LUCA
Nato intorno agli anni Sessanta del XII secolo, L. è concordemente detto di origine campana. La notizia è attendibile, visto che a partire dal 1183 (più precisamente durante il secondo anno di pontificato di Lucio III, cioè tra settembre 1182 e agosto 1183) L. entrò come monaco nel monastero cistercense di Casamari. Sulla sua attività in quel monastero è lo stesso L. a fornire indicazioni, incluse nel testo che egli dedicò alla memoria di Gioacchino da Fiore.
All'interno del cenobio ebbe modo di farsi apprezzare dall'abate Gerardo, divenuto nel 1210 arcivescovo di Reggio, tanto da essere scelto dallo stesso abate come notaio. Tra il 1183 e il 1184 avvenne l'incontro con Gioacchino, allora abate del monastero cistercense di S. Maria di Corazzo; Gioacchino riconobbe le doti di L. e chiese all'abate di assegnarlo alla sua persona, perché sovrintendesse alla redazione per iscritto dei testi che in quel periodo andava componendo: "dictans et emendans simul librum Apocalypsis et librum Concordiae. Ubi in ipso tempore librum Psalterium decem cordarum incepit" (ed. Grundmann, p. 353).
Nell'opera di trascrizione era coadiuvato da due monaci, Giovanni e Filippo, divenuti in seguito rispettivamente abate e priore dell'abbazia di Corazzo. L'incarico era effettivamente confacente a L., che invece doveva avere problemi nella oralità, visto che dice di se stesso: "quia eram impeditioris et tardioris linguae" (ibid.). Il testo di L. è pervenuto solo in una copia di età moderna a opera di Cornelio Pelusio ed è stato più volte pubblicato; l'edizione migliore resta quella curata da H. Grundmann (Zur Biographie Joachims von Fiore und Rainers von Ponza, in Id., Ausgewählte Aufsätze, II, Stuttgart 1977, pp. 352-358; cfr. anche Gioacchino da Fiore. Vita e opere, a cura di G.L. Potestà, Roma 1997, pp. 101-202). Fu proprio Grundmann a preferire il titolo di Memorie per il testo che nelle precedenti edizioni portava il titolo di Synopsis virtutum. Come ha rilevato G.L. Potestà, il vecchio titolo rispecchia meglio carattere e finalità dell'opera, che non intende essere una ricostruzione (auto)biografica dei rapporti tra L. e Gioacchino, quanto una celebrazione delle virtù di quest'ultimo. Astinenza, digiuni, frequenza della celebrazione eucaristica, impegno nella predicazione, povertà assoluta dell'abbigliamento e generosità verso gli altri sono i tratti che dovevano contraddistinguere la figura di Gioacchino per condurre a buon fine le procedure per la sua canonizzazione sotto Innocenzo III; restano fuori dall'orizzonte del testo la biografia appunto e anche i miracoli, che erano invece raccolti in un altro testo da affiancare a quello di Luca.
Dopo un anno e mezzo Gioacchino ritornò in Calabria, ma L. ebbe modo di avvicinarlo ancora, unendosi a lui nella quaresima del 1187 o 1188, durante il periodo che Gioacchino trascorse nella solitudine di Pietralata, il "porto di quiete" che si era creato nei pressi dell'abbazia di Corazzo.
Nonostante la profonda venerazione espressa da L. nei confronti del monaco e asceta Gioacchino, non sembrano essere rimaste tracce di maggiore partecipazione alla visione mistica e spirituale che questi aveva. Allo stesso modo L. pare non aver subito il fascino del nuovo Ordine, quello florense, ma rimase fedele alla sua originaria scelta cistercense. Nella sua attività come arcivescovo cosentino, L. cercò comunque di tutelare il giovane ordine, anche rispetto a quello cistercense.
Intorno al 1192 furono proprio Gioacchino e il suo compagno, Ranieri di Ponza, a suggerire ai monaci cistercensi della Sambucina di eleggere L. abate; questi tentò debolmente di opporsi, in ragione dei suoi problemi di parola, ma alla fine cedette; anzi lui stesso ricorda di essere stato miracolosamente sanato dal suo difetto. L'elezione avvenne nel giorno di S. Clemente, il 23 novembre; il suo primo atto come abate risale al marzo 1193.
Il periodo di abbaziato fu contrassegnato dalla concessione di privilegi da parte delle massime autorità, quali i sovrani Guglielmo III, Costanza e Federico II, i papi Celestino III e Innocenzo III, nonché di donazioni da parte dell'aristocrazia locale. Grazie alla generosità nei confronti dell'istituto, L. riuscì a trovare i mezzi per ricostruire la chiesa abbaziale, distrutta nel terremoto del 1196.
Per quella via fu probabilmente lui a introdurre in Calabria i caratteri del gotico cistercense. Ancora alla sua attività si deve la fondazione della dipendenza di S. Angelo di Frigillo, in diocesi di Santa Severina; una documentazione più incerta lega al nome di L. anche la fondazione o il passaggio di altre comunità all'osservanza cistercense: S. Maria di Acquaformosa, S. Maria del Sagittario, S. Maria di Roccadia presso Lentini.
I rapporti con i pontefici furono ottimi, tanto che Celestino III e Innocenzo III lo dispensarono dalla partecipazione al capitolo generale, che a sua volta ricorse proprio alla mediazione di L. per consegnare una petizione a Innocenzo III. Nel 1198 lo stesso Innocenzo III si rivolse a L. e al vescovo di Siracusa, Lorenzo, per la predica della crociata nel Regno di Sicilia; gli esiti e il fervore dei Regnicoli non furono però eccelsi e L. richiese al pontefice una maggiore pressione, anche sulla regina Costanza d'Altavilla. La morte di quest'ultima e l'esplodere delle contese nel Regno durante la minorità dell'erede Federico di Svevia resero pressoché impossibile la prosecuzione della raccolta di fondi e di adepti per la crociata; L. fece quindi rientro nel suo monastero della Sambucina.
Non pare che L. si sia fatto coinvolgere nei conflitti esplosi durante la minorità di Federico, anche se nel febbraio del 1201 si recò a Palermo per farsi confermare una donazione per il suo monastero dal cancelliere Gualtiero di Palearia e per ottenere nuove concessioni sull'uso di mulini. I rapporti con la Curia pontificia e con le autorità locali restarono comunque buoni, tanto che tra la fine del 1202 e l'inizio del 1203 L. fu eletto arcivescovo di Cosenza e nell'agosto del 1203 fu consacrato.
Una delle prime difficoltà con le quali dovette confrontarsi fu rappresentata dal capitolo della cattedrale, che subito si oppose ai tentativi di revisione dei privilegi di cui godeva e riuscì a ottenere ragione dalla stessa Curia pontificia. Forse in connessione anche con questi dissapori iniziali è da interpretare la contestazione che sempre il capitolo oppose alla volontà dell'arcivescovo di offrire ai monaci della nuova fondazione di Gioacchino, Fiore, una nuova sede su terra di proprietà dell'arcivescovado. D'altra parte l'attenzione di L. nella gestione del patrimonio ecclesiastico è palesata da quanto sopravvive indirettamente della accurata revisione che egli stesso fece operare nel 1224 dell'inventario dei beni della sua Chiesa, a suo tempo fatto redigere dal predecessore Ruffus. L'inventario, di almeno 48 carte, andò perduto nel XVIII secolo, ma di esso ha lasciato sufficienti tracce l'abate Gregorio de Laude, nella sua opera biografica dedicata a Gioacchino.
Anche i rapporti con l'Ordine cistercense si mantennero, visto che L. esercitava i diritti di visita sulle filiazioni calabresi di Fossanova e Casamari; i monasteri di Sambucina e di S. Maria di Acquaformosa poterono contare in diverse circostanze sul suo appoggio. Nel 1217 ricevette dal capitolo generale cistercense l'incarico di risolvere le dispute interne ai monasteri dell'Ordine apertesi in Calabria. Di una situazione di crisi fece sicuramente le spese la comunità di Sambucina, dove dopo la partenza di L. la situazione si era progressivamente deteriorata, tanto che la comunità venne fatta confluire, dallo stesso L. su incarico del pontefice, in quella di S. Maria della Matina.
Accanto ai cistercensi non mancò l'interessamento per il nuovo Ordine florense: nel 1204 L. incoraggiò un nobile alla fondazione di un nuovo monastero, quello di Fontelaurato, mentre nel 1215 risolse una lunga controversia tra il monastero di Fiore e quello dei Tre Fanciulli. A conferma del prestigio di L. e del suo legame con i florensi, Innocenzo III lo nominò visitatore del nuovo Ordine, con il compito anche di completarne la regola, lavoro svolto in accordo con gli abati di Fiore e di S. Spirito di Palermo. Ebbe invece una durata ed efficacia minore il ruolo di visitatore dei monasteri basiliani, affidatogli nel 1220 da Onorio III, ma nel quale fu sostituito, nel 1221, dal vescovo di Crotone, probabilmente anche in ragione della provenienza dal mondo greco di questo prelato. Pure i rapporti con altre istituzioni monastiche sembrano essere stati positivi, a eccezione dei giovanniti: con la casa giovannita in Messina si scontrò per il controllo di alcune chiese in Calabria rimettendosi al giudizio del pontefice Onorio III nel 1222.
La fiducia da parte pontificia sembra comunque non essere venuta mai meno, se si considerano gli incarichi continui nella soluzione di controversie e nel controllo di elezioni a lui affidate: per incarico di Innocenzo III le elezioni del legato Gerardo di S. Adriano a vescovo di Cerenzia, del medico regio "Iacobus" a vescovo di Policastro; sotto Onorio III ancora il controllo delle elezioni nelle sedi di Anglona, Squillace, Siracusa e Rossano. Il suo intervento fu richiesto anche per indagare sulle accuse mosse contro i titolari di S. Severina e di Squillace, nonché contro Aldoino vescovo di Cefalù, mentre venne rigettato come giudice dell'arcivescovo di Acerenza, Andrea; ancora fu a L. che ci si rivolse per la soluzione di controversie tra l'arcivescovo di Messina e l'archimandrita di S. Salvatore. Vista la precedente esperienza acquisita con Innocenzo III, risulta naturale che Onorio III si rivolgesse ancora a L. per predicare la crociata a Messina nel 1217.
I rapporti con Federico II emergono relativamente tardi rispetto a quelli con i pontefici, anche se in ciò un ruolo non secondario è da attribuire ai torbidi che avevano accompagnato l'infanzia e l'adolescenza di Federico. Comunque nel 1212, prima di partire per la fortunata campagna di Germania, Federico II concesse a L. i proventi fiscali della locale comunità ebraica e i diritti sulle tintorie cosentine quale ricompensa per la fedeltà prestata; probabilmente venne allora anche riconosciuta a L. la funzione di "domini regis familiaris", appellativo con cui sottoscrive alcuni documenti tra 1212 e 1221 (cfr. Kamp, p. 839 n. 83). Proprio la mancanza dello stesso titolo nelle sottoscrizioni degli anni successivi lascia supporre che L. non abbia continuato a rivestire la carica dopo il ritorno di Federico II nel Regno. Sintomo di rapporti in parte tesi con l'imperatore è la decisione del sovrano di sottrarre alla Chiesa cosentina il castello di Rende per restituirlo al conte Riccardo di Aiello, reintegrando quindi i possessi antecedenti alla venuta di Enrico VI. Lo stesso Federico II ricorse comunque a L. nel 1221 per una donazione in favore dell'abbazia di S. Giovanni in Fiore e nel 1223 per risolvere una controversia degli stessi monaci con i basiliani del vicino monastero di S. Maria del Patir; nello stesso anno L. ebbe cura di farsi confermare i privilegi della sua Chiesa da Federico II, il quale non aveva mancato di presenziare alla consacrazione del nuovo duomo di Cosenza, celebrata dal cardinale legato Nicola di Tusculo.
Non esiste concordia tra gli storici sul ruolo effettivamente svolto da L. nelle scelte architettoniche della nuova cattedrale, soprattutto nella veicolazione o meno di modelli propri del gotico cistercense, come invece era avvenuto nel caso della ricostruzione della chiesa della Sambucina.
Nel 1223 la salute di L. cominciò a essere precaria, tanto che fu costretto a delegare a un suo canonico un incarico pontificio "pro artente egritudine, quam patimur" (ibid., n. 90). La morte è tradizionalmente collocata nel 1224, ma la testimonianza di un mandato pontificio dell'11 luglio 1227, indirizzato ancora a L., e l'attestazione del suo successore Obizo ancora come cappellano papale al 2 luglio dello stesso anno, inducono a spostare la data successivamente all'11 luglio 1227 e comunque prima del novembre 1230, quando Obizo è ormai attestato come suo successore nella sede cosentina.
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