveva iniziato la propria carriera come pedagogo presso una famiglia di mercanti veneziani; con il capofamiglia aveva fatto esperienza di attività mercantile e così aveva affinato la sua capacità di insegnare e divulgare l’arte della mercatura, ragioneria e computistica. Questa competenza gli aveva meritato grande fama, una fama che si è tramandata nei secoli attraverso le storie della ragioneria. In realtà oggi sappiamo che egli non fu un autore originale in materia economica, ma seppe ben raccogliere il sapere già esistente e trarre vantaggio dall’evento favorevole dell’invenzione della stampa e del diffondersi delle tipografie.
È stato quindi chiarito dalla recente storiografia che altri furono i suoi meriti, e che la sua posizione nella storia acquista un senso maggiore se si esce dalle ricostruzioni tradizionali della sua biografia.
De divina proportione (1496), Venezia 1509 (rist. anast., con Introduzione di A. Marinoni, Milano 1982).
Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità, Venezia 1494, 15232.
Si elenca qui di seguito la bibliografia più significativa a partire dal 1929:
P. Kats, Early history of bookkeeping by double entry, «The journal of accountancy», 1929, pp. 203-09, 275-90.
A.C. Littleton, Accounting evolution to 1900, New York 1933.
R. de Roover, Aux origines d’une technique intellectuelle. La formation et l’expansion de la comptabilité à partie double, «Annales d’histoire économique et sociale», 1937, pp. 171-93, 270-97.
F. Melis, Prospetti storici di ragioneria, «Rivista italiana di ragioneria», 1940, 10-11, pp. 238-49.
T. Zerbi, Le origini della partita doppia, Milano 1943.
C. Antinori, Luca Pacioli e la computisteria medievale, «Rivista italiana di ragioneria», 1960, 7-8, pp. 143-51; 1961, 1-2, pp. 35-44.
Ch. Bouleau, Charpentes. La géométrie secrète des peintres, Paris 1963 (trad. it. Milano 1996).
D. Bonamore, Prolegomeni all’economia politica nella lingua italiana del Quattrocento, Bologna 1974.
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, 1° vol., L’Antichità-Il Medioevo, Milano 1977.
A. Marinoni, La matematica di Leonardo da Vinci, Milano 1982.
C. Antinori, E. Hernández Esteve, 500 anni di partita doppia e letteratura contabile, 1494-1994. Due recenti studi sulla Summa di fra’ Luca Pacioli, Roma 1994 (in partic. C. Antinori, La Summa di Luca Pacioli e gli storici della ragioneria, pp. 11-46, e Luca Pacioli e la computisteria medievale. Dalla Distinctio IX della Summa, pp. 47-112; E. Hernández Esteve, Commenti su alcuni punti oscuri o di dubbia interpretazione del trattato De computis et scripturis di Luca Pacioli, pp. 113-69).
E. Ulivi, Luca Pacioli. Una biografia scientifica, in Luca Pacioli e la matematica del Rinascimento, a cura di E. Giusti, C. Maccagni, Firenze 1994, pp. 21-78.
L. Zan, Toward a history of accounting histories. Perspectives from the Italian tradition, «The European accounting review», 1994, 2, pp. 255-307.
L. Lauwers, M. Willekens, Five hundred years of bookkeeping. A portrait of Luca Pacioli, «Tijdschrift voor economie en management», 1994, 3, pp. 289-304.
M.J. Fischer, Luca Pacioli on business profits, «Journal of business ethics», 2000, 4, pp. 299-312.
M. Frings, The golden section in architectural theory, «Nexus network journal», 2002, 1, pp. 9-32.
G.W. Hart, In the palm of Leonardo’s hand. Modeling polyhedra, «Nexus network journal», 2002, 2, pp. 103-13.
M. Livio, La sezione aurea. Storia di un numero e di un mistero che dura da tremila anni, Milano 2003.
Le vie dei mercanti. Da Luca Pacioli all’ecogeometria del territorio, Atti del I Forum internazionale di studi su ‘Le vie dei mercanti’, Capri 2003, a cura di C. Gambardella, S. Martusciello, Napoli 2004 (in partic. A. Sgrosso, Frate Luca Pacioli e la divina proporzione, pp. 281-98).
Gli scacchi di Luca Pacioli. Evoluzione rinascimentale di un gioco matematico, San Sepolcro 2007 (in partic. D. D’Elia, Profilo storico del gioco degli scacchi, pp. 9-40; A. Sanvito, Il De ludo scachorum di Luca Pacioli, pp. 129-60).
S. Duvernoy, Leonardo and theoretical mathematics, «Nexus network journal», 2008, 1, pp. 39-49.
Leonardo. L’uomo vitruviano fra arte e scienza, Catalogo della mostra, 2009-2010, Venezia 2009 (in partic. A. Perissa Torrini, L’uomo armonico e la geometria della natura, pp. 23-56; L.N. Cisternino, Leonardo o dell’armonia perduta (?). Discorso mentale e iperbolico sull’Homo armonico di Leonardo, pp. 153-72).
D. Parisi, Interaction between reflection and praxis in the history of economic thought. The case of the franciscan circles from XIII century Assisi to the present, «Cultura económica», 2011, 80, pp. 29-40.
Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, Catalogo della mostra, Firenze 2011-2012, a cura di L. Sebregondi, T. Parks, Firenze-Milano 2011.