RONCONI, Luca
– Nacque a Susa, in Tunisia, l’8 marzo 1933. Fin dalla tenera infanzia visse da solo con la madre Fernanda Nardi, insegnante di letteratura italiana con una forte vocazione per la scrittura; il padre, Giovanni, già titolare di una officina di ferro battuto a Roma, incontrò il figlio solo un paio di volte prima di morire in guerra l’8 agosto 1943.
Ottenuta una cattedra in una scuola a L’Aquila, Fernanda rientrò con il figlio in Italia e lì Ronconi – ad appena quattro anni – fu ammesso a frequentare come uditore la scuola elementare. Conclusa la formazione di base, essendo ancora troppo giovane per accedere alla scuola media, fu iscritto a un collegio a Basilea, dove restò fino al 1944. Conseguì la maturità presso il liceo classico Tasso di Roma, quindi, per volere della madre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza – senza riuscire a laurearsi.
Stando ai suoi ricordi, il primo incontro, folgorante, con il teatro data ai mesi immediatamente precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale, quando Fernanda portò il bambino ad assistere a una commedia, probabilmente di Gilberto Govi. Decisiva fu pure, negli anni successivi, la figura della cugina Maria Teresa Albani, dal 1943 alunna della Regia Accademia d’arte drammatica, a cui anch’egli si iscrisse nell’anno scolastico 1951-52.
In Accademia ebbe come insegnanti Wanda Capodaglio, Sergio Tofano, Alba Maria Setaccioli e, soprattutto, Orazio Costa (docente di recitazione e di regia, attività questa che proprio in quegli anni assumeva anche in Italia il significato moderno di un’autonoma funzione creativa esercitata sul testo drammatico tramite la messinscena, in quanto tale profondamente diversa dall’empirico mestiere del direttore di scena ottocentesco; cfr. B. Migliorini, Varo di due vocaboli, in Scenario, I (1932), 1, p. 6). Pur essendo molto distante dal gusto di Costa, Ronconi lo considerò sempre come il vero maestro di quegli anni di apprendistato – per il rigore morale, l’intelligenza interpretativa e la capacità di affrontare ciascuna messinscena come un unicum, da progettare (e risolvere) nelle sue specificità.
Dopo soli due anni di studio, contro i tre previsti, il 30 maggio 1953 conseguì il diploma, avviando subito la carriera d’attore. Per circa un decennio lavorò in teatro con alcuni dei pionieri italiani della regia moderna – Luigi Squarzina, il suo maestro Costa, Giorgio Strehler, Giorgio De Lullo e Michelangelo Antonioni. Dopo gli esordi promettenti, ben presto si manifestarono i primi segnali di crisi: sebbene fosse tra i beniamini del pubblico e degli addetti ai lavori, il giovane – per sua stessa ammissione – non si riconosceva nel teatro da lui praticato, e così, quando nel 1963 alcuni colleghi gli chiesero di diventare regista di una nuova compagnia, accettò la sfida.
Nel dicembre 1963, la compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volonté presentò al teatro Valle di Roma La buona moglie di Carlo Goldoni (riduzione del dittico La buona moglie e La putta onorata) per la regia di Ronconi: uno spettacolo livido, violentemente misogino, di un naturalismo crudo, rasentante per quei tempi l’oscenità. Il fiasco fu clamoroso e l’operazione venne archiviata come velleitaria. Seguirono anni di ripiegamento, punteggiati da impegni attoriali sempre più stanchi in teatro e in televisione. Nello stesso torno di tempo tentò pure la via della scrittura cinematografica collaborando con Sergio Corbucci alla sceneggiatura di L’uomo che ride (1966). A metà degli anni Sessanta, quando ormai il suo astro pareva destinato a un precoce tramonto, si compì la svolta. Il 12 agosto 1966 debuttò nel cortile del palazzo ducale di Urbino I lunatici, tragedia di Thomas Middleton e William Rowley, diretta da Ronconi. Due primi attori amatissimi dalle grandi platee televisive – Sergio Fantoni e Valentina Fortunato – furono chiamati a recitare un testo ‘classico’, degli anni Venti del Seicento, ancorché poco frequentato, ma la loro recitazione – folle, greve, decisamente sopra le righe – era di fatto estranea all’arte del bene dicere accademico. Contrariamente a quanto era accaduto al Valle nel dicembre 1963, la prima dei Lunatici fu un trionfo e di colpo Ronconi venne salutato come uno dei maggiori registi italiani del momento.
Difficile classificarne in modo univoco il percorso. In anni che videro il teatro italiano aprirsi alla sperimentazione delle cosiddette cantine e all’influenza dei gruppi della nuova avanguardia nordamericana, Ronconi, all’indomani dei Lunatici, continuò a lavorare con attori di tradizione – come i già ricordati Fantoni e Fortunato, o Vittorio Gassman (Riccardo III, 1968), o Lilla Brignone e Gianni Santuccio (Fedra, 1969) –, firmando spettacoli per autorevoli istituzioni nazionali – come i teatri stabili di Torino e Roma. Nell’anno scolastico 1966-67 fu anche ammesso nel corpo docente dell’Accademia. Allo stesso tempo si immerse nel clima di quegli anni e nel novembre del 1966 sottoscrisse l’appello Per un convegno sul nuovo teatro (in Sipario, XXI (1966), 247, pp. 2 s.). Dopo il convegno di Ivrea del 1967, scaturito da quell’agguerrito manifesto, e dopo le proteste del maggio di Parigi del 1968, la carica eversiva del teatro del giovane regista esplose con Orlando furioso (Spoleto, Festival dei due mondi, 4 luglio 1969), mascheratura teatrale del poema di Ludovico Ariosto su drammaturgia di Edoardo Sanguineti.
Tentando di restituire la mappa narrativa dell’Orlando, Ronconi concepì uno spettacolo labirintico, costruito per scene recitate simultaneamente entro un continuum spaziale – di preferenza in piazze, cortili, sagrati, arene, gallerie, comunque fuori dagli edifici teatrali –, che abbracciava indistintamente attori e spettatori. Lo spettacolo venne nei mesi seguenti allestito in tutta Europa e, fatte salve le isolate riserve dei critici più conservatori, accolto con entusiasmo: il nome di Ronconi si impose all’attenzione internazionale.
Incorniciati tra due tentativi estremi di risalire alle origini mitiche del nostro teatro – l’Orestea (1972) a Belgrado e le Baccanti (1978) a Prato, con l’interpretazione monologante di Marisa Fabbri –, gli anni Settanta furono per Ronconi fertilissimi. Da una parte, veniva definendosi la sua incontenibile passione per le drammaturgie anticlassiciste e fuori canone – lo sconosciuto teatro barocco italiano (La Centaura di Giovan Battista Andreini, 1972), le plaghe meno battute del repertorio elisabettiano (Una partita a scacchi di Thomas Middleton, 1973), i capolavori del teatro mitteleuropeo pressoché ignorati sui nostri palcoscenici (La torre di Hugo von Hofmannsthal, 1978; Al pappagallo verde e La contessina Mizzi di Arthur Schnitzler, 1978), ma in fondo lo stesso teatro classico, colto, però, nella sua remota impenetrabilità (Die Bakchen (Le Baccanti) di Euripide, 1973; Die Vögel (Gli uccelli) di Aristofane, 1975; il collage aristofanesco Utopia, 1975; Die Orestie (Orestea) di Eschilo, 1976; quasi tutti prodotti dal Burgtheater di Vienna), o i capisaldi della drammaturgia borghese a un passo dal suo inabissamento, in primis i copioni dell’amatissimo Henrik Ibsen (L’anitra selvatica, 1977). Dall’altra parte, in quello stesso decennio il regista arrivò a codificare un proprio linguaggio recitativo fondato sulla destrutturazione della classica actio accademica attraverso uno studio attento del parlato italiano, così come precisò il suo personale approccio strutturalista ai testi mediante un’originale elaborazione e uso dello spazio.
Per un verso, a cominciare dall’Orestea messa in scena a Belgrado, Ronconi modulò uno stile drammaturgico caratterizzato dal rifiuto dei tradizionali stereotipi psicologici della recitazione ‘borghese’, dalla scelta di dare uno spasmodico risalto fisico all’azione del dire, intesa come vero e proprio gesto, e da una radicale disarticolazione delle battute. Ne nacque una recitazione – definita per l’appunto ronconiana – paradossalmente ispirata a una strenua volontà di restituire le logiche del parlato e di fatto contraddistinta da un violento antinaturalismo. Per un altro verso, con spettacoli come XX da La Roue di Rodolfo Wilcock (1971), Utopia, o le creazioni del Laboratorio di progettazione teatrale di Prato (Le Baccanti; Calderón di Pier Paolo Pasolini e La torre, 1978), tutti nati al di fuori dei palcoscenici tradizionali, il regista giunse a chiarire come il lavoro sullo spazio non dovesse essere inteso nei termini di un puro decorativismo, ma si traducesse in un vero e proprio cantiere ermeneutico: egli arrivò a concepire lo spazio dei suoi spettacoli come un’architettura di significazione, un perfetto correlato oggettivo del meccanismo di funzionamento dei copioni.
Pur avendo eletto il cosiddetto teatro di prosa a sede primaria della propria attività, a partire dagli anni Settanta Ronconi avviò un’assidua collaborazione con i teatri d’opera, spesso al fianco di grandi direttori d’orchestra, come Wolfgang Sawallisch per due giornate dell’Anello del Nibelungo alla Scala (1974-75), Riccardo Muti per Orfeo ed Euridice a Firenze (1976), Claudio Abbado per Wozzeck alla Scala (1977), Zubin Mehta per un Anello integrale a Firenze (1979-81). Nello stesso febbrile decennio si cimentò anche con la televisione (nel 1975 la RAI trasmise la versione televisiva dell’Orlando furioso in cinque puntate) e, sul piano organizzativo, pur restando un regista free lance, si trovò a dirigere importanti istituzioni pubbliche. Tra il 1974 e il 1977 guidò la sezione teatro della Biennale di Venezia; tra il 1976 e il 1979 fondò e diresse il Laboratorio di progettazione teatrale di Prato, sostenuto, tra i vari enti, dal Comune toscano, con il forte avallo del Partito comunista italiano.
Alla traumatica liquidazione di quest’ultima esperienza, nell’estate del 1979, seguirono mesi di rovello profondo. Dopo il fuoco di fila dei debutti di La torre, Al pappagallo verde e La contessina Mizzi, e dell’Uccellino azzurro di Maurice Maeterlinck (dicembre 1979), Ronconi sembrò volersi dedicare al solo teatro per musica: sei allestimenti lirici tra il Macbeth alla Deutsche Oper di Berlino Ovest (per la direzione di Giuseppe Sinopoli) nel febbraio 1980 e il Crepuscolo degli dei del Maggio musicale fiorentino nel giugno 1981 prima che il regista presentasse un nuovo spettacolo ‘di prosa’: una Medea diretta per lo Schauspielhaus di Zurigo nel novembre 1981. Fu poi la volta di una reinvenzione televisiva del John Gabriel Borkman ibseniano nel gennaio 1982, accompagnata – a pochi mesi di distanza – da una faticosa rilettura di Spettri; poi dodici mesi di nuovo silenzio sul fronte della prosa (con quattro allestimenti lirici). Circa tre anni e mezzo passati in apparenza quasi solo presso le ricche istituzioni liriche, tre anni e mezzo sofferti, però, durante i quali il regista, lungi dal disinteressarsi al teatro di parola, nel segreto dello spazio prove visse il fallimento di un progetto di spettacolo su sua drammaturgia originale, nata come precipitato del lavoro di improvvisazione degli attori eletti a compagni di viaggio (Mauro Avogadro, Franco Branciaroli, Gabriella Zamparini).
Quel travaglio drammaturgico si espresse nel decennio successivo nel lavoro di recupero di testi poco praticati, ‘ai confini’ di ciò che convenzionalmente è considerato teatrale. Nel 1984 diresse il suo secondo Andreini: Le due commedie in commedia; e al Festival Rossini di Pesaro ricreò ex novo nell’auditorium Pedrotti Un viaggio a Reims, opera anomala, fin lì considerata perduta, concertata da Abbado, scene di Gae Aulenti, in un allestimento multimediale che coinvolse le strade del centro cittadino. Due anni dopo riesumò il monstrum di Ignorabimus di Arno Holz: testo della durata di circa dodici ore – ripercorse in una assoluta adesione tra tempo della rappresentazione e tempo del racconto – ambientato in una villa berlinese ‘fintamente’ ricostruita in muratura all’interno del Fabbricone di Prato, con i quattro personaggi principali maschili del copione interpretati da quattro attrici en travesti. Nel 1988 realizzò la messinscena di una sceneggiatura cinematografica già cara a Orazio Costa: I dialoghi delle carmelitane di Georges Bernanos, in una sorta di tragico film/ documentario teatrale.
La strisciante crisi economica del sistema teatrale italiano si venne radicalizzando in quel decennio, come dimostra il fatto che questi ultimi due allestimenti, tra i più arditi e felici di Ronconi, comportarono un tracollo finanziario degli enti produttori (il Teatro regionale toscano e l’Associazione teatrale dell’Emilia Romagna). Comprese, dunque, con l’approssimarsi degli anni Novanta, che l’unica via per conservare la propria autonomia progettuale sarebbe stata quella di abbandonare la libera professione, assumendo in prima persona la guida di un teatro stabile. In questo contesto, nel 1989 ‘riscrisse’ registicamente le Tre sorelle di Anton Čechov, grande capolavoro del teatro borghese europeo, pensando l’allestimento come un modo per suggellare un sodalizio tra il regista e la neonata Associazione umbra per il decentramento artistico e culturale (AUDAC). A poche settimane dall’avvio delle prove dello spettacolo čechoviano, però, Ronconi accettò la proposta di assumere la direzione del Teatro stabile di Torino, alla cui guida rimase fino al 1994.
La direzione Ronconi, nel solco di un dialogo con la tradizione mitteleuropea – dall’allestimento di Besucher di Botho Strauss (1989) a quello dell’Uomo difficile di Hofmannsthal (1990) –, trovò la più significativa riuscita nella messinscena di un altro testo ‘estremo’ come Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, allestiti nell’ex sala presse del Lingotto nel novembre del 1990. Come ai tempi dell’Orlando, abbandonato il palcoscenico tradizionale, attori e spettatori agivano in uno spazio unico ‘concentrazionario’, estraneo a ogni logica di fruizione frontale dell’evento rappresentativo. Quanto al teatro d’opera, dove l’assetto frontale è fortemente condizionato dalle strutture architettoniche, negli allestimenti ronconiani degli anni Ottanta-Novanta si osserva una spiccata tendenza a infrangere comunque l’assialità della visione, in particolare grazie alle violente distorsioni prospettiche e alle virtuosistiche anaformosi escogitate dalla scenografa Margherita Palli (per esempio, nella Lodoïska alla Scala, nel 1991, o nel Caso Makropulos al Regio di Torino, nel 1993).
Dal 1994 al 1998 passò alla direzione del Teatro stabile di Roma, dove l’opera del regista si spostò verso l’‘edizione teatrale’ di romanzi (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, 1996; I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, 1998).
Puntò in quei casi a dar voce alla propria vocazione drammaturgica citando alla lettera pagine romanzesche nel quadro di copioni atipici, popolati da ‘figure’ chiamate a parlare di sé in terza persona al tempo passato, per dar corpo a un disperante teatro della memoria percorso dalla ricerca del ‘tempo perduto’.
Dal 1999 e fino al 2015 passò al Piccolo Teatro di Milano, come consulente del direttore Sergio Escobar. Dopo aver ripercorso le strade della messinscena di una sceneggiatura cinematografica (Lolita di Vladimir Nabokov, 2001) o di un romanzo (Quel che sapeva Maisie di Henry James, 2002), approdò al lavoro su nuove forme espressive. Alcune pagine saggistiche dello scienziato John David Barrow divennero il canovaccio di uno dei suoi spettacoli più celebrati: Infinities (2002), compiuta realizzazione dell’utopia da sempre inseguita da Ronconi di creare uno spettacolo infinito, capace di eccedere, cioè, le facoltà fruitive dello spettatore. All’interno del «Progetto domani» – in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 – l’allegoria di Infinities generò per gemmazione: Lo specchio del diavolo (breve storia della finanza di Giorgio Ruffolo), Biblioetica. Dizionario per l’uso (dizionario di bioetica di Gilberto Corbellini, Pino Donghi e Armando Massarenti) e Il silenzio dei comunisti (epistolario tra Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin). Sintesi provvisoria di questi percorsi ‘sospesi’ al di là del dramma, l’ultima creazione di Ronconi: la Lehman Trilogy (2015), variazione postepica, firmata da Stefano Massini, della grande saga della gens Lehman, una delle famiglie statunitensi più influenti, seguita dalle prime imprese commerciali negli Stati Uniti di fine Ottocento fino alla crisi dei mutui subprime nei primi anni Duemila.
Significativa anche la sua attività di allestitore di mostre: «Anton van Dyck: riflessi italiani» (Milano, Palazzo Reale, 2004); «Cina: nascita di un impero» (Roma, Scuderie del Quirinale, 2006); «Sebastiano del Piombo» (Roma, palazzo Venezia, 2008).
Fil rouge degli anni trascorsi alla guida dei teatri stabili fu non solo la scelta di fare dei propri spettacoli lo scheletro portante della programmazione e dell’identità dei tre enti, ma anche l’impegno pedagogico. Sviluppando le sue precedenti esperienze di docente dell’Accademia, fondò nel 1991 la scuola per attori del teatro stabile di Torino. A Roma diresse alcuni corsi di perfezionamento. A Milano assunse la direzione della scuola per attori del Piccolo Teatro. Nel 2002 insieme a Roberta Carlotto e a Mariangela Melato fondò il Centro teatrale di Santa Cristina (Gubbio) che diresse fino alla sua morte, uno spazio di ricerca e di libertà rispetto agli obblighi istituzionali e alle leggi del mercato.
Presupposto fondativo della pedagogia di Ronconi, come di tutto il suo percorso registico, fu la strenua convinzione che il teatro fosse una forma di conoscenza complessa maturata attraverso l’esperienza.
A ricapitolazione dei molti premi e riconoscimenti avuti, doveroso ricordare le quattro lauree ad honorem ricevute, rispettivamente, dalle Università di Bologna (1999), di Perugia (2003), di Urbino (2006) e dallo IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia) nel 2012, e il Leone d’oro alla carriera della Biennale 2012.
Dal 2008 cominciò a soffrire di gravi disturbi ai reni che lo portarono alla morte, avvenuta a Milano il 21 febbraio 2015, mentre erano in corso le repliche della sua ultima fatica: la Lehman Trilogy.
Opere. Il Laboratorio di Prato, Milano 1981 (con G. Aulenti - F. Quadri); Inventare l’opera. L’Orfeo, Il viaggio a Reims, Aida: tre opere d’occasione alla Scala, Milano 1986; Lezioni per l’attore di teatro, Torino 1997; Prefazione, in C. Longhi, La drammaturgia del Novecento: tra romanzo e montaggio, Ospedaletto di Pisa 1999, pp. 5-13; Laurea honoris causa in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo conferita dalla Facoltà di Lettere e Filosofia a Luca Ronconi, Bologna, 29 aprile, 1999, Bologna 1999 (con L. Trezzini); Teatro della conoscenza, Roma-Bari 2012 (con G. Capitta).
Fonti e Bibl.: Gubbio, Centro teatrale di Santa Cristina, Archivio Luca Ronconi.
C. Milanese, L. R. e la realtà del teatro, Milano 1973; F. Quadri, Il rito perduto, Torino 1973; per un approfondimento dell’impegno di Ronconi come regista lirico si veda G. Guccini, Direzione scenica e regìa, in Storia dell’opera italiana, IV, a cura di L. Bianconi - G. Pestelli, Torino 1988, pp. 125-174 (in partic. pp. 165-169); L. R. e il suo teatro, a cura di I. Innamorati, Milano 1992 (ed. riv. e agg. Roma 1996); L. R.: utopia senza paradiso, a cura di I. Moscati, Venezia 1999; E. Castiglioni, Le regie liriche di L. R., Napoli 2001; L. R. Un regista in dieci progetti, a cura di F. Quadri - M.G. Gregori - C. Longhi, Milano 2001; L. Cavaglieri, Invito al teatro di R., Milano 2003; C. Longhi, “Orlando furioso” di Ariosto-Sanguineti secondo R., Pisa 2006; R. Gli spettacoli per Torino, a cura di A. Fontana - A. Allemandi, Torino-London-Venezia-New York 2006; L. Bianconi, La regìa d’opera. Critica della critica, in G. Guccini - L. Zoppelli - L. Bianconi, Ancora sulla regìa nell’opera lirica, in Il Saggiatore musicale, XVII (2010), 1, pp. 105-118; L. R. al Piccolo, a cura di M.G. Gregori, Milano-Mantova 2011; M. Marchetti, Guardare il romanzo. L. R. e la parola in scena, Soveria Mannelli 2016; I. Moscati, L. R. Un grande maestro negli anni dei guru, Roma 2016; La regia in Italia oggi. Per L. R., a cura di C. Longhi, in Culture teatrali, 2016, n. 25, monografico; L. R. (1935-2015), a cura di D. Legge - F.R. Rietti, in Teatro e storia, n.s., 2016, n. 37, pp. 367-404; L. R. Gli anni della Scala / The Scala Years, a cura di V. Crespi Morbio, Milano 2016; R. secondo Quadri, a cura di L. Mello, Milano 2016.