VALENZIANO, Luca
– Nacque a Tortona forse negli anni Settanta-Ottanta del Quattrocento, come si può ipotizzare sulla base della lettera prefatoria all’edizione pavese (1513) delle sue opere: in essa il conterraneo Antonio Luna afferma che Valenziano le compose «in vulgare idioma» e «nel principio de la lubrica gioventude», quando era studente di filosofia e medicina (forse a Pavia). Il padre di Valenziano, Antonio, fece parte del Consiglio generale di Tortona almeno tra il 1481 e il 1483; le notizie sulla casata sono peraltro scarse.
Valenziano esercitò anche l’arte medica, stando ai Dialogi duo de poetis nostrorum temporum di Lilio Gregorio Giraldi, che di lui disse: «Lucas Valentinus Dertonensis est quidem medicus, sed et tolerabilis est poeta» (1894, p. 44).
La sensibilità per entrambe le discipline doveva essergli stata trasmessa dal padre, se vale in senso autobiografico l’affermazione che il poeta fa nella sua quinta egloga dove, nel corso del compianto funebre per il padre Antonio, il pastore Luciano ricorda gli insegnamenti paterni in ambito poetico come in ambito medico («a curar grege febriente o scabro / tu me insegnasti medicina vera, /e mia Musa per te tanto alto vola / che instrutta par ne l’apollinea scola»; Opere volgari, a cura di M.P. Mussini Sacchi, 1984, p. 27). Lo stesso Giraldi (1894, p. 44) attesta che Valenziano compose «de compage et utilitate membrorum carmina» («versi sulla compagine e l’utilità delle membra»), presumibilmente il trattato in versi latini, incompiuto e non conservato, De humani corporis partibus, di cui parla anche Giovanni Stefano Montemerlo (Delle phrasi troscane libri XII, Venezia 1566, c. 4r).
Non si sa se si sposò e con chi, ma sicuramente ebbe due figlie (ambedue di nome Lucrezia e ambedue morte prematuramente) e un figlio, Vincenzo, che invece gli sopravvisse: fu notaio e la sua ascrizione alla matricola dei notai tortonesi (14 giugno 1538), che lo definisce «filius quondam spectabilis artium et medicinae doctoris domini magistri Luce civis civitatis Derthonae» (Rozzo, 1984, p. XIX), ci consente di stabilire un terminus ante quem per la morte del padre.
Dalle opere di Valenziano, oltre che dalle menzioni che di lui si fanno nei testi di altri letterati, si evincono suoi rapporti con Milano, con Pavia, con la corte estense, che sono tuttavia difficili da sistemare cronologicamente.
Di lui parla Matteo Bandello (1972) nella dedicatoria alla XL novella della seconda parte della sua raccolta. Lo descrive come «uomo di buone lettere e ne le compagnie lieto e festevole e dicitore soavissimo», nonché «cortese [...] e gran servidore di donne» (pp. 16 s.). Quasi conterranei (Bandello era nato a Castelnuovo Scrivia), i due furono di certo piacevolmente insieme occupati nei salotti milanesi e lombardi a raccontare e ascoltare, per diporto, i vari casi umani di cui il novelliere si sarebbe poi fatto cronista.
Valenziano è ricordato come «facondissimo poeta» (Mussini Sacchi, 1982, p. 417) anche dal contemporaneo pavese Giorgio Beccaria nel suo volgarizzamento dell’apuleiana favola di Amore e Psiche: un altro indizio del legame con Pavia, città che – come detto – fu anche sede della prima edizione delle opere; in una di esse, il poemetto Camilcleo dedicato a Camilla Scarampi, il poeta stesso ricorda poi con intonazione affettuosa «il mio fatal Ticino» (Opere volgari, cit., p. 54). Proprio il legame con Camilla Scarampi – poetessa a sua volta, dama di compagnia di Beatrice d’Este, moglie del tortonese Ambrogio Guidobono Cavalchini, nonché oggetto di un amore giovanile del poeta – ci porta a confermare, al di là della citazione bandelliana, una frequentazione milanese di Valenziano a cavallo tra i secoli XV e XVI.
Il poeta dovette avere una certa familiarità anche con la città di Genova: ne ricorda infatti, nel secondo dei suoi Atti pastorali, alcune bellezze femminili di nobili casate, citando invece in un sonetto i genovesi fratelli Fieschi e la loro rocca di Montoggia nell’alta Valle Scrivia.
Probabile un rapporto non soltanto encomiastico e letterario con gli Estensi. Nell’unico manoscritto contenente le sue rime che ci è rimasto (Pavia, Biblioteca Universitaria, Aldini 140) è presente un epigramma in distici latini di dedica a Lucrezia Borgia, mentre il sonetto che esalta gli Asolani bembeschi (che, a quanto si legge nel testo, sembrano essere appena venuti alla luce) può farci supporre una sosta in terra ferrarese in concomitanza con il soggiorno dello stesso Pietro Bembo degli anni 1502-03. Altri luoghi sono citati nei testi poetici (tra di essi, Roma), ma troppo vaghi sono tali accenni per avere la certezza di viaggi, soggiorni, trasferimenti.
Nella produzione poetica in volgare, Valenziano si presenta come sperimentatore di generi diversi, petrarchista dotato di una discreta autonomia e rilettore originale dei classici.
La prima edizione delle rime (Pavia 1513) ce lo mostra essenzialmente come autore di poesia umanistica in volgare, con La transformatione di Glauco, poemetto in ottave di chiara impronta ovidiana che forse risente anche delle Piscatorie sannazariane per l’ambientazione marina del mito; la Bucolica (sei egloghe più il Documento di Campano, componimento che completa la silloge pastorale secondo il modello numerico di Calpurnio) di marcata ispirazione virgiliana, recuperata attraverso l’esperienza di Jacopo Sannazaro; i tre capitoli in terzine, ricchi di riferimenti mitologici, e il già ricordato Camilcleo in lode di Camilla Scarampa.
Databile tra il 1509 e il 1519 è il manoscritto Aldini 140 della Biblioteca universitaria di Pavia, di cui sopra si è fatto cenno: nell’epigramma latino di dedica a Lucrezia Borgia si allude a un periodo di riposo di Alfonso d’Este dopo una guerra vittoriosa. Si tratta verosimilmente di quella combattuta contro i veneziani nel 1509-10, mentre risale al 1519 la morte della stessa Lucrezia. È in questo manoscritto che, oltre alle opere già edite nel 1513 e ad alcuni sonetti sparsi, compare per la prima volta la Centuria, ovvero il canzoniere amoroso di ispirazione petrarchesca in cui Valenziano si cimenta con il genere lirico.
Si tratta di cento componimenti (novanta sonetti, due madrigali, tre canzoni e ben cinque sestine) di carattere amoroso: numericamente debitori dell’Argo di Giovan Francesco Caracciolo (1506), i testi si susseguono illustrando una vicenda di abbandono, di presunto ritorno della donna, di disperazione conclusiva. L’autonomia mantenuta rispetto alla bipartizione petrarchesca è però sostanzialmente contraddetta dalla fedeltà con cui Valenziano riprende il modello dei Rerum Vulgarium Fragmenta sotto il profilo linguistico, metrico, retorico-stilistico, nonché dall’utilizzo dell’espediente dei testi d’anniversario che danno consistenza cronologica e narrativa alla vicenda amorosa. Non sarà un caso che la sestina LXXXIV della Centuria sia dedicata proprio a Francesco Petrarca, sulla cui tomba Valenziano sembra essersi recato a rendere omaggio («Ricca, famosa e inestimabil tomba» ne è l’incipit eloquente).
Risale infine al 1532 l’edizione veneziana (per Bernardino Vitalli), che presenta nuove aggiunte, ovvero un numero consistente di componimenti sparsi di argomento vario (amorosi per una non meglio identificata Chiara, encomiastici, d’occasione, spirituali) e due Atti pastorali, egloghe in forma rappresentativa che dimostrano un evidente interesse, da parte del poeta, verso il genere teatrale di argomento pastorale: la titolazione stessa di «atto» mira ad assimilare i testi a rappresentazioni teatrali (in particolare a quelle di tipo satiresco). Caratterizzati dalla presenza di figure femminili parlanti (due pastorelle si sfidano addirittura in un canto amebeo, ma tutte le ninfe hanno un ruolo da coprotagonista nelle vicende rappresentate), presentano anche un pur limitato movimento scenico che ne giustifica la definizione.
L’edizione Vitalli presenta, rispetto alle precedenti, numerose varianti: espunzione di particolari spiccatamente biografici, drastica banalizzazione di versi colti, normalizzazione linguistica in senso bembesco. Non è possibile stabilire se esse siano dovute o meno all’autore in quanto non abbiamo certezza dell’anno della sua morte, per la quale possiamo soltanto stabilire il terminus ante quem del 1538.
Opere. Al manoscritto e alle stampe sopra citati, si deve aggiungere l’edizione veneziana del 1533, per Niccolò Zoppino, che riproduce la stampa pavese del 1513; le Opere volgari furono poi edite a Milano nel 1816 a cura di C. Ceruti; sarebbero dovute uscire a Parigi nello stesso anno, ma ne restano solo tre esemplari di prova. L’edizione critica, a cura di M.P. Mussini Sacchi, è stata pubblicata a Tortona nel 1984.
Fonti e Bibl.: C. Ceruti, Epistola ai propri concittadini, in L. Valenziano, Opere volgari, a cura di C. Ceruti, Milano 1816, pp. III-X; Lettera di D. A. Tonso Pernigotti patrizio tortonese al signor G.B. Signorio segretario della città di Tortona contenente notizie di L. V., Tortona 1817, pp. 17-19; G.G. Bonino, Biografia medica piemontese, I, Torino 1824, pp. 136-143; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, I, Torino 1841, pp. 108-114, 342-343; L.G. Giraldi, De poetis nostrorum temporum, Berlino 1894, p. 44; M. Bandello, Tutte le opere, II, Milano 1972, pp. 16 s.; M.P. Mussini Sacchi, Un amico pavese del Bandello: Giorgio Beccaria, in Matteo Bandello novelliere europeo. Atti del Convegno..., ...1980, Tortona 1982, pp. 411-417; Ead., Fortuna del genere bucolico nel Cinquecento: una nota su L. V. e Giorgio Beccaria, in Julia Dertona, XXX (1983), pp. 35-54; U. Rozzo, Note biografiche e Le edizioni e la fortuna critica in L. Valenziano, Opere volgari, cit., pp. V-XLII; M.P. Mussini Sacchi, La Centuria di L. V. e il suo rapporto con i Rerum vulgarium fragmenta, in Julia Dertona, XXXV (1986), pp. 131-142; M. Danzi, L. V., in Poeti del Cinquecento, a cura di G. Gorni - M. Danzi - S. Longhi, I, Poeti lirici, burleschi, satirici e didascalici, Milano-Napoli 2001, pp. 439-443.