LUCCA
(lat. Luca)
Città della Toscana, capoluogo di provincia, situata al centro di una pianura alluvionale, compresa tra l'Appennino tosco-emiliano e il monte Pisano.La posizione e la forma di L. sono state condizionate dal fiume Serchio, che oggi scorre poco a N della città, il cui corso ha subìto notevoli variazioni nel tempo. Dopo il ritiro del mare pliocenico, il Serchio (Auser), aggirato a E il monte Pisano e alimentato il lago di Sesto, confluiva nell'Arno all'altezza di Calcinaia. Successivamente gli effetti di colmata costrinsero il fiume ad aprirsi un nuovo deflusso verso S-O, tracimando oltre la soglia di Ripafratta per confluire nuovamente in Arno a Pisa. La curva che descrivono le mura della città romana nel lato settentrionale fu forse la conseguenza di un'ansa di questo nuovo corso del fiume (che seguitò a convivere con quello più antico), il quale, dopo un'ulteriore variazione, lasciò un'area libera, utilizzata per la costruzione dell'anfiteatro. L'abbandono conseguente alla caduta dell'Impero romano dovette peggiorare sensibilmente le condizioni idrologiche della piana lucchese, tanto da indurre il vescovo s. Frediano a modificare il corso del ramo occidentale del fiume - operazione ritenuta miracolosa, in realtà frutto di ingegneria idraulica - in modo da dare a esso uno sbocco autonomo al mare, onde garantire un migliore deflusso delle acque. Dal sec. 8° questo ramo divenne l'Auserculus, donde il nome moderno del Serchio, e la regimentazione delle sue acque fu una costante della vita lucchese anche nei secoli successivi, fino alla definitiva scomparsa del ramo orientale.
Riguardo all'origine di L., si vuole che essa sia sorta nel territorio dei Liguri di cui sarebbe stata stazione - il rapporto tra il toponimo e la radice celto-ligure luk ('luogo paludoso') ne potrebbe essere un indizio - non lontano dal confine con gli Etruschi. Il più antico ricordo è offerto da Livio (XL, 43, 1), che riferisce della fondazione della colonia romana nel 180 a.C., in coincidenza con la vittoria sugli Apuani. Nel quadro del nuovo ordinamento dell'Italia, tra il sec. 2° e il 1° a.C., L. divenne un municipium inserito nella Tuscia in età augustea. Per la felice posizione nella pianura, L. giunse a essere un nodo stradale di notevole importanza, mantenuta anche nel Medioevo: al suo impianto ad assi ortogonali facevano capo a E la via Cassia, prolungata da Firenze, a O la via di Luni, a N la via di Parma e a S la via di Pisa.La città romana ebbe impianto quadrilatero - reso un po' irregolare sul lato settentrionale da un ampliamento abbastanza antico - con i lati est e ovest di m. 500 ca. e i lati nord e sud di m. 650 circa. Il cardine e il decumano massimi sono oggi identificabili, il primo sulla direttrice (da S) delle vie S. Gerolamo, Beccheria, S. Lucia e del Moro, il secondo (da O) su quella delle vie S. Paolino, Roma e Santa Croce. Il giro delle mura - dello sviluppo di oltre km. 2 - seguiva (in senso antiorario dall'angolo di S-E) le attuali vie della Rosa e dell'Angelo Custode a E, le vie Mordini e S. Giorgio a N, le vie Galli Tassi e S. Domenico a O e il corso Garibaldi a S. La stessa chiesa di S. Michele in Foro, posta presso l'incrocio dei due assi maggiori della città romana, con il suo appellativo è una sicura conferma toponomastica dell'antico centro cittadino.Le più consistenti testimonianze materiali di L. romana sono offerte dai resti dell'anfiteatro, che fu riutilizzato già dal Medioevo - quando viene ricordato come Arringio e Parlascio (Barsocchini, 1836, pp. 91-95) - e adibito anche a prigione, fino a essere completamente occupato da abitazioni, con l'antica platea al centro, sistemata a piazza nella prima metà dell'Ottocento. All'esterno del suo perimetro, sulle facciate degli edifici che vi sono stati costruiti nel tempo, affiorano i resti dei due ordini di arcate che scandivano le cinquantaquattro campate originali, riferibili al 2° secolo. Anche del teatro romano, dello stesso periodo, si conservano resti e la sua curvatura è in parte scandita dall'andamento dei muri perimetrali degli edifici posti sul lato occidentale della piazzetta delle Grazie.Non è noto con certezza quando a L. si sia affermato il cristianesimo; la prima testimonianza di una comunità cristiana lucchese risale a poco prima della metà del 4° secolo. Della prima metà del sec. 6° è la più antica epigrafe cristiana (Arch. di Stato), proveniente dal sito ove si ritiene sorgesse la chiesa di S. Pier Maggiore o in Silice. Gli scavi condotti presso le chiese di S. Vincenzo e dei Ss. Giovanni e Reparata sembrano indicare che gli edifici religiosi lucchesi dell'Alto Medioevo dovevano avere una buona consistenza.In età tardoimperiale L. non subì i traumi delle invasioni barbariche e quando fu occupata dai Goti, al tempo di Teodorico (493-526), sembra addirittura avere conosciuto un periodo di relativa prosperità, durante il quale si vuole sia stata impiantata una zecca. Né sembra aver subìto grosse distruzioni dopo il lungo assedio sostenuto nel 553 da parte dell'esercito bizantino di Narsete, poiché è noto che ottenne onorevoli condizioni di resa.Non è certo come e quando sia avvenuta l'occupazione longobarda di L. - che tuttavia non sembra posteriore al 570 - così come non è noto quali ne furono le conseguenze immediate. Si vuole che i Longobardi si stabilissero entro il circuito della città romana: da alcune loro sepolture, rinvenute presso l'oratorio di S. Giulia nella seconda metà del secolo scorso, appaiono indicazioni di una conversione al cristianesimo; da una chiesa documentata già alla fine del sec. 8°, quella di S. Romano, provengono suppellettili e ornamenti longobardi (Mus. Naz. di Villa Guinigi). I Longobardi probabilmente fortificarono l'antico anfiteatro nei primi tempi della loro presenza a L., epoca a cui risale una ricostruzione della chiesa di S. Frediano, forse la primitiva cattedrale, che prese il nome dal santo vescovo (m. nel 588) e che si vuole abbia ricevuto interventi di quel Faulone che fu maggiordomo di re Cuniperto (688-700), tanto che essa venne denominata anche basilica Langobardorum (Belli Barsali, 19702, p. 187).Per comprendere la fortuna di L. nel Medioevo e l'immagine urbana che la distingue fin dai secc. 11° e 12° si deve ricordare che già all'inizio dell'8° la città risulta sede del ducato longobardo di Toscana. Di rilievo, inoltre, è il numero delle chiese, ca. quaranta, documentate tra il sec. 8° e l'11° entro il perimetro della città antica (Belli Barsali, 1973).Nel periodo carolingio, a L. ai duchi si sostituirono i conti. Con Matilde di Canossa, tra il sec. 11° e il 12°, il marchesato di Toscana raggiunse il suo maggiore splendore, ma la 'gran contessa', preferì Firenze a L., innescando la futura fortuna della città sull'Arno. Ciò non impedì a L. di continuare la crescita economica e politica, favorita dalla concessione e dalla conferma di privilegi imperiali (Inventario del R. Archivio, 1872-1888, I, p. 51), tra i quali emergono le libertà di commercio e la giurisdizione sulle sei miglia attorno alla città, premessa per la futura autonomia. La fortuna mercantile di L. ebbe un incentivo determinante nella presenza della via Francigena (o Romea), la grande strada percorsa da mercanti e pellegrini che, fin dall'età longobarda, attraverso la Toscana e il passo della Cisa, fu il più importante collegamento di Roma con l'Italia settentrionale e, oltre le Alpi, con la Francia, le Fiandre e l'Inghilterra.Tra il sec. 11° e il 12° si registra un crescendo dell'attività edilizia nell'antica area cittadina compresa entro le mura romane, che vennero restaurate e dotate di nuove torri. Venne così innescato un processo di rinnovamento che l'archeologia ha dimostrato essere ancora contiguo, nei piani di vita, a quello altomedievale e romano (Ciampoltrini, 1992).La fortuna di L. nel sec. 12° trova conferma in un consistente incremento demografico, accompagnato da un sostanziale rinnovamento dell'edilizia cittadina, in particolare degli edifici religiosi, e dalla nascita di borghi popolosi presso S. Maria forisportam, S. Pier Somaldi e S. Frediano, con il conseguente ampliamento del tessuto urbano verso E e verso N. Nel corso del sec. 12° non solo vennero sepolti gli impianti tardoantichi e altomedievali, ma addirittura anche gli esiti dei rinnovamenti che erano maturati nel secolo precedente. I recenti scavi della chiesa di S. Giustina hanno dimostrato che le sue strutture divennero arcaiche nel corso di un solo secolo, inadeguate per una città che doveva conoscere una continua espansione. Il piano di vita di L. si innalzò mediamente di almeno m. 1,50, tanto che le strutture del sec. 11° e della prima metà del successivo fecero da fondazione per i nuovi edifici pubblici e privati, in un fervore edilizio che dovette interessare ampi strati del tessuto sociale. Emblematica di questa crescita urbana è la seconda cinta muraria di cui L. venne dotata - anche per proteggere i borghi già menzionati - a partire dalla seconda metà del sec. 12° (il primo documento che ricorda le nuove mura, del 1198, è conservato presso l'Arch. di Stato, Diplomatico, S. Frediano, 5 aprile 1198), la cui costruzione si protrasse fino alla metà del Duecento. Il percorso di queste mura ricalcava quello precedente nel tratto meridionale, ma a E si spostò sulla direttrice delle vie S. Nicolao e del Biscione, a N seguì l'od. via dei Carrozzieri, passando a tergo della chiesa di S. Frediano. Ciò allo scopo di inserire i nuovi borghi che si erano sviluppati con criteri urbanistici legati alle sopraggiunte esigenze di crescita dell'abitato, ignorando il rigido schema ad assi ortogonali della città romana. A O invece si ebbe un semplice spostamento del perimetro murato parallelamente alla cinta romana, con la formazione di strade che si ricollegavano, in maniera palese, a quelle dell'impianto antico.La nuova cerchia murata aveva un'altezza di m. 12 ca., possedeva un accurato paramento in filaretto di pietra, era coronata di merli ed era intervallata da torri rompitratta semicircolari, secondo una foggia forse derivata dall'impianto romano. Vi si aprivano quattro porte (ma anche otto postierle), due delle quali oggi scomparse: quella di S. Pietro, prossima alla preesistente porta romana, presso l'od. via Vittorio Veneto, e quella di S. Donato, posta all'incirca là dove la via S. Paolino sbocca nel piazzale G. Verdi. Sopravvivono, seppure rimaneggiate, la porta dei Ss. Gervasio e Protasio, detta anche dell'Annunziata, con un solo fornice, e quella di S. Maria dei Borghi, della quale rimane aperto uno dei due fornici. Entrambe appaiono inserite tra due robusti torrioni, con andamento semicircolare nella parte esterna. Le prime immagini attendibili di L. - contenute nelle Croniche di Giovanni Sercambi (Arch. di Stato, 107, cc. 101v, 109r), nell'affresco dell'Incoronazione della Vergine, del 1460 ca. (S. Paolino) e in un incunabolo del 1477 (Bibl. Capitolare, inc. 157, c. 2r) - indicano che queste porte erano protette sul lato di campagna da antiporte merlate e da un ponte levatoio sul fossato che circondava le mura, le cui acque erano alimentate dal Serchio mediante il fosso ancora inserito nel tessuto urbano lucchese.Un nuovo e importante episodio urbanistico si registrò a L. per volontà di Castruccio Castracani, che nel 1322 costruì all'interno della città una fortezza, detta l'Augusta. Essa occupava quasi un quarto della città antica nel quadrante sudoccidentale, sfruttando sui due lati esterni le mura urbane e ricevendo sui due interni nuove mura sulle direttrici delle attuali vie Vittorio Emanuele e Vittorio Veneto; quest'ultimo lato poteva però avere un andamento più orientale, in tangenza con piazza del Giglio. Tuttavia l'Augusta funzionò per breve tempo perché, dopo essere stata usata dai Pisani durante la loro occupazione di L. alla metà del Trecento, fu demolita dal popolo lucchese nel 1369. La cerchia murata duecentesca è quella che definisce L. medievale e che contiene gli episodi architettonici più significativi della sua vita cittadina, i quali certamente segnano quel panorama urbano che le trasformazioni tardorinascimentali e moderne, più apparenti che reali, non hanno cancellato. La città del Tardo Medioevo seguitò a espandersi verso E - si veda in primo luogo l'inserimento del grande complesso conventuale di S. Francesco -, ma un nuovo ampliamento del perimetro murato iniziò soltanto nel sec. 15°, gettando le premesse per il grandioso impianto delle mura cinque-seicentesche.
La conoscenza della topografia altomedievale di L., come ha dimostrato Belli Barsali (1973), è suffragata dalla notevole quantità di documenti scritti, cui si aggiungono testimonianze toponomastiche, come per es. il c.d. prato del marchese nella parte occidentale della città, a ricordo del palazzo marchionale; la curtis regia e la zecca sarebbero state nella zona del palazzo Gigli in piazza S. Giusto (Matraja, 1843). Tuttavia poco o niente rimane delle coeve architetture, se non un buon numero di reperti scultorei (per es. plutei, pilastrini di transenne, capitelli), conservati in varie chiese lucchesi (duomo di S. Martino, S. Frediano, S. Michele in Foro, S. Micheletto, S. Benedetto in Gottella, S. Giovannetto, S. Giustina) e presso il Mus. Naz. di Villa Guinigi, relativi a suppellettili che tra il sec. 8° e il 10° andarono a ornare edifici religiosi (Belli Barsali, 1959).Testimonianze eloquenti della grande ripresa che interessò L. fin dal sec. 11° sono il grande numero e la qualità artistica delle sue chiese romaniche. Il Romanico lucchese, nelle sue espressioni più mature, attesta la rilevanza dell'apporto della cultura pisana (si è parlato spesso in passato di Romanico pisano-lucchese), ma fu determinante anche l'apporto dell'area padana. Merito, questo, della via Francigena, che favorì l'arrivo di maestranze settentrionali, più volte documentate. Ciò si può apprezzare - anche nelle molte chiese romaniche del contado - nell'interpretazione della decorazione plastica, nel deciso (assai più che a Pisa) risalto dell'arredo architettonico, nella solida impostazione delle torri campanarie, nei pilastri a fascio che sorreggono la facciata del duomo.Nella seconda metà del sec. 11°, per iniziativa del vescovo Anselmo da Baggio, poi papa Alessandro II, fu iniziata a L. la costruzione di varie chiese. Oltre al duomo di S. Martino, riedificato in seguito, fu ricostruita la chiesa di S. Alessandro - segnata da caratteri di grande classicità - e forse anche quella di S. Michele in Foro. Prerogativa di questa prima architettura romanica lucchese è l'uso dello schema basilicale di derivazione classica, come attesta il ritmo serrato dei colonnati, spesso impreziositi da capitelli antichi. La semplicissima facciata di S. Alessandro presenta una specchiatura nella parte superiore in corrispondenza della navata centrale scandita da due lesene che si appoggiano su una mensola orizzontale, all'interno della quale si aprono le finestre. Si tratta di una soluzione che riaffiora anche in S. Frediano e in varie chiese del contado (per es. S. Pietro in Valdottavo, S. Giorgio di Brancoli). Nella successiva generazione delle chiese romaniche lucchesi, iniziata alla metà del sec. 12°, si avvertono sempre più i motivi derivati dalla cultura pisana. Archeggiature e loggette cieche nelle facciate e nei fianchi di S. Michele in Foro, di S. Maria forisportam, del duomo, di S. Pier Somaldi e di S. Giusto ne sono chiara testimonianza, così come la marcata bicromia che compare in queste ultime due chiese, nella cui diffusione a L. ebbe un ruolo determinante anche Pistoia. Contemporaneamente cominciavano a diffondersi in città i caratteri lombardi già menzionati.Si vuole che la prima delle grandi chiese lucchesi del sec. 12° sia stata S. Frediano, iniziata nel 1112 sul sito del monasterium Sancti Vincentii et Fridiani, ricordato alla fine del sec. 7° ma esistente già dal precedente (Brühl, 1970), e consacrata nel 1147 da papa Eugenio III. Il suo schema è a tre navate (forse si pensò di trasformarla a cinque e nel sec. 13° si rialzò la centrale), divise da colonnati di ricordo paleocristiano. La struttura della facciata è semplice e riflette, mediante lesene, la spartizione interna; la parte centrale è assai sviluppata in altezza e attraversata da una loggetta architravata sopra la quale si estende il grande mosaico con l'Ascensione, lavoro talora riferito alla cerchia di Berlinghiero. Ispirata a semplicità è anche la tribuna della chiesa, con l'abside esternamente coronata da una loggetta architravata e affiancata da una robusta torre campanaria (assai restaurata) con caratteri marcatamente lombardi.La chiesa di S. Michele, denominata in foro fin dal sec. 8°, è forse quella più rappresentativa del Romanico lucchese, con schema a tre navate - la centrale conclusa da abside semicircolare - e transetto sporgente. L'impianto, probabilmente risalente agli anni del vescovo Anselmo da Baggio, doveva essere a buon punto nel 1143 (data incisa nel pilastro sinistro dell'arco trionfale), ma la costruzione si protrasse più a lungo. L'arredo dell'abside, con arcate cieche sovrastate da una loggetta, così come le arcate dei fianchi e del transetto, denunciano un palese collegamento con il duomo e battistero di Pisa, fino a fare avanzare l'ipotesi (Salmi, 1926) di una possibile presenza di Diotisalvi (v.). Insolita è la sistemazione della torre campanaria sul braccio destro del transetto, mentre la facciata, che più di ogni altra tra quelle lucchesi si avvicina al prospetto del duomo - per essa è stato fatto (Salmi, 1928, p. 107) il nome di Guidetto (v.) -, media con slancio gotico influenze pisane e senso chiaroscurale di gusto lombardo.Tra le altre chiese romaniche lucchesi ricostruite a partire dal tardo sec. 12° sono da ricordare S. Pier Somaldi, esistente nel sec. 8°, il cui impianto basilicale è diviso da archeggiature su pilastri (in uno è ricordata la donazione di cento carri di pietra nel 1190 o 1199), la cui facciata è duecentesca - l'architrave del portale centrale di Guido Bigarelli da Como (v. Bigarelli) reca la data 1203 -, mentre alcune parti, tra cui la zona alta del campanile, sono ormai trecentesche. Più o meno coeva e simile nella spartizione delle navate con pilastri è la chiesa di S. Cristoforo, in parte forse ideata da Diotisalvi (una lapide su una parete interna documenta un intervento di un architetto di tale nome).Anche la chiesa di S. Maria (in antico S. Maria Maggiore, poi S. Maria Bianca), detta forisportam per essere sorta fuori della prima cerchia cittadina, di origine altomedievale, fu rinnovata nella seconda metà del sec. 12° con pianta a tre navate e transetto. Il ritmo dei colonnati è interrotto a metà da una coppia di pilastri e altri due sostegni cruciformi segnano l'attacco del transetto. La decorazione esterna, specialmente nella facciata ad arcate cieche sormontate da loggette, appare ispirata dal duomo di Pisa, ma il paramento monocromo e la decorazione plastica sono lucchesi. Un Guidus magister lavorava nel 1188 alla chiesa di S. Maria Corteorlandini (o S. Maria Nera), della quale rimangono però pochi resti, tra cui due absidiole e un portale laterale.Tra le altre chiese lucchesi rinnovate a partire dal tardo sec. 12° vanno annoverate quella dei Ss. Giovanni e Reparata - edificio episcopale fino al sec. 7° -, che ebbe pianta a croce latina, di S. Tommaso in Pelleria, anch'essa documentata nell'Alto Medioevo, a unica navata in cotto e facciata duecentesca, e di S. Micheletto, nel fianco sinistro della quale rimane un architrave scolpito che è stato messo in rapporto con l'arte di Biduino (v.). Questo artista firmò un architrave sul fianco meridionale di S. Salvatore, a tre navate divise da pilastri quadrilateri, dove la bicromia degli archivolti dei portali ricorda esperienze pistoiesi. Tra le altre chiese romaniche minori di L. sono da ricordare quelle di S. Andrea e dei Ss. Vincenzo e Anastasio, entrambe a navata unica.Per ultimo si ricorda il duomo di S. Martino perché esso è espressione sia dell'architettura romanica sia di quella gotica. Della chiesa consacrata da Anselmo da Baggio nel 1070, alla presenza della contessa Matilde di Canossa, rimangono pochi elementi, tra cui la parte interna del portale maggiore. L'edificio anselmiano aveva cinque navate, era preceduto da un atrio ed era dotato di cripta, ma è incerto se avesse un transetto sporgente. La facciata romanica che ancora rimane fu iniziata prima della fine del sec. 12° e firmata da Guidetto nel 1204, ma la decorazione dell'atrio si protrasse ancora per alcuni decenni. La nuova facciata fu anteposta a quella più antica, allineata sul limite esterno dell'atrio preesistente, ma con un aspetto asimmetrico a causa della presenza della grande torre campanaria di foggia lombarda aperta da una progressione da monofore a quadrifore. Questo prospetto è solo parzialmente influenzato da quello del duomo di Pisa, perché nelle tre ampie archeggiature di base su solidi pilastri a fascio e poi anche negli ordini di loggette superiori (il sistema rimase incompiuto in alto) si allontana dall'archetipo per il più marcato senso plastico, cosa che del resto si giustifica con l'origine lombarda dei maestri che vi lavorarono, a partire da Guidetto. All'inizio del sec. 14° si procedeva a un ulteriore rinnovamento della chiesa, cominciando dalla parte terminale, che fu allungata ed ebbe un transetto sporgente, esternamente con caratteri di antica derivazione pisana, come indicano i motivi ad arcate cieche, dove però il verticalismo, l'articolazione dei particolari e la dimensione delle finestre (caratteri poi estesi anche alle fiancate) denunciano ormai la stagione gotica. Nel 1372 fu iniziata la trasformazione interna da cinque a tre navate, coperte con volte a crociera sostenute da arcate a tutto sesto su pilastri a fascio, richiedendo un sistema di contrafforti esterni.Per quanto rinnovata nella prima metà del Duecento, la chiesa dei Ss. Simone e Giuda, ricordata fin dall'839, nel suo impianto a tre navate divise da pilastri, seppure semplificati, conserva ancora caratteri romanici, così come S. Benedetto in Gottella, con la sua facciata bicroma. Caratteri di più decisa transizione verso il Gotico denuncia la chiesetta di S. Giulia, la cui facciata, risalente al 1344, è scandita da tre archeggiature cieche ancora a tutto sesto, ma sormontate da un'ampia bifora.L'architettura gotica religiosa a L., a parte l'interno del duomo, è da ricercare nelle chiese costruite dagli Ordini mendicanti. La chiesa di S. Romano fu ricostruita dai Domenicani su di un antico oratorio negli ultimi decenni del sec. 13° e consacrata nel 1281, ma la tribuna fu rinnovata e ampliata nella seconda metà del secolo successivo. Lo schema risulta così quello tipico delle chiese mendicanti: un'ampia navata illuminata da finestroni gotici, con transetto sporgente e cappelle terminali. Per quanto anch'essa trasformata internamente in età barocca, analogo impianto ebbe la chiesa di S. Maria dei Servi, costruita verso la metà del Trecento là dove era il piccolo edificio di S. Michele degli Avvocati, ceduto ai frati nel 1254.Più semplice nell'impianto, ma forse più compiuta nelle forme, è la chiesa di S. Francesco, edificata nel sec. 14° con una vasta aula a copertura lignea e conclusa da tre cappelle che si aprono su una parete terminale dall'insolito andamento a linea spezzata; realizzata in cotto, la costruzione ha la facciata rivestita in calcare bianco con bande cromatiche ed esili archeggiature cieche di ricordo romanico, mentre l'ordine superiore della facciata è frutto di un completamento moderno; impianto simile presenta anche la chiesa di S. Agostino, rifatta negli ultimi decenni del Trecento.Uno degli edifici religiosi più interessanti del sec. 14° a L. è l'oratorio di S. Maria della Rosa, addossato alle mura romane e costruito dall'Università dei mercanti, la cui struttura potrebbe derivare dal tamponamento, con eleganti quadrifore gotiche, di una loggia già esistente. Unico edificio a pianta centrale del Medioevo lucchese è il battistero, annesso alla chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata fin dall'origine, ma ricostruito nel Trecento e terminato con una cupola ogivale nel 1393.Il panorama urbano di L. era segnato nel Medioevo da un'incredibile selva di torri - "un boschetto", informa Fazio degli Uberti (Dittamondo, III, 6, 68) - su alcune delle quali erano alberi alla sommità, come ancora oggi si può osservare sulla torre dei Guinigi. Già nel sec. 11° a L. si iniziarono a costruire le torri, che raggiunsero un numero davvero ragguardevole: Matraja (1843) nella sua pianta della città ne indica centotrenta, ma si ritiene siano state assai di più. Come di solito accade nelle città medievali, le torri più antiche sono anche quelle più alte e con poche aperture, come per es. quelle del Veglio e delle Ore.Nel corso del sec. 13° si definirono i caratteri di fondo dell'architettura civile lucchese: si trattava di edifici con la bottega al piano terreno e i locali di abitazione ai piani superiori, spesso serviti di scale di legno. In certi casi dovevano esservi logge al piano terreno, usate per la vendita delle merci e per le contrattazioni.Spesso la casa-torre lucchese, che mostra collegamenti con l'analoga edilizia pisana, aveva il lato aperto sulla strada attraversato da arcate in laterizio o da architravi appoggiati ai sodi laterali, talvolta con tamponamenti in legname; nelle corti del Pesce e Colombini sono ancora visibili case con architravi di legno. Tuttavia, nel sec. 13°, la casa-torre cedette progressivamente il posto a un tipo di abitazione con più accentuato andamento orizzontale, con un maggiore numero di vani per ogni piano, diventando la facciata un vero e proprio affaccio sulla città. Si tratta del tipo di impianto che caratterizza la casa dell'Opera del duomo, e anche le case dei Gentili in via S. Andrea e altre ancora in via del Moro. Pur nella varietà di interpretazioni del tema costruttivo, alle ampie archeggiature - spesso a sesto ribassato - del piano terreno facevano riscontro ai piani superiori grandi finestre polifore, di frequente contenute entro un arcone a tutto sesto. Non di rado queste case sono state oggetto, fino a tempi abbastanza recenti, di restauri in stile, come le case di Monna Vanna in via Fillungo, una delle strade di L. che meglio conserva il carattere medievale.Riguardo ai materiali da costruzione che segnano il volto medievale di L., se l'età romana lascia intravedere l'uso di panchina e calcari marmorei, nel Medioevo si affermò l'impiego di vari tipi di pietra, estratti prevalentemente dal vicino monte Pisano, e del laterizio.Nell'architettura religiosa prevale solitamente la pietra, talora con preminente uso di un tipo, come la 'pietra bigia' in S. Frediano e in S. Giusto o l'arenaria macigno in S. Pier Somaldi, mentre S. Alessandro ha un rivestimento marmoreo. Le facciate recano spesso effetti cromatici con l'inserimento di altri tipi di pietra. Il calcare marmoreo prevale negli esterni delle chiese maggiori (per es. duomo di S. Martino, S. Michele in Foro), dove fa la sua comparsa anche il piu prezioso 'verde di Prato', ma anche nell'arredo dei portali e delle loggette.
Bibl.:
Fonti inedite. - G. Matraja, Guida monumentale della città e diocesi di Lucca fino a tutto il 1660, Lucca, Bibl. Statale, 553-557.
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A fronte della consistente presenza di edifici ecclesiastici attestati nel periodo altomedievale, scarse sono le testimonianze scultoree, sia di decorazione architettonica sia da arredo presbiteriale, né l'avanzare delle ricognizioni e degli scavi ha aggiunto molto al panorama offerto dai sessanta pezzi già noti (Belli Barsali, 1959), che consentivano di seguire anche a L. il progressivo allontanamento dall'iniziale prevalenza della componente tardoromana, attraverso le numerose varianti che attestano il formarsi di un nuovo linguaggio, fino al brachilogico capitello-acquasantiera da Gello, oggi al Mus. Naz. di Villa Guinigi, per concludersi, inoltrandosi nel sec. 11°, con una ripresa classicistica.Tra le nuove acquisizioni, significativi per il sec. 8° sono i reperti restituiti dagli scavi nella chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata - frammenti di recinzione presbiteriale, lastra con crux florida accostata a una analoga e frammentaria del Mus. Naz. di Villa Guinigi, cofanetto in osso (Amante Simoni, 1992a; Casartelli Novelli, 1992; Pani Ermini, 1992), e ancora alcuni elementi reimpiegati in chiese del contado - e in particolare le lastre nella chiesa di S. Maria a Gallicano, accostate al capitello di Gello (Baracchini, Caleca, 1970).Numerosissime sono poi le testimonianze della continuazione di questa cultura, ricondotte ai secc. 10°-11°: la minuscola pisside lignea al Mus. della Cattedrale (Baracchini, Caleca, 1973), gli ornati di S. Cristoforo di Lammari (Luporini, 1956; Filieri, 1990, p. 29), i capitelli della chiesa di S. Paolo a Vico Pancellorum, quelli di S. Pietro in Corsena a Bagni di Lucca, la diffusa ornamentazione della chiesa di San Cassiano di Controne (Baracchini, Caleca, 1970); tale decorazione, accanto a motivi a intreccio e a rosette - per i quali è stata connessa ai codici atlantici del sec. 11° conservati a L. (Dalli Regoli, 1986, p. 16) -, accoglie figurazioni umane e animali, che trovano un terminus ante quem nelle lastre con i Ss. Pietro, Paolo, Michele reimpiegate nella chiesa di S. Maria a Piazza di Brancoli, tuttora riconoscibile in quella riconsacrata dal vescovo Rangerio poco prima del 1097 (Baracchini, 1992a).Da questa tradizione si distaccano, a partire dalla fine del sec. 11° e addentrandosi nella prima metà del 12°, manifestazioni scultoree e architettoniche di chiara, cosciente ripresa neoantica, che, assieme al fenomeno del reimpiego con identità funzionale di pezzi romani, sono state lette come concretizzazione del programma ideologico della Chiesa riformata e collegate con la figura di Anselmo da Baggio, vescovo di L. dal 1057 (Baracchini, 1992a).Tanto coerente a questo contesto ideologico quanto singolare per caratteri stilistici appare il Volto Santo del duomo di L., la grande statua lignea raffigurante il Cristo vivo e trionfante, vestito, come nell'Apocalisse, della tunica manicata propria dei sacerdoti, ma arricchita della cintura dorata dei re. Rex regum et Dominus dominantium, il Volto Santo, statua-reliquiario per contenere l'ampolla con il sangue di Cristo e reliquia esso stesso per essere stato, almeno nel volto, scolpito per diretto intervento divino, ebbe nel Medioevo una fama e una tradizione di culto simile al richiamo della Terra Santa e venne ben presto eletto dalla città suo emblema e simbolo. Tutto induce peraltro a credere che al momento in cui iniziarono le attestazioni di culto - appunto tra la fine del sec. 11° e gli inizi del 12° (Schnürer, Ritz, 1934; Schwarzmaier, 1972) - la statua svolgesse una precisa azione di memento delle rivendicazioni del papato nei confronti dell'impero. A lungo è stata discussa la sua cronologia e l'ambito culturale di chi la scolpì: è generalmente accettato che essa sia copia di una scultura precedente; una cauta ipotesi che in quest'ultima possa essere identificato l'attuale Volto Santo del duomo di Sansepolcro, che i dati acquisiti con il restauro indicherebbero del sec. 9° e comunque certo anteriore al 12°, è stata avanzata da Maetzke (1994). Anche alla luce di quanto detto, si può ritenere attendibile che la scultura attuale sia stata eseguita tra la fine del sec. 11° e gli inizi del 12°, come già da molti indicato (Toesca, 1927; Porter, 1928; Salmi, 1928; Caleca, 1982a), piuttosto che pensare a una copia realizzata in ambiente antelamico alla fine del sec. 12° da originale siriaco (de Francovich, 1936; 1937), e ciò tanto più in quanto le modalità di intaglio dei panneggi, su cui tale ipotesi si basava, sono già riscontrabili nell'esemplare di Sansepolcro, o altrimenti accettare l'ipotesi che si tratti di una copia degli inizi del sec. 12° su originale dell'11°, come sostenuto da Haussherr (1962) e da molti autori recenti.Ciò che oggi appare accertabile è che a questa volontà di ritorno alle forme di antichità romana e paleocristiana rispondono le nuove forme architettoniche e scultoree riscontrabili a Lucca. È infatti stato dimostrato che nel duomo di S. Martino, riedificato da papa Alessandro II tra il 1060 e il 1070, erano reimpiegati colonne e capitelli di spoglio (Silva, 1992), così come capitelli antichi (Chiarlo, 1979) e neoantichi si alternano in S. Alessandro, l'altra chiesa cittadina riferibile al papa-vescovo: in essa, esemplata fin in pianta sull'abbaziale di Montecassino, anche il portale, nell'adozione della tipologia timpanata e nel lessico ornamentale, costituisce una conclamata citazione classica (Baracchini, 1992a); è comunque evidente anche il riferimento a epoca carolingia della parte anteriore di S. Alessandro, con i relativi capitelli (Silva, 1987). Del resto è presente a L., pur se in proporzioni minori rispetto al caso pisano e limitato ai corpi di santi, il reimpiego di sarcofagi antichi come sepoltura (Chiarlo, 1984).Se la tipologia a timpano rimane un unicum, non così le colonne, anche di spoglio, o i capitelli neocorinzi, che, assieme alle palmette e alle foglie di acanto per cornici, archivolti, architravi, divengono la regola nelle chiese di L. (S. Frediano, S. Michele in Foro) e del contado (pievi a Brancoli, Valdottavo, Segromigno, Capannori; Filieri, 1990). A riprova dell'organicità con cui si interveniva in ogni manifestazione artistica, sono da ricordare le analogie notate (Dalli Regoli, 1986, pp. 11-17) tra alcuni di questi decori vegetali - architravi di S. Frediano, S. Margherita di Antraccoli - e il gallicizing foliage caratteristico di molti codici lucchesi dei primi decenni del 12° secolo. Coerente ripresa di un uso paleocristiano, ma anche imperiale costantiniano, è la scelta della pavimentazione, singolare nel panorama toscano, tuttora visibile nei resti del pavimento a opus sectile di S. Frediano; il disegno - rotae componenti quadrifoglio, incluse in quadrato ad angulum, a sua volta inscritto in un quadrato - coincide con quello dell'originario pavimento dell'abbazia di Montecassino e con quelli visibili a Roma nelle chiese restaurate o rifondate da Pasquale II, lo stesso papa che affidò la guida dei Canonici Lateranensi a Rotone, cui si deve la fondazione della chiesa lucchese (Baracchini, Caleca, Filieri, 1982).Analogamente sorvegliata è la decorazione delle monofore: non solo si ricorre a foglie di acanto per decorarne la spalla, ma spesso la si risolve in forma di abaco, completo del suo fiore, mentre l'intradosso accoglie una lunga foglia ricurva, ulteriore citazione di soluzioni decorative dell'antica Roma (Baracchini, 1992d). In alternativa alla foglia compare talora la protome umana, che si trova anche alla fine di cornici marcapiano, come in S. Alessandro. Forse a simili funzioni era destinata la testa di papa, un tempo reimpiegata nella muratura del duomo e ora nel Mus. della Cattedrale.Entro la metà del sec. 12° si coglie, come accade anche nelle strutture architettoniche, un più diretto contatto con stilemi pisani negli architravi delle pievi di Santa Maria del Giudice e in S. Michele in Foro: è lo 'stile fogliato' che, individuato prima come dato stilistico (Sheppard, 1958; 1959), è stato storicamente connotato (Baracchini, 1986) entro il contesto della romanitas pisana.All'interno di questo filone sono da rilevare a L. morfemi islamici, da tempo notati a Pisa, per es. negli architravi di S. Michele in Foro: al riguardo non si può escludere comunque un arrivo non trasmesso dalla città vicina, visti i rapporti commerciali esistenti tra L. e Medio Oriente. Ancora con maestranze pisane mostrano forti contatti alcuni capitelli reimpiegati nelle cappelle nel chiostro di S. Caterina (Baracchini, 1992c).Come ineluttabile conseguenza di questo processo di riappropriazione dell'Antico, a partire dalla metà del sec. 12° si introdussero a L. e nella Toscana nordoccidentale la narrazione di storia e la raffigurazione in scala monumentale della figura umana, utilizzando marmo apuano: a Pisa questo nuovo capitolo è inaugurato dal pulpito di Guglielmo; a L. ciò avviene con il fonte di S. Frediano, passando attraverso l'esperienza della decorazione dei pilastri del portico del duomo. Su questi, ancora legati a tradizioni estranee alla città, compaiono l'albero di Iesse e ampi e classici girali dello 'stile fogliato', alternati a scene di guerra entro maglie ovali sottilmente incise; li sormontano poderosi leoni in lotta e un capitello con la Chiesa e la Sinagoga: al complesso - la cui datazione oscilla tra la metà (Baracchini, Caleca, 1973) e la fine del sec. 12° (Kopp, 1981) e nel quale si sono volute vedere anche parti di reimpiego (Calderoni Masetti, 1977) - appartiene il mutilo S. Martino, ora nel Mus. Naz. di Villa Guinigi.Se la decorazione del duomo sembra restare isolata nella produzione scultorea locale, ben diversa è l'incidenza del fonte di S. Frediano. Firmato sul bordo del parapetto ("Me fecit magister Robertus in arte peritus") - ma vi si ravvisa la mano di più di uno scultore -, esso è risolto dal punto di vista iconografico come fons vitae, allineandosi con la raffigurazione della fontana dell'eterna giovinezza, tanto da essere stato letto come una vera e propria fontana o un lavabo per l'uso dei canonici da Silva (1985) e da Belli Barsali (19883), che ha ricordato anche la documentata funzionalità di un fonte battesimale nel 1173. Gli episodi della Vita di Mosè e il Buon Pastore tra i pianeti entro archeggiature (scolpiti sui parapetti della vasca circolare esterna), gli apostoli e i Mesi (sulla cupola della tazza centrale sopraelevata), i mascheroni leonini (attraverso cui l'acqua zampilla dalla tazza nella vasca) costituiscono una summa di citazioni classicheggianti e peraltro del tutto indipendenti dal linguaggio di Guglielmo, che pongono il fonte come prototipo forte per le realizzazioni figurali di tutta l'area. Da esso, più che da Guglielmo, sembra dipendere Biduino (Baracchini, Caleca, Filieri, 1982), che ripropone sull'architrave di S. Angelo in Campo (Lucca, Coll. Mazzarosa) le medesime togate figure, mantenendone anche peculiari stilemi quali il panneggio spiraliforme, non senza un'ulteriore meditazione su fonti paleocristiane. Più direttamente legato a Guglielmo e alla sua taglia è invece il pulpito firmato nel 1162 da un maestro Filippo, che si conserva - con parti dovute a un intervento di restauro settecentesco, peraltro precocemente rispettoso - nella chiesa di S. Gennaro di Capannori (Filieri, 1990).Mentre Biduino e i suoi discepoli lasciarono ampie tracce nel contado lucchese (la tomba del pievano Lieto nella pieve di Làmmari, le loggette di Pieve San Paolo presso Capannori, gli architravi di Diecimo e di Barga) e nella città - gli architravi di S. Micheletto e di S. Salvatore (facciata), una Madonna in trono con il Bambino, dal volto di sostituzione trecentesca (Lucca, Mus. Naz. di Villa Guinigi), proveniente dalla distrutta chiesa di S. Pier Maggiore -, giunse a L. una maestranza lombarda, destinata ad affermarsi in tutta la Toscana nordoccidentale, che provocò nel duttile artista un'ulteriore riflessione, visibile nell'architrave del portale laterale della chiesa di S. Salvatore, firmato da Biduino, ma dotato di un così marcato plasticismo da essergli stato nel passato talora negato. A questi stessi anni è da ricondurre l'attività di un anonimo maestro, definito, quando ne fu parzialmente ricostruito il corpus, di ascendenza francesizzante (Ragghianti, 1960), attivo in S. Maria forisportam. In questa chiesa sono infatti rimasti una lastra con la Madonna in trono entro archeggiature turrite e un leone stiloforo in lotta con un guerriero loricato: per questi pezzi e per quelli via via a essi accostati - un angelo e un re Mago a Firenze (Mus. Bardini), un profeta e un'Annunciata acefala a New York (Metropolitan Mus. of Art, The Cloisters), un'altra figura acefala riconosciuta nei depositi del Mus. Naz. di Villa Guinigi - è stata ipotizzata la provenienza da un ambone poi smembrato (Filieri, 1992).Per l'arrivo a L. di Guidetto (v.) e degli altri magistri marmorum lombardi per origine e cultura, è stata recentemente riproposta una data entro l'ottavo decennio del secolo, attraverso un riesame dei capitelli interni e del portale della chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata e del pulpito di S. Giorgio a Pieve di Brancoli, a quel portale strettamente connesso (Baracchini, Filieri, 1992b). Maestranze essenzialmente di scultori decoratori non si provarono, al loro arrivo, né con l'uso del marmo né con il connesso, riscoperto uso del trapano, né con la narrazione di storia e anche quando si cimentarono con architetture, come nel caso dei frontespizi a loggette del duomo e di S. Michele in Foro, le trasformarono in quinte scenografiche che annullano la percezione della struttura dietro a un profluvio di cacce, lotte bestiali e girali di carnose foglie, scolpiti o intarsiati in bianco e verde, che investono anche gli elementi portanti. Vennero così aggiornate numerose chiese di L. e del contado sia all'esterno, con l'apposizione di ornati architravi e archivolti retti da leoni, sia all'interno, con amboni e transenne. L'autore del pulpito di S. Giorgio a Pieve di Brancoli e dell'archivolto del portale della chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata appare sottilmente diverso da quelli attivi nelle loggette del duomo, firmate nel 1204 da Guidetto, mentre per i rilievi che, entro il portico dello stesso duomo, ornarono, a partire dal 1233, facciata e portali (Mesi, Storie di s. Martino, Storie di s. Regolo, Pentecoste, simboli degli evangelisti) si è sempre oscillato tra Guidobono di Lanfranco, Bigarelli (v.), Lombardo di Guido (documentariamente attestati come attivi nel cantiere) e Guido di Buonagiunta Bigarelli.Certamente tutti questi maestri diedero prova di grande duttilità, accettando di adottare dalle tradizioni locali alcune tipologie consolidate, che tuttavia adeguarono alle proprie tradizioni e capacità sia per la facciata a loggetta sia per i plutei. Coerentemente con la loro attitudine, sembra non abbiano mai tentato, e tanto meno nella prima generazione, di cimentarsi con il tema della statua monumentale: non è un caso se, sulle mensole predisposte da Guidetto tra il precedente portico e il frontespizio da lui eretto nel duomo, compare un maestoso gruppo scultoreo, certamente dovuto ad altro artefice, di cultura affatto divergente, che si suole collocare, sulle orme di Toesca (1927), entro il neoellenismo fiorito a Pisa intorno al 1200.Appare, così, meno singolare che i più antichi esempi di scultura lignea risultino del tutto svincolati dal contesto dei Guidi: come una recente esaustiva indagine territoriale (Baracchini, 1995a; 1995c) ha consentito di accertare, sculture in marmo e in legno sembrano seguire i canoni di due distinti generi per tutto il sec. 13°, mentre tendono a confluire nel secolo successivo fino a che, a cavallo fra Trecento e Quattrocento, ciò che le distingue è solamente la diversità della materia, mentre fin la tecnica di esecuzione si fa identica.Di fatto, delle dodici duecentesche Madonne in trono con il Bambino rinvenute, ben otto si attestano su prototipi risalenti al sec. 13°, introducendovi timide variazioni, mentre ricorrono, anche per la modellazione, alle tecniche pittoriche. Colore e preparazione poggiano infatti su di una tela che rimodella la figura, mentre lineamenti e ornati sono affidati al solo colore.I due generi si riuniscono di lì a poco, alla luce delle novità apportate dalla nuova opzione per una figuralità imperniata sull'uomo e sulla storia, impersonata anche a L. da Nicola Pisano (v.), cui si devono lunetta e architrave del portale sinistro della facciata del duomo. Se la diffusione del nuovo linguaggio nella decorazione architettonica non è immediata, esso è tuttavia testimoniato da statue isolate o da resti di complessi scultorei - un telamone, vicino a Giovanni Pisano, a San Michele in Escheto, una Madonna stante con il Bambino nella parrocchiale di Anchiano, un angelo e una Madonna al Mus. Naz. di Villa Guinigi, accostati rispettivamente a Lapo e a Giovanni di Balduccio, cui viene avvicinato pure l'Arcangelo Michele di Coreglia - e non manca di lasciare il segno nelle opere lignee e nell'argento. Artefici pisani compaiono anche tra quelli chiamati a decorare, con protomi tra arcate, il primo ordine della tribuna del duomo e tra loro nasce il lucchese Coluccio Colli, che si riconosce in una Madonna del Mus. Naz. di Villa Guinigi e nelle teste decorative inserite nel portale di un cimitero monumentale presso S. Frediano, iniziato a imitazione di quello pisano, e in quelli del battistero e della chiesa di S. Giulia.In un contesto di così omogenea ispirazione pisana non mancano interessi per Siena - un vescovo ligneo riferito ad Agostino di Giovanni (Caleca, 1995a) - o per modalità lombarde e transalpine, interessi talora coniugati con alte meditazioni su Giotto, come nell'Annunciazione lignea di San Cassiano di Controne.Separato da questo omogeneo contesto e di nuovo da circoscrivere al genere 'sculture lignee' è poi un gruppo di alti e drammatici crocifissi da leggere in dialettico rapporto con i crocifissi dolorosi di matrice germanica - artefici di Colonia specializzati in scultura lignea sono attestati a L. nel sec. 14° (Concioni, Ferri, Ghilarducci, 1994, p. 141) -, in origine parte di Deposizioni, come è stato dimostrato per l'esemplare di Camaiore (Previtali, 1981).A Pisa e alla tradizione di Nino Pisano, che a L. eseguì il gradino dell'altare del SS. Sacramento nel duomo, si continuò a guardare tra la fine del secolo e l'inizio del successivo, attraverso l'attività di Antonio Pardini, archimagister del duomo almeno dal 1394 fino al 1422, uno scultore che già nella natia Pietrasanta aveva avuto numerose occasioni di rapporti con Pisa. A lui sono da ricondurre, entro il duomo, il sepolcro di s. Agnello, di cui resta la lastra con il defunto, ora in funzione di paliotto entro l'altare della sagrestia, e, all'esterno, la decorazione delle parti alte di transetto e tribuna e dei fianchi, dove statue di profeti e apostoli, oggi al Mus. della Cattedrale, dovevano ornare contrafforti e finestroni, secondo un progetto solo in minima parte realizzato. Si ripropone con forza l'ipotesi che Antonio abbia trasmesso la lezione di Nino non solo alla cultura artistica lucchese di fine secolo ma allo stesso Francesco di Valdambrino, la cui presenza a L. è attestata in tempi precoci e in modo continuativo fino al 1407.Del resto, esiste un nucleo di opere, generalmente riconosciute a Francesco, che mostrano così stringenti rapporti con quelle di Antonio da costituire un nodo problematico di difficile soluzione: e questo, se poteva apparire da alcune delle opere già note, è ancora più marcato nel crocifisso e nel S. Ansano di San Cassiano di Controne recentemente rinvenuti. Che Francesco frequentasse il più anziano scultore resterebbe provato anche dai marmi di cattedrale, dove si è proposto di riconoscerne la mano in alcune teste decorative che sono apparse direttamente confrontabili con la sua produzione (Baracchini, Caleca, 1973; Bagnoli, 1987).A riprova del ruolo di laboratorio formativo assunto dal cantiere del duomo, va poi ricordato che numerose sono le rispondenze registrabili tra altre sculture lignee rinvenute e le protomi marmoree: una serie di santi abati le riecheggia nei volti dalle lunghe barbe simmetriche; quasi un calco da una delle teste del transetto sud è l'angelo annunciante dalla chiesa di S. Cristoforo, dovuto a un multiforme artista locale, Domenico di Fathino, che le fonti attestano, salvo che in questa occasione, piuttosto come pittore (Concioni, Ferri, Ghilarducci, 1994).
Della sofisticata e diramata cultura pittorica che certo dovette distinguere L. nell'Alto Medioevo restano solo poche tracce: dagli scavi effettuati sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata (Pani Ermini, 1992) sono infatti emersi un tappeto musivo del sec. 4°, decorazioni parietali che fingono crustae marmoree, attribuite all'8°, decorazioni 'a vela' riconducibili al 9°, graffiti con Storie di s. Reparata, collocati agli inizi dell'11° secolo. Se le condizioni di conservazione impediscono un sicuro giudizio sulle decorazioni della Badia di Cantignano, anch'esse 'a vela' ma sovrastate da fasce a cerchi intrecciati e girali vegetali - che devono comunque seguire la datazione delle murature, riportabili in quel tratto alla metà del sec. 11° (Filieri, 1990) -, è dalle miniature che vengono ulteriori elementi di giudizio. Nel ben noto Evangeliario 490 della Bibl. Capitolare di L. è stata rilevata infatti l'ascendenza merovingica delle capitali lumeggiate d'oro, mentre della complessa pagina di incipit è stata sottolineata la forte impronta 'tardoantica' (Caleca, 1994).La situazione diviene più ricca e interessante inoltrandosi nel sec. 11°: nella Bibl. Capitolare si conserva infatti un cospicuo numero di codici di formato atlantico, dai dilatati capilettera a decoro astratto-geometrico o vegetale stilizzato, delineati con parca tavolozza, pienamente partecipi di quella tipologia umbro-romana all'interno della quale è così difficile discernere le produzioni locali, di cui è stata ben sottolineata (Dalli Regoli, 1980a; 1980b; 1986) la piena adesione alla prima riforma gregoriana, direttamente correlabile alla presenza a L. di illustri esponenti di essa. Entro questo nucleo si segnala per l'inventività di alcune formule e per la valenza prototipica di esse, il Burcardo 124, con una singolare raffigurazione 'in pianta' del concilio di Nicea e con un innovativo sistema grafico illustrante la delucidazione dei rapporti di parentela.È stato messo in relazione con l'attività del vescovo Rangerio un altro interessante nucleo di codici, di poco posteriori: in essi si sviluppano modalità di decoro vegetale più libero e vario che, passando attraverso l'espansione delle appendici vegetali, arrivano alla trasformazione in fluido sistema vegetale del tracciato alfabetico, per poi sostituirlo con la valorizzazione della lettera-figura (Dalli Regoli, 1982). In questo contesto entra con forza la rappresentazione della figura umana, con l'ingresso dei santi di cui si celebra la festa, entro il microsistema delle iniziali. Come è stato rilevato (Caleca, 1994), all'interno del classicismo che accomuna questa produzione, estremamente divaricate sono le referenze culturali, che mostrano attinenze significative sia con l'area beneventano-cassinese sia con l'area transalpina.La pittura monumentale, a L. caratterizzata dalla nascita delle croci dipinte, non contraddice il quadro fin qui delineato: una convincente adesione allo stile solenne delle Bibbie atlantiche è stata rilevata nella croce di S. Giulia, mentre la stessa croce del duomo di Sarzana, firmata da un Guglielmus, l'unica a recare una data, il 1138, trova preciso riscontro (Caleca, 1994) nel lacunoso affresco dei Ss. Leviti a S. Frediano, che si data ai primi decenni del sec. 12° per figure, atteggiamenti e impostazione spaziale, mentre iconografia e struttura la ancorano alla croce di S. Michele in Foro e a quella, gemella, proveniente da S. Maria dei Servi ora al Mus. Naz. di Villa Guinigi.Se nelle infiorescenze che empiono i terminali di quest'ultima si è scorta una rispondenza con il 'fogliame alla francese' riscontrato in miniature e in architravi, entrambe le croci confermano, con la mescolanza di elementi solenni e 'corsivi' e con il vivace ductus grafico, l'esistenza di una cultura pittorica salda e aggiornata, e bene si inseriscono, con l'introduzione degli episodi salienti del vangelo e con l'adozione del Cristo triumphans, in quella volontà di diramare una controllata conoscenza della dottrina che stava alla base del rivolgimento nella produzione miniata 'riformata'. In questo contesto va posto, secondo alcuni (Caleca, 1982b), il grande mosaico sulla facciata di S. Frediano, da altri invece ricondotto all'attività dei Berlinghieri (v. Berlinghiero) od oltre.Se nei codici collocabili nella metà del sec. 12° L. sembra allinearsi con la produzione dei centri circonvicini, con i primi del Duecento ha inizio in città una feconda dinastia di pittori, miniatori e frescanti, i Berlinghieri, che avrebbero dominato la scena per quasi tutto il secolo.L'unica opera firmata da Berlinghiero rimasta a L., la croce proveniente da S. Maria degli Angeli ora al Mus. Naz. di Villa Guinigi, lo mostra assai sensibile alle forme dell'arte bizantino-comnena, forse trasmessagli da opere quali la Bibbia di Calci (Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, IV), e incline ad attenuare il rigore modulare delle croci del secolo precedente; peraltro nella sua croce di Fucecchio (Caleca, 1986), allora diocesi di L., il maestro sembra aderire alle esperienze di Giunta Pisano (v.). Ma è soprattutto il figlio Bonaventura che stabilizzò questa eredità in una cifra di grande successo, e non solo a Lucca. Al dossale con S. Francesco e storie della sua vita, che si conserva nell'omonima chiesa di Pescia, si accostano direttamente alcune opere rimaste sul territorio lucchese (le croci delle parrocchiali di Tereglio e Villa Basilica) mentre altre - come una lunetta in S. Frediano con la Madonna tra i ss. Riccardo e Zita, post 1278, o la pittura del 1274, già proposta a Deodato di Orlando (Garrison, 1951), che completa la tomba del mercante Bonagiunta Tignosini nel chiostro di S. Francesco - ricadono entro i modi della famiglia: questi o poco più sono gli scarni resti di una produzione che i documenti attestano ben più copiosa e prestigiosa. Del tutto ignota è la produzione di Barone, primogenito di Berlinghiero, mentre dell'altro fratello, Marco, rimane a L. (Bibl. Capitolare, 1) una Bibbia che lo mostra prossimo ai modi del fratello: il suo affresco bolognese in S. Stefano dimostra palesemente la forza espansiva della pittura lucchese di quegli anni.Con la fine del sec. 13°, e più ancora nel successivo, L. perse il ruolo di centro promotore che l'aveva distinta nell'Italia centrale. Nella produzione libraria si trovano: due corali prodotti per il convento di S. Romano (Lucca, Bibl. Statale, 2648; 2654), chiara esemplificazione della trasformazione del genere legata alla committenza degli Ordini mendicanti, il cui autore, pur al corrente di novità fiorentine, si attardava su formule localmente già sperimentate (Paoli, 1983); un piccolo nucleo di codici prevalentemente civili, presumibilmente realizzati in loco con una personale interpretazione della produzione emiliano-padana (Dalli Regoli, 1983b); i corali del guardaroba di S. Frediano e quello per S. Pier Cigoli (Lucca, Bibl. Statale, 2691), riconosciuti di un maestro di formazione umbra, attivo anche a Firenze (Chelazzi Dini, 1979).Non molto diversa sembra essere, almeno allo stato attuale degli studi, la situazione in pittura. Deodato di Orlando (v.), pittore e mosaicista di rilievo attivo tra il sec. 13° e il 14° anche a Pisa, nell'unica opera lucchese rimasta, la croce proveniente dal convento di S. Cerbone, riferibile al 1288, oggi al Mus. Naz. di Villa Guinigi, si presenta intento a innestare, su un sostrato di locale e nobile koinè duecentesca, una vivace e precoce attenzione all'attività del giovane Giotto. Giovanni di Apparecchiato sembra stabilmente attivo fuori patria, mentre si trova nei documenti lucchesi tra il 1331 e il 1334 il pittore e mosaicista Vincino di frate Giovanni, che con il precedente aveva intrattenuto a Pisa rapporti di collaborazione. È possibile che l'aquila imperiale rinvenuta sopra uno dei portali di accesso dell'od. palazzo della Provincia sia da riconnettere all'incarico da lui avuto nel 1331.Per tutta la prima metà del secolo gli accenti che suonavano a L. erano dunque 'stranieri': una predella di un seguace di Duccio, il Crocifisso firmato dall'ancora misterioso Paulus de Senis e gli scomparti di polittico da uno smembrato complesso nel convento di S. Cerbone, stabilmente assegnato a Ugolino Lorenzetti e dunque ora, dai più, ritenuto di Bartolomeo Bulgarini, indici forse di una presenza a L. dei loro autori (tutti oggi al Mus. Naz. di Villa Guinigi); una Madonna di Luca di Tommè, già nella chiesa di Granaiola (ora depositata al Mus. Naz. di Villa Guinigi), concomitante indizio, con le opere pisane, di una prolungata presenza del pittore nella Toscana occidentale. Forti erano anche le presenze pisane: rispettivamente a Francesco Traini e alla sua bottega sono riconosciuti l'Arcangelo Michele, dal convento dell'Angelo di Brancoli, ora nel Mus. Naz. di Villa Guinigi, e il corale 2690 realizzato per S. Pier Cigoli, alla Bibl. Statale; ancora da Pisa dipendono le decorazioni nel chiostro di S. Caterina, dove la Crocifissione ripropone quella del Camposanto pisano, mentre ad ambito tosco-emiliano riconduce l'affresco con S. Pietro in cattedra rinvenuto sulla controfacciata della chiesa di S. Frediano (Caleca, 1986).La forzata diaspora degli artisti lucchesi, se favorì l'arrivo di maestri di varia provenienza e formazione, consentì loro anche di rientrare, forti delle esperienze fatte, in centri di intensa elaborazione culturale. È questo il caso di Lazzarino di Luporo, e più del figlio Paoluccio, con il quale nel 1314 egli aveva lasciato L., dove risultano nuovamente attestati a partire dal 1341, per recarsi a Firenze. Il soggiorno di questi pittori a Firenze lascia intravedere un apporto di timbro giottesco alla cultura pittorica cittadina, confermato dal riferimento a Taddeo Gaddi del Crocifisso della parrocchiale di Monte San Quirico, da situare intorno al 1345 (Ferretti, 1976), e dall'accostamento al nome di Paoluccio (Caleca, 1983) della bella tavola con il Seppellimento di s. Paolino, nella chiesa dedicata a questo santo, opera tutta fiorentina e gaddesca in particolare nella solennità della composizione e nella stilizzata resa della muscolatura e delle fisionomie.La polivalente attività di Paoluccio, che investiva, come assicurano le attestazioni documentarie (Concioni, Ferri, Ghilarducci, 1994), candele, ceri, vessilli, gonfaloni e apparati effimeri accanto a pittura e miniatura, se conferma un quadro generale già delineato (Guidotti, 1986), risulta essere una costante per tutti i pittori lucchesi di questo secolo, i cui nomi restano spesso non collegabili con le opere. In questo quadro ricco e articolato, che vede il permanere di strette e dirette relazioni con Pisa anche oltre la metà del secolo, attendono ancora di essere più compiutamente collocate molte opere di recente rinvenute e restaurate, quali il ciclo di santi sopra le volte del S. Michele in Foro (eseguiti intorno al 1358, quando vennero predisposti i ponteggi), i frammentari e stratificati affreschi del S. Agostino di Pietrasanta e quelli nel catino absidale della pieve di Sesto di Moriano, così pregni questi ultimi di dirette assonanze con Francesco Traini da poter essere forse riferiti direttamente alla sua bottega.Di questo contesto, tutt'altro che poco ricco e stimolante, può essersi nutrito Angelo Puccinelli, per il quale sembra perdere forza l'ipotesi di una formazione esclusivamente senese, pur restando evidente la sua aggiornata consapevolezza sui fatti di quella città: sono stati infatti più volte sottolineati i suoi debiti verso Traini e Buonamico Buffalmacco (Gonzalez-Palacios, 1971b; Bellosi, 1972). In quella che sembra essere la più antica delle sue opere lucchesi, il trittico per l'oratorio di S. Caterina, ora nel Mus. Naz. di Villa Guinigi, ormai circoscrivibile agli anni tra il 1371 e il 1381 (Regola, 1977; Paoli, 1986), sono se mai da notare, accanto agli accenti pisani, possibili meditazioni su Paoluccio di Lazzarino - se si accetta l'attribuzione a questi del Seppellimento di s. Paolino, conservato nell'omonima chiesa - nelle slargate campiture dei Ss. Gervasio e Protasio, nell'insistita, stilizzata resa fisiognomica di S. Pietro e di S. Giovanni, presente anche nel lacunoso polittico del Mus. Naz. di Villa Guinigi, che gli è stato riferito (Caleca, 1983).In città di lui rimangono una Madonna con il Bambino oggi al Mus. Naz. di Villa Guinigi e la Dormitio Virginis per la chiesa di S. Maria forisportam, firmata e datata 1386: sono questi gli anni in cui era proficuamente attivo a L. Spinello Aretino (v.), cui si suole far risalire la responsabilità delle dirette citazioni giottesche rilevabili nella Dormitio, non senza che si sia mancato di individuare l'inizio di un sottile mutamento nelle opere lucchesi del pittore aretino (tutte ormai conservate altrove), a seguito del suo impatto con la cultura espressa in quel momento nella Toscana occidentale.Stretto scolaro di Spinello è considerato l'ultimo interessante esponente del Trecento lucchese, Giuliano di Simone, attorno alla cui unica opera firmata, una Madonna per la chiesa di S. Michele a Castiglione di Garfagnana, si viene faticosamente riscontrando, tra scoperte da restauro e riconoscimenti in collezioni e musei, un nutrito corpus entro il quale sono entrati stabilmente sia un ricostruito polittico sia un frammentario affresco da S. Quirico all'Ulivo, entrambi al Mus. Naz. di Villa Guinigi (Meloni Trkulja, 1971). A lui si può ora confermare anche per via documentaria il polittico dell'ospedale di S. Luca - già attribuitogli (Caleca, 1983) al momento dell'ingresso nel Mus. Naz. di Villa Guinigi - al quale Giuliano è risultato lavorare tra il 1392 e il 1395.Si svolse a L., inizialmente in parallelo con quella di Puccinelli e di Giuliano, la lunghissima carriera di Francesco Anguilla, attivo per ca. sessant'anni, dal 1384 al 1444. Sarebbe necessaria peraltro un'ulteriore riflessione per stabilire posizione e autografia di opere come la tavola di S. Caterina in S. Frediano, una Madonna in trono e teorie di santi affrescati nella chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata, di cui Francesco Anguilla è stato operaio dal 1403, presumibilmente eseguiti dopo l'incendio che devastò la chiesa nel 1392 e in epoca prossima all'altro affresco con il Battesimo, per il quale si lasciarono denari nel 1398.Prossima a Giuliano è invece un'aggraziata Madonna dal manto serpentinato, intenta ad allattare il Bambino, assisa alla base di un elaborato trono, raffigurato al di sopra di un altare su cui compare il Vir dolorum, circondato da minuscoli simboli della Passione: recentemente riscoperta dietro a un'intercapedine nella controfacciata della chiesa di S. Michele in Foro, da cui emergeva solo il volto che già aveva fatto suggerire il suo nome (Gonzalez-Palacios, 1971a), può forse essere collocata intorno al 1386, anno in cui si erigeva la cantoria.
Mentre è possibile avanzare l'ipotesi che già nel sec. 7°-8° fosse attivata a L. la lavorazione dell'oro (Amante Simoni, 1992b) ed è certa un'intensa attività di fusione del metallo per campane da parte di maestri lucchesi che si affiancarono ai più noti pisani (Lera, 1972; Corsi, 1973), una produzione orafa autonoma e organizzata è riconoscibile a L. solo dal 13° secolo.I primi statuti noti, benché appartengano al 1371 (Curia del fondaco) e al 1376 (Corte dei mercanti), fanno riferimento a uno 'statuto vecchio' (Capitanio, 1983); inoltre in un atto del 1306 è ricordata una riunione dei componenti artis aurificum che, more solito, dovevano eleggere consoli e capitani nella propria arte (Concioni, Ferri, Ghilarducci, 1991, pp. 28-29). La presenza di numerose botteghe orafe, già individuata per tutto il Trecento attraverso lo spoglio delle fonti istituzionali - registrazione presso le magistrature competenti, censimenti e giuramenti di tutta la popolazione - e attraverso l'analisi del libro di conti di un orafo lucchese (Capitanio, 1983; 1986; 1988), è stata ulteriormente documentata da una recente, esaustiva indagine territoriale (Baracchini, 1990; 1992b; Oreficeria sacra, 1993). Da documenti e monumenti esce un quadro ricco di presenze, aggiornato sulle novità pisane e senesi; benché infatti molti dei più antichi esemplari rimasti sul territorio della diocesi siano di manifattura limosina, come il reliquiario a cassetta di s. Tommaso Becket del Mus. della Cattedrale, il braccio-reliquiario della chiesa di S. Paolino, la croce e i gémellions di Pescia e Buggiano (Filieri, 1990), non mancano esempi di probabile manifattura locale, quali le croci processionali delle parrocchiali di centri minori del territorio lucchese, come Casoli, Pomezzana, Arliano e Lupinaia di Fosciandora, in lamina d'argento sbalzata su anima di legno. In esse si colgono significative consonanze sia con la coeva produzione pittorica - in particolare la croce di Casoli cita nel Crocifisso le opere di Giunta Pisano, mentre quella di Lupinaia si accosta a Cimabue - sia con la scultura di Nicola Pisano. Sono peraltro stretti ed evidenti anche i rapporti tra questa croce e quelle di Lucchio (S. Pietro) e Convalle (Ss. Simone e Giuda), ormai riconosciute all'orafo pistoiese Andrea di Jacopo d'Ognabene (v.), rapporti che si potrebbero spiegare ipotizzando un alunnato di Andrea presso il maestro cui si deve la croce di Lupinaia.Accanto a questa tipologia, è assai precoce la presenza a L. di oreficerie decorate da smalti traslucidi: le croci delle parrocchiali di Colognora, Trassilico, San Cassiano di Controne appartengono infatti a quel gruppo di croci toscane di primo Trecento, caratterizzato tecnicamente dall'uso di risparmiare volti e mani dalla copertura in smalto traslucido sull'esempio della croce Carrand (Firenze, Mus. Naz. del Bargello, Coll. Carrand), attribuito a Guccio di Mannaia (v.) e ai suoi stretti collaboratori.Non vengono però meno, neppure nelle opere a smalto, l'interesse e la conoscenza di modelli scultorei, se è vero che negli smalti della croce di Colognora si leggono riprese da Giovanni Pisano e che da quella di Trassilico - ancorata alla data del 1312 dalla croce stazionale del duomo di Padova, che le è gemella - traspare la reazione anti-giovannea che si verificava in quegli anni nella scultura senese.Lo svolgersi parallelo e sulle stesse fonti delle esperienze maturate nelle due diverse soluzioni tecniche, lo sbalzo e lo smalto, trova un punto di fusione nella croce della parrocchiale di Albiano (di particolare interesse anche perché reca impresso, unico caso trecentesco, il marchio 'pantera'), traduzione in sbalzo dei modi dello smaltista senese Tondino di Guerrino, ed è confermato anche nel secondo quarto del secolo. Dai modi di Giovanni di Balduccio e di Tino di Camaino dipendono la croce della parrocchiale di Tereglio - da collocarsi intorno al 1348 (Concioni, Ferri, Ghilarducci, 1994, p. 133) - e quella di Crasciana, che unisce la presenza di sbalzi sul recto a quella di smalti sul verso.L'interesse per la cultura artistica di Pisa e Siena, solo timidamente contrastato da alcune sporadiche presenze fiorentine, si conferma nel trovare attivo in Lucchesia, verso la metà del Trecento, un orafo pisano, Lotto di ser Lotto, la cui produzione, affidata a sbalzi e smalti di assoluta identità formale e ricca di citazioni e spunti tratti da Buonamico Buffalmacco e da Tino di Camaino, costituisce un'interessante prova dell'identità tra orafo e smaltista, non altrettanto certa nella produzione di inizio secolo.Punte di adesione alla cultura pisana, e segnatamente alla bottega di Nino Pisano, si registrano in due croci sbalzate, conservate nelle parrocchiali di Sorbano del Vescovo e di Sant'Andrea in Caprile, che si pongono come prototipi ai quali si uniformò tutta la produzione orafa lucchese di fine secolo e dei primi decenni del Quattrocento. Delle opere pervenute, solo una è collegabile a un artefice, Bartolomeo di Marco.Nel quadro uniforme dominato da queste botteghe spiccano per contrasto gli sbalzi del fregio del Volto Santo al Mus. della Cattedrale, dove le turrite edicole che ospitano i santi e la Vergine, realizzate nel restauro cui il fregio fu sottoposto nel 1386-1387, sono da ascrivere a un artefice dell'Italia settentrionale (significative le consonanze con le edicole di coronamento dei pilastri del duomo di Milano), mentre per la Vergine e alcuni dei santi, che si ritengono reimpiegati, è stata proposta una collocazione entro la prima metà del secolo.
Anche a L. si registra l'utilizzazione di recipienti di ceramica (bacini) in funzione di decorazioni architettoniche, in misura statisticamente comparabile ai casi della Sardegna e della Corsica. Dei quarantanove esemplari individuati, in parte esposti al Mus. Naz. di Villa Guinigi, otto sono di manifattura islamica, trentadue sono importati dalla Liguria (Savona) e i rimanenti da Pisa. Tra i primi, ben sette sono ascrivibili a un periodo compreso tra la seconda metà del sec. 11° e gli inizi del successivo, presentano decorazioni a lustro metallico, a cuerda seca, a invetriatura, provengono da officine egiziane, tunisine, spagnole e compaiono su edifici del contado; l'ottavo, pure tunisino ma a cobalto e manganese, databile tra la fine del sec. 12° e l'inizio del 13°, compare su una chiesa cittadina, entro un settore edificato in laterizio. Su strutture appunto in laterizio, tutte cittadine e da collocarsi nell'avanzato Duecento, si trovano i bacini di produzione ligure, con rivestimenti monocromi verdi della famiglia delle graffite arcaiche o in maiolica arcaica pisana della prima e seconda fase (Berti, Cappelli, 1994). Un caso a sé è costituito dalle ventitré formelle, conservatesi sul lato est del duomo, commissionate all'uopo intorno alla metà del Trecento, pur se non ne è certa la produzione in loco; esse presentano infatti una decorazione atipica rispetto alle produzioni coeve, con teste umane e leonine, draghi, intrecci (Baracchini, Caleca, 1973, pp. 117-118; Berti, 1983). Negli anni centrali del Trecento è stato individuato l'affiancarsi alla ceramica di importazione quella di produzione locale, peraltro fortemente dipendente da Pisa, con rivestimento a smalto limitato alla faccia principale, prevalentemente monocromo (bianco) e con disegni geometrici in bruno e verde, che continuò inalterata per buona parte del Trecento, ampliandosi a comprendere tipologie ingobbiate e graffite. È altresì attestata una produzione, presumibilmente coeva ed entro le medesime botteghe, ispirata alle tipologie fiorentine.
La più antica menzione di tessuti esplicitamente riconosciuti di produzione lucchese risale al sec. 10° e si deve al monaco Fromondo, del convento bavarese di Tegernsee; durante i secc. 13° e 14° si susseguirono senza sosta elogi in sedi letterarie e dettagliate descrizioni in inventari ecclesiastici (Devoti, 1989). Da essi si ricavano dati importanti sia sui tipi di tessuti - 'sendati', 'diaspri', 'samiti' e, dal Trecento, velluti - sia sulla tipologia dei disegni: a orbicoli con animali araldici affrontati, i più antichi; con animali fantastici e uccelli tra fiori e foglie, i più recenti. Le ricche e ben indagate fonti archivistiche locali (Devoti, 1966) chiariscono le modalità di organizzazione del lavoro e confermano la consistenza e l'importanza economica della produzione tessile per Lucca. La seta, importata dalle regioni meridionali, e soprattutto dal Medio ed Estremo Oriente, dove i lucchesi creavano fondaci, veniva filata a L. - è di invenzione lucchese l'apposita macchina, il filatoio, che consentiva di svolgere l'operazione risparmiando sulla mano d'opera -, tinta da artigiani specializzati, tessuta secondo disegni forniti da disegnatores drapporum e infine commercializzata, anche attraverso la fondazione di filiali (Nazioni o Università) sul mercato occidentale di cui L. detenne durante i secc. 12° e 13° il monopolio.Dopo la battuta di arresto coincidente con gli anni della dominazione pisana (1342-1360), in cui si regredì a sole cinquantamila libbre di merce esportata, si assiste a un tentativo di riorganizzazione con la conferma delle leggi suntuarie, già emanate nel 1337, e con la promulgazione dello Statuto della Corte dei mercanti (1376), con cui si assicurava la qualità del prodotto e si proteggeva l'esportazione di filati, strumenti e mano d'opera (il testo fornisce i tipi di tessuti prodotti: 'baldacchini', 'velluti', 'zectani', 'sendati').A fronte di una così imponente e documentata produzione, gli studi specialistici stentano a individuarne con certezza le testimonianze materiali discernendole da quelle di altre manifatture coeve, per la difficoltà di risalire alla destinazione originaria dei frammenti pervenuti in collezioni pubbliche e private o comunque di correlarli con le citazioni inventariali. È tuttavia discernibile (Devoti, 1974; 1989) uno sviluppo che parte da tessuti su cui compaiono animali affrontati entro orbicoli, realizzati con la tecnica dello sciamito (disegno e fondo realizzati con il medesimo intreccio, diagonale, ma in colori diversi); ne sono esempio i frammenti di Marburgo (Universitätsmus. für Bildende Kunst; Devoti, 1974, nr. 20) con pantere affrontate entro ruote, da collocarsi nel 12° secolo. Nel corso del Duecento si imposero i 'diaspri' - lampassi spesso con trame supplementari in oro e argento lanciate e broccate - come quelli della casula di Siena (Mus. dell'Opera della Metropolitana), della seconda metà del Duecento, o di Lione (Mus. Historique des Tissus), della fine del secolo, con coppie di pappagalli e di gazzelle affrontate entro maglie ogivali. Il Trecento vide l'affermarsi di disegni vieppiù liberi da griglie di impaginazione, a cui corrispondono la discorsività narrativa delle figurazioni, spesso orientate in andamento diagonale o su bande, e l'ampliamento del bestiario, che viene a includere animali fantastici mutuati dalla simbologia cinese e persiana, fusa con quella cristiana. Gli animali raffigurati si susseguono in dinamiche descrizioni fino a rappresentare episodi di vita quotidiana e cortese, mentre gli elementi vegetali crescono fino a diventare preponderanti, come nel telo recentemente rinvenuto a Pisa (Mus. dell'Opera della Primaziale Pisana; La seta, 1989, figg. 10-12, 15; nrr. 8, 10-13, 18-20).Già alla fine del Trecento si dovette creare a L. una produzione di tessuti a destinazione religiosa con temi figurali, destinata al mercato interno: l'unica testimonianza conservatasi in città è la 'tovaglia' al Mus. della Cattedrale, già presente nell'inventario del 1409, a fondo rosa, dal rosso originario, con i personaggi dell'Annunciazione in blu, verde e oro: una policromia marcata che caratterizza la produzione lucchese. Bibl.: T. Bini, I Lucchesi a Venezia, alcuni studi sopra i secoli XIII e XIV, Lucca 1853; A. Guerra, Statuto dei Tintori a Lucca del 1255, Lucca 1864; G. Livi, I mercanti di seta lucchesi in Bologna nei secoli XIII e XIV, ASI, s. 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